numero 76 INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA V

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numero 76 INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA V
Inserto della rivista ComunitàItaliana - realizzato in collaborazione con i dipartimenti di italiano delle università pubbliche brasiliane
Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente.
ano VII - numero 76
Ai margini
del canone
Aprile / 2010
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
Ai margini
del canone
www.comunitaitaliana.com
[email protected]
Direttore responsabile
Pietro Petraglia
Editori
Andrea Santurbano
Patricia Peterle
Revisore
Anna Fracchiolla
Grafico
Alberto Carvalho
COMITATO Scientifico
Alexandre Montaury (PUC-Rio); Alvaro
Santos Simões Junior (UNESP); Andrea
Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”);
Andrea Santurbano (UFSC); Andréia
Guerini (UFSC); Anna Palma (UFSC);
Cecilia Casini (USP); Cosetta Veronese
(Univ. Birminghan); Cristiana Lardo (Univ.
di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti
(Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta
Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ.
Wisconsin-Madison); Fabio Pierangeli
(Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio
De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia
Wataghin (USP); Luiz Roberto Velloso
Cairo (UNESP); Maria Eunice Moreira
(PUC-RS); Mauricio Santana Dias (USP);
Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle
(UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari);
Rafael Zamperetti Copetti (UFSC); Renato
Cordeiro Gomes (PUC-Rio); Roberto
Francavilla (Univ. di Siena); Roberto
Mosena (Univ. di Roma “Tor Vergata”);
Roberto Mulinacci (Univ. di Bologna);
Sandra Bagno (Univ. di Padova); Sergio
Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (Univ.
“G. d’Annunzio”); Walter Carlos Costa
(UFSC); Wander Melo Miranda (UFMG).
COMITATO EDITORIALE
Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto
Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia
Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões;
Floriano Martins; Francesco Alberoni;
Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio;
Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo;
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Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio
Michele; Victor Mateus
ESEMPLARI ANTERIORI
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Mosaico italiano è aperto ai contributi
e alle ricerche di studiosi ed esperti
brasiliani, italiani e stranieri. I
collaboratori esprimono, nella massima
libertà, opinioni personali che non
riflettono necessariamente il pensiero
della direzione.
Q
uesto numero di Mosaico Italiano presenta al lettore la
madre di tutte le problematiche inerenti gli studi letterari: quella della definizione di un canone letterario.
In altre parole, quello della scelta, sia di singole opere che di
autori, ai quali riservare uno spazio “incontestabile” nell’empireo della storiografia e critica letterarie. Un dibattito infinito,
dunque, e pressoché irrisolvibile. Tali riflessioni non si concretizzano qui in un discorso complesso e teorico, ma affiorano, a
volte indirettamente, nelle letture critiche presentate da docenti
e studiosi di università brasiliane e italiane nei loro contributi.
Di Dante Alighieri, scrittore “canonizzato” per eccellenza,
viene analizzata, per esempio, un’opera “molto citata e poco
letta”, a detta dello stesso autore del saggio, il De Vulgari Eloquentia. Per parlare, invece, di metodi meno “canonici”, si
passa poi per una vivace lettura intertestuale che lega Adélia
Prado alla tradizione francescana. Di Giovanni Verga, altro
autore largamente riconosciuto della letteratura italiana, viene
però presa ad esemplificazione della scuola verista una novella, “Nedda”, ben meno nota dei celebrati Malavoglia. Restando
ai margini del verismo, è affrontato inoltre il caso di Grazia
Deledda, che, benché insignita del Nobel per la letteratura nel
1926, come conferma anche l’autrice del saggio, “non trova
consensi unanimi nella critica”.
Completano questo numero di Mosaico altri casi esemplari del panorama critico-letterario italiano: da quello di Alberto
Moravia, già esplicitato nel titolo del contributo, Vent’anni senza Moravia: uno scrittore dimenticato?, a quello di Massimo
Bontempelli, controverso teorico del realismo magico in patria e riproposto, con ambiguità ermeneutiche, in una raccolta
di racconti pubblicata in Brasile nel 1999; per finire con Elio
Vittorini, rivisitato in una inedita prospettiva comparata che lo
vede al fianco dello scrittore portoghese Vergílio Ferreira.
Infine, nella sezione dedicata al racconto, proponiamo in
anteprima delle lettere di viaggio di una giovane scrittrice italiana, Manuela Lunati, tratte da un’opera, Ritorno aperto, che
speriamo possa presto trovare il suo spazio negli scaffali delle
nostre librerie. E, chissà, entrare a far parte del canone della
giovane letteratura italiana.
Gli Editori
SI RINGRAZIAno
Saggi
Luiz Ernani Fritoli
Esprimere l’inesprimibile: Dante e il logos poetico
pag. 04
Tereza Virgínia Ribeiro Barbosa
Adélia Prado e Francesco: “na maior compostura”
pag. 09
Silvana de Gaspari
Giovanni Verga e l’idealizzazione del verismo in “Nedda”
pag. 12
Carolina Pizzolo Torquato
Un romanzo rappresentativo della narrativa di Grazia Deledda: Elias Portolu
pag. 16
Silvia La Regina
Vent’anni senza Moravia: uno scrittore dimenticato?
pag. 19
Arivane Chiarelotto e Patricia Peterle
Massimo Bontempelli nel sistema letterario brasiliano:
il caso de “O colecionador”
pag. 21
Camila Landucci e Andrea Santurbano
Uno sguardo alla scrittura sociale di Elio Vittorini e Vergílio Ferreira
pag. 25
Racconti
Da Ritorno aperto, di Manuela Lunati:
“Quasi un diario vero – Maranhão, 14 giugno 2006”
“Due punti aperte le virgolette, 3 agosto 2006”
“Pousada de caraíva, 1 marzo 2007”
pag. 28
pag. 31
pag. 33
Rubrica
“Tutte le istituzioni e i collaboratori
che hanno contribuito in qualche modo
all’elaborazione del presente numero”
Francesco Alberoni
Per essere sempre giovani tenere aperti mente e cuore
pag. 34
Passatempo
pag. 36
STAMPATORE
Editora Comunità Ltda.
ISSN 2175-9537
2
Errata Corrige
Nel numero 74 di Mosaico Italiano, dello scorso mese di febbraio, dal titolo Italia-Brasile: esperienze
di frontiera, è apparso erroneamente il nome Carla Nelfi al posto del corretto Carla Nielfi.
3
Esprimere l’inesprimibile:
Dante e il logos poetico
Luiz Ernani Fritoli
(Univ. Federal do Paraná)
I
l rapporto di Dante con la
lingua può essere considerato da innumerevoli punti di vista, dipendendo dalla
direzione che vogliamo dare
alle nostre riflessioni. Ma certamente non possiamo fare a
meno di considerare l’opera
il cui tema specifico è appunto la lingua, e parliamo
ovviamente del De Vulgari
Eloquentia. La prima ragione
dichiarata da Dante per scrivere l’opera è esplicitata dal
poeta nelle prime righe:
Non ritrovando che innanzi
a me altri abbia trattato
alquanto del parlare vulgare,
e veggendo questo parlare
a tutti essere necessario,
dacché non soltanto gli
uomini, ma e le femmine
e i fanciulli, secondo lor
consente natura, si studiano
ad esso di pervenire; e
volendo in qualche modo
schiarir la mente di quelli che
van per le piazze siccome
orbi, e sovente credon le
cose posteriori stare loro
davanti.1
Esprime dunque il motivo per così dire tecnico per
cui sente di dover trattare
della questione della lingua:
perché è necessaria a tutti, e
perché nessuno prima di lui
l’ha considerata scientificamente. Ma esprime anche
altro, quello che definiamo –
forse male - il motivo umano
per cui si prende l’impegno:
schiarir la mente di quelli che
vivono come ciechi. A questo
tema ritorneremo più avanti.
In quest’opera, molto citata
e poco letta, Dante spiega le
ragioni per cui considera il
volgare lingua di tanto prestigio quanto il latino e dichiara
di voler elevarlo alla stessa
altezza e dignità della lingua
di Virgilio. Il De Vulgari in realtà avrebbe dovuto contenere quattro libri, ma Dante lo
interruppe al capitolo XIV del
secondo libro. Si considera
accettabile come data di stesura gli anni 1303-1304. Tutto il ragionamento di Dante si
svolge strettamente nell’ambito del rapporto uomo-Dio.
Dante parte dalla creazione,
ammette come fonte unica
affidabile e incontestabile la
Bibbia. La sua premessa è che
la prima parola pronunciata
dall’uomo appena creato da
Dio fu appunto “Dio”, o meglio, “El”, che è il termine con
cui le popolazioni semitiche
più antiche indicavano Dio.
Afferma quindi che la prima
lingua parlata dall’uomo, da
Adamo, fu l’ebraico:
1
Alighieri, Dante. De vulgari eloquentia. Trad. di Giuseppe Passerini. In Dante – tutte le opere. A cura di Giovanni
Fallani, Nicola Maggi e Silvio Zennaro. Roma: Newton Compton ed., 1993, p. 1018.
4
In questa forma di parlare
Adamo parlò; e poi tutti
i discesi da lui fino alla
edificazione della torre
babelica, o vogliam dir la
torre della confusione; questa
forma ereditarono i figliuoli di
Eber che da lui Ebrei furono
detti, e a’ quali solamente,
dopo la confusione, si rimase,
perché il Redentor nostro,
che di essi doveva sortire,
usasse, siccome uomo, la
lingua della grazia, non quella
della confusione. Fu dunque
l’ebraico idioma quello
che nacque in su le labbra
dell’uomo che primo parlò.2
L’Alighieri prosegue la sua
analisi spiegando come dalla
prima lingua poi si siano originate tutte le altre, in seguito
alla erezione della Torre di
Babele, e commenta la confusione che ne susseguì, fino
ad arrivare in Europa, dove
ci fu una tripartizione: lingua
germanica, lingua romanza
e lingua greca; da lì si arriva
al latino, detta grammatica,
lingua della ragione, della filosofia, della storia, dell’alta
poesia. Passa poi a commentare i dialetti parlati in Italia ai
suoi tempi: li raggruppa in 14,
di cui il più alto sarebbe, non
come ci verrebbe da indovinare il fiorentino, bensì il bolognese. Ma nessuno di questi
dialetti, dice, è degno d’essere considerato al pari del latino come lingua eccellente da
potersi adottare in tutta Italia.
E, fino a quel momento, neanche da potersi adottare per
scrivere dell’alta poesia. Per
un motivo forse addirittura
semplice: non c’erano trattati
“filosofici” sulla lingua vulgare, e, soprattutto, non c’erano
opere eccellenti in vulgare. Però rispetto alla origine
della lingua umana (sempre
nell’ambito del rapporto originario uomo-Dio), se si paragona il latino e il volgare
(inteso in senso astratto, non
un volgare particolare) “è
adunque più nobile il vulgare, come quello che prima fu
usato dal genere umano.”3 Ed
ecco in questa affermazione sintetizzata grosso modo
la concezione di Dante sul
prestigio del volgare: fu la
forma d’espressione naturale,
immediata tra l’uomo e Dio,
prima del peccato originale,
prima del gesto di superbia
di Babele. In volgare pure
s’espresse Gesù4. Questo argomento massimo pone fine
alla questione della dignità
del volgare, e sta alla base di
tutta la poetica dantesca, che
è, in senso stretto, una teopoetica. In questo senso va
concepito il lavorio linguistico-concettuale di Dante nella
Commedia: è una instancabile ricerca d’esprimere la mente di Dio.
Nel De Vulgari Dante afferma la necessità di adeguazione della lingua alla materia di
cui tratta; dice che è necessario che lo stile sia aderente al
tema, e propone la divisione
in tre stili: comico (basso), elegiaco (medio) e tragico (alto).
Del tragico, alla fine dell’opera interrotta, afferma che è la
più alta forma d’espressione,
specialmente la canzone, specialmente col verso endecasillabo. Il verso appunto che
utilizzerà nella sua Commedia. Però come mai, mentre si
propone di trattare del più alto
tema mai provato da potenza
umana, rinuncia a quello che
lui stesso definisce il più alto
stile? La risposta più immediata ce la fornisce nell’Epistola
a Cangrande della Scala: e
cioè che la materia comincia
in forma orrenda ma poi “lietamente si risolve”5. Dunque
commedia la chiama per lo
stile, non per la lingua. Anche
perché nessuna lingua umana
è sufficiente a esprimere quello che eccede l’esperienza
umana. Dante stesso ci propone questo tema all’interno
della Commedia, tante volte
ripete e ribadisce la difficoltà quando non l’impossibilità
di esprimere ciò che “vede”.
E “visione” per Dante significa molto più della sensazione fisica; vedere nell’uso del
poema significa compartire
dalla visione divina, avere la
comprensione
immediata,
cioè non mediata dai sensi, di
tutto in tutti i tempi. Qualcosa
che va molto oltre le possibilità espressive del linguaggio
umano – di qualsiasi linguaggio umano:
Oh quanto è corto
il dire e come fioco
al mio concetto!
E questo, a quel ch’i’ vidi, è tanto, che non
basta a dicer ‘poco’.
Par, XXXIII, 121-123
Alighieri, Dante. Op. cit., p. 1024.
Ib., p. 1018.
4
Anche se Dante sembra d’aver ripensato la questione posteriormente: nel canto XXVI del Paradiso, Adamo stesso
dice a Dante che la sua lingua era già spenta prima che si cominciasse a costruire la Torre di Babele: “la lingua ch’io
parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta.” Par, XXXVI, 124-126.
5
Cf. Epistola a Cangrande della Scala: “Al contrario la Comedia principia con alcun che di avverso, ma lietamente
va poi risolvendosi, come si vede in Terenzio”. Trad. di Giuseppe Passerini. In Dante – tutte le opere. A cura di Giovanni
Fallani, Nicola Maggi e Silvio Zennaro. Roma: Newton Compton ed., 1993, p. 1182.
2
3
5
Perch’io lo ‘ngegno
e l’arte e l’uso chiami,
sí nol direi, che mai
s’imaginasse;
ma creder puossi e
di veder si brami.
Par, X, 43-45
Nonostante questa impossibilità, dovuta ai limiti
della ragione umana (ricordiamo a proposito dei limiti
della ragione il famoso “state contenti, umana gente, al
quia”, del terzo del Purgatorio), la difficoltà dell’impresa
non dev’essere impedimento
al tentativo di portarla avanti.
Sarà dunque con la Commedia che Dante impegnerà tutte le sue potenzialità al fine
di elevare il volgare colto ad
altezze mai prima raggiunte; anzi mirando a elevare la
poesia ad altezze mai prima
conquistate. Ed è questa una
delle dimensioni più affascinanti, più ricche, della Commedia: la tensione costante
tra lingua e poesia, tra progetto e opera, tra concetto
e realizzazione; la tensione,
insomma, tra visione estatita ed espressione razionale
(cioè “logos”).
