Bambini superdotati

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Bambini superdotati
Bambini superdotati
Anna Oliverio Ferraris, Sabrina Di Matteo, Jolanda Stevani
Anche se in ambito psicologico il concetto di diversità è sempre stato un campo di indagine privilegiato,
tuttavia, a livello pratico ed educativo, si è dedicata
assai spesso molta più attenzione alle problematiche
dei soggetti portatori di handicap o svantaggiati piuttosto che a quelle dei cosiddetti superdotati, ossia di
coloro che possiedono un equipaggiamento di partenza superiore alla norma.
Quando si parla di bambini prodigio o di bambini superdotati è facile rendersi conto di quanto radicati siano
i pregiudizi e gli stereotipi che li circondano: del resto,
già nel termine di superdotato compare il prefisso
“super”, che rimanda a un’idea di superiorità, di un
qualcosa che sovrabbonda. Sono bambini che, per
quanto riguarda la sfera intellettiva, non seguono i normali ritmi evolutivi e rispetto alla loro età anagrafica
mostrano delle capacità paragonabili, se non addirittura
superiori, a quelle degli adulti. Per questo motivo essi
suscitano emozioni ambivalenti: se, da una parte, ne rimaniamo stupiti, li ammiriamo e magari li invidiamo,
dall’altra ne siamo intimoriti e li guardiamo con diffidenza, considerandoli esseri misteriosi e temibili nella
loro atipicità. Pensando poi alle loro eccezionali qualità, siamo portati a credere, in modo quasi automatico,
che questi bambini porteranno a termine la loro carriera
scolastica senza sforzi e con il massimo dei risultati, apparendoci d’altra parte scontato che diventeranno adulti
di successo, sia in ambito lavorativo che sociale.
Insomma, la credenza comune è che tali bambini
siano avvantaggiati a tal punto da non avere bisogno
di particolari attenzioni: l’idea del di più, dell’eccesso,
ci fa perdere di vista la questione di base, vale a dire
la loro diversità, con tutte le conseguenze che l’essere
differente comporta. Permettere ad un bambino superdotato di svilupparsi armoniosamente non è una cosa
facile in un contesto poco preparato a rispondere alle
sue particolarità e ai suoi bisogni.
Chi è il superdotato?
Di solito, quando si parla di una persona e la si definisce dotata, il termine è utilizzato in senso positivo
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e indica alcune particolari capacità, generalmente in
campo intellettivo, qualche volta in quello fisico. Diverso è invece il concetto di “superdotazione” che,
come quello di intelligenza, è complesso. Tale nozione
non è circoscrivibile alla sola sfera intellettuale, la definizione di dotazione infatti chiama in causa un insieme di fattori: abilità innate, caratteristiche di personalità e aspetti socio-culturali.
D’altra parte, molto spesso si tende ad usare in maniera intercambiabile i termini di superdotazione e di
precocità, tuttavia, se è frequente che i bambini superdotati mostrino un ritmo di sviluppo anticipato rispetto
ai loro coetanei, non sempre un bambino precoce può
essere definito superdotato: ci può essere un vantaggio
iniziale nello sviluppo di una specifica area, che però
rientra in seguito nei normali parametri evolutivi.
La definizione di superdotazione che oggi riscuote
maggiore consenso è quella che la descrive come “potenziale cognitivo e motivazionale per raggiungere
l’eccellenza in una o più aree, e si identifica in parte
con un livello superiore di abilità generale e in parte
con l’eccezionalità di un talento specifico, come
quello musicale o artistico”. In base a tale definizione,
i bambini che possiedono capacità superiori alla
norma possono essere forniti di una capacità cognitiva
generale oppure di un talento specifico, raggiungendo
in entrambi i casi risultati sbalorditivi; è alla prima
delle due possibilità che di solito facciamo riferimento
quando parliamo in particolare dei superdotati, riservando al secondo caso l’espressione “dotato di talento”.
È opportuno fare una precisazione anche riguardo
al cosiddetto “bambino prodigio”, che rappresenta un
caso a parte rispetto al concetto di dotazione. Più precisamente, i bambini prodigio mostrano un talento eccezionale in un ambito specifico ed esprimono le loro
capacità in età precoce: sin da piccoli si rivelano in
grado di ottenere risultati di grande rilievo, contravvenendo alla normale successione delle tappe evolutive.
