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XXXV CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI
ECOVILLAGGI: FORME DI ‘RETRO INNOVAZIONE’ RURALE
Elisa Castelli*
SOMMARIO
Il paradigma della modernizzazione, basato sul concetto di progresso e di una crescita non
ponderata, ha mostrato nei decenni i suoi limiti ed oggi ad un movimento di estensione, ne
sta seguendo uno di ipotrofico che riconduce le esigenze e le richieste di una parte consistente
delle società occidentali a ricostituire un legame importante con il proprio territorio, la natura,
a tessere nuove forme di socializzazione fondate più sulla partecipazione e condivisione che
sulla competizione. Il ripopolamento delle aree rurali sembra rispondere a queste esigenze di
localizzazione e risocializzazione. Più che parlare di ritorno, o resistenza di forme arcaiche,
mi sembra appropriato parlare di rinascita, laddove ad un sapere tipicamente rurale subentrano
soggetti urbani che veicolano pensieri e pratiche estranee a queste aree, apportando nuova
linfa e vitalità e presentandosi come nuovi motori propulsori di cambiamento. In questo
panorama il fenomeno degli ecovillaggi, che sempre più in Italia prendono forma, si
organizzano e diffondono, è interessante proprio perchè pone come obiettivo comune
l’integrazione di tutti gli aspetti che oggi si presentano come urgenti e condivisi: la cura del
territorio e della relazione con la natura, la cura di sé, della società e della socialità a partire
dalle relazioni di ‘vicinato’, la possibilità di praticare una reale autosostenibilità e autonomia
rispetto al mercato globale.
*
Facoltà di Ingegneria, DICEA – Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale, via
Eudossiana 18, La Sapienza Università di Roma
Email: [email protected]
1. Introduzione
I nessi che articolavano la relazione tra uomo e natura si sono indeboliti, fino a spezzarsi in
molte maglie della società e della produzione in particolare. Il mercato e l’allucinazione
collettiva di un mondo globalizzato hanno influenzato e fatto pressioni sulle realtà locali, ma
possiamo presupporre, seppure con una ricaduta differente, che ad un movimento centrifugo
(globalizzante) che detronizza l’autonomia locale e il legame sociale, corrisponda il
movimento opposto, centripeto, che consiste nel tentativo di ripensare la specificità
territoriale e nel rinsaldare i sentimenti comunitari, i legami socio-affettivi e le pratiche
economiche ri-localizzate. L’equazione progresso come benessere, legato ad un concetto
univoco di crescita e ad una omologazione di necessità e obiettivi, viene messa in crisi, ne è
testimonianza ad esempio, un’agricoltura italiana che per quanto diventi agroindustriale, con
basi monoculturali ed estensive, non riesce a ridistribuire ricchezza tra i numerosi produttori,
ma la concentra nelle mani di pochi, distruggendo il potere di vendita dei contadini minori, le
loro possibilità di azione e di crescita. Infatti nel giro di circa trent’anni le piccole imprese
contadine (quelle con una superficie di 2 o 3 ettari) sono diminuite drasticamente ed è invece
cresciuto il numero di aziende con un’estensione superiore si 30, 40 ettari, ed è aumentato il
loro potere di controllo, considerando che queste ultime rappresentando il 6,5% gestiscono
quasi la metà della Sau totale (Superficie agricola utilizzata), mentre le prime con il 56% ne
lavorano appena il 6% (Istat 2010).
Il paradigma della modernizzazione, nella produzione agricola fondato su industrializzazione,
superamento della tradizione, specializzazione settoriale, intensificazione della produzione e
dipendenza dalle nuove tecnologie (Meloni, Farinella 2013) ha evidenziato le sue
contraddizioni e tutti i suoi limiti. In questa prospettiva stiamo vivendo un presente di transito,
alla ricerca di nuovi paradigmi, nuovi codici interpretativi. Da tempo, nella società
occidentale, si è cominciato a parlare di tutela della biodiversità, ormai siamo maggiormente
consapevoli dell’ inarrestabile processo di impoverimento avviato, e parallelamente
assistiamo alla nascita o ri-nascita di pratiche quotidiane di cura del territorio e delle relazioni
sociali. Tra i possibili scenari futuri si possono cogliere visioni e indizi di pratiche
propositive. Una delle possibilità , infatti,che i teorici dell’ “imminente catastrofe” ambientale
e sociale ci stanno proponendo è quello di legittimare positivamente le nuove pratiche di
socializzazione (Pulcini, 2009) e di rilocalizzazione (Latouche, 2008). L’esigenza diffusa di
ristabilire una relazione più equilibrata e sana con il nostro ambiente, viene evidenziata dalle
nuove pratiche che i cittadini sostengono e attuano, non più solo caratteristiche di nicchie