Ancora nell’Inferno, tutto materiale, concreto, può
affidarsi ai sensi per captare
esteticamente (nel senso originario del termine, cioè l’aistitikos, parola greca che indicava la percezione col tatto,
e poi per estensione semantica, la percezione attraverso i
sensi6) tutto l’ambiente nelle
sue dimensioni sensoriali. Il
poeta, in tutto il suo percor-
so attraverso l’Inferno sente
intensamente: visioni, odori,
sensazioni tattili, suoni. Tutte
cose per cui, anche nel caso
non ci fossero parole, si è potuto ricorrere alla descrizione,
all’analogia, alla similitudine:
siamo comunque nell’ambito dell’esperienza sensoriale
umana. C’è poi da rilevare
che quando scrive Dante è già
tornato dal suo viaggio, si sente pienamente confidente nelle proprie capacità espressive.
Dirà, nell’Invocatio alle muse:
m’apparecchiava
a sostener la guerra
sì del cammino
e sí della pietate,
che ritrarrà la mente
che non erra.
O Muse, o alto
ingegno, or m’aiutate;
o mente che
scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Inf, II, 4-9
odori, i suoni, le sensazioni.
In modo speciale i colori, gli
odori e la musica:
Oro e argento fine,
cocco e biacca
indaco, legno
lucido e sereno,
fresco smeraldo in
l’ora che si fiacca,
da l’erba e da li fior,
dentr’a quel seno
posti, ciascun saria
di color vinto,
come dal suo
maggiore è vinto il meno.
Non avea pur
natura ivi dipinto,
Ma di soavità di mille odori
Vi facea uno incognito e
indistinto.
‘Salve, Regina’ in
sul verde e ‘n su’ fiori
Quindi seder cantando
anime vidi
Pur, VII, 73-83
Allora, all’entrata dell’Inferno, il poeta manifesta la
sua piena fiducia nella memoria che non erra, perché sa
di essere ispirato direttamente da Dio. Anzi, in questi versi dell’invocazione alle muse
indica i tre fattori necessari
alla riuscita dell’impresa: la
bellezza del canto (muse),
l’ispirazione e la capacità
intellettuale (alto ingegno),
e l’esattezza dei ricordi (la
“mente che non erra”, cioè
la memoria)7 che permetterà
di descrivere quello che il
poeta vede. Nel Purgatorio
sono ancora le descrizioni
a predominare: i colori, gli
6
Aistisis (o aisthesis) è l’esperienza sensoriale della percezione. Terry Eagleton afferma: “L’estetica è nata come un
discorso del corpo.” In Eagleton, T. Ideology of the Aesthetics. Londra: Basil Blackwell, 1990, p. 13. Cf. anche Susan
Buck-Morss: “Il campo originale dell’estetica non è l’arte ma la realtà – la natura corporea, materiale.” In “Estética e
anestética: o ‘Ensaio sobre a obra de arte’ de Walter Benjamin reconsiderado”. Revista Travessia, n. 33, UFSC, Ilha de
Santa Catarina, ago. dic. 1996, PP. 11-41.
7
Cf. il commento di Daniele Mattalia al c. II, in La divina commedia. Inferno (I Volume). Milano: Rizzoli ed., 1980,
p. 37.
6
Però è ancora nel Purgatorio che cominciano gli
esempi di una percezione
che va oltre i limiti del sensoriale, come, per esempio le
sculture o i bassorilievi che il
poeta ammira nella cornice
dei superbi: Dante descrive
la sua percezione perché è
impossibile descrivere quello
che vede: non ci sono parole dato che non c’è paragone
qui in Terra.
Colui che mai non
vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi,
perché qui non si trova.
(...)
E avea in atto
impressa esta favella
Pur, X, 94-96 (...) 43
L’arte, che è per Dante
(così come per Platone e per
Aristotele) imitazione imperfetta della natura, qui si
presenta in tutt’altro modo:
realizzata da Dio, supera di
tanto la natura quanto questa
supera l’arte. Questo “visibile parlare” è un’elevazione
sia dell’arte della scultura sia
del linguaggio verbale ad un
altro livello, al di sopra della
nostra comprensione. Pare si
possa capire questo “visibile
parlare” in due modi: o come
un’annullazione del fattore
tempo oppure al contrario,
proprio come espressione
della consecutività, e cioè
il tempo scolpito. Travolti
dalla bellezza della concezione artistica, quasi ci permettiamo a questo punto di
dimenticare che tutto ciò è
realizzato con le parole, nelle parole di un poeta. È nel
Purgatorio ancora, più precisamente nel Paradiso Terre-
8
stre, che comincia a chiarirsi
il processo di sublimazione
della lingua vulgare. Scontata la superbia (tra l’altro
ammessa dal poeta), Dante
attribuisce all’alto ingegno
(insieme alla sua volontà di
redenzione) il fatto d’essere
stato eletto da Dio per realizzare la missione “apostolica”
di andare nell’aldilà, vedere
e narrare. Tale missione, accennata prima da Virgilio, è
affidatagli diretta ed esplicitamente da Beatrice già quasi all’uscita del Purgatorio:
Però, in pro del
mondo che mal vive, al carro tieni or
li occhi, e quel che vedi, ritornato di là,
fa che tu scrive.
Pur, XXXII, 103-106
Tu nota; e sí come
da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un
correre a la morte.
E aggi a mente,
quando tu le scrivi,
di non celar qual
hai vista la pianta
ch’è or due volte
dirubata quivi.
Pur, XXXIII, 52-57
“Tu nota; e sí come da
me son porte, / così queste
parole segna a’ vivi”; sono le
parole di Beatrice, che Dante deve ripetere tale quale.
Non deve quindi inventare,
dato che qui non si tratta di
descrivere o commentare,
ma semplice ed assolutamente di ripetere la parola
di Dio rivelatagli da Beatrice. A partire da qui dunque
la propria lingua appare non
più come strumento di cui si
utilizza il poeta per descrivere quelle che vede, ma
direttamente come verità rivelata. È la parola di Dio che
si fa poesia, il logos divino
diventa logos poetico.
E a partire da qui la visione di Dante, esteticamente
plasmata nella poesia, supera progressivamente l’estetica, in quel senso cui abbiamo accennato prima e cioè
di conoscenza attraverso i
sensi. In tutto il Paradiso la
visione di Dante è dunque
una visione superestetica,
perché, essendo il Paradiso
il vero trionfo dell’intelligenza, il “paesaggio”, per così
dire, è tutto di natura intellettiva, e il percorso tutto un
itinerarium mentis in Deum.
Lì la difficoltà di rendere immaginabile quello che la più
alta fantasia concepì è accresciuta dalla complessità
dei ragionamenti, dalla profondità delle riflessioni filosofico-teologiche; ma Dante, che ha finora (siamo alla
fine del Purgatorio) sempre
cercato di adeguare la lingua alla materia trattata, con
questo meraviglioso gesto
d’autore, nella “favola” del
poema si libera dalla questione che potrebbe fare non
solo da ostacolo ma addirittura configurare un’eresia, e
cioè: “quale lingua potrebbe descrivere il Paradiso,
che è in essenza ineffabile,
inconcepibile, e addirittura
impossibile da ricordare?”;
la lingua non è più la sua,
ma gli viene ispirata, o meglio spirata da Dio8. La questione si sposta allora: non
più capacità individuale,
non più altezza d’ingegno,
ma di memoria si tratterà:
Appunto quello che chiede ad Apollo (Dio) nel I canto del Paradiso (v. 19): “Entra nel petto mio, e spira tue”.
7
Nel ciel che più
della sua luce prende
fu’io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sú
discende;
perché appressando
sé al suo disire,
nostro intelletto
si profonda tanto
che dietro la
memoria non può ire.9
Par, I, 4-9
Dunque quello che il poeta descriverà sarà nient’altro
che un’ombra di un’immagine sbiadita e deformata di
quello che il suo intelletto ha
testimoniato:
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra
del beato regno
segnata nel mi capo io
manifesti (…)
Par, I, 22-24
E sarà l’ombra quel poco
che la “mente”, cioè la memoria – elemento tutto umano – riuscì a trattenere; un
quasi niente in paragone a
quello che l’intelletto – elemento divino che ci distingue dagli altri animali – ha
esperimentato:
Adélia Prado
e Francesco:
possa esprimere l’inesprimibile; chiede a Dio che torni a
concedergli di ricordare “un
poco” non pur di quello che
era la Sua essenza, ma solo
tanto di quello che “pareva”;
e prega pure potenza alla sua
lingua, potenza divina che la
renda adatta alla materia e
allo scopo:
“na maior compostura”
O somma luce,
che tanto ti levi
da’ concetti mortali,
a la mia mente
ripresta un poco
di quel che parevi,
e fa la lingua mia
tanto possente,
ch’una favilla sol
de la tua gloria
possa lasciare a
la futura gente;
Par, XXXIII, 67-72
Dopo quest’ultima preghiera, non già per lui stesso
fatta, ma in favore dell’umanità futura, davanti alla visione finale di Dio, cioè alla
compartecipazione alla Verità
Eterna e al Sommo Bene, viene a meno qualsiasi altra pretensione, e Dante finalmente
si arrende:
Veramente quant’io
del regno santo
nella mia mente
potei far tesoro,
sarà ora matera
del mio canto.
Par, I, 10-12
A l’alta fantasia
qui mancò possa;
ma già volgeva il
mio disio e ‘l velle,
sí come rota
ch’igualmente è mossa,
l’amor che move
il sole e l’altre stelle.
Il poeta, la cui visione
a questo punto sopraffà di
molto la capacità espressiva
del linguaggio umano, continuerà fino all’ultimo canto
del Paradiso a chiedere a Dio
più virtù di memoria perché
“A l’alta fantasia qui
mancò possa”; il viaggio è
compiuto e la volontà di Dio
fa che anche la sua volontà
sia quella di ritornare. Ora,
al ritorno alla Terra, resta
mettersi a scrivere in detta-
C
gli quello che vide, a narrare parola a parola quello
che ascoltò; cosa che, sicuramente, la sua povera
condizione umana non gli
avrebbe permesso. E non è
dunque da prendere in tal
modo la scrittura – voglio
dire, se realizziamo il patto
di lettura – del testo. La poesia, ispirata direttamente dal
volere divino, si riveste di un
carattere evangelico: è il suo
nuovissimo testamento: la
sublimazione del linguaggio
risiede appunto nel far coincidere in essa verità umana e
rivelazione divina. Laddove
“dietro la memoria non può
ire”, la parola spirata da Dio
si fa, nella mente del poeta,
parola poetica, e la propria
lingua appare dunque come
verità rivelata: è il passaggio
dal logos (parola e pensiero,
discorso e ragione) divino al
logos poetico, tutto umano,
profondamente umano.
9
Alighieri, Dante. La divina commedia. Paradiso (III Volume). A cura di Daniele Mattalia. Milano: Rizzoli Editore,
1981, pp. 11-12.
8
reare un testo poetico
con note accademiche, implodendo o imbrattando ogni divisione tra
i generi, è tecnica che, tra i
molti, l’argentino Borges dominava. Fondere l’esperienza
del quotidiano alla riflessione
letteraria è, forse, percorrere
il cammino inverso. Entrambi
i percorsi, sebbene siano opposti, quando sono ben tracciati possono portare a Roma.
In vacanza, alla ricerca di
un testo per rilassarmi, ecco
che nella libreria trovo, con
una certa noncuranza, Adélia
Prado e le sue citazioni bibliche e domestiche mescolate con poesia. Prendiamo
il capitolo 18 del romanzo
Solte os cachorros1 (1994). Il
formato, commentario soggettivo, parentesi con citazioni informali e incomplete di Francesco d’Assisi e di
Tommaso da Celano, sembra
eccessivamente prosastico.
Eppure Adélia Prado conclude il suo testo alla maniera
accademica:
osservazioni
fatte alle norme bibliografiche dell’epoca, con citazione
completa dell’opera scritta in
Tereza Virgínia Ribeiro Barbosa
(Univ. Federal de Minas Gerais)
personale, (“Eu quero saber
sempre quem é maior, quem
é menor.”3), segue una citazione dall’italiano:
latino. Senz’ombra di dubbio
può passare dall’erudito al
comune e, come vari scrittori
brasiliani, è stata toccata dal
carisma del santo italiano.
Ma ciò che di fatto interessa sono le letture che traspaiono nella prosa della poetessa. E usiamo la parola prosa
nel senso dei minatori dell’interno di Minas Gerais, ossia,
una conversazione informale
con materiali del quotidiano,
senza alcuna sofisticazione. Il
testo di Prado è questa prosa,
ma è anche prosa poetica. Il
brano che ho scelto tratta in
particolar modo di San Francesco2. Fra l’altro, immediatamente dopo una frase
Senhor, meus frades foram
chamados de menores
para não desejarem ser
maiores... Pai, eu te suplico,
que eles não sejam mais
soberbos que pobres, que
não sejam insolentes contra
os outros, que de maneira
alguma permitas que sejam
promovidos a prelaturas. 4
E tutto il testo ruota intorno alla questione dell’essere
umili. Ma l’umiltà, cosa sarebbe? Una letteratura maggiore o una letteratura minore? Una letteratura noncurante d’accordo con il titolo
dell’opera Solte os cachorros
oppure ricerca, interlocuzione, elaborazione e raffinatezza che termina in erudizione
e citazione dal latino?
Queste stesse materie sono
argomenti quando Adélia scrive: “Eu gosto, gosto não, amo
por amor de Deus um sujeito
pretensioso que escreve coisas assim: [...].” Tuttavia, dopo
1
Questo romanzo non è stato tradotto in lingua italiana, ma ci sono dei riferimenti corrispondenti al futuro titolo in
italiano: Sciogli la lingua.
2
Fonti Francescane in : Cf. http://www.procasp.org.br/fontes.php E inoltre per leggere i poeti: http://www.portalsaofrancisco.com.br/alfa/centenario-de-machado-de-assis/elogio-da-vaidade.php
3
PRADO, Adélia. Solte os cachorros. São Paulo: Editora Siciliano, 1994, p.61.
4
Francesco apud PRADO, Adélia. Opt. Cit., p.61.
9
la citazione di qualcosa suppostamente elaborata la scrittrice afferma che le piacciono
i pettegolezzi. E in seguito
presenta la dignità di Nica
do Gomes, che fa “frittelle e
le vende, nella maggior compostezza”, e che “ha deciso di
mettere le corna” al marito.
Alla fine completa:
Eu vivo dilacerada [...]. De
um lado quero me tornar
ALTER FRANCISCUS. Não
é ALTER CLARA ou ALTER
THERESA, não, é Francisco
mesmo. De outro: sonhei
com uma cobra escondida
numa moitinha de trevo que
me picou dois dedos com
muita dor. [...]
(De puro orgulho
eu queria ser pobre!).5
Il testo oscilla tra la gloria
e la banalità, il quotidiano,
l’esperienza del sublime e
l’assunzione della condizione di ‘peccatrice’. E Adelia
discorre su questo al limite
dell’imposizione delfica, che
è anche di Teresa d’Avila, circa l’autoconoscenza (Conosci te stesso!). A questo punto
della lettura sorge una citazione informale di Tommaso
da Celano, confrate del santo
di Assisi:
Sabedor de seus distúrbios
do baço e do estômago, um
guardião, para protegê-lo do
frio, mandara costurar uma
pele de raposa por baixo de
seu hábito. Francisco queria
pôr outra também, pelo lado
de fora, para não esconder
ao povo o cuidado que tinha
consigo mesmo.6
In un altro testo della
stessa poetessa, ora nella sezione intitolata Sem enfeite
nenhum che compone il volume di Solte os cachorros,
troviamo un breve racconto
che forse completa la nostra
comprensione:
Francisco
Que pretíssimos olhos, hein?