In sostanza, le attitudini del bambino prodigio non
sono diverse da quelle degli altri bambini, ciò che le
differenzia è l’importante anticipazione con la quale
esse si manifestano nel ciclo di sviluppo.
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Secondo le stime degli psicologi i bambini superdotati costituiscono il 2% della popolazione infantile.
I contributi di numerosi studi sull’argomento, alcuni
dei quali condotti per oltre mezzo secolo (come il famoso studio longitudinale dello psicologo americano
Lewis Terman), consentono di isolare e chiarire alcune
caratteristiche intellettive e tratti di personalità tipici
di tali soggetti.
1) Il primo elemento di distinzione è la precocità:
i bambini superdotati hanno spesso uno sviluppo intellettivo anticipato e compiono progressi più rapidi
rispetto ai loro coetanei. Possiedono una capacità di
apprendimento non solo più pronta, ma anche qualitativamente diversa in confronto a quella dei bambini
della loro età; prediligono un pensiero logico, lineare
e deduttivo; hanno bisogno solo di una quota minima
d’aiuto da parte degli adulti nello svolgere i loro compiti e manifestano in genere una certa insistenza nel
volersela cavare da soli.
2) Un secondo elemento è la motivazione: i superdotati appaiono intrinsecamente motivati e molto tenaci nel perseguimento dei loro obiettivi. Possiedono
una curiosità vivace e poliedrica che si traduce in una
molteplicità di interessi e nella passione per la lettura.
Sono in grado di mantenere con facilità un’elevata soglia di concentrazione, cosicché a volte sembrano perdere il contatto con il mondo circostante. Non si scoraggiano di fronte a problemi complessi, ma ne sono
stimolati e quando si trovano alle prese con un ostacolo non si danno per vinti e cercano di superarlo. Pur
amando la compagnia molti mostrano anche una marcata introversione e sono selettivi nella scelta delle
amicizie.
Come si scopre un superdotato
Generalmente, i superdotati che vengono “etichettati” come tali sono individuati da genitori o insegnanti
sensibili alle singolarità caratteriali e alle performance
di questi bambini; a tale proposito un uomo di 28
anni1 racconta: «I miei genitori si sono resi conto di
avere un figlio un po’ particolare alle elementari. Le
maestre a scuola cominciavano a dire qualcosa a mia
madre: “Guardi che ha fatto questa cosa, mi sembra
strano, ma…”. Magari davano dei compiti che io facevo in quattro e quattr’otto e agli altri dovevano spiegarli e rispiegarli».
Può invece accadere che altri soggetti, con un QI
altrettanto elevato, non vengano riconosciuti come
particolarmente dotati, sia perché non rivelano tratti
specifici, sia per motivi legati alla loro vicenda esisten2
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ziale. Una donna di 44 anni, casalinga, ricorda: «Ho
perso il padre quando avevo tre anni e mezzo. Mia
madre mi ha sempre ammirata, da un certo punto di
vista, perché avevo ottimi voti, però non si è mai accorta di niente, io stessa mi sono sottovalutata fino a
quando non sono entrata a far parte del Mensa, quindici anni fa».
L’identificazione di un bambino o di un ragazzo
come superdotato non è un’operazione facile e offre il
fianco a critiche. Per poter definire un soggetto come
superdotato, generalmente si assume come fattore discriminante il quoziente intellettivo (QI), per la valutazione del quale si impiegano strumenti psicometrici
(come i test di Binet e Simon, di Terman e Merrill, le
Scale Wechsler o Cattell). I soggetti che conseguono
risultati superiori a 130 sono classificati come superdotati. Non tutti gli psicologi però considerano i test
di intelligenza attualmente in circolazione degli strumenti in grado di misurare ogni aspetto dell’intelligenza, per cui oggi si tende a prendere in considerazione non soltanto il QI, ma anche la storia personale,
che può essere indagata tramite questionari somministrati ai genitori, contenenti domande relative a caratteristiche individuali e comportamentali dei figli e da
cui possono emergere aspetti peculiari e raggiungimenti in campi diversi.
Le possibili problematiche del bambino
superdotato
Quando si pensa ad un bambino superdotato si
tende a dare per scontato che a scuola e nella vita sociale non incontrerà difficoltà. Si tratta, in realtà, di
una semplificazione perché le variabili in gioco sono
tante e diverse.