ecologiste ma esperienze condivise e diffuse; da un lento cambiamento delle politiche di
sviluppo rurale, quando utilizzano le norme per cercare di guidare ed indirizzare processi già
attivati; s’incunea perfino nella necessità di modificare il linguaggio stesso, di superare le
distinzioni dicotomiche che permea i ricercatori: assistiamo ad una vera e propria svolta eticoculturale (Lanternari, 2003). La sfida coglie il cuore della ri-produzione materiale e simbolica
del vivere urbano, il concetto di abitare, di diritto alla cittadinanza, di produzione artistica e di
socialità. Questa sfida esce dai confini urbani per dilagare nelle aree limitrofe, fino a giungere
nelle aree rurali e montane abbandonate. Anzi proprio in questi territori considerati senza
tempo, statici, caratterizzati secondo molti dall’ abbandono e dalla sconfitta della classe
contadina, scopriamo che la modernizzazione ha creato le prime grandi ferite, gli albori della
crisi, che proprio in questa frattura nella co-produzione di uomo e natura possiamo ritrovare
gli aspetti dilanianti di un mercato del profitto, possiamo immaginare gli scenari che si
prefiggono nel perseverare con politiche mirate allo sfruttamento finanziario piuttosto che alla
riattivazione di risorse limitate. Ai margini della storia e dei territori possiamo cogliere
elementi che criticizzano, indagano e interrogano le centralità, le città. Il ripopolamento, lento
ma apparentemente inesorabile, delle aree rurali italiane sembra proprio rimettere in gioco dei
codici della modernità inerenti al vivere urbano, alle aree centrali, alle conurbazioni cittadine.
Al contempo pone quesiti e problematiche riguardo ai territori oggetto di questo fenomeno di
ripopolamento, e ai loro residenti, i quali vedono trasformarsi i paesaggi circostanti e
l’universo semantico che li caratterizzava: spesso gli stessi concetti di località e specificità dei
residenti contrastano con l’immagine di ruralità veicolata dai nuovi arrivati (Carrosio 2013.).
Questo fenomeno, lo spostamento di residenza che coinvolge zone rurali italiane ed europee,
ha permesso da un lato all’urbanità di uscire dai suoi confini cittadini, di espandersi senza
controllo nelle campagne circostanti, non garantendo più una così netta separazione dei due
ambiti (rurale e urbano), dall’altro di immaginare una destinazione progettuale, un
ripensamento delle aree marginali e periurbane. Alcuni hanno interpretato questo fenomeno
come l’espressione di un «tutto-urbano» inarrestabile (Donadieu, 2006): la cultura urbana,
infatti, domina le modalità di fruizione del territorio, permea le relazioni sociali, viene
generalmente condivisa tanto da rafforzare la conseguente marginalità delle aree rurali e
continuare a plasmare una rappresentazione di queste ultime. Recenti normative, come quella
relativa alla dismissione statale di aree demaniali che ha allarmato la parte di cittadinanza non
favorevole alla privatizzazione, sottolinea la modalità con cui viene pianificata la gestione di
queste aree. Sembra, infatti, mancare un progetto unitario che armonizzi e integri nel territorio
rurale aspetti economici, ambientali e sociali. Le situazioni che riflettono gli spazi aperti, i
territori rurali è quella di un’organizzazione spaziale a tratti contraddittoria, «l’esito non
intenzionale di una pluralità di azioni e processi piuttosto che l’effetto di un disegno o un
progetto unitario» (Lanzani, 2011: 11).
A partire dal secondo dopoguerra le aree rurali sono state protagoniste di un esodo
quantitativamente tanto importante da trasformare in maniera inaspettata la loro stessa
caratterizzazione socioeconomica e morfologica, lasciando quello che spesso viene
interpretato come un ‘vuoto’, abbandonando, infatti, estese aree agricole e forestali, casolari e
villaggi, patrimoni e ricchezze collettive, e sfilacciando il legame di intere comunità. Se da un
lato si può effettivamente parlare di una «eutanasia silenziosa del mondo contadino» (Canale,
Ceriani, 2013: 16), protrattasi fino alla prima grande crisi petrolifera degli anni ’70, oggi
assistiamo all’emersione e all’affermazione di nuove economie, di nuove forme dell’abitare
sganciate da modelli dominanti, che anzi tentano di contrastarne spesso gli effetti sul territorio
e che dimostrano quanto sia complesso il processo cui siamo approdati e riduttive le categorie
oppositive.
L’ambiente urbano e l’ambiente rurale sono stati per lungo tempo spazi simbolici e materiali
opposti, uno, sede delle trasformazioni attive della storia e l’altro, ricettacolo passivo delle sue
conseguenze, a lungo considerato come ostacolo alla grande macchina della modernizzazione.