Eu não sou Clara, que faz
docinhos de coco e manda
por portador.
Venho eu mesma trazer,
conferir em pessoa esta tua
magreza alucinante.
Ó Francisco, Francisco,
Chico Violinha, gravetinho de
homem incendiado.
Faz boneco de neve pra
espantar a luxúria?
Faz boneco de mim. Me
manda esmolar que eu vou.
Me manda subir no Alverne
e orar de braço estendido, eu
subo eu oro.
Junto com você, Francisco, o
que você quiser.7
Il narratore è in preghiera di fronte all’immagine del
santo e parla in prima persona. Al primo approccio, estetico e emozionale, mette a
fuoco gli occhi. La seconda
frase cerca il contesto storico
e si riferisce a Chiara di Assisi, quasi contemporanea del
Santo, con qualche anno di
differenza. Lei una bambina
mentre lui già era un uomo
maturo. Dal contesto storico
medievale, un’insieme di tenerezze e finesse di dolcetti,
passiamo alla durezza della
famigerata ‘magrezza’, qui
‘allucinante’, del giovane Giovanni di Bernardone – la frase sembra ricercare la virilità
del nome Giovanni in portoghese. Ma, nella sequenza, la
donna in preghiera addolcisce
il tono, lo carica di emozione,
evoca il soprannome di Francesco – francesino -, traduce il
termine in una intimità molto
brasiliana e in antitesi affettiva
tratta il santo come “ramoscellino incendiato’. Come se non
bastasse il diminuitivo essenziale di ramoscello, si riferisce
a lui come ramoscellino - e
può un ramoscello incendiare? Nel suo piccolo, si...
Siamo pronti per ricordare la sensualità manifestata
da Mickey Rouke nella scena
‘tentazione di Francesco’, il filmato può essere visto su YouTube – del film di Liliana Cavani (1989)8, quando, nudo, il
santo scolpisce tre falli nella
neve... La sensualità ci permette allora di rileggere tutto il
racconto a partire dal desiderio. Ma che narrativa paradossale Adélia Prado costruisce
nel riscattare la lussuria e la
civetteria che evoca la povertà
francescana, o sarebbe la povertà dell’italiano ‘francesino’?
PRADO, Adélia. Opt. Cit., p.62.
6
Francesco apud PRADO, Adélia. Opt. Cit., p.64.
7
PRADO, Adélia. Opt. Cit., p.62.
8
Scena della tentazione di Francesco nel film Francesco di Liliana Cavani (1989): http://www.youtube.com/
watch?v=kSXg9LhueE4&NR=1
5
10
Francesco a partire dal desiderio di povertà lussureggiante.
Questo racconto antecede
un altro intitolato Antonio (di
Padova o di Lisbona? Non interessa, perché entrambi sono
uno e lo stesso francescano...).
Questo è spudoratamente
sensuale, senza problemi;
dopotutto lì la donna in preghiera invoca un tradizionale
santo patrono dei matrimoni.
Ma tuttavia, dove mi
hanno condotto queste riflessioni? Ritorno a una citazione di Prado nel primo
testo commentato: “Eu quero
saber sempre quem é maior,
quem é menor.” La risposta
e la domanda sono bibliche9
“[...]“Aquele que é o menor
entre vós, este é o maior”.
Perché allora la domanda se
la risposta già è risaputa?
Ricercando le fonti francescane, rari sono gli scritti
di Giovanni di Bernardone:
9
10
alcune ammonizioni (28 testi
brevi), un testamento (com 41
clausole), le Regole, il Forma
vivendi Sanctae Clarae data,
lettere e frammenti oltre alle
lodi e preghiere, e alla canzone Audite Poverelle. Vita e
racconto sembrano coincidere. Mi spiego meglio.
La scrittura è narcisistica. E
non credo che un frate minore
dovesse occuparsi di scrivere
motivato dalla bellezza poetica.
Si spera che gli scritti di un santo, dal mio punto di vista, siano
pratici: interlocuzioni con uomini e con Dio che non escludono la bellezza, ma non mirano ad essa. Francesco dichiara
nel suo testamento: “il Signore
mi ha dato di dire e di scrivere
con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così cercate di comprenderle con semplicità e senza commento e di
osservarle con sante opere sino
alla fine.” Esiste, pertanto, una
incompatibilità essenziale tra il
poeta e il santo. L’uomo santo
digiuna tutto il giorno, digiuna
immagini, parole, lussi. Digiuna per il desiderio di vedere
Dio, desiderio che è amore per
l’assenza-presenza, secondo
Giovanni della Croce. Il santo
si fa minore, non ha legami, se
non quello di stare con Dio. Lo
scrittore non è così. Eppure scrivo per il santo, il frate minore,
e per il poeta. Capisco intanto
che, così come Adélia, anche a
me piacerebbe voler essere minore, per essere maggiore. È difficile capire tanta incoerenza...
Domine, miserere nobis! O nelle parole di Manuel Bandeira10,
grande tra i grandi che pure si è
ricordato di Francesco d’Assisi,
“sono poeta minore, perdonate!” E, a mia volta, sono un critico minore, scusate!
(Traduzione di
Anna Fracchiolla)
Mc. 9, 33-37, Mt. 18, 1-5; Lc. 9, 46-48.
Poesia di Manuel Bandeira in: http://www.releituras.com/mbandeira_testa.asp
11
Giovanni Verga e
l’idealizzazione del
verismo in “Nedda”
G
iovanni Verga nacque a
Catania, in Sicilia, il 2
settembre 1840. A quindici anni scrisse il suo primo
romanzo, intitolato Amore e
Patria. Dopodiché, nel 1858,
s’iscrisse alla Facoltà di Legge dell’Università di Catania.
Ma, non essendosi adattato
allo studio delle leggi, lasciò
l’università e si trasferì a Firenze. Durante questo periodo, il suo stile letterario era
quello del Romanticismo e
cercava di rappresentare gli
ambienti dell’alta società,
principalmente della città
dove risedeva.
Ma, nel 1874, convertitosi
ai canoni del verismo, Verga
cambiò il suo modo di scrivere. A partire da allora, abbandonò gli ambienti dell’alta società, le storie di donne
depravate e di artisti disillusi,
il vivere di un grande amore, per dedicarsi a un mondo
molto sconosciuto dagli stessi
italiani. Fu in questo stesso
anno che scrisse il suo racconto “Nedda” e che ebbe inizio
la sua seconda fase letteraria,
quando aderì definitivamente
alle nuove idee del verismo.
La realtà che possiamo scorgere in questo racconto è la
Silvana de Gaspari
(Univ. Federal de Santa Catarina)
stessa che incontriamo nella
raccolta di racconti intitolata
Vita dei campi e nel romanzo
I Malavoglia. In quel momento, all’autore, ciò che importava erano gli ambienti dei
piccoli paesi siciliani, la triste
vita di una contadina, l’amore
come conforto momentaneo
ai dolori del vivere una triste
esistenza ed anche l’esatta
individualizzazione di una situazione sociale.1
Verga, nella sua fase verista, passò a rigettare i costumi, la morale e il mondo
ideale borghese, con la sua
falsa sensibilità, i suoi falsi
sentimenti, i suoi falsi ideali
e tornò a quegli strati sociali dove le leggi borghesi si
manifestavano con maggior
chiarezza: il mondo degli
oppressi. La scoperta di una
nuova visione di mondo gli
permise di capire la società
che lo circondava. Nei suoi
racconti, egli cercava di mostrare la verità rappresentata
dalla vita dura dei lavoratori
siciliani. Per lui non c’era fantasia, non c’era immaginazione, tutto era permeato di crudeltà, ma non di una crudeltà
generata dalla natura umana,
ma da una crudeltà che esisteva nonostante gli uomini,
creata dall’ambiente. Ambiente che condiziona la vita
delle persone e non dà loro
condizioni per sopravvivere
in altro modo. Ai personaggi
umili di Verga non è promesso il regno dei cieli, e neppure la riconciliazione con la
vita qui sulla terra, poiché essi
non guadagnano nulla con la
loro umiltà, dal momento che
nessuna gloria, ricompensa o
compensazione li aspetta.
Il nostro autore, per questo
suo comportamento, è considerato uno scrittore tragico,
dal momento che descrisse
la crudeltà della vita. Per lui,
1
Già alla fine della sua vita, dichiarò che il suo maggior dolore in quanto scrittore era il non essere riuscito a terminare il Ciclo dei vinti (composto da alcuni romanzi come I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo).
12
il tragico avrebbe bisogno di
forze contrarie che si sollevino contro di esso. L’uomo
starebbe in mezzo a ciò, e
sentirebbe la sua esistenza
condannata alla distruzione.
Tutti i personaggi di Verga
sono vinti, anche quelli delle sue prime opere: l’uomo
è sempre è sempre vinto da
quella cosa da cui non può
sfuggire, o una passione o
uno spirito più tenace, di dedizione più rassegnata, o una
legge dura e inesorabile della
vita, che lo lega indissolubilmente a un destino, facendo
tacere volontà e sentimenti. Nei suoi primi romanzi,
questa intuizione della vita
rimane superficiale e artisticamente inefficace, perché
applicata a una società vuota
e falsa. Ma rivela tutta la sua
ricchezza e valore una volta
che lo scrittore seppe guardare alla vita così come essa si
presentava alla gente povera
di Sicilia, molto vicina a lui
nell’animo, nel sangue, negli
affetti, nei pensieri, così autentica nel vivere una esistenza elementare e primordiale,
ancora al di là della civiltà e
dalle sue finzioni borghesi,
a livello di istinto e di totale
immediatezza e spontaneità.
2
Per l’autore, il più umile è il
più sano moralmente, perché
non si arrende e lotta senza
risparmio fino alla fine, anche
se rassegnato a perdere.
“Nedda” è una novella
nata dalla stanchezza dell’autore in rapporto agli ambienti
mondani, che narra la storia
di una povera e maltrattata
contadina, che s’innamora di
un giovane del suo paese. Da
questo amore Nedda rimane
incinta, ma alla fine muoiono
il suo ragazzo e la sua bambina appena nata. Nedda,
allora, rimane sola nella sua
vita e nella sua miseria. Questo racconto rappresentò il
primo passo di questa nuova
ispirazione e, in quanto tale,
è la prima novella di Verga realmente importante, forse la
prima in senso assoluto. Oltre a rappresentare l’interesse
per il documento umano, il
racconto esce dall’indirizzo dell’autobiografismo per
inaugurare un’altra tendenza.
Il testo fu pubblicato nella prima raccolta di racconti di Verga, Primavera e altri racconti,
del 1877. E, dopo, ebbe un
posto anche in Vita dei campi, del 1880.2
L’autore del racconto dice
che è il fuoco domestico, il
camino, ad ispirarlo a raccontare questa storia. Nedda,
il personaggio principale, si
trova intorno al grande focolaio della fattoria di Pino, vicino all’Etna. Allo scomparire
del fumo del fuoco, appare la
figura del nostro personaggio,
fra le compagne lì riunite per
lavorare alcuni giorni. Lavorano nella raccolta delle olive.
Ma, in quel giorno, non avevano potuto lavorare a causa
della pioggia. Le amiche chiedono alla giovane di cantare
una delle sue belle canzoni,
ma la ragazza, triste pensando alla madre che si trova in
punto di morte, resiste alle
richieste. Un altro giorno arriva e la pioggia continua, e
Nedda diventa sempre più triste pensando alla madre moribonda e alla sua condizione
miserevole. Quando arriva il
sabato, il giorno della paga,
la tristezza di Nedda aumenta allorché ella vede che non
ha ricevuto quanto sperato e,
invece di protestare, piange
per il suo triste destino. Il figlio del padrone, nel vederla
triste, vuole pagarle l’intero
salario, ma il fattore glielo
proibisce, adducendo che gli
altri avrebbero protestato e
rivendicato lo stesso diritto.
Lei, allora, prende il cammino verso casa.
Arrivando a Ravanusa, incontra Janu, il suo ragazzo,
che sta ritornando con i suoi
buoi da Piana. Nedda adesso sembra essere più felice,
ma, la domenica, con la visita del medico, scopre che
per sua madre non ci sono
più speranze. Il prete aveva
dato dell’olio santo per ungere la malata, ma il medico
aveva prescritto un’altra medicina che è lo zio Giovanni
a dover comprare. Le ultime
parole dette dalla moribonda
sono per sapere quanto esse
debbano allo zio Giovanni.
Nedda conforta la madre dicendo che avrebbe lavorato
per pagare il dovuto. La giovane ascolta un uccellino che
canta nell’esatto momento
in cui sua madre muore. La
notte, dopo il funerale, lo
zio Giovanni visita Nedda e
le dice di non voler ricevere
nulla. L’avverte anche che ad
Aci Catena pagano una lira al
giorno a quelli che mettono le
arance nelle cassette. Nedda
VERGA, G. I grandi romanzi e tutte le novelle. Roma: Grandi tascabili Economici Newton, 1992.
13
accetta il consiglio dello zio
e parte con un solo pane che
egli le aveva dato. Di nuovo il
nostro personaggio ascolta il
canto dell’uccellino.
In una certa notte, ascolta
la musica di Janu. In un altro
giorno, di mattina, una domenica, lo vede tutto vestito
a festa: era stato allontanato
dal suo lavoro, perché là dove
lavorava si era ammalato.
Nell’incontrarsi egli le dà un
fazzoletto. Lei va, allora, alla
messa di sua madre e tutte le
altre ragazze possono vedere
il regalo che aveva ricevuto.
Janu decide di accompagnare Nedda, il lunedì, fino
a Bongiardo, dove lei stava
lavorando. Lo zio Giovanni,
prevedendo che qualcosa
sarebbe potuto accadere fra
i due, avverte il giovane che
quella situazione non era
molto appropriata e Janu gli
dice che il suo desiderio è di
sposarsi con Nedda. A Bongiardo, c’è lavoro per tutti e
Janu, sempre cortese, fa quel
che può per alleviare il carico
di lavoro della sua ragazza.
Ma il soprintendente, vedendo ciò, ne approfitta per ridurre la paga della giovane.
Tutti dormono insieme e la
coppia tenta di consolarsi vicendevolmente.
La domenica, i due tornano a Ravanusa e, durante un
picnic, il giovane si dichiara
a Nedda. E il vino, il bel paesaggio e la solitudine dei due
li conducono a fare l’amore.
La giovane resta incinta ed è
condannata da tutti. Perfino
il suo salario è ridotto per il
fatto di non poter fare sforzi.
