numero 76 INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA V
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numero 76 INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA V
Inserto della rivista ComunitàItaliana - realizzato in collaborazione con i dipartimenti di italiano delle università pubbliche brasiliane Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano VII - numero 76 Ai margini del canone Aprile / 2010 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil Ai margini del canone www.comunitaitaliana.com [email protected] Direttore responsabile Pietro Petraglia Editori Andrea Santurbano Patricia Peterle Revisore Anna Fracchiolla Grafico Alberto Carvalho COMITATO Scientifico Alexandre Montaury (PUC-Rio); Alvaro Santos Simões Junior (UNESP); Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Andrea Santurbano (UFSC); Andréia Guerini (UFSC); Anna Palma (UFSC); Cecilia Casini (USP); Cosetta Veronese (Univ. Birminghan); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. Wisconsin-Madison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Luiz Roberto Velloso Cairo (UNESP); Maria Eunice Moreira (PUC-RS); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Rafael Zamperetti Copetti (UFSC); Renato Cordeiro Gomes (PUC-Rio); Roberto Francavilla (Univ. di Siena); Roberto Mosena (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Roberto Mulinacci (Univ. di Bologna); Sandra Bagno (Univ. di Padova); Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (Univ. “G. d’Annunzio”); Walter Carlos Costa (UFSC); Wander Melo Miranda (UFMG). COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, opinioni personali che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione. Q uesto numero di Mosaico Italiano presenta al lettore la madre di tutte le problematiche inerenti gli studi letterari: quella della definizione di un canone letterario. In altre parole, quello della scelta, sia di singole opere che di autori, ai quali riservare uno spazio “incontestabile” nell’empireo della storiografia e critica letterarie. Un dibattito infinito, dunque, e pressoché irrisolvibile. Tali riflessioni non si concretizzano qui in un discorso complesso e teorico, ma affiorano, a volte indirettamente, nelle letture critiche presentate da docenti e studiosi di università brasiliane e italiane nei loro contributi. Di Dante Alighieri, scrittore “canonizzato” per eccellenza, viene analizzata, per esempio, un’opera “molto citata e poco letta”, a detta dello stesso autore del saggio, il De Vulgari Eloquentia. Per parlare, invece, di metodi meno “canonici”, si passa poi per una vivace lettura intertestuale che lega Adélia Prado alla tradizione francescana. Di Giovanni Verga, altro autore largamente riconosciuto della letteratura italiana, viene però presa ad esemplificazione della scuola verista una novella, “Nedda”, ben meno nota dei celebrati Malavoglia. Restando ai margini del verismo, è affrontato inoltre il caso di Grazia Deledda, che, benché insignita del Nobel per la letteratura nel 1926, come conferma anche l’autrice del saggio, “non trova consensi unanimi nella critica”. Completano questo numero di Mosaico altri casi esemplari del panorama critico-letterario italiano: da quello di Alberto Moravia, già esplicitato nel titolo del contributo, Vent’anni senza Moravia: uno scrittore dimenticato?, a quello di Massimo Bontempelli, controverso teorico del realismo magico in patria e riproposto, con ambiguità ermeneutiche, in una raccolta di racconti pubblicata in Brasile nel 1999; per finire con Elio Vittorini, rivisitato in una inedita prospettiva comparata che lo vede al fianco dello scrittore portoghese Vergílio Ferreira. Infine, nella sezione dedicata al racconto, proponiamo in anteprima delle lettere di viaggio di una giovane scrittrice italiana, Manuela Lunati, tratte da un’opera, Ritorno aperto, che speriamo possa presto trovare il suo spazio negli scaffali delle nostre librerie. E, chissà, entrare a far parte del canone della giovane letteratura italiana. Gli Editori SI RINGRAZIAno Saggi Luiz Ernani Fritoli Esprimere l’inesprimibile: Dante e il logos poetico pag. 04 Tereza Virgínia Ribeiro Barbosa Adélia Prado e Francesco: “na maior compostura” pag. 09 Silvana de Gaspari Giovanni Verga e l’idealizzazione del verismo in “Nedda” pag. 12 Carolina Pizzolo Torquato Un romanzo rappresentativo della narrativa di Grazia Deledda: Elias Portolu pag. 16 Silvia La Regina Vent’anni senza Moravia: uno scrittore dimenticato? pag. 19 Arivane Chiarelotto e Patricia Peterle Massimo Bontempelli nel sistema letterario brasiliano: il caso de “O colecionador” pag. 21 Camila Landucci e Andrea Santurbano Uno sguardo alla scrittura sociale di Elio Vittorini e Vergílio Ferreira pag. 25 Racconti Da Ritorno aperto, di Manuela Lunati: “Quasi un diario vero – Maranhão, 14 giugno 2006” “Due punti aperte le virgolette, 3 agosto 2006” “Pousada de caraíva, 1 marzo 2007” pag. 28 pag. 31 pag. 33 Rubrica “Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero” Francesco Alberoni Per essere sempre giovani tenere aperti mente e cuore pag. 34 Passatempo pag. 36 STAMPATORE Editora Comunità Ltda. ISSN 2175-9537 2 Errata Corrige Nel numero 74 di Mosaico Italiano, dello scorso mese di febbraio, dal titolo Italia-Brasile: esperienze di frontiera, è apparso erroneamente il nome Carla Nelfi al posto del corretto Carla Nielfi. 3 Esprimere l’inesprimibile: Dante e il logos poetico Luiz Ernani Fritoli (Univ. Federal do Paraná) I l rapporto di Dante con la lingua può essere considerato da innumerevoli punti di vista, dipendendo dalla direzione che vogliamo dare alle nostre riflessioni. Ma certamente non possiamo fare a meno di considerare l’opera il cui tema specifico è appunto la lingua, e parliamo ovviamente del De Vulgari Eloquentia. La prima ragione dichiarata da Dante per scrivere l’opera è esplicitata dal poeta nelle prime righe: Non ritrovando che innanzi a me altri abbia trattato alquanto del parlare vulgare, e veggendo questo parlare a tutti essere necessario, dacché non soltanto gli uomini, ma e le femmine e i fanciulli, secondo lor consente natura, si studiano ad esso di pervenire; e volendo in qualche modo schiarir la mente di quelli che van per le piazze siccome orbi, e sovente credon le cose posteriori stare loro davanti.1 Esprime dunque il motivo per così dire tecnico per cui sente di dover trattare della questione della lingua: perché è necessaria a tutti, e perché nessuno prima di lui l’ha considerata scientificamente. Ma esprime anche altro, quello che definiamo – forse male - il motivo umano per cui si prende l’impegno: schiarir la mente di quelli che vivono come ciechi. A questo tema ritorneremo più avanti. In quest’opera, molto citata e poco letta, Dante spiega le ragioni per cui considera il volgare lingua di tanto prestigio quanto il latino e dichiara di voler elevarlo alla stessa altezza e dignità della lingua di Virgilio. Il De Vulgari in realtà avrebbe dovuto contenere quattro libri, ma Dante lo interruppe al capitolo XIV del secondo libro. Si considera accettabile come data di stesura gli anni 1303-1304. Tutto il ragionamento di Dante si svolge strettamente nell’ambito del rapporto uomo-Dio. Dante parte dalla creazione, ammette come fonte unica affidabile e incontestabile la Bibbia. La sua premessa è che la prima parola pronunciata dall’uomo appena creato da Dio fu appunto “Dio”, o meglio, “El”, che è il termine con cui le popolazioni semitiche più antiche indicavano Dio. Afferma quindi che la prima lingua parlata dall’uomo, da Adamo, fu l’ebraico: 1 Alighieri, Dante. De vulgari eloquentia. Trad. di Giuseppe Passerini. In Dante – tutte le opere. A cura di Giovanni Fallani, Nicola Maggi e Silvio Zennaro. Roma: Newton Compton ed., 1993, p. 1018. 