Oggi questa prospettiva che soprattutto svela chi ha per lungo tempo detenuto il potere della
narrazione, ha presentato i suoi limiti. Non c’è più un confine netto tra il vivere urbano e il
vivere rurale, eppure le dimensioni di spazio e tempo rimangono intrinsecamente differenti: è
vero che elementi come la bassa densità abitativa, il differente grado di antropizzazione, il
legame più immediato e diretto con i cicli naturali, rendono ontologicamente distanti i due
ambiti, eppure la mutevolezza veicolata dai soggetti e dalle loro pratiche al contempo ci
permette di considerare la relazione urbano/rurale come un “continuum in cui gli estremi sono
tipi puri con poca aderenza empirica” (Meloni, Farinella, 2013: 32).
Il mio contributo riguarda il fenomeno di ripopolamento delle aree interne, rurali, e si
inserisce in seno al dibattito concernente i temi di “neo ruralità”, delle forme contemporanee
di ruralità emergenti, trattando in questa sede specificamente della realtà Italiana degli
Ecovillagi.
2. Un ritorno o una rinascita?
Trattando del lento ma continuo ripopolamento di questi territori si fa spesso riferimento ad
un ‘ritorno alla terra’. Se da un lato parlare di un movimento di ritorno enfatizza il tentativo
realizzato da parte dei soggetti di recuperare ciò che generazioni precedenti hanno
abbandonato (Cardano, 1994), e quindi riguarda anche nuove forme di responsabilizzazione
rispetto alla produzione e al consumo, dall’altro non rende conto della novità che rappresenta
questo fenomeno, pur sottolineandone il carattere ciclico. Mentre il concetto di ‘ritorno’
implica una qualche forma di resistenza, sembra voler sottendere che i soggetti o il territorio
non siano di fatto trasformati, mi sembra più adeguato parlare di ‘rinascita’ di una comunità
rurale. Non siamo di fronte a “un fenomeno regressivo e residuale di ‘ritorno’ a forme
arcaiche e premoderne di legame sociale” di vita e pratiche, ma piuttosto sembra trattarsi di
una coesistenza, in “un legame di reciproca implicazione” con le dinamiche globali (Pulcini,
2009: 13)e , aggiungerei, più prettamente urbane.
Fino a sessant’anni fa i soggetti vivendo in povertà, spesso sostenendosi con la mezzadria e in
assenza di alternative possibili, agivano in un territorio ricco, di biodiversità, risorse e spazi,
oggi l’individuo che ripopola è ricco, in possibilità, informazioni e tecnologie, ma
paradossalmente l’ambiente in cui agisce è sempre più povero (basti pensare che dall’inizio
della modernizzazione agricola abbiamo perso il 75% di varietà di piante commestibili).
Come sostiene Van der Ploeg “la ricontadinizzazione è in un certo senso, un processo di
spostamento dei confini” (Van der Ploeg, 2009: 211), che riguarda la creazione di nuove reti,
economiche e sociali, oltre quelle convenzionali. Dopo lunghi periodi in cui l’abito e il
modello contadino hanno vissuto una forte trasformazione, pur non essendo mai stati
dismessi, oggi possiamo concordare, con l’autore, su una loro effettiva riemersione. Ciò di cui
mi voglio occupare è proprio questo spostamento dei confini, cioè di quelle scelte di vita che
pur non essendo in conflitto aperto trattano della costruzione di autonomia, di indipendenza
rispetto ad un modello ordinatore dominante che vorrebbe controllare la produzione, la
riproduzione, il consumo, un impero agroalimentare e culturale che desidera detenere il potere
d’acquisto sul materiale e sul simbolico. Queste scelte di vita sembrano marginali, la loro eco
non ci appare in grado di sostenere realmente una trasformazione sociale perché affondano le
radici in territori attraversati da altri significati, da altri tempi, in territori di confine rispetto
alle centralità decisionali, dove il concetto stesso di visibilità è costruito su fili labili, connessi
con lo spazio che i grandi snodi di potere e di comunicazione lasciano. Sono i territori di una
ruralità italiana prima abbandonata o poi piano piano riscoperta, per motivi turistici,
finanziari, residenziali, agricoli, esistenziali e paesaggistici. Sono territori eterogenei che
contengono moltitudini di abitanti a loro volta diversificati.
La cura e la gestione di questi paesaggi riguarda la possibilità dell’autosostenibilità dello
sviluppo, una traiettoria di cui anche la pianificazione si interessa. È necessario favorire questi
processi di ripopolamento neo rurale a sfondo comunitario, che non si presentano come una
semplice riproposizione, quanto una «retro innovazione» di commistione rural-urbana
(Magnaghi 2012: 137), interessante alternativa di scenario in un orizzonte di ri-valorizzazione
rurale degli spazi aperti.
3. Ecovillaggi: perché studiarli?
Perché nell’ampio ed eterogeneo orizzonte del ripopolamento delle aree rurali scegliere il
tema degli ecovillaggi?