Il ragazzo ora è di ritorno a
Piana e gli ritorna anche la
febbre. Al suo ritorno racconta a Nedda che ha speso
tutto quel che aveva e che
voleva andare a Mascaluccia, dove sarebbe comincia-
14
ta la raccolta delle olive. Tre
giorni dopo, il ragazzo viene
portato morto a casa a causa di una caduta dalla cima
di un albero di oliva. Nedda
non lavora più, poiché la sua
pancia è già cresciuta molto e
lo zio Giovanni l’aiuta come
può. Il bambino, al momento
della nascita, è molto debole,
perché la madre non ha latte
per allattarlo, e muore subito
dopo esser nato. Nedda, invece di essere triste, si vede rassegnata e consolata davanti al
corpo morto della figlia che,
secondo lei, non sarebbe passata per le stesse sofferenze
della madre e vede in ciò una
benedizione che gli è stata
concessa dalla Vergine Maria.
“Nedda” è il primo racconto nel quale l’autore si
riferisce ad una società diversa da quella dei romantici. In
questa fase, egli comincia a
parlare a proposito dei problemi della sua terra, la Sicilia
del XIX secolo.
I personaggi, presentati
nelle narrative veriste di Verga, hanno una vita, ma sempre mischiata all’ambiente.
Questo perché, per l’autore,
tutto sta allo stesso livello:
animali, personaggi e terra. Tuttavia, questo non ha
l’obiettivo di rendere inferiori
i personaggi e sì di valorizzare ciò che sta attorno all’essere umano.
In “Nedda”, l’autore distribuì la sua materia partendo da un metodo, una linea
di condotta apparentemente
uguale a quando scrisse Eva
(romanzo del 1873). Verga
trascrisse i momenti funzionali della vita della quale
voleva essere partecipe. Egli
sarà il primo autore a servirsi
del monologo interiore.
I paragrafi di “Nedda”
sembrano coincidere con
il calendario ufficiale di un
determinato anno, ma individuano un ripetersi di cicli,
come un ritorno delle epoche. Nedda è come quegli
eroi epici che prestano la
loro biografia a una serie di
fatti, che avrebbero potuto
lasciare memoria di sé, avvenimenti molto distanti gli uni
dagli altri, nel corso di varie
generazioni, e che dopo, nel
racconto epico, permangono o si riuniscono in un solo
personaggio.
Per i personaggi umili
dell’autore non esiste la promessa del regno dei cieli e
neppure la riconciliazione
con la vita qui sulla terra. La
posizione in cui Nedda si trova all’inizio della narrativa,
accovacciata, è già una dimostrazione del suo comportamento tipico da umiliata.
Nedda ha l’impossibilità di
reagire ai colpi della vita. E
l’umiliazione parte anche dalla sua natura passiva, da un
modo di essere, del quale non
aspira a prendere coscienza.
Neppure la fame crea in lei
un diritto. Basta a questa ragazza avere un lavoro.
I personaggi più caratteristici di Verga possiedono
una psicologia ridotta, vicina
a quella degli animali. I loro
animi tenaci, fedeli, umili ricordano l’asino che le prende
con gli occhi malinconici, o il
cane che sopporta le bastonate del padrone e si accovaccia
ai suoi piedi. Nedda umiliata
è passiva allo stesso modo,
ma con una specie di sicurezza di ciò che deve fare e subire nella sua passività.
Tutto ciò è espresso senza
retorica, con un linguaggio
nuovo, nel quale sembra che
lo scrittore non si rifletta in
quello che scrive, ma mostri
la realtà come è vista dai suoi
personaggi, nella sua sintassi
elementare e nella sua lingua nativa. L’autore crede
che il narratore non possa
coinvolgersi con la storia. La
tendenza a una rappresentazione oggettiva e impersonale della realtà, secondo i
canoni del naturalismo francese, è espressa dallo stesso
Verga quando dice di credere che il trionfo del romanzo,
che è la più completa e più
umana opera d’arte, verrà
solamente quando la mano
dell’artista diventerà completamente invisibile.
L’interesse principale del
verismo è scoprire il carattere primitivo elementare delle
classi subalterne, nelle quali
l’elemento umano, non contaminato dai rapporti sociali
complessi e dalle intricate
implicazioni
intellettuali,
può essere studiato nella sua
dimensione più pura e immediata. È in questo momento
che un mondo fino ad allora sconosciuto ai borghesi,
quello dei braccianti e pescatori siciliani, si offre agli
occhi di un vasto pubblico,
giust’appunto negli anni in
cui la questione meridionale
viene portata alla luce attraverso una ricerca governativa
e dagli scritti di intellettuali
meridionalisti. A partire da
allora, fu creata una specie
di scuola verista meridionale,
alla quale aderirono autori di
diversi livelli.
Gli ultimi anni del XIX
secolo portarono all’esaurimento l’esperienza verista,
ma, a partire da quel momento, le nuove classi sociali
proletarie avevano raggiunto
piena dignità di rappresentazione letteraria. Il tentativo,
operato dal verismo, di affermare i diritti di un’arte che
fosse capace di dare la com-
pleta illusione di realtà, aveva iniziato un movimento di
rinnovamento nel panorama
letterario italiano.
Il verismo, fenomeno letterario essenzialmente italiano, ha avuto in Luigi Capuana il suo maggior teorico
e in Giovanni Verga il suo
maggior narratore. Le linee
centrali di tale movimento
erano: l’impersonalità, la fedeltà alla realtà, la scrittura
malleabile, capace di adattarsi agli stessi registri narrativi dei diversi livelli sociali
dei personaggi esaminati. Ma
la novità dell’opera di Verga
rimase in parte incompleta
durante la vita dello scrittore, poiché è comune trovare
critici che dicono mancare,
nella sua narrativa, l’elemento spettacolare, il fatto
emozionante. La sua lingua
fu criticata come povera e
scorretta. Ma Verga richiamò l’attenzione del pubblico
italiano, soprattutto come lo
scrittore che rivelava all’Italia, da poco unificata, certi
aspetti poco conosciuti della vita del popolo siciliano.
Oggi, l’autore è conosciuto
come il più grande narratore
italiano dell’Ottocento, dopo
Manzoni; e gli ambienti da
lui rappresentati con grande
originalità espressiva nei suoi
racconti sono, soprattutto,
siciliani, ma danno voce a
mentalità, valori, convinzioni che si trovano in tutta
Italia. L’opera di Verga è inconfondibile, per la profonda
umanità del suo animo e per i
risultati artistici raggiunti: sul
suo modello, il verismo italiano inseguì l’ideale di una
letteratura oggettiva e vera,
specchio della vita delle più
dimenticare regioni d’Italia.
(Traduzione di
Andrea Santurbano)
15
Un romanzo
rappresentativo
della narrativa di
Grazia Deledda:
Elias Portolu
G
razia Deledda è stata
insignita del Nobel per
la Letteratura nel 1926:
era la seconda volta, dopo
Carducci, che l’ambìto premio veniva assegnato ad uno
scrittore italiano. Ma nonostante il riconoscimento internazionale la narrativa deleddiana non trova consensi
unanimi nella critica, infatti,
se da una parte la scrittrice
sarda ha avuto il sostegno di
scrittori e critici come Capuana e Momigliano, dall’altra
ha ricevuto giudizi più moderati, come quelli di Croce e
Sapegno, o addirittura severi,
come nel caso di Renato Serra. De Michelis rileva questi
giudizi discordi e parla di
una “dubbiezza che accompagnò a lungo la critica nei
confronti di lei, fra deferenza
sbrigativa, altissimi consensi
e sprezzanti rifiuti”1.
Deledda esordisce ancora molto giovane nella letteratura, ma è a partire dal
Novecento, e in particolare
Carolina Pizzolo Torquato
(Universidade Federal do Ceará)
nei primi due decenni, che si
concentrano le sue opere di
maggior rilievo: Elias Portolu
(1903), Cenere (1903), Chiaroscuro (1912), Canne al
vento (1913), Marianna Sirca
(1915) e La madre (1919).
Alcune opere risalenti a un
periodo posteriore restano
comunque importanti – si
pensi a romanzi come Annalena Bilsini (1927), Il paese
del vento (1931) e soprattutto Cosima (1936), “con il
suo valore di estremo autoritratto e quasi di testamento”, come ha sottolineato
Sapegno2 –; ma alla stagione
migliore della scrittrice sarda
corrispondono quelle opere
in cui si avverte quell’impeto proprio di uno spirito
inquieto e temerario, che si
ribella ai pregiudizi e alle
convenzioni, differentemente dall’atteggiamento più
rassegnato che prevale nelle
opere successive.
Accostata dai critici ora al
verismo ora al decadentismo,
Deledda sfugge ad un preciso inquadramento dato che il
suo isolamento, cioè, l’esiguo
contatto con le esperienze
letterarie e culturali dei contemporanei, caratterizza non
poco la sua produzione letteraria. Forse ai primi lettori
della scrittrice sarda sembrava naturale inquadrare la sua
narrativa nell’àmbito del verismo, ma
da un’adesione profonda
ai canoni del verismo
troppe cose la distolgono,
a cominciare dalla natura
intimamente lirica e
autobiografica dell’ispirazione,
per cui le rappresentazioni
ambientali diventano
trasfigurazioni di un’assorta
memoria e le vicende e i
personaggi proiezioni di una
vita sognata3.
Queste caratteristiche sono
già presenti nel romanzo Elias
Portolu, pubblicato tra agosto e ottobre del 1900 nella
“Nuova Antologia”, e apparso
in volume solo nel 1903. Il
romanzo apre la stagione migliore di Deledda e segue la
struttura compositiva spesso
applicata dalla scrittrice, così
descritta da Spinazzola:
la trama si appoggia a
un antefatto, svoltosi fuori
della località paesana dove
la vicenda è ambientata:
in città o addirittura sul
continente. C’è stato un
tempo in cui il personaggio,
per sua iniziativa o per
concorso di circostanze,
ha trascorso un’esperienza
che lo ha separato dalla vita
della comunità. Quando
l’azione inizia, da quelle
premesse stanno maturando
delle conseguenze che,
drizzandosi davanti al
protagonista, lo chiamano a
un rendiconto e a una scelta.4
Per quel che riguarda
Elias Portolu, l’azione inizia
quando il protagonista ritorna a Nuoro dopo alcuni anni
trascorsi in continente, dove
scontava una condanna in
carcere. Al rientro in famiglia, Elias viene a conoscenza del fatto che suo fratello
più grande, Pietro, si sposerà
a breve tempo. L’inaspettato
amore per la cognata genera
il conflitto di coscienza del
protagonista, come si osserva
in questo brano:
Il mal seme aveva
germogliato; giorno per
giorno il vaso s’era colmato
d’una goccia di più e
stava per traboccare: Elias
s’abbandonava segretamente
e interamente alla sua
4
1
2
3
16
DE MICHELIS, Eurialo. Novecento e dintorni. Milano: Mursia, 1976.
SAPEGNO, Natalino. “Prefazione”. In: DELEDDA, Grazia. Romanzi e novelle. Milano: Mondadori, 2007, p. XI-XXIII.
Id.
5
6
7
passione. Pensava: “Non lo
saprà mai nessuno, e tanto
meno lei; ma vederla, ma
guardarla, chi me
lo impedisce?
Che male faccio?”5
Se, da un lato, il protagonista non riesce ad evitare l’amore per Maddalena,
dall’altro si sente sempre più
dominare dalla colpa e dal
rimorso, come si capisce da
queste sue riflessioni: “Come
io sono vile! [...] Non mi salverò mai più: io sono composto di male”6.
Elias si trova così costantemente in bilico tra la morale e la passione travolgente,
senza mai rendersi conto che
è lui stesso a creare e a rinnovare ogni volta gli ostacoli
che impediscono la realizzazione del suo desiderio amoroso, anche quando i suoi
sentimenti appaiono plausibili, come in occasione della morte del fratello. Infatti,
quando Maddalena rimane
vedova e Elias intravede l’opportunità di sposarla e di far
crescere il bambino – che è
suo a tutti gli effetti –, senza che questo sia motivo di
scandalo, decide invece di
farsi prete e allontanarsi ancora una volta dalla passione
che lo tormenta.
I critici riconoscono nella
letteratura della scrittrice sarda “un’austera e tragica coscienza del destino umano”:
l’uomo è sempre impegnato
“in una lotta disperata col
fondo oscuro dei suoi istinti,
tentato e sconvolto dalle passioni, cui egli può di volta in
volta indulgere, ovvero sforzarsi di tenerle a freno, ma
non mai vincere e dominare
con una risoluzione ferma e
definitiva”7. Questa concezione piuttosto pessimista
del destino umano è particolarmente visibile in Elias Portolu: il protagonista prova in
tutti i modi a vincere la sua
passione e il suo istinto, ma
nessuna delle risoluzioni che
prende, nemmeno quella di
farsi prete, riesce a risolvere
in modo definitivo la sua crisi
di coscienza.
Il dramma familiare non
viene mai a gala, non arriva
mai al punto di esplodere in
pubblico: i genitori s’accorgono dell’evidente disagio
di Elias, ma non ne capiscono il motivo, e lo stesso
Pietro muore all’insaputa sia
dell’amore tra il fratello e la
moglie, sia della vera paternità del figlio. Benché il
protagonista si confidi con
zio Martinu e prete Porcheddu, il suo tormento si risolve
all’interno della propria coscienza, ragione per cui non
riesce mai a darsi pace. Il
romanzo, dunque, si basa su
uno degli aspetti più caratteristici della letteratura di Deledda, cioè, “l’insistito tema
morale, la rappresentazione
della colpa e della passione,
con la conseguente dialettica del rimorso e del castigo,
SPINAZZOLA, Vittorio. “Prefazione”. In: DELEDDA, Grazia. Romanzi sardi. Milano: Mondadori, 1990, p. XIII-XLIII.
DELEDDA, Grazia. Romanzi e novelle. Milano: Mondadori, 2007.
Id.
SAPEGNO, op. cit.
17
della disperazione e della
redenzione”8.
La narrativa si divide, si
può dire, in una struttura binaria: da una parte ci sono gli
avvenimenti della vita quotidiana e familiare, nei cui limiti si sviluppa la storia d’amore
tra i due cognati, e dall’altra
ci sono i momenti di solitudine di Elias, prima nelle lunghe
giornate trascorse nella tanca,
e poi nel seminario. Se durante la convivenza coi familiari
Elias alimenta segretamente
il suo amore per Maddalena,
durante i lunghissini periodi
di solitudine cerca di stroncarlo e di combatterlo, senza
mai riuscirci veramente.
Si alternano così momenti d’azione e di dialogo
con la famiglia e momenti
di riflessione e di angoscia.
Quando si accorge di trovarsi
al limite della ragionevolezza, quando si rende conto
che la presenza di Maddalena lo può portare a seguire i
propri istinti al di là delle conseguenze, Elias sfugge alla situazione e cerca rifugio nella
tanca, dove il suo stato d’animo sembra amalgamarsi con
il paesaggio, come si nota in
questo frammento:
La tanca dei Portolu era
stata anni prima diboscata,
e adesso stendevasi aperta,
vasta, battuta dal sole. [...]
