Giovanni Cucci Abitare lo spazio della fragilità Oltre la

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Giovanni Cucci Abitare lo spazio della fragilità Oltre la
nella stessa collana
Giovanni Cucci
Abitare lo spazio della fragilità
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Giovanni Cucci
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Giovanni Cucci
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Antonio Spadaro (a cura di)
La famiglia oltre il miraggio
Tutti i documenti del Sinodo ordinario 2015
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Pierre de Charentenay
Filippine
Arcipelago asiatico e cattolico
Immagine di copertina:
Il Santo Niño di Cebu, statua raffigurante Gesù Bambino, molto venerato
dal popolo filippino.
Titolo originale: Les Philippines, archipel asiatique et catholique
Traduzione dal francese di Roberta Leone
© 2016 ÀNCORA S.r.l.
ÀNCORA EDITRICE
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano
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N.A. 5608
ISBN 978-88-514-1689-8
Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano
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Introduzione
Sulle Filippine non mancano le immagini da cartolina, tanto
più che il paese sta diventando una popolare meta turistica1. Si vedranno, giustapposte, le spiagge e le palme da cocco, la megalopoli
di Manila, un’economia dinamica, una corruzione generalizzata,
frequenti calamità naturali, terremoti e cicloni2, le rivolte armate
comuniste e quelle musulmane, la prostituzione, i lavoratori filippini in esilio sulle terre e le navi di tutto il mondo, senza contare
le schermaglie con la Cina al largo delle isole contese. L’immagine
è confusa. Ne consegue che l’opinione pubblica internazionale ha
una conoscenza minima di questo paese. Quando dico che torno
nelle Filippine, sento rispondermi: «Potrai utilizzare il tuo spagnolo». Errore, perché – fatta eccezione per una piccola minoranza – la
lingua spagnola è scomparsa per far posto all’inglese; conseguenza,
questa, della volontà degli Stati Uniti di imporre la loro lingua. La
Spagna ha certamente lasciato tracce – tra cui la religione cattolica
– ma non la lingua.
I colonizzatori si sono dunque succeduti in quest’arcipelago
popolato da numerosi gruppi indigeni, vissuti in autarchia per
secoli. Strutturate sui poteri tradizionali del clan e della famiglia,
le popolazioni locali hanno mantenuto la loro lingua e la loro
cultura nonostante le invasioni. Sono state in grado di resistere
Più di 5 milioni di turisti internazionali nel 2013.
Come il tifone Haiyan (localmente chiamato Yolanda), che nel novembre 2013
ha distrutto numerose regioni.
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agli influssi esterni mentre accoglievano questi mondi stranieri
e, in particolare, la cultura americana. Ma le Filippine sono una
creazione artificiale del re di Spagna, e gli spagnoli non hanno
mai rappresentato più dell’1% della popolazione (contro il 30%
in America Latina). Su questa base l’occupazione americana ha
introdotto l’inglese, ma anche l’idea di cittadinanza, che è venuta
a sovrapporsi all’identità locale.
Occupate per tre secoli da colonizzatori spagnoli e per cinquant’anni dagli statunitensi, le Filippine si interrogano sulla
propria identità. Il più occidentalizzato di tutti i paesi asiatici a
motivo della lunga presenza europea e americana, unica nazione
cattolica di questo vasto continente, l’arcipelago indugia tra le sue
radici: quelle delle isole tropicali indiane, quelle della colonia spagnola, quelle dell’occupazione americana. Un percorso diacronico,
tracciato nelle linee proposte dallo storico filippino Horacio de la
Costa, ci svelerà le fasi di costruzione dell’identità filippina, storia
turbolenta e tormentata come quella di una lotta permanente, come una pila di strati sociali e culturali che si sovrappongono l’un
l’altro senza mescolarsi e rivelando, qua e là, le tracce degli strati
precedenti.
Il risultato è un fenomeno unico, un equilibrio tra il locale e
lo straniero, «una cultura ibrida», come già la definì de la Costa
nel 19703. De la Costa spiega che l’identità filippina è la diversità,
con una base derivata dalla razza malese, un contributo rilevante
della Cina4 e l’arrivo di due colonizzatori successivi, spagnoli e
americani. Di questo passato non ci si sbarazza. Occorre integrare
le varie fasi, in particolare le radici malesi, trovandosi le Filippine
nella regione malese dell’Asia, accanto a Indonesia e Malesia e di
fronte a regioni cinesi e indiane. Questi paesi hanno lingue simili:
H. de la Costa, Selected essays on the Filipino and his problems today, a cura di
R.M. Paterno, Philippine Province of the Society of Jesus - Ateneo de Manila
University, Manila, 2002, p. 59.