4 In questa forma di parlare Adamo parlò; e poi tutti i discesi da lui fino alla edificazione della torre babelica, o vogliam dir la torre della confusione; questa forma ereditarono i figliuoli di Eber che da lui Ebrei furono detti, e a’ quali solamente, dopo la confusione, si rimase, perché il Redentor nostro, che di essi doveva sortire, usasse, siccome uomo, la lingua della grazia, non quella della confusione. Fu dunque l’ebraico idioma quello che nacque in su le labbra dell’uomo che primo parlò.2 L’Alighieri prosegue la sua analisi spiegando come dalla prima lingua poi si siano originate tutte le altre, in seguito alla erezione della Torre di Babele, e commenta la confusione che ne susseguì, fino ad arrivare in Europa, dove ci fu una tripartizione: lingua germanica, lingua romanza e lingua greca; da lì si arriva al latino, detta grammatica, lingua della ragione, della filosofia, della storia, dell’alta poesia. Passa poi a commentare i dialetti parlati in Italia ai suoi tempi: li raggruppa in 14, di cui il più alto sarebbe, non come ci verrebbe da indovinare il fiorentino, bensì il bolognese. Ma nessuno di questi dialetti, dice, è degno d’essere considerato al pari del latino come lingua eccellente da potersi adottare in tutta Italia. E, fino a quel momento, neanche da potersi adottare per scrivere dell’alta poesia. Per un motivo forse addirittura semplice: non c’erano trattati “filosofici” sulla lingua vulgare, e, soprattutto, non c’erano opere eccellenti in vulgare. Però rispetto alla origine della lingua umana (sempre nell’ambito del rapporto originario uomo-Dio), se si paragona il latino e il volgare (inteso in senso astratto, non un volgare particolare) “è adunque più nobile il vulgare, come quello che prima fu usato dal genere umano.”3 Ed ecco in questa affermazione sintetizzata grosso modo la concezione di Dante sul prestigio del volgare: fu la forma d’espressione naturale, immediata tra l’uomo e Dio, prima del peccato originale, prima del gesto di superbia di Babele. In volgare pure s’espresse Gesù4. Questo argomento massimo pone fine alla questione della dignità del volgare, e sta alla base di tutta la poetica dantesca, che è, in senso stretto, una teopoetica. In questo senso va concepito il lavorio linguistico-concettuale di Dante nella Commedia: è una instancabile ricerca d’esprimere la mente di Dio. Nel De Vulgari Dante afferma la necessità di adeguazione della lingua alla materia di cui tratta; dice che è necessario che lo stile sia aderente al tema, e propone la divisione in tre stili: comico (basso), elegiaco (medio) e tragico (alto). Del tragico, alla fine dell’opera interrotta, afferma che è la più alta forma d’espressione, specialmente la canzone, specialmente col verso endecasillabo. Il verso appunto che utilizzerà nella sua Commedia. Però come mai, mentre si propone di trattare del più alto tema mai provato da potenza umana, rinuncia a quello che lui stesso definisce il più alto stile? La risposta più immediata ce la fornisce nell’Epistola a Cangrande della Scala: e cioè che la materia comincia in forma orrenda ma poi “lietamente si risolve”5. Dunque commedia la chiama per lo stile, non per la lingua. Anche perché nessuna lingua umana è sufficiente a esprimere quello che eccede l’esperienza umana. Dante stesso ci propone questo tema all’interno della Commedia, tante volte ripete e ribadisce la difficoltà quando non l’impossibilità di esprimere ciò che “vede”. E “visione” per Dante significa molto più della sensazione fisica; vedere nell’uso del poema significa compartire dalla visione divina, avere la comprensione immediata, cioè non mediata dai sensi, di tutto in tutti i tempi. Qualcosa che va molto oltre le possibilità espressive del linguaggio umano – di qualsiasi linguaggio umano: Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto! E questo, a quel ch’i’ vidi, è tanto, che non basta a dicer ‘poco’. Par, XXXIII, 121-123 Alighieri, Dante. Op. cit., p. 1024. Ib., p. 1018. 4 Anche se Dante sembra d’aver ripensato la questione posteriormente: nel canto XXVI del Paradiso, Adamo stesso dice a Dante che la sua lingua era già spenta prima che si cominciasse a costruire la Torre di Babele: “la lingua ch’io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta.” Par, XXXVI, 124-126. 5 Cf. Epistola a Cangrande della Scala: “Al contrario la Comedia principia con alcun che di avverso, ma lietamente va poi risolvendosi, come si vede in Terenzio”. Trad. di Giuseppe Passerini. In Dante – tutte le opere. A cura di Giovanni Fallani, Nicola Maggi e Silvio Zennaro. Roma: Newton Compton ed., 1993, p. 1182. 2 3 5 Perch’io lo ‘ngegno e l’arte e l’uso chiami, sí nol direi, che mai s’imaginasse; ma creder puossi e di veder si brami. Par, X, 43-45 Nonostante questa impossibilità, dovuta ai limiti della ragione umana (ricordiamo a proposito dei limiti della ragione il famoso “state contenti, umana gente, al quia”, del terzo del Purgatorio), la difficoltà dell’impresa non dev’essere impedimento al tentativo di portarla avanti. Sarà dunque con la Commedia che Dante impegnerà tutte le sue potenzialità al fine di elevare il volgare colto ad altezze mai prima raggiunte; anzi mirando a elevare la poesia ad altezze mai prima conquistate. Ed è questa una delle dimensioni più affascinanti, più ricche, della Commedia: la tensione costante tra lingua e poesia, tra progetto e opera, tra concetto e realizzazione; la tensione, insomma, tra visione estatita ed espressione razionale (cioè “logos”). Ancora nell’Inferno, tutto materiale, concreto, può affidarsi ai sensi per captare esteticamente (nel senso originario del termine, cioè l’aistitikos, parola greca che indicava la percezione col tatto, e poi per estensione semantica, la percezione attraverso i sensi6) tutto l’ambiente nelle sue dimensioni sensoriali. Il poeta, in tutto il suo percor- so attraverso l’Inferno sente intensamente: visioni, odori, sensazioni tattili, suoni. Tutte cose per cui, anche nel caso non ci fossero parole, si è potuto ricorrere alla descrizione, all’analogia, alla similitudine: siamo comunque nell’ambito dell’esperienza sensoriale umana. C’è poi da rilevare che quando scrive Dante è già tornato dal suo viaggio, si sente pienamente confidente nelle proprie capacità espressive. Dirà, nell’Invocatio alle muse: m’apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sí della pietate, che ritrarrà la mente che non erra. O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate; o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, qui si parrà la tua nobilitate. Inf, II, 4-9 odori, i suoni, le sensazioni. In modo speciale i colori, gli odori e la musica: Oro e argento fine, cocco e biacca indaco, legno lucido e sereno, fresco smeraldo in l’ora che si fiacca, da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno posti, ciascun saria di color vinto, come dal suo maggiore è vinto il meno. Non avea pur natura ivi dipinto, Ma di soavità di mille odori Vi facea uno incognito e indistinto. ‘Salve, Regina’ in sul verde e ‘n su’ fiori Quindi seder cantando anime vidi Pur, VII, 73-83 Allora, all’entrata dell’Inferno, il poeta manifesta la sua piena fiducia nella memoria che non erra, perché sa di essere ispirato direttamente da Dio. Anzi, in questi versi dell’invocazione alle muse indica i tre fattori necessari alla riuscita dell’impresa: la bellezza del canto (muse), l’ispirazione e la capacità intellettuale (alto ingegno), e l’esattezza dei ricordi (la “mente che non erra”, cioè la memoria)7 che permetterà di descrivere quello che il poeta vede. Nel Purgatorio sono ancora le descrizioni a predominare: i colori, gli 6 Aistisis (o aisthesis) è l’esperienza sensoriale della percezione. Terry Eagleton afferma: “L’estetica è nata come un discorso del corpo.” In Eagleton, T. Ideology of the Aesthetics. Londra: Basil Blackwell, 1990, p. 13. Cf. anche Susan Buck-Morss: “Il campo originale dell’estetica non è l’arte ma la realtà – la natura corporea, materiale.” In “Estética e anestética: o ‘Ensaio sobre a obra de arte’ de Walter Benjamin reconsiderado”. Revista Travessia, n. 33, UFSC, Ilha de Santa Catarina, ago. dic. 1996, PP. 11-41. 7 Cf. il commento di Daniele Mattalia al c. II, in La divina commedia. Inferno (I Volume). Milano: Rizzoli ed., 1980, p. 37. 6 Però è ancora nel Purgatorio che cominciano gli esempi di una percezione che va oltre i limiti del sensoriale, come, per esempio le sculture o i bassorilievi che il poeta ammira nella cornice dei superbi: Dante descrive la sua percezione perché è impossibile descrivere quello che vede: non ci sono parole dato che non c’è paragone qui in Terra. Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi, perché qui non si trova. (...) E avea in atto impressa esta favella Pur, X, 94-96 (...) 