I pascoli lussureggianti,
al cader della primavera,
prendevano un verde dorato
luminoso: i cardi aprivano
i loro fiori d’oro e di viola, i
rovi sbattevano le loro rose
selvatiche. Solo sotto gli
alberi e nelle distese umide
Id.
DELEDDA, op. cit.
10
SAPEGNO, op. cit.
11
DELEDDA, op. cit.
12
Id.
13
SAPEGNO, op. cit.
l’erba restava verde e fresca.
[...] Elias si sentiva fisicamente
bene in quel luogo solitario
e selvaggiamente bello, dove
era cresciuto, dove era scorsa
la sua prima giovinezza:
giorno per giorno rivedeva
e riconosceva ogni angolo,
ogni recesso della tanca.9
Questo frammento ci fa
notare un altro importante
e caratteristico aspetto della
narrativa di Deledda: la lirizzazione del paesaggio. Nelle
parole di Sapegno, “tra i diversi elementi che confluiscono
nella rappresentazione, quello che a tutta prima sovrasta
nell’impressione del lettore è
il motivo di fondo del paesaggio o dell’ambiente”10. E in
questo paesaggio, in questo
ambiente, personaggi e natura sembrano fare un tutt’uno,
rappresentano elementi amalgamati in armonia. In questo
modo, se la stagione primaverile trascorre gradevolmente
per Elias nella tanca, lo stesso
non si può dire dell’inverno,
come riconosce il narratore:
Veniva il freddo, l’immensa
tristezza dell’inverno nella
solitudine; e la costituzione
malandata di Elias se ne
risentiva profondamente. I
lunghi giorni di pioggia, di
neve e di strapazzi – giacché
è nell’inverno che il pastore
sardo, il cui gregge e lui stesso
vivono senza riparo, lavora
e soffre di più, – il disagio
della capanna sempre piena
di fumo e di vento, la lotta
contro gli elementi, finirono
con l’esaurire le forze fisiche
e morali di Elias.11
Con l’arrivo del freddo la
solitudine non è più gradita, le fatiche del lavoro, così
come le fatiche dovute alla
lotta contro la natura e contro i propri sentimenti, portano Elias ad un esaurimento,
al limite delle proprie forze
e della propria salute fisica
e mentale: è dunque nell’inverno, come sottolineato dal
narratore, “che il pastore sardo lavora e soffre di più”12.
Il turbamento esistenziale di
Elias sembra non avere mai
fine, e nelle difficili giornate
di quella lunga stagione sembra diventare ancora più pesante, quasi insostenibile.
Nell’ambiente fatto di primavere dolci e di inverni tristi
e solitari, e particolarmente caratterizzato da brughiere aspre,
fichi d’India, greggi di pecore,
colline e villaggi sperduti, s’immedesimano gli stati d’animo
dei personaggi e gli elementi
della natura. Secondo Sapegno,
bisogna “sottolineare il particolare tono di questi paesi e ambienti, intrisi di nostalgia e di
lirismo autobiografico, sfumati
e trasfigurati nel ricordo”13.
Nostalgia e lirismo sono
forse le parole che meglio
rappresentano il legame e la
radice comune tra il motivo
paesistico e la tematica morale di Elias Portolu. Questi due
elementi caratteristici della
letteratura di Deledda appaiono fortemente riuniti per la
prima volta in questo romanzo che sembra non solo precisare i confini sentimentali e
geografici dell’universo poetico della scrittrice sarda, ma
anche segnare l’inizio della
sua stagione migliore.
Vent’anni
senza Moravia:
uno scrittore
dimenticato?
Silvia La Regina
(Università G.d’Annunzio – Pescara)
P
assati vent’anni dalla
morte di Alberto Moravia
(1907-1990), possiamo
tessere alcune brevi considerazioni sulla sua opera e sulla
sua fortuna, principalmente
sulla forte dicotomia fra quella in vita e quella postuma.
Infatti ci sono autori che, misconosciuti in vita, vengono
(ri)scoperti in modo talvolta
clamoroso dopo la morte:
penso per esempio a Fernando Pessoa, esempio principe di scrittore che ha avuto
gigantesca fama postuma
contrapposta all’indifferenza
quasi totale per le sue opere
finché era vivo. Altri conoscono la fama già in vita, ed è il
caso di Jorge Amado, e, appunto, Alberto Moravia; scrittori che cito insieme, perché
entrambi, in contrasto con la
grande celebrità, alleata al
successo di vendite, talvolta di critica, di cui godettero da vivi, entrambi dunque
sono stati in qualche modo
dimenticati o messi da parte
dopo la morte (quella di Amado nel 2001). Già dieci anni
fa ci si interrogava su questo
fragoroso silenzio sull’opera
di Moravia: in un interessante
articolo del 2005, Paolo di Paolo rievoca le scarse celebrazioni di cinque anni prima,
nelle quali già serpeggiava la
perplessità per l’assenza di
Moravia; fra tutte, un articolo
in prima pagina del «Corriere
della Sera», a firma di Antonio
Debenedetti, che scriveva: “I
romanzi di Moravia si leggono sempre meno, mentre di
questo autore, che rimane tra
i più grandi del nostro Novecento, non si scrive quasi più.
Diminuiscono persino le tesi
di laurea sull’autore de Gli indifferenti. Un disastro!”1.
Moravia,
intellettuale
impegnato, attivo critico cinematografico - linguaggio
col quale manteneva una feconda collaborazione, se si
pensa a quanti film sono stati
tratti dai suoi romanzi e racconti2, e che coltivava con
la sua rubrica settimanale su
«L’Espresso» - ha lasciato interessanti e acuti réportage di
viaggio3, ma soprattutto una
8
9
18
apud Paolo di Paolo, “Tornare a Moravia”, http://www.italialibri.net/contributi/0511-1.html.
Fra i film alla cui sceneggiatura Moravia ha partecipato e quelli tratti dai suoi libri, quasi 60 titoli, per la regia di De
Sica, Bertolucci, Monicelli, Godard, Bolognini, Soldati, Damiani, Blasetti...
3
Fra tutti, La rivoluzione culturale in Cina, del 1968, e tre volumi africani, A quale tribù appartieni? (1972) Lettere dal
Sahara (1981 e Passeggiate africane (1987).
1
2
19
vasta produzione di romanzi,
romanzi brevi e racconti che
fanno di lui uno degli scrittori più prolifici del XX secolo
italiano e principalmente un
unicum nel panorama delle lettere peninsulari. Infatti
Moravia, fin dal suo esordio,
avvenuto precocemente nel
1929 con quella che forse è
rimasta la sua prova migliore, Gli Indifferenti, accanto
a una costante e acutissima
capacità di penetrazione psicologica mostra la capacità
di svincolarsi da una certa
tradizione tutta italiana - e
dolorosamente provinciale,
di una provincia ottusa dalla
dittatura fascista - paludata
e ingessata, di tarda propaggine di un decadentismo
malamente invecchiato che
si esplicava in uno stile e in
una tematica, in una parola,
vecchi. Moravia, più vicino
culturalmente alla tradizione
francese e russa, scrive un
romanzo che possiamo definire esistenzialista ed inventa
uno stile semplice e chiaro,
comunicativo e diretto, di osservazione asettica e crudele;
ne Gli Indifferenti, l’autore riesce a mettere in evidenza gli
aspetti più grotteschi della realtà attraverso lo studio realista e quasi da entomologo dei
suoi personaggi borghesi, deboli, apatici, senza ideali né
prospettive, quasi prigionieri
in una pania morale in cui si
dibattono sotto lo sguardo di
Moravia. L’uomo che guarda
(1985) sarebbe dunque proprio Moravia… E infatti lo
sguardo è l’elemento principe
nelle opere dello scrittore romano, a conferma, una volta
di più, della vitalità e forse
dell’inevitabilità del rapporto
col cinema: sguardo come
cinepresa che filma il reale
4
20
Citato in di Paolo, ibidem.
scrutato con un’attenzione
che lo rende quasi iperrealtà.
Realismo, dunque, predominio dello sguardo, assenza
di partecipazione politica diretta (vivace invece sui giornali, sulle riviste, nei dibattiti) e il vero motore della sua
narrativa, il sesso. Il sesso
per Moravia è un principio
di identità, una formula di
traduzione della realtà, una
Weltanschauung carnale ma
mai solare. Qui torniamo al
paragone iniziale con Jorge
Amado: anche per lo scrittore
grapiúna, infatti, il sesso è un
elemento portante - e come
per Moravia, col passare degli anni via via più centrale
nella sua opera narrativa - ma
è espressione di vitalità, di
allegria, di cambiamento in
positivo del mondo: per fare
solo due esempi, in Dona Flor
e seus dois maridos l’energia
del desiderio sessuale di Flor
riporta in vita il marito Vadinho, mentre Teresa Batista, nel
romanzo omonimo, torna vergine ogni volta che s’innamora. Invece per il romano - che
comunque, anche con qualche tardiva caduta di gusto
(ma Jorge Amado ha scritto A
descoberta da América pelos
turcos!) non è mai volgare né
pornografico - il sesso in genere è simbolo di decadenza,
sofferto, causa sensi di colpa,
spesso repulsione e disgusto.
L’iniziazione al sesso è un rituale costellato di angoscia e
dolore, come in “Agostino”
(1944) o “La disubbidienza”
(1948), due romanzi brevi
intensi e preziosi; la donna è
quasi sempre minacciosa, misteriosa e paragonata in più
occasioni ad un grande serpente divoratore - simbolismo
trasparente da parte di un autore la cui chiarezza non diviene però mai semplicismo.
Altri temi fondamentali il
denaro, quasi sempre connesso al sesso e visto come
strumento interpretativo della
realtà, e la famiglia: nucleo
centrale del romanzo in sé, e
anzi della tragedia - per Moravia il genere più alto - per
lo scrittore, che infatti, nel libro-intervista Vita di Moravia,
a cura di Alain Elkann, dice:
“La famiglia è l’argomento
principe di tutta la letteratura
occidentale : da Eschilo in poi
è difficile trovare uno scrittore che non si occupi della famiglia; in questo senso sono
comune e normale. Perché
la letteratura si occupa della
famiglia? Perché il nucleo familiare è un microcosmo in
cui, come si dice, si specchia
il macrocosmo”4.
A vent’anni dalla sua morte, come scrivevo all’inizio,
cosa resta di Moravia? Uno
scrittore di sinistra, lucido
e onesto, detestato dai benpensanti per le sue posizioni
definite oltraggiose (è messo
all’Indice nel 1952), autore
di libri ancora oggi godibili e
anzi di rara scorrevolezza; un
intellettuale coerente e integro, forse per questo sempre
più inviso in un’Italia in cui il
comune sentire sembra sempre più ondivago e vigliacco.
Massimo Bontempelli
nel sistema letterario
brasiliano: il caso de
“O colecionador”
Q
uesto articolo tratta della riscrittura di uno dei
racconti dello scrittore
italiano Massimo Bontempelli
nel sistema letterario brasiliano. Il racconto “O colecionador”, la cui prima divulgazione in lingua italiana è avvenuta durante i primi anni Dieci
del secolo scorso, è stato pubblicato in portoghese nel nono
volume dell’opera Mar de
Histórias: antologia do conto
mundial, nel 1999. I traduttori
Aurélio Buarque de Holanda
Ferreira e Paulo Rónai hanno
intrapreso un ampio processo
di riscrittura di racconti mondiali riconosciuti nei rispettivi
sistemi letterari e, in questo
modo, hanno posto la narrativa di Massimo Bontempelli affianco a quella di Pirandello,
James Joyce, Hermann Hesse,
Ryonosuke Akutagawa, Saki,
Chesterton, Miguel Unamuno, Avertchenko, tra gli altri;
riunione, questa, che si è mostrata diversificata grazie al
fatto di aver privilegiato anche
quegli autori che erano rimasti
un poco ai margini del canone
letterario del XX secolo. Massimo Bontempelli è uno scrittore italiano che ha segnato
Arivane Chiarelotto & Patricia Peterle
Univ. Federal de Santa Catarina
il panorama culturale del suo
paese con una vasta opera
letteraria e saggistica, ma che
non ha raggiunto una significativa visibilità mondiale.
Il racconto “O colecionador”, che rappresenta Bontempelli in Mar de Histórias, si
iscrive come uno dei primi sforzi dell’autore italiano in campo
letterario. Nel 1946 egli pubblica l’opera Racconti vecchi, con
la quale divulga i lavori iniziali
della sua attività narrativa, scritti fra il 1904 e il 1914; fra di
essi, figura “O colecionador”.
In Mar de Histórias, i traduttori adottano un procedimento comune per introdurre
gli autori delle narrative elencate. Ogni racconto è pre-
ceduto da una breve descrizione del profilo dell’autore
dell’opera tradotta. Così, Bontempelli è presentato al lettore
brasiliano tramite un testo di
circa tre pagine, che riassume
la sua storia e le sue attività. Di
fronte a ciò, abbiamo un particolare trattamento dell’opera,
che merita di essere osservato:
s’interpretano opera e autore,
il che sembra essere un processo di passaggio notoriamente esteso e che implica il
concetto di traduzione.
Nell’accezione de Lefevere,
“a tradução é, certamente, uma
reescritura de um texto original
[la traduzione è certamente una
riscrittura del testo originale]”1,
quindi egli opera un intrec-
1
LEFEVERE, André. Tradução, reescrita e manipulação da fama literária. Trad. Claudia Matos Seligmann. Bauru:
Edusc, 2007, p.11
21
cio di concetti, convertendo
la traduzione nella principale
componente del processo di
riscrittura. In questo senso, la
traduzione è dunque intesa
come manipolazione, inserendosi in un terreno ideologico,
con implicazioni di potere che
possono tanto ampliare come
reprimere lo sviluppo di una
letteratura e di una società. Le
concezioni di André Lefevere
si inseriscono in un ampio movimento di revisione delle prospettive della traduzione, che
furono rese possibili anche dagli sdoppiamenti del suo campo di studio, come disciplina
autonoma, nelle ultime decadi
in occidente.
Ancorati, pertanto, al rinnovamento dell’area, gli studi
della traduzione riesaminano
lo stesso concetto di traduzione, attribuendogli valore dialogico. A questa condizione,
la traduzione passa ad essere
concepita come un processo
di riscrittura di un testo originale, il quale implica anche
l’antologizzazione, la storiografia, la critica e l’edizione.
Alla riscrittura si legano la ricezione e la canonizzazione
di opere letterarie, conservando essa il suo statuto di arte
letteraria così come l’opera
originale. Questo nuovo approccio rivede anche il luogo
dello stesso traduttore che,
nell’assumere il ruolo di mediatore culturale, definisce, fra
le altre cose, un’immagine e
un costrutto dell’opera originale davanti ai possibili lettori.
Così, è a partire dal processo di riscrittura che si disseminano le grandi opere della
letteratura mondiale, quindi,
anche questo processo contribuisce alla definizione del
canone, che, riconosciuto
nella sua dimensione ideologica, potrebbe altresì essere
denominato “alta Cultura”. Le
affermazioni di André Lefevere sono appropriate per comprendere l’inserimento di Bontempelli nel sistema letterario
nazionale ed il rispettivo riconoscimento nel campo letterario europeo e mondiale. Fra gli
anni ‘20 e ‘40, egli dirige riviste, scrive testi saggistici, pièce
di teatro, ripubblica poesie e
opere che all’inizio del secolo
avevano avuto poca visibilità.