Lo sviluppo del bambino superdotato, per esempio,
è spesso caratterizzato da eterogeneità, nel senso che
la precocità tocca solo alcune aree della sua personalità, mentre le altre procedono a ritmi di maturazione
cosiddetti normali. Tale squilibrio può essere all’origine di una “disarmonia” che lo psicologo Jean
Charles Terrassier, uno dei più noti studiosi dell’argomento e sostenitore in Francia di svariate iniziative
a favore dei bambini superdotati, ha definito “sindrome di dissincronia”, riprendendo un concetto originariamente utilizzato dal neuropsichiatra infantile
Bernard Gibello per designare una sfasatura nei tempi
di sviluppo.
Attraverso lo studio della personalità e del comportamento di centinaia di bambini superdotati, Terrassier
ha potuto constatare che lo squilibrio maturativo riPSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 206 - MAR.-APR. 2008
guarda sia la personalità dei soggetti che le loro relazioni con l’ambiente: sulla base di tale constatazione
ha effettuato una distinzione tra “dissincronia interna”,
in riferimento alla prima delle due circostanze, e “dissincronia sociale”, per quanto riguarda la seconda.
La dissincronia interna.Terrassier ha notato che diversi settori della personalità si sviluppano a differenti
velocità. Una sfasatura è rilevabile tra intelligenza e
psicomotricità ed un’altra tra intelligenza ed affettività. Generalmente, i bambini intellettualmente molto
dotati non manifestano la medesima precocità a livello
psicomotorio, nel quale seguono un ritmo di sviluppo
ordinario, vale a dire più congruo con la loro età reale.
Ciò significa che questi bambini, assai vivaci sul piano
intellettivo, possono imparare a leggere in modo autonomo ancora prima del loro ingresso a scuola, ma
spesso si ritrovano poi a fronteggiare difficoltà nell’apprendimento della scrittura. La discrepanza con
una mano percepita come incapace di adeguarsi al
ritmo del pensiero, può suscitare nel piccolo un’ansiosa volontà di controllo, che comporta ripercussioni
negative sulla qualità dell’espressione grafica, come,
ad esempio, un tratto troppo marcato, tremante e irregolare, o estremamente rallentato. Il bambino può tollerare più o meno a lungo questi insuccessi, dopodiché
tende ad adottare una strategia di evitamento, con un
investimento negativo sull’espressione scritta in generale. Tali difficoltà, secondo Terrassier, sarebbero più
comuni tra i maschi.
Anche tra intelligenza e affettività ci può essere uno
squilibrio che porta il bambino ad adottare comportamenti o rituali finalizzati a nascondere la sua immaturità e che spesso sono fonte di disorientamento per
i genitori. Inoltre, l’accesso intellettivo precoce ad informazioni non interamente elaborabili sul piano emotivo può generare una serie di angosce, che rendono
il bambino più fragile e dalle quali egli cerca di proteggersi tramite l’“intellettualizzazione”, meccanismo
di difesa che permette all’Io di padroneggiare le pulsioni, rifugiandosi in un discorso freddamente intellettuale ma rassicurante. L’intelligenza assume così una
funzione che tenta di portare equilibrio nella disarmonia del livello affettivo.
La dissincronia sociale. Riguarda l’interazione con
l’ambiente: i bambini con uno sviluppo intellettuale
superiore alla media possono incontrare difficoltà relazionali sia con i coetanei sia con gli adulti. «Io l’ho
sempre sentita la differenza con i miei coetanei, fin
da piccolo, anche se ovviamente a 3, 4 anni, non sapevo perché» racconta un trentenne. «Quando tu a 4
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anni sai già leggere e scrivere e conosci tutte le capitali del mondo, è chiaro che senti una differenza con i
tuoi amichetti che giocano con Big Jim!». Mentre il livello di sviluppo emotivo li spingerebbe a cercare la
compagnia dei coetanei, la maturazione intellettiva più
progredita li induce alla condivisione dei loro interessi
con compagni più grandi, se non addirittura con gli
adulti: «Io mi sentivo diverso dagli altri bambini» ricorda un giovane specializzando in neurochirurgia
«mi piaceva di più parlare con i professori magari».
Tale coesistenza di tendenze discordanti può essere
all’origine di problemi di adattamento. Mentre i coetanei spesso possono giudicarli strani e persino anormali, prendendoli di mira con sfide e derisioni, difficoltà analoghe possono manifestarsi anche con i compagni più grandi, che li considerano troppo “piccoli”.