43 L’arte, che è per Dante (così come per Platone e per Aristotele) imitazione imperfetta della natura, qui si presenta in tutt’altro modo: realizzata da Dio, supera di tanto la natura quanto questa supera l’arte. Questo “visibile parlare” è un’elevazione sia dell’arte della scultura sia del linguaggio verbale ad un altro livello, al di sopra della nostra comprensione. Pare si possa capire questo “visibile parlare” in due modi: o come un’annullazione del fattore tempo oppure al contrario, proprio come espressione della consecutività, e cioè il tempo scolpito. Travolti dalla bellezza della concezione artistica, quasi ci permettiamo a questo punto di dimenticare che tutto ciò è realizzato con le parole, nelle parole di un poeta. È nel Purgatorio ancora, più precisamente nel Paradiso Terre- 8 stre, che comincia a chiarirsi il processo di sublimazione della lingua vulgare. Scontata la superbia (tra l’altro ammessa dal poeta), Dante attribuisce all’alto ingegno (insieme alla sua volontà di redenzione) il fatto d’essere stato eletto da Dio per realizzare la missione “apostolica” di andare nell’aldilà, vedere e narrare. Tale missione, accennata prima da Virgilio, è affidatagli diretta ed esplicitamente da Beatrice già quasi all’uscita del Purgatorio: Però, in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di là, fa che tu scrive. Pur, XXXII, 103-106 Tu nota; e sí come da me son porte, così queste parole segna a’ vivi del viver ch’è un correre a la morte. E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch’è or due volte dirubata quivi. Pur, XXXIII, 52-57 “Tu nota; e sí come da me son porte, / così queste parole segna a’ vivi”; sono le parole di Beatrice, che Dante deve ripetere tale quale. Non deve quindi inventare, dato che qui non si tratta di descrivere o commentare, ma semplice ed assolutamente di ripetere la parola di Dio rivelatagli da Beatrice. A partire da qui dunque la propria lingua appare non più come strumento di cui si utilizza il poeta per descrivere quelle che vede, ma direttamente come verità rivelata. È la parola di Dio che si fa poesia, il logos divino diventa logos poetico. E a partire da qui la visione di Dante, esteticamente plasmata nella poesia, supera progressivamente l’estetica, in quel senso cui abbiamo accennato prima e cioè di conoscenza attraverso i sensi. In tutto il Paradiso la visione di Dante è dunque una visione superestetica, perché, essendo il Paradiso il vero trionfo dell’intelligenza, il “paesaggio”, per così dire, è tutto di natura intellettiva, e il percorso tutto un itinerarium mentis in Deum. Lì la difficoltà di rendere immaginabile quello che la più alta fantasia concepì è accresciuta dalla complessità dei ragionamenti, dalla profondità delle riflessioni filosofico-teologiche; ma Dante, che ha finora (siamo alla fine del Purgatorio) sempre cercato di adeguare la lingua alla materia trattata, con questo meraviglioso gesto d’autore, nella “favola” del poema si libera dalla questione che potrebbe fare non solo da ostacolo ma addirittura configurare un’eresia, e cioè: “quale lingua potrebbe descrivere il Paradiso, che è in essenza ineffabile, inconcepibile, e addirittura impossibile da ricordare?”; la lingua non è più la sua, ma gli viene ispirata, o meglio spirata da Dio8. La questione si sposta allora: non più capacità individuale, non più altezza d’ingegno, ma di memoria si tratterà: Appunto quello che chiede ad Apollo (Dio) nel I canto del Paradiso (v. 19): “Entra nel petto mio, e spira tue”. 7 Nel ciel che più della sua luce prende fu’io, e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sú discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto che dietro la memoria non può ire.9 Par, I, 4-9 Dunque quello che il poeta descriverà sarà nient’altro che un’ombra di un’immagine sbiadita e deformata di quello che il suo intelletto ha testimoniato: O divina virtù, se mi ti presti tanto che l’ombra del beato regno segnata nel mi capo io manifesti (…) Par, I, 22-24 E sarà l’ombra quel poco che la “mente”, cioè la memoria – elemento tutto umano – riuscì a trattenere; un quasi niente in paragone a quello che l’intelletto – elemento divino che ci distingue dagli altri animali – ha esperimentato: Adélia Prado e Francesco: possa esprimere l’inesprimibile; chiede a Dio che torni a concedergli di ricordare “un poco” non pur di quello che era la Sua essenza, ma solo tanto di quello che “pareva”; e prega pure potenza alla sua lingua, potenza divina che la renda adatta alla materia e allo scopo: “na maior compostura” O somma luce, che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; Par, XXXIII, 67-72 Dopo quest’ultima preghiera, non già per lui stesso fatta, ma in favore dell’umanità futura, davanti alla visione finale di Dio, cioè alla compartecipazione alla Verità Eterna e al Sommo Bene, viene a meno qualsiasi altra pretensione, e Dante finalmente si arrende: Veramente quant’io del regno santo nella mia mente potei far tesoro, sarà ora matera del mio canto. Par, I, 10-12 A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sí come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle. Il poeta, la cui visione a questo punto sopraffà di molto la capacità espressiva del linguaggio umano, continuerà fino all’ultimo canto del Paradiso a chiedere a Dio più virtù di memoria perché “A l’alta fantasia qui mancò possa”; il viaggio è compiuto e la volontà di Dio fa che anche la sua volontà sia quella di ritornare. Ora, al ritorno alla Terra, resta mettersi a scrivere in detta- C gli quello che vide, a narrare parola a parola quello che ascoltò; cosa che, sicuramente, la sua povera condizione umana non gli avrebbe permesso. E non è dunque da prendere in tal modo la scrittura – voglio dire, se realizziamo il patto di lettura – del testo. La poesia, ispirata direttamente dal volere divino, si riveste di un carattere evangelico: è il suo nuovissimo testamento: la sublimazione del linguaggio risiede appunto nel far coincidere in essa verità umana e rivelazione divina. Laddove “dietro la memoria non può ire”, la parola spirata da Dio si fa, nella mente del poeta, parola poetica, e la propria lingua appare dunque come verità rivelata: è il passaggio dal logos (parola e pensiero, discorso e ragione) divino al logos poetico, tutto umano, profondamente umano. 9 Alighieri, Dante. La divina commedia. Paradiso (III Volume). A cura di Daniele Mattalia. Milano: Rizzoli Editore, 1981, pp. 11-12. 8 reare un testo poetico con note accademiche, implodendo o imbrattando ogni divisione tra i generi, è tecnica che, tra i molti, l’argentino Borges dominava. Fondere l’esperienza del quotidiano alla riflessione letteraria è, forse, percorrere il cammino inverso. Entrambi i percorsi, sebbene siano opposti, quando sono ben tracciati possono portare a Roma. In vacanza, alla ricerca di un testo per rilassarmi, ecco che nella libreria trovo, con una certa noncuranza, Adélia Prado e le sue citazioni bibliche e domestiche mescolate con poesia. Prendiamo il capitolo 18 del romanzo Solte os cachorros1 (1994). Il formato, commentario soggettivo, parentesi con citazioni informali e incomplete di Francesco d’Assisi e di Tommaso da Celano, sembra eccessivamente prosastico. Eppure Adélia Prado conclude il suo testo alla maniera accademica: osservazioni fatte alle norme bibliografiche dell’epoca, con citazione completa dell’opera scritta in Tereza Virgínia Ribeiro Barbosa (Univ. Federal de Minas Gerais) personale, (“Eu quero saber sempre quem é maior, quem é menor.”3), segue una citazione dall’italiano: latino. Senz’ombra di dubbio può passare dall’erudito al comune e, come vari scrittori brasiliani, è stata toccata dal carisma del santo italiano. Ma ciò che di fatto interessa sono le letture che traspaiono nella prosa della poetessa. E usiamo la parola prosa nel senso dei minatori dell’interno di Minas Gerais, ossia, una conversazione informale con materiali del quotidiano, senza alcuna sofisticazione. Il testo di Prado è questa prosa, ma è anche prosa poetica. Il brano che ho scelto tratta in particolar modo di San Francesco2. Fra l’altro, immediatamente dopo una frase Senhor, meus frades foram chamados de menores para não desejarem ser maiores... Pai, eu te suplico, que eles não sejam mais soberbos que pobres, que não sejam insolentes contra os outros, que de maneira alguma permitas que sejam promovidos a prelaturas. 4 E tutto il testo ruota intorno alla questione dell’essere umili. Ma l’umiltà, cosa sarebbe? Una letteratura maggiore o una letteratura minore? Una letteratura noncurante d’accordo con il titolo dell’opera Solte os cachorros oppure ricerca, interlocuzione, elaborazione e raffinatezza che termina in erudizione e citazione dal latino? Queste stesse materie sono argomenti quando Adélia scrive: “Eu gosto, gosto não, amo por amor de Deus um sujeito pretensioso que escreve coisas assim: [...].” Tuttavia, dopo 1 Questo romanzo non è stato tradotto in lingua italiana, ma ci sono dei riferimenti corrispondenti al futuro titolo in italiano: Sciogli la lingua. 