Autore di opere di innegabile
valore letterario, Bontempelli
è tradotto solo in inglese, francese, tedesco e, in portoghese,
solo un romanzo, nel 1933:
Vita e morte di Adria e dei suoi
figli, tradotto dalla Editora do
Globo, di Porto Alegre. La produzione dell’autore italiano va
oltre le opere narrative. Nella
sua produzione intellettuale,
si distaccano anche le teorizzazioni sul realismo magico e
la contundente partecipazione
al contesto politico italiano del
periodo fra le due guerre, attraverso l’adesione e la successiva espulsione dal partito fascista. Insomma, un’esperienza
intellettuale e politica intensa,
propria di chi cercava di raggiungere l’armonia fra queste
due dimensioni della sua vita.2
Le tesi di Lefevere sul mecenatismo aiutano a capire
perché Bontempelli sia un
autore tanto controverso per
la storia letteraria. In base alla
cerchia politica che definì per
sé e all’adesione al partito fascista, poté beneficiarsi di una
qualche circolazione internazionale per le sue opere. Ma,
sin dal momento in cui rompe
col partito, nel 1936, e prosegue la carriera in una situazione politica marginale, Bontempelli entra in una progressiva
decadenza, fase che comincia
ad aggravarsi con il suo ingresso nel partito comunista,
quando viene eletto senatore
nel 1948. Dunque, come spiegare se non con le forze occulte del mecenatismo il fatto che
l’autore, che grazie al successo
delle sue opere era stato nominato membro dell’Accademia
d’Italia nel 1930, sia stato un
fiasco nella riedizione delle
opere negli anni ‘70?3
Per fare un passo avanti
in questo dibattito, una pista
può essere questa antologia
di racconti brasiliana. Nel
complesso, il testo tradotto e
il citato preambolo storico, in
quest’opera, possono essere
intesi come dimensioni della riscrittura, considerando le
definizioni di Lefevere. Si consideri che il riassunto biografico presentato offre un ricco
materiale illustrativo di quello
che può essere un processo di
manipolazione ideologica che
si fa presente nella riscrittura.
Nel caso particolare della
presentazione di Bontempelli,
può essere identificato un processo manipolatorio che merita attenzione e che dev’essere
qui discusso. In primo luogo, è
possibile notarlo quando i “riscrittori” s’impegnano nel definire un’immagine dello scrittore, anticipando, dunque, che
egli era portatore di una stilistica propria. Per far ciò, riassumono una delle sue narrative
2
Nell’opera L’Avventura Novecentista: dal “realismo magico” allo “stile naturale” soglia della terza epoca, Bontempelli avverte: “questo libro inopinato uno stato d’animo incline a cercare armonia tra il letterario e il politico, e rappresenta una personale esperienza ormai nettamente conchiusa” (BONTEMPELLI, 1938, p. 5).
3
Cfr. DE CAPRIO, Vincenzo; GIOVANARDI, Stefano. I testi della letteratura italiana: Il novecento. Milano: Einaudi
Scuola, 1994. p. 983.
22
e l’associano al costrutto: “Um
romance caracteristicamente bontempelliano. [...] Estilo
límpido, sereno, classicamente perfeito e equilibrado [Un
romanzo tipicamente bontempelliano. /.../ Stile limpido,
sereno, classicamente perfetto
ed equilibrato]”4; il che potrebbe anche essere inteso come
un commento elogiativo alla
poetica bontempelliana.
Nel corso della succinta
spiegazione, si distaccano anche degli aspetti della carriera
che evidenziano il suo spirito
versatile. Di fatto, tutte le informazioni procedono, purtuttavia si consideri che il brano che
è stato scritto per descrivere la
versatilità dello scrittore si avvicina molto più ad un costrutto
dell’instabilità professionale di
Bontempelli. Questo passaggio ci sembra appropriato per
esplicitare il carattere manipolatorio che la traduzione o il
campo maggiore della riscrittura può avere, come afferma
Lefevere. In poche righe è riassunta la traiettoria intellettuale, senza lasciar chiaro che si
tratta di più di cinquanta anni
di produzione giornalistica e
letteraria. In questo modo, la
sottrazione della temporalità
degli eventi citati corrobora
un’immagine di ribellione che
sfiora i limiti dell’“inconsequenzialità” di Bontempelli.
Dissociare le opere e i fatti di
un autore dal suo tempo storico è un’importante forma di
manipolazione que può essere
operata attraverso la riscrittura.
L’atemporalità, in questo caso,
lo allontana dalla cultura o lo
destituisce della tradizione, minando gli elementi storici che
sostennero il comportamento
inquieto dell’autore. Questo
passaggio, in questo caso, si
presta solo ed esclusivamente
a condurre il lettore ad un sospiro di sollievo per non aver
mai sentito parlare di Massimo
Bontempelli; e ad avere, pertanto, anche una visione molto
parziale del tutto.
L’intenzione di Aurélio
Buarque de Holanda Ferreira e Paulo Rónai, di portare
dentro un sistema letterario
periferico come il brasiliano
un autore che non appartiene
all’“alta letteratura” mondiale,
avrebbe avuto maggior appropriatezza se fosse riuscito a
contestualizzare l’inquietudine di Bontempelli. Rivolto lo
sguardo al contesto culturale
europeo, si scoprirebbe che
l’“inquietudine” era propria di
una generazione di artisti italiani d’inizio secolo XX.
Il modo stesso di approcciare la presenza di Bontempelli nei confronti del “Novecentismo” indica che egli non
era una voce solitaria a beneficio della ricerca di un approccio letterario adeguato all’atmosfera del XX secolo. Dopo
essere uscita a pezzi dalla
prima guerra mondiale, l’Italia entrò in una fase di cambiamenti e in tutti gli aspetti
della vita sociale emergeva
il desiderio di ricostruzione
e di modernizzazione. Sotto l’influenza delle voci che
provenivano dalla filosofia e
dalle arti, per esempio, Bontempelli annuncia nelle sue
4
FERREIRA, Aurélio Buarque de Holanda & RÓNAI, Paulo (Orgs. e Trad.). Mar de histórias: antologia do conto mundial. 4. ed. Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1999, p.57.
23
pubblicazioni giornalistiche
il desiderio di rinnovamento
in campo letterario, poiché,
per lui, la letteratura era la più
alta espressione della vita di
un paese. Pertanto, dialogava con le opere di Nietzsche,
con esponenti del Surrealismo
e con il maggior rappresentante, anche lui italiano, della
pittura metafisica dell’epoca,
Giorgio de Chirico.
L’inquietudine descritta in
Mar de Histórias si spiega alla
luce di questo percorso intellettuale dell’autore, che perseguiva avidamente uno stile letterario che fosse in armonia con lo
sviluppo economico, sociale e
politico della società dell’epoca. Nel 1938, le sue brulicanti
idee, scritte nel corso dei ventiquattro anni precedenti, furono
riunite dell’opera L’avventura
Novecentista; non a caso è intitolata avventura, essendo la
testimonianza stessa di un’epoca segnata da uno spirito generalizzato di impresa, di audacia
e grandi scommesse che, per
qualche motivo, è rimasto ai
margini nella riscrittura dei traduttori brasiliani.
Oltre al problema della
temporalità e dell’assenza di
un’analisi che chiarisca gli
sdoppiamenti storici su cui si
è fondata la sua produzione
letteraria, un’altra importante
questione si presenta nebulosa nel processo di riscrittura:
le originali teorizzazioni di
Bontempelli sul realismo magico, concetto che i traduttori
tendono a rileggere quando
adottano la denominazione di “realismo umoristico”.
In un tentativo di chiarire lo
stile proprio di Bontempelli,
i traduttori ricadono nuovamente nell’inferenza della
comicità come un fondamento dell’opera: “Parte duma
hipótese absurda para daí deduzir com irrespondível lógica as inevitáveis consequências, físicas e psíquicas [Parte
da un’ipotesi assurda per dedurvi con logica irrefutabile
le inevitabili conseguenze,
fisiche e psichiche]”5; e ancora, “Em ‘Viagens e descobertas’ e ‘O Tabuleiro diante do
espelho’, o autor desliga-se
ainda mais da realidade para
entregar-se a fantasias metafísicas de um humorismo algo
cerebral” [In ‘Viaggi e scoperte’ e ‘La scacchiera davanti
allo specchio’, l’autore si allontana ancor di più dalla realtà per consegnarsi a fantasie
metafisiche di un umorismo
alquanto cerebrale]6.
E, infatti, quello di Bontempelli è un tentativo di cercare il
rinnovamento in campo letterario; nel frattempo, se consideriamo l’esempio del racconto “O colecionador”, si può
confermare che c’è il predominio di un genere metaforico,
dovendosi frattanto discutere il
presupposto del burlesco.
Ne L’avventura Novecentista, Bontempelli si mostra
convinto della funzione della letteratura: “La vera norma
dell’arte narrativa è questa:
raccontare il sogno come se
fosse realtà, e la realtà come
se fosse un sogno”7. Chissà se
per questa ambiziosa pretesa,
la stilistica dell’autore finì con
l’essere interpretata come un
“umorismo quasi cerebrale”,
un indice che la ragione era
un elemento strutturale nelle
sue narrative. Quanto simile
sarà il procedimento del Barone Raimundo della Valle
che fa dell’arte di collezionare un motivo per morire,
con i processi ossessivi che
costituiscono l’uomo moderno, il quale, nel tentativo di
umanizzarsi e vivere in società, compete con l’altro in una
manifesta morte quotidiana?
Bontempelli sembrava volere
che le sue narrative ospitassero tali conflitti, subliminali
alla realtà moderna. Tuttavia,
bisogna ponderare se la denominazione “realismo umoristico” è appropriata per designare tali intenzioni.
In ogni caso, per concludere, è bene dire che questa
inclinazione per una nuova
concezione dell’arte letteraria
rese a Bontempelli associazioni più aride presso i suoi
contemporanei, per i quali
l’opera dello scrittore faceva
parte della cultura di massa
del fascismo. Ceserani e De
Federicis8, storici della letteratura italiana, attribuiscono
un ruolo unico alla narrativa
di Bontempelli, “ideatore di
personaggi adatti al consumo
popolare”. Tale affermazione
apre il campo a nuovi studi
che, sviluppati nella prospettiva della metodologia della
letteratura comparata, potranno chiarire i condizionamenti
storici dei molteplici sdoppiamenti della carriera letteraria
di Bontempelli.
(Traduzione di
Andrea Santurbano)
FERREIRA, Aurélio Buarque de Holanda & RÓNAI, Paulo, Opt. Cit., p.57.
Idem, p. 59
7
BONTEMPELLI, Massimo. L’Avventura Novecentista: dal “realismo magico” allo “stile naturale” soglia della terza
epoca. Firenze: Vallecchi Editore, 1938, p.251.
8
CESERANI, Remo e DE FEDERICIS, Lidia de. Il materiale e l’immaginario: la società industriale avanzata: conflitti
sociali e differenze di cultura. Manuale e Laboratório di letteratura. Torino: Loescher Editore, 1993. 1531 p. (vol. V).
5
6
24
Uno sguardo alla
scrittura sociale
di Elio Vittorini e
Vergílio Ferreira
S
Camila Landucci & Andrea Santurbano
(Universidade Estadual Paulista & Univ. Federal de Santa Catarina)
i può dire che le manifestazioni artistiche, in
qualche modo, contribuiscano alla formazione e allo
sviluppo dell’essere umano,
che nella sua ricerca costante
di comprendere la realtà che
lo circonda si rifugia nell’arte, per tentare di spiegarla e
di capire se stesso, como indica Alfredo Bosi nel suo libro Reflexões sobre a Arte1.
In questo modo, pensando
all’intimo rapporto che l’arte
stabilisce con l’uomo, si può
altresì considerarla lo specchio dell’umanità, che opera
come indicatore di una realtà
sociale, molte volte veicolo di
denuncia e resistenza a quanto le è imposto.
In questo ambito dell’arte
come veicolo di denuncia sociale, la letteratura degli anni
‘40 ha un ruolo rimarchevole,
principalmente come forma
di impegno, che si preoccupa
della questione dell’alienazione nella società moderna, proponendo una nuova forma di
guardare la realtà, offerta tramite un approccio dialettico.
Come direbbe Umberto Eco,
solamente attraverso una so1
2
luzione dialettica l’uomo può
comprendere la nuova realtà
instauratasi nel mondo in crisi.
Così, partendo dalla lettura di opere di Elio Vittorini
e Vergílio Ferreira, questo articolo si propone di presentare uno sguardo sull’arte,
in quanto letteratura, come
indice di denuncia e resistenza, prodotta nel periodo
dell’instaurazione delle grandi dittature che incatenarono
l’Europa durante il XX secolo,
modellando la cosiddetta letteratura di resistenza.
Alfredo Bosi definisce
la letteratura di resistenza2
come un movimento “interno
al punto di vista narrativo”
che, sebbene preoccupata del
sociale, non permane appena
in superficie sul piano storico,
ma che nel corso del dialogo
narrativo “affiora alla superficie del testo di finzione”, rivelando i più “autentici” e “sofferti” valori che danno voce al
silenzio degli esclusi.
Nell’ambito della Letteratura di Resistenza, la scrittura sociale di Elio Vittorini e
Vergílio Ferreira conduce il
lettore a una linea di pensiero
che cerca di stabilire un equilibrio dialettico, dal momento
che entrambi penetrano nella
realtà sociale del loro paese,
adottando il linguaggio come
loro strumento di espressione,
BOSI, Alfredo. Reflexões sobre a Arte. Coleção: Fundamentos. São Paulo: Ática, 1995.
BOSI, Alfredo. Literatura e Resistência. São Paulo: Companhia das Letras, 2002.
25
servendosi della letteratura
come un’armata di resistenza,
mostrando attraverso le lettere
una forma di reazione contro
l’alienazione che schiavizza
la popolazione.
Elio Vittorini in Italia e Vergílio Ferreira in Portogallo,
impegnati nella realtà del loro
paese, attraverso la scrittura
traducono tutto lo spirito di un
momento culturale, che iù tardi sarà chiamato neorealismo.
La scrittura iniziale di Vergílio Ferreira porta con sé le
sfumature del neorealismo,
le impronte di una letteratura
impegnata con i valori del suo
tempo per un’imposizione
politica e partitica. Tuttavia,
è importante sottolineare che
con la maturità del suo fare letterario lo scrittore portoghese
svolge la sua arte sublimando
l’indirizzo umanista, che risulterà nella narrativa esistenzialista seguendo la corrente
filosofica sostenuta da Sartre,
come indica la studiosa Isabel
Cristina Saraiva de Assunção
Rodrigues. Per Ferreira, dando
corpo a un pensiero di base
esistenzialista, emerge il primato del sentire, “l’essenziale non è nel pensare, ma nel
3
4
5
26
sentire”, che dice “la verità è
amore”, per il fatto di essere
la verità emotiva la prima e
l’ultima che unisce il mondo.