Ritengo sia un fenomeno, poiché di fenomeno stiamo parlando visto l’incremento di queste
esperienze, che pone l’accento sulla possibilità di rispondere alle criticità contemporanee in
maniera propositiva. Sono snodi di una rete di relazioni che si affidano anche ad altre forme
di economie e di socialità, basate sulla solidarietà, sullo scambio oltre che sulle rendite
finanziarie, tentando di affrontare le criticità in maniera resiliente. Parlare di ripopolamento ed
ecovillaggi è a mio avviso interessante, perché coinvolge aspetti che trascendono l’esperienza
di vita personale e si fanno portatori di istanze comuni, quali, ad esempio, la cura del
territorio,o la creazione di alternative socio economiche condivise.
Soprattutto hanno da sempre attirato la mia attenzione, poiché raccontano di una narrazione a
tratti efficace e a tratti fallimentare, estremamente umana, con obiettivi impegnativi e
traiettorie incerte, gli ecovillaggi nella loro visione fondante rappresentano un possibile
scenario in grado di assecondare uno sviluppo rurale che cerchi di integrare
-il carattere multifunzionale delle aree agricole;
-una dimensione sociale caratterizzata da un alto grado di coinvolgimento;
-il recupero di un patrimonio architettonico storico che sta scomparendo, attraverso l’auto
recupero;
-la possibilità di creare economie resistenti, partecipando, ad esempio, in qualità di aziende
agricole e cooperative al rafforzamento delle filiere corte;
-il rafforzamento di una rete che diffonde conoscenze specifiche coniugate con nuove
tecniche (un esempio recente può essere lo studio e l’utilizzo della permapicoltura).
4. Ecovillaggi in Italia: cosa sono
Ecovillaggi, Villaggi Ecologici o in maniera più corretta ‘comunità intenzionali
ecosostenibili’. Riuniti a livello nazionale nella Rete Italiana Villaggi Ecologici (R.I.V.E.) e a
scala mondiale nel Global Ecovillage Network (G.E.N.), gli Ecovillaggi si pongono sulla scia
esperienziale delle Comuni di matrice libertaria anni ‘70, rimettendo in gioco un’alternativa di
scenario fondata, però, su nuove istanze propositive ispirate a criteri di sostenibilità ecologici,
socioculturali, economici e spirituali, legati alla produzione di valore territoriale e locale.
Questi oltre a rappresentare un transito materiale ad una condizione di vita in cui ogni
mediazione fra la responsabilità di sé e del mondo viene ad essere superata e il soggetto è
direttamente coinvolto nel proprio intero quotidiano, si caratterizzano per essere anche, e
forse soprattutto, percorsi individuali per giungere alla condivisione e alla costruzione di una
progettualità comune. L’aspetto intenzionale di queste esperienze è fondamentale.
Volontariamente gruppi di persone scelgono di vivere insieme con l’obiettivo di una visione
comune, propongono modelli di vita d’impronta ecologica ed ecosostenibile e si presentano
come veri e propri laboratori territoriali e sociali, grazie al loro radicarsi nella località.
La conoscenza e l’edificazione anche in Italia di questi Villaggi Ecologici si sta diffondendo
oggi in maniera più interessante, sia grazie alla formalizzazione della rete italiana e mondiale
con i loro relativi raduni annuali, sia per una maggiore visibilità che l’utilizzo di internet e la
mobilità facilitata hanno dato, sia per la necessità sempre più sentita di trovare situazioni
alternative al vivere urbano. Oggi parliamo di circa una trentina di villaggi ecologici che
vanno dalle cinque alle oltre cento persone, e un numero di progetti in embrione crescente,
senza considerare le realtà, difficilmente quantificabili, che non aderiscono o non rientrano
nella Rete: una crescita importante, nonostante l’elevata percentuale di fallibilità,
considerando che all’inizio del 2000 si trattava di tre comunità. I paesaggi rurali storici del
centro Italia accolgono il maggior numero di queste esperienze comunitarie, estremamente
diversificate sulla base della visione fondante e della regolamentazione interna.
Per approfondire l’analisi mi servirò del paradigma tripartito sviluppato da Van der Ploeg
strutturato sulla base di capitale ecologico, sociale e culturale:
- Capitale ecologico poichè vi una è una prima inversione di tendenza, nel tentativo di
riportare la natura ad una centralità che aveva perso, ridefinendo una relazione autonoma con
essa e non dipendente dal mercato, ma basata sulla creatività di una relazione dinamica di coproduzione, con la riduzione di utilizzo di risorse esterne, che ci riconduce all’idea della
località e di autosotenibilità.
- Capitale sociale, che fortificato da una disponibilità di relazioni e di rete fitte, preme sulle
normative locali in risposta a quelle attualmente dominanti. Centrali sono le esperienze
accumulate, i valori condivisi, la conoscenza di un linguaggio e di un paradigma sociale che
in quanto ‘rururbani’ (Merlo) i nuovi contadini ibridi possono maneggiare e comprendere.