2 Fonti Francescane in : Cf. http://www.procasp.org.br/fontes.php E inoltre per leggere i poeti: http://www.portalsaofrancisco.com.br/alfa/centenario-de-machado-de-assis/elogio-da-vaidade.php 3 PRADO, Adélia. Solte os cachorros. São Paulo: Editora Siciliano, 1994, p.61. 4 Francesco apud PRADO, Adélia. Opt. Cit., p.61. 9 la citazione di qualcosa suppostamente elaborata la scrittrice afferma che le piacciono i pettegolezzi. E in seguito presenta la dignità di Nica do Gomes, che fa “frittelle e le vende, nella maggior compostezza”, e che “ha deciso di mettere le corna” al marito. Alla fine completa: Eu vivo dilacerada [...]. De um lado quero me tornar ALTER FRANCISCUS. Não é ALTER CLARA ou ALTER THERESA, não, é Francisco mesmo. De outro: sonhei com uma cobra escondida numa moitinha de trevo que me picou dois dedos com muita dor. [...] (De puro orgulho eu queria ser pobre!).5 Il testo oscilla tra la gloria e la banalità, il quotidiano, l’esperienza del sublime e l’assunzione della condizione di ‘peccatrice’. E Adelia discorre su questo al limite dell’imposizione delfica, che è anche di Teresa d’Avila, circa l’autoconoscenza (Conosci te stesso!). A questo punto della lettura sorge una citazione informale di Tommaso da Celano, confrate del santo di Assisi: Sabedor de seus distúrbios do baço e do estômago, um guardião, para protegê-lo do frio, mandara costurar uma pele de raposa por baixo de seu hábito. Francisco queria pôr outra também, pelo lado de fora, para não esconder ao povo o cuidado que tinha consigo mesmo.6 In un altro testo della stessa poetessa, ora nella sezione intitolata Sem enfeite nenhum che compone il volume di Solte os cachorros, troviamo un breve racconto che forse completa la nostra comprensione: Francisco Que pretíssimos olhos, hein? Eu não sou Clara, que faz docinhos de coco e manda por portador. Venho eu mesma trazer, conferir em pessoa esta tua magreza alucinante. Ó Francisco, Francisco, Chico Violinha, gravetinho de homem incendiado. Faz boneco de neve pra espantar a luxúria? Faz boneco de mim. Me manda esmolar que eu vou. Me manda subir no Alverne e orar de braço estendido, eu subo eu oro. Junto com você, Francisco, o que você quiser.7 Il narratore è in preghiera di fronte all’immagine del santo e parla in prima persona. Al primo approccio, estetico e emozionale, mette a fuoco gli occhi. La seconda frase cerca il contesto storico e si riferisce a Chiara di Assisi, quasi contemporanea del Santo, con qualche anno di differenza. Lei una bambina mentre lui già era un uomo maturo. Dal contesto storico medievale, un’insieme di tenerezze e finesse di dolcetti, passiamo alla durezza della famigerata ‘magrezza’, qui ‘allucinante’, del giovane Giovanni di Bernardone – la frase sembra ricercare la virilità del nome Giovanni in portoghese. Ma, nella sequenza, la donna in preghiera addolcisce il tono, lo carica di emozione, evoca il soprannome di Francesco – francesino -, traduce il termine in una intimità molto brasiliana e in antitesi affettiva tratta il santo come “ramoscellino incendiato’. Come se non bastasse il diminuitivo essenziale di ramoscello, si riferisce a lui come ramoscellino - e può un ramoscello incendiare? Nel suo piccolo, si... Siamo pronti per ricordare la sensualità manifestata da Mickey Rouke nella scena ‘tentazione di Francesco’, il filmato può essere visto su YouTube – del film di Liliana Cavani (1989)8, quando, nudo, il santo scolpisce tre falli nella neve... La sensualità ci permette allora di rileggere tutto il racconto a partire dal desiderio. Ma che narrativa paradossale Adélia Prado costruisce nel riscattare la lussuria e la civetteria che evoca la povertà francescana, o sarebbe la povertà dell’italiano ‘francesino’? PRADO, Adélia. Opt. Cit., p.62. 6 Francesco apud PRADO, Adélia. Opt. Cit., p.64. 7 PRADO, Adélia. Opt. Cit., p.62. 8 Scena della tentazione di Francesco nel film Francesco di Liliana Cavani (1989): http://www.youtube.com/ watch?v=kSXg9LhueE4&NR=1 5 10 Francesco a partire dal desiderio di povertà lussureggiante. Questo racconto antecede un altro intitolato Antonio (di Padova o di Lisbona? Non interessa, perché entrambi sono uno e lo stesso francescano...). Questo è spudoratamente sensuale, senza problemi; dopotutto lì la donna in preghiera invoca un tradizionale santo patrono dei matrimoni. Ma tuttavia, dove mi hanno condotto queste riflessioni? Ritorno a una citazione di Prado nel primo testo commentato: “Eu quero saber sempre quem é maior, quem é menor.” La risposta e la domanda sono bibliche9 “[...]“Aquele que é o menor entre vós, este é o maior”. Perché allora la domanda se la risposta già è risaputa? Ricercando le fonti francescane, rari sono gli scritti di Giovanni di Bernardone: 9 10 alcune ammonizioni (28 testi brevi), un testamento (com 41 clausole), le Regole, il Forma vivendi Sanctae Clarae data, lettere e frammenti oltre alle lodi e preghiere, e alla canzone Audite Poverelle. Vita e racconto sembrano coincidere. Mi spiego meglio. La scrittura è narcisistica. E non credo che un frate minore dovesse occuparsi di scrivere motivato dalla bellezza poetica. Si spera che gli scritti di un santo, dal mio punto di vista, siano pratici: interlocuzioni con uomini e con Dio che non escludono la bellezza, ma non mirano ad essa. Francesco dichiara nel suo testamento: “il Signore mi ha dato di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così cercate di comprenderle con semplicità e senza commento e di osservarle con sante opere sino alla fine.” Esiste, pertanto, una incompatibilità essenziale tra il poeta e il santo. L’uomo santo digiuna tutto il giorno, digiuna immagini, parole, lussi. Digiuna per il desiderio di vedere Dio, desiderio che è amore per l’assenza-presenza, secondo Giovanni della Croce. Il santo si fa minore, non ha legami, se non quello di stare con Dio. Lo scrittore non è così. Eppure scrivo per il santo, il frate minore, e per il poeta. Capisco intanto che, così come Adélia, anche a me piacerebbe voler essere minore, per essere maggiore. È difficile capire tanta incoerenza... Domine, miserere nobis! O nelle parole di Manuel Bandeira10, grande tra i grandi che pure si è ricordato di Francesco d’Assisi, “sono poeta minore, perdonate!” E, a mia volta, sono un critico minore, scusate! (Traduzione di Anna Fracchiolla) Mc. 9, 33-37, Mt. 18, 1-5; Lc. 9, 46-48. Poesia di Manuel Bandeira in: http://www.releituras.com/mbandeira_testa.asp 11 Giovanni Verga e l’idealizzazione del verismo in “Nedda” G iovanni Verga nacque a Catania, in Sicilia, il 2 settembre 1840. A quindici anni scrisse il suo primo romanzo, intitolato Amore e Patria. Dopodiché, nel 1858, s’iscrisse alla Facoltà di Legge dell’Università di Catania. Ma, non essendosi adattato allo studio delle leggi, lasciò l’università e si trasferì a Firenze. Durante questo periodo, il suo stile letterario era quello del Romanticismo e cercava di rappresentare gli ambienti dell’alta società, principalmente della città dove risedeva. Ma, nel 1874, convertitosi ai canoni del verismo, Verga cambiò il suo modo di scrivere. A partire da allora, abbandonò gli ambienti dell’alta società, le storie di donne depravate e di artisti disillusi, il vivere di un grande amore, per dedicarsi a un mondo molto sconosciuto dagli stessi italiani. Fu in questo stesso anno che scrisse il suo racconto “Nedda” e che ebbe inizio la sua seconda fase letteraria, quando aderì definitivamente alle nuove idee del verismo. La realtà che possiamo scorgere in questo racconto è la Silvana de Gaspari (Univ. Federal de Santa Catarina) stessa che incontriamo nella raccolta di racconti intitolata Vita dei campi e nel romanzo I Malavoglia. In quel momento, all’autore, ciò che importava erano gli ambienti dei piccoli paesi siciliani, la triste vita di una contadina, l’amore come conforto momentaneo ai dolori del vivere una triste esistenza ed anche l’esatta individualizzazione di una situazione sociale.1 Verga, nella sua fase verista, passò a rigettare i costumi, la morale e il mondo ideale borghese, con la sua falsa sensibilità, i suoi falsi sentimenti, i suoi falsi ideali e tornò a quegli strati sociali dove le leggi borghesi si manifestavano con maggior chiarezza: il mondo degli oppressi. La scoperta di una nuova visione di mondo gli permise di capire la società che lo circondava. Nei suoi racconti, egli cercava di mostrare la verità rappresentata dalla vita dura dei lavoratori siciliani. Per lui non c’era fantasia, non c’era immaginazione, tutto era permeato di crudeltà, ma non di una crudeltà generata dalla natura umana, ma da una crudeltà che esisteva nonostante gli uomini, creata dall’ambiente. Ambiente che condiziona la vita delle persone e non dà loro condizioni per sopravvivere in altro modo. Ai personaggi umili di Verga non è promesso il regno dei cieli, e neppure la riconciliazione con la vita qui sulla terra, poiché essi non guadagnano nulla con la loro umiltà, dal momento che nessuna gloria, ricompensa o compensazione li aspetta. Il nostro autore, per questo suo comportamento, è considerato uno scrittore tragico, dal momento che descrisse la crudeltà della vita. Per lui, 1 Già alla fine della sua vita, dichiarò che il suo maggior dolore in quanto scrittore era il non essere riuscito a terminare il Ciclo dei vinti (composto da alcuni romanzi come I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo). 