Secondo Flory, il neorealismo vergiliano è una decorrenza degli ideali degli anni
‘40, con le rivendicazioni sociali del suo tempo. Il racconto Mãe Genoveva3, all’interno
di questa prospettiva neorealista, è basato sulla denuncia
della miseria sociale, come un
ritratto della società portoghese in quel momento, ma che
carica in sé le prime tracce
dell’esistenzialismo che contraddistinguerà l’attività letteraria dello scrittore lusitano.
Elio Vittorini:
la resistenza italiana
attraverso il dialogo siciliano
Intellettuale forgiato dai sentimenti esperimentati nel quotidiano, Vittorini contribuì fin
dall’inizio della sua attività di
scrittore alla divulgazione della parola, lavorando in opposizione agli interessi del regime
fascista, scrivendo opere che
illustravano una condizione
umana fuori dal tempo e dalla
storia, aspetti inediti della società italiana: la violenza del
“mondo offeso”, il dolore per
il “genere umano perduto” e
i suoi riflessi sulla condizione
miserevole imposta all’uomo.
Uomo di lettere, attento
agli appelli della società del
suo tempo, Vittorini prende
parte alla vita culturale italiana nel momento in cui il
dibattito sulla funzione della
letteratura e la sua relazione
con la realtà sociale acquista
l’intensità della resistenza e attinge il suo apice. Come gli intellettuali portoghesi, anche i
letterati italiani cercavano una
forma di impegno con la realtà
per vincere la situazione alienante che legava gli immersi
nell’ignoranza a causa del dominio di interessi politici.
La forza della resistenza,
nel percorso dello scrittore italiano, si traduce nella sua attività letteraria, trascendendo i
modelli della rappresentazione artistica, producendo con
maestria opere soggette a una
prosa lirica e evocativa che
uniformizzano: “la rappresentazione della realtà non ufficiale viene filtrata, distanziata,
rarefatta mediante la ben nota
prospettiva della memoria”4.
Conversazione in Sicilia5
narra il ritorno di Silvestro,
narratore protagonista, nella sua terra natale, e tramite
il dialogo stabilito tra lui e i
personaggi che appaiono nel
corso del romanzo vengono
mostrate al lettore le situazioni
di ingiustizia, repressione, disuguaglianza sociale, le quali
producono la sensazione scomoda di qualcosa che non sta
al posto giusto e che causa
malessere come l’acqua che
entra in una scarpa bucata.
In questo romanzo, Vittorini riempie la narrativa con le
FERREIRA, Vergílio. Mãe Genoveva. In:__________. Contos. Lisboa: Bertrand, 1993.
GUGLIELMINO, Salvatore. Guida al Novecento. Milano: Principato Editore, 1998.
VITTORINI, Elio. Conversazione in Sicilia. Milano: Bompiani, 1958.
impressioni di immagini dei
paesaggi ed eventi che sigillarono la sua infanzia, con le
impressioni di una narrativa
che contempla il lettore con
un dialogo allusivo e lirico, cadenzato dalla ripetizioni di frasi, avvicinando la narrativa alla
poesia e al sogno. Si avvicina a
Vergílio Ferreira nell’uso raffinato della lingua, infatti anche
lo scrittore italiano si è appropriato del linguaggio metaforico per sfuggire alla censura
fascista, modulando coerentemente la sua tecnica letteraria.
Durante la traversata di
Silvestro, i personaggi portati
alla luce da Vittorini contribuiscono alla rappresentazione di una collettività. È
notevole nella descrizione
e nel discorso del piccolo
siciliano la caratterizzazione di tutta una comunità di
esclusi, così come nell’allontanamento e recriminazione
di Coi Baffi e Senza Baffi,
allorché fanno riferimento al
piccolo siciliano, dimostrando la supremazia ingiusta di
coloro che sfruttano una posizione di privilegio.
6
La rappresentazione umana creata da Vittorini va al di là
della creazione immagetica dei
personaggi, descritti per mezzo
delle loro azioni e dialoghi,
componendo una fisionomia
fisica, senza addentrarsi nelle
venature psicologiche, conducendo il lettore a riflettere sugli
atteggiamenti dei personaggi di
fronte alla situazione che è loro
imposta, agendo come un fattore di denuncia della sofferenza muta di tutta una collettività.
L’esperienza della narrativa
come molla della resistenza
intellettuale privilegia il canone letterario con romanzi che
arricchiscono la lingua scritta e
documentano la memoria storica di un paese. Contribuendo
ognuno a modo suo, Ferreira e
Vittorini si configurano quali
letterati europei che, in possesso del buon uso della scrittura
e nel dominio della tecnica
rappresentativa, hanno saputo
dare spazio alla memoria degli
avvenimenti della loro epoca,
senza tacere le loro voci di
fronte alla censura della repressione, reagendo alla letargia di uomini e donne incatenati ai sistemi sociali e politici:
È uno dei modi attraverso i
quali la narrativa neorealista
cerca di rispondere a un
bisogno di rappresentazione
épica difuso nella cultura del
tempo, richesto dal nuovo
livello di partecipazione
sociale alle vicende della
nazione. La coralità épica
raggiunta in tal modo
suggerisce però l’immagine di
una comunità ancora dispersa
e frammentata, lontana dal
suggerire nuovi modeli di
rapporti sociali: una colletività
raccolta soltanto attorno ad
alcuni fondamentali valori
morali di solidarietà messi in
luce dall’oppressione e dalla
sofferenza sperimentata in
guerra o in prigionia.6
BIANCHINI, Andrea; LOLLI Francesca. Letteratura e resistenza. Bologna: CLUEB, 1997.
27
Ritorno aperto
Manuela Lunati
Queste lettere fanno parte di un epistolario di viaggio che, se mai fosse divulgato
integralmente, si chiamerebbe “Ritorno aperto”, perché la data di rientro, non determinata a
priori, è dipesa esclusivamente dall’esaurimento delle finanze della viaggiatrice. Nove mesi per
le strade (e sentieri) di Brasile, Uruguay, Argentina. La gestazione - sudata, sporca, scomoda,
magica - di una donna nuova. Il più bello sfizio che qualcuno possa togliersi in questa vita.
Quasi un diario vero
Maranhão, 14 giugno 2006
B
rasilia, alla fine, mi
conquista. È perché mi
lascia vivere ariosa ed
astratta. Nella meta-architettura della città ritrovo qualcosa del mio meta-vivere.
Stringiamo un patto di amicizia, io e Brasilia. Quando
ci rivedremo saremo entrambe un po’ ansiose ed un po’
28
commosse, come i vecchi
compagni di scuola.
La vera avventura, quella
con la borraccia ed il coltellino da tasca multiuso, direi
che comincia a Parnaiba. Qui
ci imbarchiamo sulla Cidade Tutoia, una navigazione
di otto ore lungo i canali del
Delta del Rio Parnaiba ci porterà alla città da cui prende il
nome la nostra gaiola. Il viaggio è una sorta di iniziazione:
chi resisterà alla monotonia
del lungo pomeriggio di un
solo paesaggio (acqua torbida, vegetazione blindata, il
nascondino dei granchi e la
caccia delle gazze turchesi
quali uniche concessioni alla
disposizione da safari del turista) è pronto a sopportare
l’ozio delle sieste imposte dal
sole nordestino. Io non sono
affatto una buona candidata:
il mio zaino nasconde riviste
e salatini con cui tenterò di
ingannare il tempo. João, al
contrario, è un passeggeromodello: la barca neanche è
partita e lui sta già sonnecchiando nell’amaca. A dire il
vero, anche gli altri passeggeri già dormono: il vecchio misteri dell’amaca! – con mio
grande stupore riposa prono,
la donna ripropone la posizione classica mentre la ragazza
è distesa in senso contrario
rispetto alla lunghezza della rede, come per assicurarsi
una transizione rapida dallo
stato “sdraiato” allo stato “in
piedi”, l’irrequietezza santa
degli adolescenti. Io esordisco nella “posizione del turista”, che consiste nell’allineare il corpo ai due lati maggiori
del supporto come una terza
parallela centrale. Ciò che
si ottiene così è di essere inghiottiti dal tessuto, liberarsi
da tale sudario si rivela allora difficilissimo, gli arti si dimenano con la disperazione
stupida delle galline afferrate
per le zampe. João si accorge che sto affondando nelle
maglie della mia amaca (la
mia prima amaca da viaggio!)
e mi salva. Mi rivela, quindi,
il trucco di un buon pisolino
sospeso: il corpo deve disporsi in diagonale rispetto al rettangolo di stoffa, con il sedere
bene al centro ed i piedi che
sbucano da un lato. Messa
a parte dei segreti dell’“arte
dell’amaca” chiudo gli occhi,
e sto quasi sognando.
Se la mia vita di sapone
neutro ed olio di mandorle
fosse fecondata da una creatura del fango, partorirei
che cosa? Unti di cherosene
per scoraggiare le zanzare,
i cacciatori di granchi osservano semisepolti la nostra
navigazione, il braccio affondato nella terra molle non
interrompe l’estrazione per
rispondere al nostro saluto,
il mio spirito di confraternizzazione sfama meno che
l’esperto crostaceo.
Il fuoristrada che da Tutoia
ci permetterà di raggiungere
Paulino Neves viene a prelevarci alla pousada all’ora
combinata. Quando l’autista
ci indica il veicolo il mio primo pensiero è che la portata
non dico ‘consentita’ – il concetto non si applica a questa
latitudine – ma quantomeno
‘possibile’ sia stata ampiamente superata. Invece, lungo il tragitto riusciamo a caricare ancora due passeggeri,
quattro cocomeri, vari sacchi
di sale ed altri pacchi sigillati.
Trasportiamo inoltre per brevi
tratti gli alunni delle elementari diretti a lezione, ma questi non richiedono ulteriori
sacrifici di spazio, viaggiano
in equilibrio sul parafango o
siedono a cavallo dei bagagli.
Magnifica composizione di
umanità compressa a cui partecipo col mio odore, colore e
temperatura, che sono diversi
dall’odore, colore e temperatura della mia vicina, gli uni
e gli altri democraticamente
offerti come dati accessibili
a ciascuno in virtù della socievole concentrazione dei
corpi. Il passeggero alle mie
spalle affonda il ginocchio tra
le mie vertebre, ed io gli sono
grata. Il braccio che si strofina
contro il mio è ruvido, ed io
gli sono grata. Sono grata perfino a questa strada sconnessa ed accidentata, ogni fossa
è una risata, ogni pietra uno
scherzo. Attraversiamo un ruscello e mi bagno: sono grata e bagnata. Per fortuna non
devo spiegarlo a João: lui mi
guarda e capisce la mia allegria di stare scomoda.
Soggiornare a Paulino
Neves è sinonimo di essere
ospiti di Dona Mazé: nessun
viaggiatore si sognerebbe di
pernottare in un’altra pousada, rinunciando così alla
ormai leggendaria mariscada
di benvenuto. Dona Mazé è
citata in tutte le pubblicazioni sul Maranhão, la sua foto
compare nelle riviste di viaggio, le sue ricette nei periodici di gastronomia; eppure,
Maria José da Silvia Gomes,
così Dona Mazé è registrata all’anagrafe, conserva la
semplicità di un’anonima
albergatrice, è più carne ed
ossa che mito. Prima ancora di vederci, mentre João si
sta congedando dall’autista,
Mazé lo riconosce dalla sola
risata, benché siano trascorsi
cinque anni dal suo ultimo
passaggio. Una sensazione di conforto mi avvolge
nell’apprendere che il mio
compagno è riconosciuto per
come ride.
Nel cortile fiorito di Dona
Mazé, all’ombra della gigante
mangueira, trascorriamo pomeriggi lentissimi, tra le acro-
bazie terrestri delle ranocchie
e quelle aeree degli urubu.
La natura ha disegnato
questa gente con una punta
più sottile. Le figlie degli indios Tabajaras hanno occhi
timidi dietro fessure strettissime, e contorni perfetti per
labbra di polpa matura. Qualcuna, senza saperlo, porta
un’Europa di altre generazioni nelle verdi iridi. Fanno
il bagno nel fiume vestite e
non tagliano i capelli. Vanno
in chiesa, o all’Assemblea di
Dio, o sono evangeliche. Rimangono in cinta di dieci figli. Danzano un forró che è al
passo coi tempi, i tempi del
commercialismo e del cattivo
gusto. Si lasciano corteggiare al buio del ponte di legno
dove tutto succede, almeno
tutto ciò che può succedere
in un posto così. Hanno poco
da dire. Mi guardano. Una di
loro, Nubia, mi chiede se è
bello là in Italia. Cosa rispondere a qualcuno che non sa
dove si trova l’Italia, che non
sospetta che sia esistito un
Impero Romano, figuriamoci
poi un Rinascimento? Neanche il Papa mi viene in aiuto:
la ragazza è evangelica. Così
rispondo che l’Italia è bella
ma molto diversa dal Brasile,
ed immensamente diversa dal
Maranhão. Anche là la natura
è preziosa, però non ci sono
le palme da cocco né i manguezais, e gli alberi di là cambiano il colore delle foglie, o
perfino le perdono, a seconda
della stagione dell’anno (a
questo punto dovrei spiegare
che le stagioni sono quattro,
e non due come qui, dove
solo si distingue tra epoca di
pioggia e di secca, ma finirei
per confonderla con troppe
informazioni tutte in una volta). Aggiungo che il mare di là
è calmo perché più chiuso e
riparato dell’oceano (chissà
29
se Nubia sa di vivere ai margini dell’oceano), non ci sono
onde alte e violente come qui
e l’acqua sa essere azzurra e
trasparente. Mi spingo oltre:
in Italia ci sono città antichissime come Roma che ha più
di duemila anni, e tesori di
arte ed architettura come Venezia e Firenze. La ragazza,
che fino alla parte del mare
mi era sembrata sintonizzata,
comincia come a retrocedere
dietro uno sguardo tra il vuoto e l’intimorito. Intuisco che
Nubia non ha mai sentito parlare di Firenze, né di Venezia.
Forse neanche di Roma, o forse sì ma vagamente, e non in
necessaria associazione con
l’Italia. “Ma il Brasile è bello,
mi piace molto. Specialmente il Maranhão”.
Nubia ci invita a fare una
gita in canoa fino alla foce del
Rio Novo. Con noi vanno Leonardo e Leonilson, proprietari della barchetta a motore,
e la piccola Denise, di cui
Nubia si sta prendendo cura
da quando la bimba è stata
allontanata dalla famiglia di
origine, dove era vittima di
violenza. Denise si diverte a
mettersi in posa per le foto,
sta seduta con le gambe fuori dalla canoa per godersi gli
spruzzi e non la smette di
contare ad alta voce da uno
a cinquanta, deve aver imparato di recente. Ci lasciamo
alle spalle le curve del fiume
una dopo l’altra e quasi in silenzio, siamo tutti un po’ timidi. Ad aiutarci a rompere il
ghiaccio è l’equilibrio fragile
della canoa, nessuno può alzarsi dal posto senza avvisare
gli altri, così a poco a poco,
di tanto negoziare strategie
di bilanciamento, cominciamo a chiamarci per nome e
a scambiarci domande sulle
rispettive vite. Le scimmie
mimetizzate tra le radici del-
30
le mangrovie contribuiscono
alla socializzazione, chi ne
avvista una deve dare agli altri istruzioni chiare e rapide
per individuare l’animale nel
rompicapo del manguezal.