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«Molti di noi hanno sangue cinese nelle vene, gli stessi Rizal e Aguinaldo» (ibid.).
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bahasa, malese, tagalog e molte altre. L’arcipelago integrerà poi gli
apporti occidentali, da cui l’espressione «cultura ibrida». Questa è
la questione filippina: una società duale.
Ma la dualità assume un’altra forma, visto che le Filippine sono l’unico paese cattolico del continente asiatico. L’appartenenza
all’Asia non è in dubbio, data la sua posizione, ma l’appartenenza
religiosa ne fa il paese più vicino all’Occidente cristiano in un
mondo che è anche buddista, musulmano, indù, scintoista eccetera. Una strana doppia appartenenza, all’Oriente e all’Occidente,
che può far sospettare che le due facce non siano né l’una del tutto
asiatica né l’altra davvero occidentale.
Fatto ancor più grave, secondo l’analisi di Horacio de la Costa,
le Filippine sono una società spaccata. Gli americani hanno innestato il loro sistema sul portato degli spagnoli, senza riconoscere
l’inizio di una riflessione e di una letteratura locale. Con le loro
scuole e università «hanno sviluppato nelle nostre isole una società
gravemente divisa, da un lato quelli che avevano ricchezza, una
lunga scolarizzazione e che erano in grado di leggere e scrivere in
inglese; dall’altro, quelli il cui metodo di lavoro era quello dell’era
di Lakandula5, che comunicavano nelle lingue native e il cui reddito era inferiore a 1.000 pesos l’anno»6. Non è stata una divisione
tra classi sociali, «ma come una frattura sismica che corre molto in
profondità sotto la superficie; si tratta di una frattura psicologica
che attraversa la personalità stessa del filippino. […] Abbiamo gusti
americani e scale di valori americane, mentre le nostre competenze
sono essenzialmente “pinoy”»7. Il risultato è un senso di fallimento
e di inadeguatezza nella popolazione. Il grande storico filippino si
interroga, poi, sulla possibilità dei filippini di nutrire fiducia in se
stessi. Come possono costruire una nazione?
Nome del capo di un gruppo etnico che viveva nella regione di Manila nel XVI
secolo.
6
Ibid., p. 281.
7
Ibid., p. 283. Pinoy è un termine colloquiale per «filippino».
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A questa frattura culturale se ne aggiunge una economica,
sempre attuale. Su 100 milioni di abitanti, circa 12 milioni non
hanno sufficiente cibo quotidiano e 45 milioni vivono con 2 dollari
al giorno. Al tempo stesso, le grandi famiglie e le classi superiori
godono di un tenore di vita equivalente o superiore a quello di
americani o europei, con frequenti viaggi all’estero e condizioni
di vita molto confortevoli.
Come costruire una nazione segnata da così tante fratture? È la
domanda cui cercheremo di rispondere nel fare un percorso storico,
politico e religioso. Perché bisogna parlare di religione, nel contesto
filippino. Qui non ci sono cultura e politica senza religione, anche
se Chiesa e Stato sono giuridicamente separati. Il cattolicesimo è
stato impiantato a fondo nella popolazione dell’arcipelago, anche se
il cristianesimo resta, in molte parti dell’Asia, la religione dell’uomo bianco. Gli spagnoli hanno voluto evangelizzare attraverso il
patronato regio per cristianizzare e umanizzare le loro colonie8.
Sono riusciti a fare delle Filippine l’unico grande paese cattolico
dell’Asia9. Questa identità segna ogni abitante dell’arcipelago.
L’attuale instabilità politica e sociale, le esitazioni e le lentezze
economiche, uniche in un’Asia caratterizzata dal dinamismo e
dalla stabilità, possono essere spiegate in gran parte dalla difficoltà
di far convivere queste lunghe occupazioni straniere con i legami,
troppo stretti, con identità e mentalità locali. Il passaggio attraverso la storia appare qui indispensabile, considerando la presenza e
il ruolo dei fattori educativi, linguistici e religiosi, elementi chiave
di una cultura.
Un grande momento, nella storia recente, è stata la rivoluzione
non violenta del 1986 contro Marcos; dedicheremo del tempo
Cf H. de la Costa, «Faith, justice and development, a human perspective», in
Id., Selected essays…, cit., p. 347. Il patronato è un sistema in cui le autorità civili
hanno avuto una responsabilità nella diffusione della fede, con l’aiuto delle autorità religiose.
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Una significativa minoranza musulmana esiste da secoli nel sud-ovest dell’isola
di Mindanao.