12 il tragico avrebbe bisogno di forze contrarie che si sollevino contro di esso. L’uomo starebbe in mezzo a ciò, e sentirebbe la sua esistenza condannata alla distruzione. Tutti i personaggi di Verga sono vinti, anche quelli delle sue prime opere: l’uomo è sempre è sempre vinto da quella cosa da cui non può sfuggire, o una passione o uno spirito più tenace, di dedizione più rassegnata, o una legge dura e inesorabile della vita, che lo lega indissolubilmente a un destino, facendo tacere volontà e sentimenti. Nei suoi primi romanzi, questa intuizione della vita rimane superficiale e artisticamente inefficace, perché applicata a una società vuota e falsa. Ma rivela tutta la sua ricchezza e valore una volta che lo scrittore seppe guardare alla vita così come essa si presentava alla gente povera di Sicilia, molto vicina a lui nell’animo, nel sangue, negli affetti, nei pensieri, così autentica nel vivere una esistenza elementare e primordiale, ancora al di là della civiltà e dalle sue finzioni borghesi, a livello di istinto e di totale immediatezza e spontaneità. 2 Per l’autore, il più umile è il più sano moralmente, perché non si arrende e lotta senza risparmio fino alla fine, anche se rassegnato a perdere. “Nedda” è una novella nata dalla stanchezza dell’autore in rapporto agli ambienti mondani, che narra la storia di una povera e maltrattata contadina, che s’innamora di un giovane del suo paese. Da questo amore Nedda rimane incinta, ma alla fine muoiono il suo ragazzo e la sua bambina appena nata. Nedda, allora, rimane sola nella sua vita e nella sua miseria. Questo racconto rappresentò il primo passo di questa nuova ispirazione e, in quanto tale, è la prima novella di Verga realmente importante, forse la prima in senso assoluto. Oltre a rappresentare l’interesse per il documento umano, il racconto esce dall’indirizzo dell’autobiografismo per inaugurare un’altra tendenza. Il testo fu pubblicato nella prima raccolta di racconti di Verga, Primavera e altri racconti, del 1877. E, dopo, ebbe un posto anche in Vita dei campi, del 1880.2 L’autore del racconto dice che è il fuoco domestico, il camino, ad ispirarlo a raccontare questa storia. Nedda, il personaggio principale, si trova intorno al grande focolaio della fattoria di Pino, vicino all’Etna. Allo scomparire del fumo del fuoco, appare la figura del nostro personaggio, fra le compagne lì riunite per lavorare alcuni giorni. Lavorano nella raccolta delle olive. Ma, in quel giorno, non avevano potuto lavorare a causa della pioggia. Le amiche chiedono alla giovane di cantare una delle sue belle canzoni, ma la ragazza, triste pensando alla madre che si trova in punto di morte, resiste alle richieste. Un altro giorno arriva e la pioggia continua, e Nedda diventa sempre più triste pensando alla madre moribonda e alla sua condizione miserevole. Quando arriva il sabato, il giorno della paga, la tristezza di Nedda aumenta allorché ella vede che non ha ricevuto quanto sperato e, invece di protestare, piange per il suo triste destino. Il figlio del padrone, nel vederla triste, vuole pagarle l’intero salario, ma il fattore glielo proibisce, adducendo che gli altri avrebbero protestato e rivendicato lo stesso diritto. Lei, allora, prende il cammino verso casa. Arrivando a Ravanusa, incontra Janu, il suo ragazzo, che sta ritornando con i suoi buoi da Piana. Nedda adesso sembra essere più felice, ma, la domenica, con la visita del medico, scopre che per sua madre non ci sono più speranze. Il prete aveva dato dell’olio santo per ungere la malata, ma il medico aveva prescritto un’altra medicina che è lo zio Giovanni a dover comprare. Le ultime parole dette dalla moribonda sono per sapere quanto esse debbano allo zio Giovanni. Nedda conforta la madre dicendo che avrebbe lavorato per pagare il dovuto. La giovane ascolta un uccellino che canta nell’esatto momento in cui sua madre muore. La notte, dopo il funerale, lo zio Giovanni visita Nedda e le dice di non voler ricevere nulla. L’avverte anche che ad Aci Catena pagano una lira al giorno a quelli che mettono le arance nelle cassette. Nedda VERGA, G. I grandi romanzi e tutte le novelle. Roma: Grandi tascabili Economici Newton, 1992. 13 accetta il consiglio dello zio e parte con un solo pane che egli le aveva dato. Di nuovo il nostro personaggio ascolta il canto dell’uccellino. In una certa notte, ascolta la musica di Janu. In un altro giorno, di mattina, una domenica, lo vede tutto vestito a festa: era stato allontanato dal suo lavoro, perché là dove lavorava si era ammalato. Nell’incontrarsi egli le dà un fazzoletto. Lei va, allora, alla messa di sua madre e tutte le altre ragazze possono vedere il regalo che aveva ricevuto. Janu decide di accompagnare Nedda, il lunedì, fino a Bongiardo, dove lei stava lavorando. Lo zio Giovanni, prevedendo che qualcosa sarebbe potuto accadere fra i due, avverte il giovane che quella situazione non era molto appropriata e Janu gli dice che il suo desiderio è di sposarsi con Nedda. A Bongiardo, c’è lavoro per tutti e Janu, sempre cortese, fa quel che può per alleviare il carico di lavoro della sua ragazza. Ma il soprintendente, vedendo ciò, ne approfitta per ridurre la paga della giovane. Tutti dormono insieme e la coppia tenta di consolarsi vicendevolmente. La domenica, i due tornano a Ravanusa e, durante un picnic, il giovane si dichiara a Nedda. E il vino, il bel paesaggio e la solitudine dei due li conducono a fare l’amore. La giovane resta incinta ed è condannata da tutti. Perfino il suo salario è ridotto per il fatto di non poter fare sforzi. Il ragazzo ora è di ritorno a Piana e gli ritorna anche la febbre. Al suo ritorno racconta a Nedda che ha speso tutto quel che aveva e che voleva andare a Mascaluccia, dove sarebbe comincia- 14 ta la raccolta delle olive. Tre giorni dopo, il ragazzo viene portato morto a casa a causa di una caduta dalla cima di un albero di oliva. Nedda non lavora più, poiché la sua pancia è già cresciuta molto e lo zio Giovanni l’aiuta come può. Il bambino, al momento della nascita, è molto debole, perché la madre non ha latte per allattarlo, e muore subito dopo esser nato. Nedda, invece di essere triste, si vede rassegnata e consolata davanti al corpo morto della figlia che, secondo lei, non sarebbe passata per le stesse sofferenze della madre e vede in ciò una benedizione che gli è stata concessa dalla Vergine Maria. “Nedda” è il primo racconto nel quale l’autore si riferisce ad una società diversa da quella dei romantici. In questa fase, egli comincia a parlare a proposito dei problemi della sua terra, la Sicilia del XIX secolo. I personaggi, presentati nelle narrative veriste di Verga, hanno una vita, ma sempre mischiata all’ambiente. Questo perché, per l’autore, tutto sta allo stesso livello: animali, personaggi e terra. Tuttavia, questo non ha l’obiettivo di rendere inferiori i personaggi e sì di valorizzare ciò che sta attorno all’essere umano. In “Nedda”, l’autore distribuì la sua materia partendo da un metodo, una linea di condotta apparentemente uguale a quando scrisse Eva (romanzo del 1873). Verga trascrisse i momenti funzionali della vita della quale voleva essere partecipe. Egli sarà il primo autore a servirsi del monologo interiore. I paragrafi di “Nedda” sembrano coincidere con