- Capitale culturale, che riguarda la relazione diretta tra consumatori e produttori e il carattere
distintivo di un mercato non più anonimo ma basato sulla condivisione di conoscenze e
modalità specifiche. Sono qui fondamentali la visibilità e, ovviamente, il territorio, la località
che permettono un ampliamento dell’aspetto culturale e un superamento dei confini in cui
l’ambito rurale è relegato.
Esiste inoltre un capitale culturale, che Van der Ploeg non prende in considerazione, che
riguarda la riproduzione e la diffusione di saperi non necessariamente legati alle pratiche
agricole, ma intrecciati ad un miglioramento delle condizioni psico fisiche individuali. La
ruralità torna, nell’immaginario collettivo, ad essere luogo di cura, di studio, di pacificazione.
Nascono collateralmente alle nuove aziende agricole multifunzionali, centri olistici, abitati da
specialisti di vari settori (da maestri di yoga, ad erboristi e naturopati, consouler e
fisioterapisti…)
5. La cura del territorio: capitale ecologico.
Secondo l’autore sta proprio in questo aspetto l’elemento che distingue il rurale e l’urbano: la
trasformazione reciproca dell’uomo e della natura, cioè la co-produzione, il rimodellamento
continuo delle risorse sociali e naturali. Parlare di sostenibilità, di impronta ecologica e di
territorio, significa, infatti, prendere in cura la totalità dell’ambiente circostante, essere
direttamente coinvolti nei passaggi della trasformazione, della produzione, non delegare a
mediatori la gestione delle risorse e venirne così indelebilmente trasformato. L’insediamento
dei villaggi ecologici è principalmente volto al recupero di immobili abbandonati, patrimonio
rurale di cui sono punteggiate le nostre campagne e montagne, alla costruzione di edifici eco
compatibili, attraverso l’acquisto di terreni e ruderi, l’affitto e il comodato d’uso, o, oggi in
maniera minore, l’occupazione. Le diverse realtà sono estremamente eterogenee tra loro ed
anche i principi ispiratori possono variare da esperienza ad esperienza. Sicuramente un
caposaldo condiviso è decisione di vivere a contatto diretto con un ritmo di natura che impone
un rispetto reciproco fondante le pratiche quotidiane: ad esempio questo può tradursi
nell’attivazione di cicli di permacultura che cercano di pensare queste situazioni abitative
come sistemi chiusi ed autosufficienti in cui ogni elemento può venire riutilizzato all’interno
del sistema stesso (dai prodotti dell’orto, agli scarti di cucina, alla gestione del verde e degli
animali al fine di creare una forma di integrazione di tutti gli elementi, che permettono di non
produrre surplus o scarti).
6. I suoi abitanti: capitale sociale.
Continuando ad immaginare un continuum tra urbano e rurale, possiamo porre i nuovi
abitanti, i neo rurali, in un punto indefinito ma sicuramente sbilanciato verso il primo termine.
Pur intraprendendo sovente attività agricole (ma vita rurale e agricoltura oggi non combaciano
necessariamente), lo fanno veicolando ruoli e conoscenze in parte estranee al mondo
contadino tradizionale: si tratta, infatti, di tecnici, agronomi, imprenditori, soggetti con saperi
colti, che parlano lo stesso linguaggio del mercato cui si riferiscono. La letteratura spesso li
definisce agricoltori ‘consapevoli’ poiché la loro scelta di vita ha implicato una presa di
coscienza ecologica, esistenziale, spinti dal desiderio di partecipare alla creazione di
un’alternativa, non solo di resistere (Canale, Ceriani 2013); così nuovamente gli urbani
‘ruralizzati’, rappresentano un discrimine con chi non appartiene a queste categorie (i
contadini tradizionali ad esempio), con chi ancora una volta rimane ai margini della storia,
perché non ha potuto scegliere.
L’aspetto intrinseco di intenzionalità a cui già ho accennato, letto nei termini di una rinascita
piuttosto che di un ritorno di determinate pratiche, è un’ulteriore differenza sostanziale
rispetto a chi decenni fa risiedeva negli stessi casolari, ma trovava nell’unione principalmente
ragioni di sangue, economiche o di necessità. Se da un lato la possibilità di eleggere la propria
comunità rappresenta un elemento di forza per l’emancipazione dell’individuo, dall’altro si
può intuire come sia un elemento di debolezza rispetto al gruppo che si trova
permanentemente in una condizione di stabilità precaria.
Quella di comunità è una categoria carica di problematicità, considerando spesso la sue attuali
derive endogamiche e «patologiche» (Pulcini, 2009), declinate in varie forme di integralismi,
ma seppur carica di questo rischio, il bisogno di comunità e di reciprocità è il motore di molti
movimenti contemporanei. Opponendosi ai meccanismi di frantumazione e alle spinte volte
all’esclusione e alla marginalizzazione, ma alimentando il desiderio di essere-in-comune, le
comunità intenzionali desiderano produrre un rafforzamento della partecipazione, della
solidarietà e alimentano la possibilità di immaginare un mondo in comune, trasformando la
propria vulnerabilità in relazioni positive e in un sentimento di responsabilizzazione
collettivo.