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a questo momento decisivo, un tratto dell’identità nazionale e
primo importante tentativo di trovare un’unità simbolica. Le
vecchie corruzioni venivano rigettate nell’oblio per trovare una
Repubblica ringiovanita, ristrutturata su valori vicini alla tradizione cattolica. Lo Stato di diritto doveva prendere il primo posto
in un governo filippino indipendente. Questa fase di rinnovamento è svanita e i vecchi demoni sono tornati, ma il 1986 resta
una speranza, un riferimento che anima tutti i tentativi di unità
nazionale. Il presente e il futuro sono ancora in gioco in questo
riferimento al periodo Marcos e al suo rovesciamento: l’attuale
presidente è il figlio di Corazón (Cory) Aquino, vincitrice sul
dittatore, mentre il figlio di Marcos, senatore della Repubblica,
aspetta in imboscata che le circostanze gli siano favorevoli per
riportare la famiglia al potere.
L’arcipelago delle Filippine non smette di essere conteso tra queste due figure, attratto dal rispetto del diritto ma sempre tentato
dall’ordine dittatoriale.
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Storia e cultura
Tutto inizia su isole da sogno nel Mar della Cina, battute, a ogni
stagione dei monsoni (da luglio a novembre), da uragani di grande
violenza. Abitanti o signori della terra, come volentieri chiamano
se stessi, i filippini sono di origine malese (venuti dalla Malesia due
o trecento anni prima di Cristo). Come gli spagnoli li descrivono
al loro arrivo, sono piccoli uomini dalla pelle scura, negrillos, che
vivono sulle montagne e nel fitto dei boschi. Sono vestiti di un pareo e braccialetti e, se pure non hanno né legge né scrittura, sono
molto religiosi. Raggruppati in barangay, complessi da 30 a 100
famiglie, formano una comunità solida, guidata non dall’erede di
una dinastia di capi, ma dal più competente, colui che ha accumulato più ricchezza e con qualsiasi mezzo. Quanto alla gerarchia, gli
spagnoli paragonano la loro struttura sociale a quella del Medioevo
europeo, con signori, uomini liberi e schiavi.
Le isole del paradiso
Gli abitanti dell’arcipelago credono nel dio Bathala, creatore e
signore di tutti, che ha inviato molti angeli o ministri, gli añitos,
ai quali si devono portare offerte. Dopo la morte, le loro anime
scendono nella terra, perché fa meno caldo che in aria. Sono sepolti
con tutti i loro beni, e i signori con i loro schiavi, cosa che permette
loro di avere chi li serva nell’aldilà.
Questi piccoli uomini bruni mangiano bene e bevono molto,
in particolare ai funerali. Nelle altre occasioni, ballano e cantano
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volentieri. Sono artigiani di grande abilità tecnica per i tessuti
come per i gioielli. Sanno costruire barche e commerciano tra
le isole, ma anche con il mondo esterno, fino alla Cina. Quando
un commerciante arriva dal mare, non scende a terra, ma suona
il tamburo per chiamare le persone a raggiungerlo in acqua e acquistare i suoi prodotti. Si discute di prezzi o di scambi e, se sorge
una controversia, il capo della barangay stessa deve risolvere la lite.
Alla fine del XV secolo inizia una nuova avventura: un nobile
musulmano, Sarip Kabungsuwan, si lancia nel Mar della Cina
con un gran numero di sudditi su diverse imbarcazioni. I venti li
disperdono e la truppa approda in vari punti dell’isola di Mindanao. Arrivato a Tinundan, l’emiro Kabungsuwan impone la sua
religione sulle popolazioni locali, terrorizzandole con le armi.
Molto rapidamente, la regione delle isole Sulu si converte e diventa
un sultanato.
Nel corso del XVI secolo sbarcano i primi spagnoli e incontrano
uno dei re di Mindanao. Immediatamente instaurano un commercio, cosa che interessa al re, disposto a dare oro in cambio di fucili
e di polvere da sparo. Spiega che comprerà porcellane cinesi e, in
cambio, darà loro oro e cera d’api.
Il passato spagnolo
Il 16 marzo 1521, dopo aver attraversato tutto il Pacifico, attraverso il quale ha cercato di raggiungere la Spagna oltre le coste
americane, Magellano approda al fiorente porto di Cebu, dove è ricevuto dal re del luogo, Raja Humabun, che molto presto si converte
e accetta di diventare vassallo del re di Spagna. Ma il suo vassallo,
Lapu Lapu, si oppone. Desideroso di imporre la propria volontà e
di marcare le linee del suo territorio, Magellano decide di dare una
lezione a Lapu Lapu e, allo stesso tempo, di convincere Humabun
della propria superiorità. Dopo una feroce battaglia, che si svolge in
parte in acqua, Magellano è vittima del suo avversario. Ancora oggi
si vede, nella piccola isola di fronte alla città di Cebu, una grande
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