il calendario ufficiale di un determinato anno, ma individuano un ripetersi di cicli, come un ritorno delle epoche. Nedda è come quegli eroi epici che prestano la loro biografia a una serie di fatti, che avrebbero potuto lasciare memoria di sé, avvenimenti molto distanti gli uni dagli altri, nel corso di varie generazioni, e che dopo, nel racconto epico, permangono o si riuniscono in un solo personaggio. Per i personaggi umili dell’autore non esiste la promessa del regno dei cieli e neppure la riconciliazione con la vita qui sulla terra. La posizione in cui Nedda si trova all’inizio della narrativa, accovacciata, è già una dimostrazione del suo comportamento tipico da umiliata. Nedda ha l’impossibilità di reagire ai colpi della vita. E l’umiliazione parte anche dalla sua natura passiva, da un modo di essere, del quale non aspira a prendere coscienza. Neppure la fame crea in lei un diritto. Basta a questa ragazza avere un lavoro. I personaggi più caratteristici di Verga possiedono una psicologia ridotta, vicina a quella degli animali. I loro animi tenaci, fedeli, umili ricordano l’asino che le prende con gli occhi malinconici, o il cane che sopporta le bastonate del padrone e si accovaccia ai suoi piedi. Nedda umiliata è passiva allo stesso modo, ma con una specie di sicurezza di ciò che deve fare e subire nella sua passività. Tutto ciò è espresso senza retorica, con un linguaggio nuovo, nel quale sembra che lo scrittore non si rifletta in quello che scrive, ma mostri la realtà come è vista dai suoi personaggi, nella sua sintassi elementare e nella sua lingua nativa. L’autore crede che il narratore non possa coinvolgersi con la storia. La tendenza a una rappresentazione oggettiva e impersonale della realtà, secondo i canoni del naturalismo francese, è espressa dallo stesso Verga quando dice di credere che il trionfo del romanzo, che è la più completa e più umana opera d’arte, verrà solamente quando la mano dell’artista diventerà completamente invisibile. L’interesse principale del verismo è scoprire il carattere primitivo elementare delle classi subalterne, nelle quali l’elemento umano, non contaminato dai rapporti sociali complessi e dalle intricate implicazioni intellettuali, può essere studiato nella sua dimensione più pura e immediata. È in questo momento che un mondo fino ad allora sconosciuto ai borghesi, quello dei braccianti e pescatori siciliani, si offre agli occhi di un vasto pubblico, giust’appunto negli anni in cui la questione meridionale viene portata alla luce attraverso una ricerca governativa e dagli scritti di intellettuali meridionalisti. A partire da allora, fu creata una specie di scuola verista meridionale, alla quale aderirono autori di diversi livelli. Gli ultimi anni del XIX secolo portarono all’esaurimento l’esperienza verista, ma, a partire da quel momento, le nuove classi sociali proletarie avevano raggiunto piena dignità di rappresentazione letteraria. Il tentativo, operato dal verismo, di affermare i diritti di un’arte che fosse capace di dare la com- pleta illusione di realtà, aveva iniziato un movimento di rinnovamento nel panorama letterario italiano. Il verismo, fenomeno letterario essenzialmente italiano, ha avuto in Luigi Capuana il suo maggior teorico e in Giovanni Verga il suo maggior narratore. Le linee centrali di tale movimento erano: l’impersonalità, la fedeltà alla realtà, la scrittura malleabile, capace di adattarsi agli stessi registri narrativi dei diversi livelli sociali dei personaggi esaminati. Ma la novità dell’opera di Verga rimase in parte incompleta durante la vita dello scrittore, poiché è comune trovare critici che dicono mancare, nella sua narrativa, l’elemento spettacolare, il fatto emozionante. La sua lingua fu criticata come povera e scorretta. Ma Verga richiamò l’attenzione del pubblico italiano, soprattutto come lo scrittore che rivelava all’Italia, da poco unificata, certi aspetti poco conosciuti della vita del popolo siciliano. Oggi, l’autore è conosciuto come il più grande narratore italiano dell’Ottocento, dopo Manzoni; e gli ambienti da lui rappresentati con grande originalità espressiva nei suoi racconti sono, soprattutto, siciliani, ma danno voce a mentalità, valori, convinzioni che si trovano in tutta Italia. L’opera di Verga è inconfondibile, per la profonda umanità del suo animo e per i risultati artistici raggiunti: sul suo modello, il verismo italiano inseguì l’ideale di una letteratura oggettiva e vera, specchio della vita delle più dimenticare regioni d’Italia. (Traduzione di Andrea Santurbano) 15 Un romanzo rappresentativo della narrativa di Grazia Deledda: Elias Portolu G razia Deledda è stata insignita del Nobel per la Letteratura nel 1926: era la seconda volta, dopo Carducci, che l’ambìto premio veniva assegnato ad uno scrittore italiano. Ma nonostante il riconoscimento internazionale la narrativa deleddiana non trova consensi unanimi nella critica, infatti, se da una parte la scrittrice sarda ha avuto il sostegno di scrittori e critici come Capuana e Momigliano, dall’altra ha ricevuto giudizi più moderati, come quelli di Croce e Sapegno, o addirittura severi, come nel caso di Renato Serra. De Michelis rileva questi giudizi discordi e parla di una “dubbiezza che accompagnò a lungo la critica nei confronti di lei, fra deferenza sbrigativa, altissimi consensi e sprezzanti rifiuti”1. Deledda esordisce ancora molto giovane nella letteratura, ma è a partire dal Novecento, e in particolare Carolina Pizzolo Torquato (Universidade Federal do Ceará) nei primi due decenni, che si concentrano le sue opere di maggior rilievo: Elias Portolu (1903), Cenere (1903), Chiaroscuro (1912), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915) e La madre (1919). Alcune opere risalenti a un periodo posteriore restano comunque importanti – si pensi a romanzi come Annalena Bilsini (1927), Il paese del vento (1931) e soprattutto Cosima (1936), “con il suo valore di estremo autoritratto e quasi di testamento”, come ha sottolineato Sapegno2 –; ma alla stagione migliore della scrittrice sarda corrispondono quelle opere in cui si avverte quell’impeto proprio di uno spirito inquieto e temerario, che si ribella ai pregiudizi e alle convenzioni, differentemente dall’atteggiamento più rassegnato che prevale nelle opere successive. Accostata dai critici ora al verismo ora al decadentismo, Deledda sfugge ad un preciso inquadramento dato che il suo isolamento, cioè, l’esiguo contatto con le esperienze letterarie e culturali dei contemporanei, caratterizza non poco la sua produzione letteraria. Forse ai primi lettori della scrittrice sarda sembrava naturale inquadrare la sua narrativa nell’àmbito del verismo, ma da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a cominciare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un’assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata3. Queste caratteristiche sono già presenti nel romanzo Elias Portolu, pubblicato tra agosto e ottobre del 1900 nella “Nuova Antologia”, e apparso in volume solo nel 1903. Il romanzo apre la stagione migliore di Deledda e segue la struttura compositiva spesso applicata dalla scrittrice, così descritta da Spinazzola: la trama si appoggia a un antefatto, svoltosi fuori della località paesana dove la vicenda è ambientata: in città o addirittura sul continente. C’è stato un tempo in cui il personaggio, per sua iniziativa o per concorso di circostanze, ha trascorso un’esperienza che lo ha separato dalla vita della comunità. Quando l’azione inizia, da quelle premesse stanno maturando delle conseguenze che, drizzandosi davanti al protagonista, lo chiamano a un rendiconto e a una scelta.4 Per quel che riguarda Elias Portolu, l’azione inizia quando il protagonista ritorna a Nuoro dopo alcuni anni trascorsi in continente, dove scontava una condanna in carcere. Al rientro in famiglia, Elias viene a conoscenza del fatto che suo fratello più grande, Pietro, si sposerà a breve tempo. L’inaspettato amore per la cognata genera il conflitto di coscienza del protagonista, come si osserva in questo brano: Il mal seme aveva germogliato; giorno per giorno il vaso s’era colmato d’una goccia di più e stava per traboccare: Elias s’abbandonava segretamente e interamente alla sua 4 1 2 3 16 DE MICHELIS, Eurialo. Novecento e dintorni. Milano: Mursia, 1976. SAPEGNO, Natalino. “Prefazione”. In: DELEDDA, Grazia. Romanzi e novelle. Milano: Mondadori, 2007, p. XI-XXIII. Id. 5 6 7 