Quando arriviamo alla duna
che marca l’incontro del fiume con l’oceano siamo ormai
vecchi amici. E siccome gli
amici veri si riconoscono nel
momento del bisogno, quando il motore, al ritorno, si
rompe, João ed io sappiamo
di poter contare sulle braccia
allenate dei fratelli Leo&Leo
per risalire il fiume a remi. Tra
una remata e l’altra i maruin
mi divorano, su suggerimento
dei due Leo ungo il corpo di
cherosene, gli insetti rimangono allora invischiati e non
sono più capaci di pungere.
Piove.
Scende la notte.
La marea è troppo bassa:
meglio scendere e spingere la
canoa.
Il letto del fiume è disseminato di ostriche: uno dei
Leo si ferisce.
Quando, dopo l’ennesima
curva, avvistiamo la prima
luce del villaggio è felicità
grande. Cosa non dimenticherò? La sagoma scura delle
palme ai margini del fiume,
esili giganti neri guardiani
della mia paura.
Quando finalmente arriviamo alla pousada Dona
Mazé è già con i soccorritori, è tanto preoccupata che,
se non fosse negra, sarebbe
diventata pallida di tanto immaginare una disgrazia. “Ero
così in pensiero”, ci racconta,
“che non sono riuscita neanche a seguire la telenovela”.
Intuiamo presto che la sua
agitazione riguarda più João
che me. “Tu mi piaci tanto,
e quando qualcuno mi piace
io mi preoccupo. Sono fatta
così”. “Che tipo di amore è
questo?”, non si fa scrupoli
a chiedersi Mazé, che a sessant’anni continua a ricevere
proposte di matrimonio dagli
ospiti della pousada. “Amore
di madre? Amore di donna?”.
Già. Che tipo di amore? La
domanda di tutti, almeno una
volta nella vita.
Di Caburé porto con me la
notte, notte che si accende di
luna quando il generatore alle
ventidue si arresta e le capanne dei pescatori si spengono ad unisono di orchestra.
Com’è bello il mio presepe!
Notte bianca di arena bianca,
bianca la luna e bianco il tuo
volto che dal buio si rivela,
amore mio. Notte di vacche
sulla spiaggia a godersi la
brezza. Notte primitiva, notte di fare l’amore e dormire.
Notte che non è per gli insonni. Notte che se chiudo gli occhi ho paura di non avere più
una notte così.
Di giorno Caburé è il triste presagio di un villaggio in
paglia di buriti sepolto nella
sabbia. La duna avanza ed
inghiotte, le capanne superstiti attendono il loro turno
senza troppi sentimentalismi.
La scuola locale si previene e sorge su una palafitta.
Ma gli alunni sono distratti
dal passeggio dei turisti. Gli
alunni sono i bambini che
dopo la campana mi chiedono un real, io non glielo
do e loro se ne vanno leggeri a schiacciare le larve sulle
foglie dei cajueiros. Poi mi
mostrano orgogliosi il cadavere di lagarta, questo non è
ripugnante né improprio, è
un gioco, nient’altro che un
gioco ad anelli gialli e neri. E
tutto è naturale, tutto è come
deve essere e non in un altro
modo, la fine della larva tra
i polpastrelli come le fine di
Caburé sotto la sabbia.
Barreirinhas ha una piaz-
za e non lo sa. La piazza di
Barreirinhas è la duna che si
erge, incongrua, tra il margine del Rio Preguiça e la brutta chiesa battista.
Sul dorso della duna si
gioca a calcio, sei scheletri
di porta nella sabbia per tre
campi immaginari, tre partite che si svolgono allo stesso
tempo contendendosi il tifo
dei ragazzini.
Sulla cresta della duna si
aspetta il tramonto, lei con la
guancia sulla spalla di lui o
lui con la testa sul ventre di
lei, ci si ama molto negli ultimi istanti di luce.
Ai piedi della duna si passeggia dopo la scuola, il traffico nelle due direzioni è tutto
uno scambiarsi di messaggi
con gli occhi, le ragazze guardano le ragazze con invidia
ed i ragazzi guardano le ragazze stringendo la speranza
tra le pagine del libro.
All’ombra della duna si
fa il bucato nel fiume, cen-
to panni da lavare per figli
a dozzine, si approfitta del
sapone e si strofinano pure i
figli, nudi e festosi nel fiume
vorrei che fossero i miei.
Di Barreirinhas mi prendo
la piazza.
Infine, Santo Amaro. Chiara solitudine senza pareti.
Santo Amaro non mi lascia
rubare niente. Sabbia e acqua, la prima scivola tra le
dita mentre la seconda già
evapora nel palmo. Né raccontarlo posso, Santo Amaro:
dovrei avere colori invece che
parole, ombre al posto dei significati.
Due punti aperte le virgolette,
3 agosto 2006
I giorni si inseguono senza
punti, virgole, parentesi, quasi
senza spazi tra le parole. Una
mattina cedo la mano alla
corrente e questo ottengo:
“cari amici io apro gli occhi già pieni di una domanda che è se sarà un giorno di
sole o di pioggia ma prima di
rispondere mi ricordo che a
momenti c’è la colazione imperiale che ingoierò tra sensi
di colpa come se i venti chilometri che ho da percorrere
non bastassero a smaltirla e
chissà se oggi saranno dune o
falesie e chissà se saranno bagni di onde o di pozze quiete
tra i coralli ma non mancherà
il mare a cena anche se ancora non ho deciso tra gamberi
e polipo mentre già so che
se la luna è piena è magia di
luce e se la luna è nuova è silenzio di stelle”
Ma chi sono, io, per permettermi di scrivere una lettera senza punteggiatura?
Preferisco aspettare, se sarò
paziente qualcosa accadrà
che darà alle possibili parole
un ritmo di pause ed accelerazioni.
E così è.
A Ponta Grossa si manifesta, nero e rotondo, il primo
punto: le alghe rosse che la
31
bassa marea lascia scoperte
marcano – senza possibilità
di malintesi – un nuovo capoverso. Il sapore di ruggine che
le alghe conferiscono all’aria,
ai miei vestiti, al cuscino non
ha nulla a che vedere con lo
zucchero e cannella di questi giorni, la putrefazione vegetale risveglia le narici alla
coscienza, mi rendo conto di
aver avuto nostalgia di qualcosa che fosse brutto o magari solo imperfetto, il paradiso tropicale non assomiglia
alla vita che mi ha allevata, a
quella balia io ritorno cavalcando una fragranza di ferro
ossidato. Punto. Ma senza andare a capo. Perché è ancora
un punto di morte putrefatta. Un punto largo, pesante,
come se la penna avesse indugiato, un po’ incantata, per
scoprire fino a dove la macchia di inchiostro è capace
di espandersi. Quando, a São
Cristovão, mi imbatto nella
tartaruga gigante arenata sul
dorso, la corte di urubu già
32
al lavoro, sento come l’impulso di avvisare qualcuno,
la polizia, i fiscali dell’Ibama,
magari anche solo un pescatore, qualcuno che divida con
me la responsabilità di assistere ad una tanto grandiosa
decomposizione. Grandiosa quanto sfacciata. Troppo
volume per un cadavere al
sole, sulla sabbia chiarissima,
nello spazio senza ostacoli.
Un’ombra, una coperta di foglie secche, questo sarebbe
appropriato. Invece no. A São
Cristovão la morte prende il
sole approfittando della bassa
marea. Punto e a capo.
A capo, decide la nuova
pausa di vita, la vita circense
dei delfini che a Pipa inventano sincronie di coppia per la
disperazione dei pescetti che
scappano via a pelo d’acqua
dal loro destino di colazione.
Siamo tutti in piedi, immobili,
ad indovinare il luogo della
prossima emersione, immaginiamo traiettorie di caccia
sottomarina e ci mettiamo in
allerta ad ogni spumare che
non sia di onda.
E forse la lettera procederebbe così, tra punti e punti a capo, se a Quixaba non
facesse la sua comparsa un
segno di interrogazione, e la
domanda è: morte o vita? La
stella marina incrocia il mio
cammino lucida ed intatta
come su una bancarella di
souvenir. La prendo in mano:
il peso, la durezza, la rugosità, tutto è nuovo per me. Sulla
pancia ha dei solchi a raggiera ed al centro forse una
bocca, però tutto è serrato,
solido, immobile, ed io non
so dire se è di difesa o morte
che si tratta. A quasi trent’anni diplomati e laureati non
so dire se la stella marina nel
mio palmo è ancora viva. Un
pescatore seduto su un tronco
di coqueiro abbattuto mi sta
osservando. Mi avvicino.
“Scusi, è viva o morta?”
Il pescatore esamina la
stella.
“Viva.”
“Vuol dire che, se la rimetto nell’acqua, vive?”
“Vive.”
Anche mio nonno era pescatore e parlava poco. Entro
nel mare ed avanzo fino a
raggiungere una profondità
che mi sembra appropriata,
se l’abbandono qui le onde
non la riporteranno alla riva.
A Quixaba salvo una stella.
Un punto interrogativo ed
un salvataggio chiuderebbero
degnamente qualsiasi lettera.
Ma la mia fortuna – la chiamano fortuna del principiante
– va oltre, a Cibauma ricevo in
offerta ciò che può rendermi
davvero contemporanea, davvero interprete del mio tempo,
una di quelle cose insomma
che si leggono nelle recensioni.
Si tratta di tre, ne più ne meno,
tre ed equidistanti puntini di sospensione, ma io ancora non lo
so. Vengo investita da qualcosa,
mai niente prima d’ora era stato
tanto qualcosa quanto questa
cosa qui. Una visione rapida
attraversa il sentiero, per metà
nera e per metà fucsia, che non
saprei dire se salta o vola, ha le
zampe ma anche le ali, è un po’
elegante e un po’ sgraziata, cade
senza ferirsi e di nuovo decolla.
“Hai visto?”, chiede João.
“Si, ho visto. Cos’era?”
“Una larva che si sta trasformando in farfalla”.
Per una rarissima eccezione questo avviene sotto i miei
occhi, il suo posto sarebbe il
mondo delle foglie, il mondo
umido vicino ai muschi, nel segreto delle radici. Decido che
si tratta di un segno, di una visione premonitrice, “stai per diventare colorata”, questo dice
l’oracolo della larva-farfalla.
Puntini, puntini, puntini…
Pousada di Caraíva,
1 marzo 2007
Qui la colazione la prepara
Branca. Branca in portoghese
vuol dire “bianca”. Ma Branca è marrone, coi capelli neri.
Mentre prepara la colazione,
Branca non fa rumore. Un po’
perché – lo scopriamo dopo
– piatti e posate sono di legno
(e il legno non fa rumore, al
massimo fa musica); ed un po’
perché le mani di Branca non
fanno rumore. Branca si avvicina reggendo il vassoio col pane,
il burro salato, la composta di
prugne, il formaggio, la tapioca; Branca si avvicina, ma noi
non sentiamo i suoi passi. E non
è solo perché Branca cammina sulla sabbia: è che i piedi
di Branca non fanno rumore.
Branca ci spiega come fa il pane
ed i suoi denti sono piccoli e separati come quelli dei bambini.
Se non avesse le rughe, Branca
sarebbe una bambina. Branca
ha qualche capello bianco, ma
nessuno lo vede. Perché nessuno guarda i capelli, tutti guardano gli occhi. Branca ha gli occhi
grandi? No. Branca ha il naso
piccolo, la bocca piccola, le
orecchie piccole. Per questo gli
occhi sembrano grandi, come
succede coi bambini. Branca
viene a lavoro in canoa, in canoa torna a casa la sera. La sera
è più stanca e più bella, appena
un ombra contro il tramonto. La
pala del remo penetra il fiume
senza rumore, senza rumore la
canoa scivola. A casa Branca
ha un marito, figli, nuore, forse
nipoti. Fino a domani Branca
appartiene a loro.
(Foto: Manuela Lunati)
33
34
eccezionali con una grande intelligenza, la mente aperta, la capacità di creare e di rinnovarsi continuamente.
Goethe, Freud, Marie Curie, Simone de Beauvoir, Verdi, Puccini,
Charlie Chaplin, sono sempre rimasti giovani. Ma non è necessario avere il loro genio per restare
giovani. Basta coltivare le nostre
qualità umane. Invece molte persone diventano psicologicamente vecchie a trent’anni perché si
rinchiudono nelle loro abitudini,
nei loro preconcetti, nel loro orizzonte ideologico, non accettano il
nuovo, il diverso. Frenano le loro
emozioni, non affrontano nuovi
problemi, diventano rigide e ripetitive. E se, grazie alla ginnastica,
alle diete, alla chirurgia estetica
riescono ad apparire fisicamente
giovani, quando parlano ti accorgi che interiormente sono rimaste
quelle che erano nel passato.
Vecchio è chi non evolve. Per restare psicologicamente giovani servono a poco le palestre e gli interventi estetici. Bisogna tenere aperta la mente ed il cuore, accettare
l’umanità in tutte le sue forme, osservare, studiare il nuovo, cercare di
capirlo, non seguire il gregge, non
seguire le mode, non farsi trascinare
dalla corrente, giudicare con la propria testa, vivere le proprie emozioni, cercare ciò che è intenso, essenziale e il resto buttarlo via.
A schema fisso
C
i sono delle persone che,
grazie alle cure ormoniche,
alla ginnastica, alla chirurgia estetica, al trucco, all’abbigliamento, a settant’anni appaiono ancora giovani. Ed alcune lo
sono anche interiormente. Altre
no, altre interiormente sono vecchie. Cosa vuol dire esattamente
essere giovani o vecchi? Quando
pensi al giovane ti viene in mente
il cucciolo degli animali: morbido, elastico, giocherellone.
Poi la vivacità, la freschezza e
lo stupore del bambino. Il giovane lo immagini pieno di energia,
rapido, scattante, recupera le forze rapidamente. Sul piano mentale è curioso, sperimenta, impara rapidamente, ha fiducia nel futuro, si adatta alle diverse circostanze, pensa fuori dagli schemi
costituiti, è creativo, costruttivo.
Nel vecchio tutte queste qualità
si irrigidiscono. Ma è proprio così? Sono proprio così tutti i giovani che conosciamo? No. Molti
sono abitudinari seguono passivamente le mode, le direttive del
gruppo, perdono tempo con giochi stupidi. Altri sono pigri, non
leggono, non studiano, non sanno concentrarsi, non hanno fiducia nel futuro, non sanno porsi e
perseguire una meta. Le qualità
che abbiamo descritto come tipiche della giovinezza le troviamo piuttosto in alcune persone
A schema fisso
SOLUZIONI
Francesco
Alberoni
Per essere sempre
giovani tenere aperti
mente e cuore
Curiosità: Il veleno del cobra è davvero miccidiale. Ne basta un grammo per
dare in teoria la morte a circa duecento persone.
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