L’esperienza vissuta in proposito da un ragazzo di 18
anni è la seguente: «A livello relazionale, a scuola è
stato terribile, sono sempre stato l’oggetto principale
degli scherni. Alle elementari terribile, alle medie da
panico, i primi due anni di liceo fantastico, poi ho
cambiato città, sono venuto qui a Milano e ho dovuto
cambiare due scuole, hanno ricominciato a prendermi
in giro, mi definisco un tuttologo!».
«In quanto zimbello della classe, ero un concentrato di insicurezze, ansie, paure e complessi a non finire» ricorda una giovane laureata in veterinaria.
Fortunatamente non è così per tutti: il 40% del nostro campione si è sentito integrato alla classe nel
corso degli anni. Il 45% non si è sentito diverso o discriminato dai compagni.
Il bambino superdotato e gli insegnanti
Solo 6 soggetti su 30 hanno dichiarato di essere
stati stimolati dai propri insegnanti a scuola. Per la
maggior parte i docenti, infatti, secondo gli intervistati,
non si sarebbero neanche resi conto di avere, all’interno della propria classe, un alunno particolarmente
dotato, e quelli che invece se ne sarebbero accorti
avrebbero fatto poco o nulla per agevolarli.
Ecco alcune testimonianze:
«La scuola non mi è piaciuta. Non la trovavo per
niente stimolante» spiega un avvocato quarantenne
«l’ho vissuta male, è stato un dramma. Solo all’università mi sono trovato bene»; «La versione ufficiale
era: intelligente ma non si applica» (elettrotecnico di
trent’anni). «Alle superiori ho avuto dei problemi
perché ero abituata ad essere indipendente… mi sceglievo i libri di testo, decidevo io cosa studiare… Loro
non sopportavano questo mio modo di fare e mi tratPSICOLOGIA CONTEMPORANEA N. 206 - MAR.-APR. 2008
tavano molto male. Ho avuto persino sette in condotta,
io che in realtà sono un tipo tranquillo» (musicista di
23 anni). «Al liceo è andata meglio, ma prima la
scuola era veramente poco stimolante» (imprenditore
di 52 anni). «Ricordo che a scuola mi consideravano
ritardato perché quando il professore spiegava io guardavo fuori dalla finestra. I voti giusti però li prendevo!» (ingegnere chimico cinquantenne). «A distanza
di anni ho incontrato il professore di matematica che
mi ha detto: “Sembravi completamente assente, guardavi fuori dalla finestra. Però se ti facevo una domanda
sull’argomento appena trattato rispondevi sempre.
Non ho mai capito come tu potessi farlo!”». Comunque, alcuni insegnanti, si rendono conto e cercano
di aiutare l’alunno “diverso”: «C’erano un paio di professori, al liceo, che avevano stima di me. Dicevano
che avevo delle buone potenzialità» (fisico di quarant’anni). Gli fa eco una maestra di trentasette anni:
«Alle elementari ho avuto la fortuna di avere un’insegnante molto in gamba. Mi è stata molto vicina. Mi
ha stimolata moltissimo».
Le nostre classi scolastiche sono composte secondo
una logica basata su una concordanza tra età cronologica e sviluppo mentale, dando per scontato che tutti
i bambini della stessa età abbiano le medesime caratteristiche; tuttavia, mentre nell’ultimo ventennio il nostro sistema scolastico ha dedicato la sua attenzione
all’inserimento nelle classi dei soggetti portatori di
handicap, la questione relativa all’integrazione dei
soggetti con un’intelligenza superiore alla media è rimasta accantonata, in quanto la superdotazione non è
considerata un problema. In altri paesi, vengono invece investiti cospicui capitali per l’organizzazione di
programmi speciali finalizzati all’educazione dei soggetti superdotati e trovano applicazione tutta una serie
di iniziative, quali l’identificazione precoce dei bambini in questione, la loro valorizzazione in determinati
ambiti, la possibilità di un’anticipazione dell’accesso
alle classi, la creazione di corsi speciali, l’arricchimento dei normali curricoli scolastici e via dicendo.