passione. Pensava: “Non lo saprà mai nessuno, e tanto meno lei; ma vederla, ma guardarla, chi me lo impedisce? Che male faccio?”5 Se, da un lato, il protagonista non riesce ad evitare l’amore per Maddalena, dall’altro si sente sempre più dominare dalla colpa e dal rimorso, come si capisce da queste sue riflessioni: “Come io sono vile! [...] Non mi salverò mai più: io sono composto di male”6. Elias si trova così costantemente in bilico tra la morale e la passione travolgente, senza mai rendersi conto che è lui stesso a creare e a rinnovare ogni volta gli ostacoli che impediscono la realizzazione del suo desiderio amoroso, anche quando i suoi sentimenti appaiono plausibili, come in occasione della morte del fratello. Infatti, quando Maddalena rimane vedova e Elias intravede l’opportunità di sposarla e di far crescere il bambino – che è suo a tutti gli effetti –, senza che questo sia motivo di scandalo, decide invece di farsi prete e allontanarsi ancora una volta dalla passione che lo tormenta. I critici riconoscono nella letteratura della scrittrice sarda “un’austera e tragica coscienza del destino umano”: l’uomo è sempre impegnato “in una lotta disperata col fondo oscuro dei suoi istinti, tentato e sconvolto dalle passioni, cui egli può di volta in volta indulgere, ovvero sforzarsi di tenerle a freno, ma non mai vincere e dominare con una risoluzione ferma e definitiva”7. Questa concezione piuttosto pessimista del destino umano è particolarmente visibile in Elias Portolu: il protagonista prova in tutti i modi a vincere la sua passione e il suo istinto, ma nessuna delle risoluzioni che prende, nemmeno quella di farsi prete, riesce a risolvere in modo definitivo la sua crisi di coscienza. Il dramma familiare non viene mai a gala, non arriva mai al punto di esplodere in pubblico: i genitori s’accorgono dell’evidente disagio di Elias, ma non ne capiscono il motivo, e lo stesso Pietro muore all’insaputa sia dell’amore tra il fratello e la moglie, sia della vera paternità del figlio. Benché il protagonista si confidi con zio Martinu e prete Porcheddu, il suo tormento si risolve all’interno della propria coscienza, ragione per cui non riesce mai a darsi pace. Il romanzo, dunque, si basa su uno degli aspetti più caratteristici della letteratura di Deledda, cioè, “l’insistito tema morale, la rappresentazione della colpa e della passione, con la conseguente dialettica del rimorso e del castigo, SPINAZZOLA, Vittorio. “Prefazione”. In: DELEDDA, Grazia. Romanzi sardi. Milano: Mondadori, 1990, p. XIII-XLIII. DELEDDA, Grazia. Romanzi e novelle. Milano: Mondadori, 2007. Id. SAPEGNO, op. cit. 17 della disperazione e della redenzione”8. La narrativa si divide, si può dire, in una struttura binaria: da una parte ci sono gli avvenimenti della vita quotidiana e familiare, nei cui limiti si sviluppa la storia d’amore tra i due cognati, e dall’altra ci sono i momenti di solitudine di Elias, prima nelle lunghe giornate trascorse nella tanca, e poi nel seminario. Se durante la convivenza coi familiari Elias alimenta segretamente il suo amore per Maddalena, durante i lunghissini periodi di solitudine cerca di stroncarlo e di combatterlo, senza mai riuscirci veramente. Si alternano così momenti d’azione e di dialogo con la famiglia e momenti di riflessione e di angoscia. Quando si accorge di trovarsi al limite della ragionevolezza, quando si rende conto che la presenza di Maddalena lo può portare a seguire i propri istinti al di là delle conseguenze, Elias sfugge alla situazione e cerca rifugio nella tanca, dove il suo stato d’animo sembra amalgamarsi con il paesaggio, come si nota in questo frammento: La tanca dei Portolu era stata anni prima diboscata, e adesso stendevasi aperta, vasta, battuta dal sole. [...] I pascoli lussureggianti, al cader della primavera, prendevano un verde dorato luminoso: i cardi aprivano i loro fiori d’oro e di viola, i rovi sbattevano le loro rose selvatiche. Solo sotto gli alberi e nelle distese umide Id. DELEDDA, op. cit. 10 SAPEGNO, op. cit. 11 DELEDDA, op. cit. 12 Id. 13 SAPEGNO, op. cit. l’erba restava verde e fresca. [...] Elias si sentiva fisicamente bene in quel luogo solitario e selvaggiamente bello, dove era cresciuto, dove era scorsa la sua prima giovinezza: giorno per giorno rivedeva e riconosceva ogni angolo, ogni recesso della tanca.9 Questo frammento ci fa notare un altro importante e caratteristico aspetto della narrativa di Deledda: la lirizzazione del paesaggio. Nelle parole di Sapegno, “tra i diversi elementi che confluiscono nella rappresentazione, quello che a tutta prima sovrasta nell’impressione del lettore è il motivo di fondo del paesaggio o dell’ambiente”10. E in questo paesaggio, in questo ambiente, personaggi e natura sembrano fare un tutt’uno, rappresentano elementi amalgamati in armonia. In questo modo, se la stagione primaverile trascorre gradevolmente per Elias nella tanca, lo stesso non si può dire dell’inverno, come riconosce il narratore: Veniva il freddo, l’immensa tristezza dell’inverno nella solitudine; e la costituzione malandata di Elias se ne risentiva profondamente. I lunghi giorni di pioggia, di neve e di strapazzi – giacché è nell’inverno che il pastore sardo, il cui gregge e lui stesso vivono senza riparo, lavora e soffre di più, – il disagio della capanna sempre piena di fumo e di vento, la lotta contro gli elementi, finirono con l’esaurire le forze fisiche e morali di Elias.11 Con l’arrivo del freddo la solitudine non è più gradita, le fatiche del lavoro, così come le fatiche dovute alla lotta contro la natura e contro i propri sentimenti, portano Elias ad un esaurimento, al limite delle proprie forze e della propria salute fisica e mentale: è dunque nell’inverno, come sottolineato dal narratore, “che il pastore sardo lavora e soffre di più”12. Il turbamento esistenziale di Elias sembra non avere mai fine, e nelle difficili giornate di quella lunga stagione sembra diventare ancora più pesante, quasi insostenibile. Nell’ambiente fatto di primavere dolci e di inverni tristi e solitari, e particolarmente caratterizzato da brughiere aspre, fichi d’India, greggi di pecore, colline e villaggi sperduti, s’immedesimano gli stati d’animo dei personaggi e gli elementi della natura. Secondo Sapegno, bisogna “sottolineare il particolare tono di questi paesi e ambienti, intrisi di nostalgia e di lirismo autobiografico, sfumati e trasfigurati nel ricordo”13. Nostalgia e lirismo sono forse le parole che meglio rappresentano il legame e la radice comune tra il motivo paesistico e la tematica morale di Elias Portolu. Questi due elementi caratteristici della letteratura di Deledda appaiono fortemente riuniti per la prima volta in questo romanzo che sembra non solo precisare i confini sentimentali e geografici dell’universo poetico della scrittrice sarda, ma anche segnare l’inizio della sua stagione migliore. Vent’anni senza Moravia: uno scrittore dimenticato? Silvia La Regina (Università G.d’Annunzio – Pescara) P assati vent’anni dalla morte di Alberto Moravia (1907-1990), possiamo tessere alcune brevi considerazioni sulla sua opera e sulla sua fortuna, principalmente sulla forte dicotomia fra quella in vita e quella postuma. Infatti ci sono autori che, misconosciuti in vita, vengono (ri)scoperti in modo talvolta clamoroso dopo la morte: penso per esempio a Fernando Pessoa, esempio principe di scrittore che ha avuto gigantesca fama postuma contrapposta all’indifferenza quasi totale per le sue opere finché era vivo. Altri conoscono la fama già in vita, ed è il caso di Jorge Amado, e, appunto, Alberto Moravia; scrittori che cito insieme, perché entrambi, in contrasto con la grande celebrità, alleata al successo di vendite, talvolta di critica, di cui godettero da vivi, entrambi dunque sono stati in qualche modo dimenticati o messi da parte dopo la morte (quella di Amado nel 2001). Già dieci anni fa ci si interrogava su questo fragoroso silenzio sull’opera di Moravia: in un interessante articolo del 2005, Paolo di Paolo rievoca le scarse celebrazioni di cinque anni prima, nelle quali già serpeggiava la perplessità per l’assenza di Moravia; fra tutte, un articolo in prima pagina del «Corriere della Sera», a firma di Antonio Debenedetti, che scriveva: “I romanzi di Moravia si leggono sempre meno, mentre di questo autore, che rimane tra i più grandi del nostro Novecento, non si scrive quasi più. Diminuiscono persino le tesi di laurea sull’autore de Gli indifferenti. Un disastro!”1. Moravia, intellettuale impegnato, attivo critico cinematografico - linguaggio col quale manteneva una feconda collaborazione, se si pensa a quanti film sono stati tratti dai suoi romanzi e racconti2, e che coltivava con la sua rubrica settimanale su «L’Espresso» - ha lasciato interessanti e acuti réportage di viaggio3, ma soprattutto una 8 9 18 apud Paolo di Paolo, “Tornare a Moravia”, http://www.italialibri.net/contributi/0511-1.html. Fra i film alla cui sceneggiatura Moravia ha partecipato e quelli tratti dai suoi libri, quasi 60 titoli, per la regia di De Sica, Bertolucci, Monicelli, Godard, Bolognini, Soldati, Damiani, Blasetti... 