Questo processo ovviamente attraversa profonde fasi di scontro, di conflitto e spesso di
fallimento, poiché il bisogno di comunità espresso dai soggetti non sempre si adegua alla
radicati principi individualisti cui siamo abituati. Un aspetto molto interessante dell’indagine
sugli ecovillaggi che sto compiendo riguarda l’aspetto fallimentare di queste realtà
comunitarie. Affezionandosi al proprio tema di ricerca spesso si corre il rischio di
‘innamorarsene’ non riuscendo ad accettare pienamente l’estrema umanità che risiede in ogni
progetto, con tutti i limiti e le potenzialità che questo implica. Il tema degli ecovillaggi
esprime in maniera molto evidente questo paradosso: da un lato rappresentano esperienze,
utopie realizzabili estremamente facili da idealizzare (come la maggior parte dei lavori su
questo tema evidenziano) proprio perché cariche di una progettualità ricca di potenzialità che
coinvolgono più ambiti, dall’altro sono numerose le realtà comunitarie che negli anni si sono
sfaldate, lasciando in molti la sensazione che ‘vivere in comune’ non sia in fondo fattibile.
Perchè molte esperienze sono collassate e con loro sono falliti progetti condivisi? Queste
difficoltà spesso sono legate a motivi finanziari, a questioni di proprietà privata e possesso, a
pressioni esterne cui i residenti sono sottoposti (come rischio di sfratto o sgombero). Per
affrontare in maniera costruttiva i principali rischi di rottura (forme di crisi cicliche all’interno
delle comunità) e superarli, oggi i gruppi desiderosi di fondare un ecovillaggio spesso
affrontano percorsi che precedono la reale convivenza per testare le eventuali difficoltà, e con
l’aiuto di un esperto esterno, un facilitatore, elaborano metodi di comunicazione non violenta.
Invece per ciò che concerne gli ecovillaggi già avviati, una pratica per paventare il rischio di
sfaldamento sono i frequenti, se non quotidiani, momenti di confronto mirati a chiarire
fraintendimenti, gestire i periodi di stress, condividere difficoltà o semplicemente prendere
decisioni collettive, attraverso il metodo del consenso, il quale cerca di travalicare l’idea di
maggioranza e minoranza, esprimendosi attraverso una profonda partecipazione e
orizzontalità, garantita dall’utilizzo dell’unanimità nell’assunzione delle decisioni più
rilevanti.
6. Le pratiche: capitale culturale.
Pur non essendo luoghi pubblici, gli ecovillaggi sono luoghi aperti, snodi all’interno di reti di
conoscenze, saperi e pratiche che rimangono continuamente accessibili dall’esterno (in alcuni
ecovillaggi previo avviso del proprio arrivo). S’incuneano tra le maglie della proprietà privata
e della proprietà pubblica senza appartenere pienamente né all’una né all’altra sfera, piuttosto
rivendicando e sostenendo dibattiti che trattano apertamente di beni comuni, usi civici, e
proprietà collettive. Offrono spazi di dialogo a riguardo di tematiche che normalmente
rimangono più marginali rispetto ad ordini del discorso dominanti, ad esempio l’educazione
libertaria e la diffusione della scuola famiglia in Italia (il primo raduno nazionale su questo
tema si tiene proprio nell’ ecovillaggio pugliese il giardino della gioia), il diritto al parto
naturale casalingo (nei villaggi ecologici del popolo degli elfi sulla sambuca pistoiese si
praticano solo parti in casa con ostetriche interne ai villaggi le quali partecipano attivamente
alla diffusione delle conoscenze relative a questa pratica), le azioni presa in carico del
territorio rurale attraverso progetti di rinascita delle aree interne (ad esempio il progetto pilota
del villaggio di Campanara, o l’acquisizione collettiva di terre da parte dell’Associazione
Arcobaleno per l’Acquacheta), o le azioni informative, come la raccolta firme, sulla
dismissione del demanio pubblico e le nuove norme relative all’introduzione delle sementi
Ogm in Italia. Un canale attraverso cui queste informazioni vengono diffuse sono sicuramente
i mercatini del biologico che inizialmente trovavano spazio in spazi cittadini marginali (come
i centri sociali) fino ad affermarsi oggi in quanto risorsa locale e urbana stessa in luoghi di
visibilità. I beni prodotti da queste realtà di ricontidanizzazione sono quindi sia commodities
(i beni materiali tipici delle produzioni agricole) che non “commodities” o “common pool
resources”, cioè risorse immateriali, che si caratterizzano come beni comuni e a cui possono
attingere anche soggetti esterni, quali le conoscenze locali, le competenze tecniche o
semplicemente la biodiversità, la qualità delle acque e del paesaggio (Meloni, Farinella 2013).