Di fatto riscontriamo nei soggetti superdotati le
problematiche tipiche delle minoranze non riconosciute. Ignorare le esigenze di un bambino superdotato
è altrettanto ingiusto quanto disinteressarsi di un bambino ipodotato, perché non offrendogli l’opportunità
di sviluppare armoniosamente le sue potenzialità si
corre il rischio di farlo scivolare in una situazione di
disadattamento. Tanto più elevate sono le potenzialità
di sviluppo del bambino, tanto più intensa può essere
la sensazione di deprivazione che la scuola, incapace
di fornirgli i giusti stimoli nei giusti tempi, gli può provocare. «Se tu vedi le cose più velocemente degli altri,
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ti stufi di procedere lentamente e dopo un po’ perdi la
motivazione. O te ne stai per conto tuo, in un tuo
mondo privato oppure ti guardi intorno e incominci a
dare fastidio a questo e a quello…» spiega un brillante
giornalista.
I genitori del bambino superdotato
Il bambino con doti eccezionali può suscitare reazioni diverse nei suoi genitori. Alcuni non se ne accorgono o non gli danno particolare importanza, come
emerge da queste testimonianze. «Sapevano, ma non
consideravano la cosa degna di attenzione. Con loro
non ho avuto un buon rapporto. Avrei voluto più fiducia. Con me hanno fatto degli errori, erano soffocanti a livello di controllo e poco presenti a livello di
incoraggiamento» (maschio, 29 anni). «Hanno sbagliato tutta la mia educazione scolastica, mi hanno
ostacolato anche nella mia passione per l’informatica.
Le cose in cui mi ostacolavano erano quelle in cui
avevo più successo» (maschio, 31 anni). «Noo! Mia
madre non mi ha mai capita e a certe cose proprio non
ci arriva» (donna, 40 anni).
All’opposto ci sono quei genitori che, scoperte le
doti dei figli, cercano di spingerli al massimo, assumendo un atteggiamento che può essere controproducente. Come avviene per lo sport, anche in altri ambiti,
se si tiene conto soltanto delle doti e si trascurano i bisogni emotivi e sociali dei figli, si rischia di danneggiarli invece di sostenerli. Il problema sorge quando i
genitori si identificano a tal punto nel figlio che cominciano a vivere la loro vita attraverso di lui e attraverso
di lui cercano di soddisfare quegli obiettivi che loro non
hanno raggiunto o i desideri che non hanno potuto soddisfare. Così facendo essi diventano dipendenti dai figli
e vivono ogni loro naturale passo verso l’indipendenza
come un tradimento. «In molte famiglie di persone di
talento» scrive M. J. A. Howe «si osserva un rapporto
di eccessiva dipendenza reciproca tra genitori e figlio,
accompagnato dal rifiuto di questa situazione». Alcuni
figli non riescono a sottrarsi a questo clima, sviluppano
le loro doti ma restano insicuri e dipendenti. Altri invece avvertono tutto il peso di un investimento eccessivo, di aspettative troppo onerose e irrealistiche e
come reazione possono entrare in conflitto con i genitori e qualche volta rifiutare di dedicarsi proprio a ciò
a cui più sono portati. Un caso emblematico, riportato
dalla letteratura, fu quello di William Sidis all’inizio
del secolo scorso (si veda il Box): sopraffatto dalle
aspettative che la sua mente eccezionale aveva creato,
Sidis decise di “scomparire”.
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Può anche succedere che i genitori provino smarrimento di fronte ad un bambino che presenta un livello
cognitivo analogo a quello di un adulto e che, nello
stesso tempo, manifesta un’emotività e problematiche
affettive tipicamente infantili; oppure che non riescano
ad avere con lui un dialogo che si accordi con il suo livello intellettuale. Il rischio è quello di trascurare i bisogni fondamentali che sono poi quelli di ogni bambino: bisogno di sicurezza, di amore, di punti di riferimento, di giocare e sognare. Anche i superdotati devono avere un’infanzia come tutti gli altri. Che fare allora? L’ideale è accompagnarli nel loro percorso, naturalmente, senza enfatizzare o creare un clima di attesa: capire di volta in volta quali sono le loro genuine
esigenze fornendo loro gli stimoli di cui hanno bisogno e consentendo loro, contemporaneamente, di vivere la loro vita di bambini. Se la nostra scuola non è
in grado di fornire un insegnamento individualizzato
ai superdotati, la famiglia potrà decidere per il tempo
parziale, lasciando al piccolo il tempo per dedicarsi ad
altre attività, secondo le sue inclinazioni.