Infatti sono relativamente pochi gli ecovillaggi che, trasformati in aziende agricole, praticano
l’agricoltura non come fonte di autosostentamento o di scambio ma come economia
principale. Numerosi sono invece quelli che si occupano della cura dell’individuo in senso
ampio, proponendo ad esempio pratiche terapeutiche olistiche (come Città della Luce
conosciuta e riconosciuta proprio grazie alle professionalità che l’ abitano). Essendo luoghi
che partecipano di una rete globale pur essendo radicati nella località, e catalizzando
conoscenze non prettamente legate, come già sottolineavo, all’ambiente rurale, ma piuttosto
volte ad un integrazione di saperi più ampio, possiamo ritrovare elementi comuni anche in
ecovillaggi distanti o addirittura trans nazionali. L’utilizzo ad esempio di strutture residenziali
come yurte o tepee, e gli esperimenti più recenti di costruzioni di case di paglia (ad esempio
quelle dell’ecovillaggio EVA, costruite per ospitare gli sfollati del terremoto de L’Aquila) o la
costruzione di compost toilet per lo smaltimento delle acque nere, fino ad arrivare alle forme
di agricoltura, come le coltivazioni sinergiche, l’utilizzo di pannelli solari autocostruiti, sono
rintracciabili in numerose comunità, a sostegno dell’idea che effettivamente si tratti di un
movimento, all’interno del quale si possono distinguere elementi comuni e conoscenze
condivise.
7. Caso studio: Ecovillaggio di Campanara.
L’Ecovillaggio di Campanara è situato sugli appennini tosco-romagnoli nella località di
Palazzuolo sul Senio (FI), dove era ubicata una comunità rurale chiamata il popolo di San
Michele abbandonata negli anni ’60, riabitata e ristrutturata a partire da metà degli anni ’80,
inizialmente da un gruppo di quattro persone. Come buona parte dei territori abbandonati,
questo è di proprietà del demanio pubblico. La valle, nella sua estensione ampia circa 160
ettari, racchiude diversi nuclei abitativi, circa nove, di cui almeno la metà oggi sono semi
ruderi. Il crollo degli abitati è piuttosto recente e a poco sono valse i richiami e le richieste di
sblocco delle concessioni avviate dall’associazione locale Nascere Liberi. Dal 1984 sono state
numerose le modalità di gestione delle residenze, comunque e sempre precarie (a brevi
periodi di concessioni si sono alternati lunghi momenti di occupazione) in un’alternanza
elevata di abitanti. Oggi accoglie stabilmente tre nuclei famigliari con sette bambini, utilizza
metodi di coltura sinergici per gli orti comuni, pannelli fotovoltaici e piccole pale eoliche per
Figura 1: Uno degli edifici dell’ecovillaggio di Campanara, oggi disabitato e a rischio crollo
in seguito allo sgombero dei residenti e alla sospensione del bando di assegnazione.
l’autosufficienza energetica, organizza laboratori di artigianato e struttura eventi volti alla
riscoperta del territorio, mantenendo apertura e ospitalità nei confronti di chiunque voglia
sperimentare questo luogo. Sono occupate da diversi anni, senza mai riuscire a venir
regolarizzate altre due unità abitative, che condividendo lo stile di vita votato
all’autosufficienza e alla condivisione, vivono però, più in una modalità domestica e privata.
Questo territorio è interessato da un Progetto Pilota della Regione Toscana di ‘recupero
partecipato’, condiviso dalla Comunità Montana (che si dovrebbe occupare degli interventi
infrastrutturali su viabilità, acquedotti e consolidamento statico degli edifici), dal Comune di
Palazzuolo e dai soggetti coinvolti che verranno formati come manodopera per l’autorecupero
di sette fabbricati, ristrutturati con materiale reperito localmente. Gli alloggi dovrebbero
essere realizzati con le procedure dell’edilizia economica popolare, fornite di tecnologie a
risparmio energetico e che, secondo il progetto, vogliono rappresentare un’opportunità di
lavoro per «gruppi che condividono valori e stili di vita non consumistici» (Unione montana
dei comuni del Mugello). Attualmente purtroppo questo progetto si trova in una fase di stallo,
sotto pressioni locali che spingono per una privatizzazione dell’area e una conversione a scopi
prettamente turistici, situazione che ben sottolinea l’esistenza di una contesa attuale in molti
ambiti del contemporaneo, tra beni pubblici, beni privati e nuovi beni comuni.