Feldman D. H. (1991), Quando la natura fa centro:
i bambini con talenti eccezionali, Giunti, Firenze.
Howe M. J. A. (1993), Bambini dotati. Le radici
psicologiche del talento, Raffaello Cortina, Milano.
Sansuini S. (1996), L’educazione dei ragazzi precoci, dotati e superdotati. Che cos’è, da dove viene,
come si educa il “potenziale intellettivo” che c’è in
ogni ragazzo, Franco Angeli, Milano.
Terrassier J. C. (2006), Les enfants surdoués ou la
précocité embarassante, ESF Éditeur.
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Sabrina Di Matteo svolge attualmente il tirocinio
post laurea presso il Dipartimento di Scienze neurologiche e psichiatriche dell’età evolutiva dell’Università
“La Sapienza” di Roma.
Tutte le testimonianze riportate sono tratte dalle interviste semistrutturate somministrate, nel corso del 2006, dalla dott.ssa Sabrina Di Matteo
ad un campione di 30 soggetti (22 maschi e 8 femmine) di età compresa
tra i 18 e i 53 anni, tutti appartenenti al Mensa, un’associazione internazionale composta da persone con un QI uguale o superiore a 148 misurato con la scala Cattell B.
Riferimenti bibliografici
Andreani Dentici O. (2001), Intelligenza e creatività, Carocci, Roma.
Di Matteo S. (2006), I superdotati, tesi non pubblicata, Università “La Sapienza” di Roma.
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Anna Oliverio Ferraris è Ordinario di Psicologia
dello sviluppo presso l’Università “La Sapienza” di
Roma. Psicologa e psicoterapeuta, è autrice di numerosi saggi tra cui ricordiamo nelle edizioni Giunti:
Zone d’ombra. Storie di normale psicopatologia
(1995), La macchina della celebrità (1999), Sarò
padre (2001), La ricerca dell’identità (2002, 2007),
Non solo amore. I bisogni psicologici dei bambini
(2005).
Jolanda Stevani, psicologa clinica e di comunità,
esperta in psicoterapie brevi e psicologia giuridica,
collabora con la cattedra di Psicologia dello sviluppo
di Anna Oliverio Ferraris sui temi della famiglia e del
disagio infantile e adolescenziale. Per Giunti Demetra
ha pubblicato Mamme e poi? (2006).
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BOX - Lo strano caso di un superdotato fallito
Nell’anno 1900 William James
Sidis aveva appena 2 anni ma poteva già leggere in inglese la sua
lingua madre e a 4 poteva scrivere
correntemente in francese. A 5
anni, il piccolo, che aveva già raggiunto una vasta notorietà per la
sua precocità linguistica e la sua
abilità nel calcolo, concepì una formula matematica che gli permetteva di stabilire il giorno della settimana in cui si era verificato un
qualsiasi evento storico. A 8 anni
ideò una tavola logaritmica a base
12 e a 12 anni fu ammesso alla prestigiosa Università di Harvard
dove si laureò con lode appena
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quindicenne, dopo aver stupito gli
altri studenti e il corpo insegnante
con la sua teoria sulla quarta dimensione dei solidi. Ma William
non era soltanto creativo nel
campo della matematica: mentre
studiava a Harvard poteva parlare
e scrivere in ben 7 lingue: francese,
tedesco, russo, greco, latino, armeno e turco.
Le capacità e i successi scolastici del piccolo William ne fecero
una vera e propria star. I giornalisti
gli facevano la posta per intervistarlo; la gente voleva sapere tutto
sul “metodo Sidis”, avere riscontri
della sua genialità in campo mate-
matico, l’Università di Harvard si
gloriava di avere tra i suoi allievi
un genio precoce. Ma qualcosa
andò storto: a partire dai 12 anni
William ebbe una serie di “esaurimenti nervosi”, temporanei episodi
depressivi che in seguito lo accompagnarono per il resto della sua
vita: cominciò ad avere paura del
successo, delle pressioni che i
media e il suo stesso padre esercitavano su di lui. Alla fine, decise di
mollare tutto e per sfuggire al successo accettò un oscuro posto di
impiegato in un ufficio pubblico.
[Nella foto in basso: William
James all’età di circa 17 anni]
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