Ho vissuto in qualità di residente in questo ecovillaggio gli anni dal 2008 al 2010, potendo
così indagare le realtà comunitarie secondo una prospettiva emica. Il tentativo di ri attivare le
potenzialità di questo territorio abbandonato, coinvolgendo i soggetti che qui abitavano
precedentemente come gli anziani ex mezzadri o semplicemente attraverso il recupero dei
ruderi e di pratiche abbandonate quali l’allevamento e l’agricoltura, hanno fortemente
conflitto con l’oblio in cui le amministrazioni volevano lasciare l’area. Un desiderio di
rimozione condiviso anche dai locali abitanti di Palazzuolo sul Senio, i quali nonostante i
continui tentativi per lo più non hanno mai dimostrato interesse o partecipazione nella
rinascita di quest’area. Quest’ultimo elemento se da un lato sottolinea il rischio che le
comunità che fortemente condividono obiettivi e valori, nonostante il desiderio di
condivisione con l’esterno, creano un gap tra interno e appunto esterno, rischiando di
escludere tutto ciò che non partecipa alla comunità e alla sua visione. Da un’altra prospettiva
il disagio vissuto dai cittadini nei confronti del ripopolamento di un’area sentita come propria
eppure distante (molti giovani del paese limitrofo da me intervistati non hanno mai
camminato per i sentieri di queste montagne) evidenzia l’alienazione vissuta dai soggetti in
rapporto al territorio, e la carenza di politiche locali di presa in cura dello stesso, caratterizzate
per lo più da una volontà speculativa e da posizioni autoritarie. Gli sgomberi, l’impossibilità
di chiedere concessioni e presentare progetti su un territorio conteso da Comune, Regione e
una ormai lacerata Comunità Montana, ha finito per svuotare gli edifici della valle di
Campanara (in alcuni periodi erano presenti stabilmente una quarantina di persone in queste
case) e con gli abitanti sono diminuite le possibilità di recuperare gli stabilimenti. Oltre gli
attuali residenti, sono altri due i nuclei famigliari stranieri, tedeschi, che hanno comprato e si
sono stabiliti in quest’area, evidenziando la possibilità che siano i nuovi abitanti ‘intenzionali’
a costruire e recuperare la storia dei luoghi abbandonati dai residenti storici, i quali se non
sostenuti da amministrazioni attente rischiano di veder crollare patrimoni storici sotto i loro
occhi. L’arrivo di centinaia di persone negli anni, ha avuto effettivamente il merito di attivare
un discorso e un interesse, purtroppo non sempre costruttivo, attorno a questa valle, mettendo
in relazione soggetti e istituzioni altrimenti distanti tra loro, e sottolineando la necessità di
politiche attente ai possibili movimenti di valorizzazione del territorio piuttosto che bloccate
nell’intrico di un ennesimo ostacolo burocratico, come quello odierno.
Note conclusive
A mio avviso le esperienze comunitarie degli ecovillaggi sono un’espressione d’ emersione di
nuove forme di cura del territorio, di una significazione e produzione di valore territoriale, e
dell’individuo, inteso anche nelle sue capabilities (possibilità di accedere ad una rete sociale),
e rappresentano quella che Van der Ploeg definisce la “produzione di utopie realmente
esistenti”, le quali dimostrano che è possibile ‘fare meglio’. Questo paradigma dell’abitare,
legato ad una relazione di co-produzione uomo-natura si radica in una storia stratificata, che si
riconosce nelle prime teorizzazioni dei culturalisti, degli utopisti in architettura ed urbanistica,
e che ritroviamo nelle pratiche comunitarie più o meno realizzate degli anni ’70 e ’80 fino ad
arrivare ai movimenti globali, dal Brasile all’India, che rivendicano sovranità alimentare.
Come se assieme agli senari possibili, riemergessero interpretazioni del contemporaneo che
già si erano affacciati ma avevano, in qualche modo, perso la contesa con i paradigmi della
modernizzazione, e riemergono ora in altri termini nel presente e rivolte al futuro, e rimettono
in gioco la posta dell’alternativa di scenario, fondata sulla ragione dei modi di vita,
sull’approccio ecologico e locale, sulla produzione di valore territoriale ” (Ferraresi 2013).
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ABSTRACT
The great exodus from the rural areas in the years '50 - '60, have drastically changed its
socioeconomic and morphological character: the abandonment of wide agricultural and forest
areas has increased an already existing gap between rural and urban . At present, we can see a
repopulation of the peasantry world and we are experiencing a new way of life, which appears
unstoppable. An example of hybrid reality, sign of new forms of emergent rural reality ,
called Ecovillage. Gathered to national level as a Rete italiana villaggi ecologici (RIVE) they
are a community that shares a common vision proposing models of life of ecological imprint
and sustainable, true territorial and social laboratories thanks to theirs roots in that specific
place. The Centre of Italy welcomes the majority of these villages, extremely heterogeneous
which they increase social, cultural, ecological capital. In Italy there are about thirty villages:
an important growth, considering that to the beginning of 2000 there were three communities.
My fieldwork is about one of these realities: Ecovillagge of Campanara, where I have stayed
for a couple of years, to underline the possibility of the sustainability of this development,
while caring for its landscapes and repopulation.