3 Fra tutti, La rivoluzione culturale in Cina, del 1968, e tre volumi africani, A quale tribù appartieni? (1972) Lettere dal Sahara (1981 e Passeggiate africane (1987). 1 2 19 vasta produzione di romanzi, romanzi brevi e racconti che fanno di lui uno degli scrittori più prolifici del XX secolo italiano e principalmente un unicum nel panorama delle lettere peninsulari. Infatti Moravia, fin dal suo esordio, avvenuto precocemente nel 1929 con quella che forse è rimasta la sua prova migliore, Gli Indifferenti, accanto a una costante e acutissima capacità di penetrazione psicologica mostra la capacità di svincolarsi da una certa tradizione tutta italiana - e dolorosamente provinciale, di una provincia ottusa dalla dittatura fascista - paludata e ingessata, di tarda propaggine di un decadentismo malamente invecchiato che si esplicava in uno stile e in una tematica, in una parola, vecchi. Moravia, più vicino culturalmente alla tradizione francese e russa, scrive un romanzo che possiamo definire esistenzialista ed inventa uno stile semplice e chiaro, comunicativo e diretto, di osservazione asettica e crudele; ne Gli Indifferenti, l’autore riesce a mettere in evidenza gli aspetti più grotteschi della realtà attraverso lo studio realista e quasi da entomologo dei suoi personaggi borghesi, deboli, apatici, senza ideali né prospettive, quasi prigionieri in una pania morale in cui si dibattono sotto lo sguardo di Moravia. L’uomo che guarda (1985) sarebbe dunque proprio Moravia… E infatti lo sguardo è l’elemento principe nelle opere dello scrittore romano, a conferma, una volta di più, della vitalità e forse dell’inevitabilità del rapporto col cinema: sguardo come cinepresa che filma il reale 4 20 Citato in di Paolo, ibidem. scrutato con un’attenzione che lo rende quasi iperrealtà. Realismo, dunque, predominio dello sguardo, assenza di partecipazione politica diretta (vivace invece sui giornali, sulle riviste, nei dibattiti) e il vero motore della sua narrativa, il sesso. Il sesso per Moravia è un principio di identità, una formula di traduzione della realtà, una Weltanschauung carnale ma mai solare. Qui torniamo al paragone iniziale con Jorge Amado: anche per lo scrittore grapiúna, infatti, il sesso è un elemento portante - e come per Moravia, col passare degli anni via via più centrale nella sua opera narrativa - ma è espressione di vitalità, di allegria, di cambiamento in positivo del mondo: per fare solo due esempi, in Dona Flor e seus dois maridos l’energia del desiderio sessuale di Flor riporta in vita il marito Vadinho, mentre Teresa Batista, nel romanzo omonimo, torna vergine ogni volta che s’innamora. Invece per il romano - che comunque, anche con qualche tardiva caduta di gusto (ma Jorge Amado ha scritto A descoberta da América pelos turcos!) non è mai volgare né pornografico - il sesso in genere è simbolo di decadenza, sofferto, causa sensi di colpa, spesso repulsione e disgusto. L’iniziazione al sesso è un rituale costellato di angoscia e dolore, come in “Agostino” (1944) o “La disubbidienza” (1948), due romanzi brevi intensi e preziosi; la donna è quasi sempre minacciosa, misteriosa e paragonata in più occasioni ad un grande serpente divoratore - simbolismo trasparente da parte di un autore la cui chiarezza non diviene però mai semplicismo. Altri temi fondamentali il denaro, quasi sempre connesso al sesso e visto come strumento interpretativo della realtà, e la famiglia: nucleo centrale del romanzo in sé, e anzi della tragedia - per Moravia il genere più alto - per lo scrittore, che infatti, nel libro-intervista Vita di Moravia, a cura di Alain Elkann, dice: “La famiglia è l’argomento principe di tutta la letteratura occidentale : da Eschilo in poi è difficile trovare uno scrittore che non si occupi della famiglia; in questo senso sono comune e normale. Perché la letteratura si occupa della famiglia? Perché il nucleo familiare è un microcosmo in cui, come si dice, si specchia il macrocosmo”4. A vent’anni dalla sua morte, come scrivevo all’inizio, cosa resta di Moravia? Uno scrittore di sinistra, lucido e onesto, detestato dai benpensanti per le sue posizioni definite oltraggiose (è messo all’Indice nel 1952), autore di libri ancora oggi godibili e anzi di rara scorrevolezza; un intellettuale coerente e integro, forse per questo sempre più inviso in un’Italia in cui il comune sentire sembra sempre più ondivago e vigliacco. Massimo Bontempelli nel sistema letterario brasiliano: il caso de “O colecionador” Q uesto articolo tratta della riscrittura di uno dei racconti dello scrittore italiano Massimo Bontempelli nel sistema letterario brasiliano. Il racconto “O colecionador”, la cui prima divulgazione in lingua italiana è avvenuta durante i primi anni Dieci del secolo scorso, è stato pubblicato in portoghese nel nono volume dell’opera Mar de Histórias: antologia do conto mundial, nel 1999. I traduttori Aurélio Buarque de Holanda Ferreira e Paulo Rónai hanno intrapreso un ampio processo di riscrittura di racconti mondiali riconosciuti nei rispettivi sistemi letterari e, in questo modo, hanno posto la narrativa di Massimo Bontempelli affianco a quella di Pirandello, James Joyce, Hermann Hesse, Ryonosuke Akutagawa, Saki, Chesterton, Miguel Unamuno, Avertchenko, tra gli altri; riunione, questa, che si è mostrata diversificata grazie al fatto di aver privilegiato anche quegli autori che erano rimasti un poco ai margini del canone letterario del XX secolo. Massimo Bontempelli è uno scrittore italiano che ha segnato Arivane Chiarelotto & Patricia Peterle Univ. Federal de Santa Catarina il panorama culturale del suo paese con una vasta opera letteraria e saggistica, ma che non ha raggiunto una significativa visibilità mondiale. Il racconto “O colecionador”, che rappresenta Bontempelli in Mar de Histórias, si iscrive come uno dei primi sforzi dell’autore italiano in campo letterario. Nel 1946 egli pubblica l’opera Racconti vecchi, con la quale divulga i lavori iniziali della sua attività narrativa, scritti fra il 1904 e il 1914; fra di essi, figura “O colecionador”. In Mar de Histórias, i traduttori adottano un procedimento comune per introdurre gli autori delle narrative elencate. Ogni racconto è pre- ceduto da una breve descrizione del profilo dell’autore dell’opera tradotta. Così, Bontempelli è presentato al lettore brasiliano tramite un testo di circa tre pagine, che riassume la sua storia e le sue attività. Di fronte a ciò, abbiamo un particolare trattamento dell’opera, che merita di essere osservato: s’interpretano opera e autore, il che sembra essere un processo di passaggio notoriamente esteso e che implica il concetto di traduzione. Nell’accezione de Lefevere, “a tradução é, certamente, uma reescritura de um texto original [la traduzione è certamente una riscrittura del testo originale]”1, quindi egli opera un intrec- 1 LEFEVERE, André. Tradução, reescrita e manipulação da fama literária. Trad. Claudia Matos Seligmann. Bauru: Edusc, 2007, p.11 21 cio di concetti, convertendo la traduzione nella principale componente del processo di riscrittura. In questo senso, la traduzione è dunque intesa come manipolazione, inserendosi in un terreno ideologico, con implicazioni di potere che possono tanto ampliare come reprimere lo sviluppo di una letteratura e di una società. Le concezioni di André Lefevere si inseriscono in un ampio movimento di revisione delle prospettive della traduzione, che furono rese possibili anche dagli sdoppiamenti del suo campo di studio, come disciplina autonoma, nelle ultime decadi in occidente. Ancorati, pertanto, al rinnovamento dell’area, gli studi della traduzione riesaminano lo stesso concetto di traduzione, attribuendogli valore dialogico. A questa condizione, la traduzione passa ad essere concepita come un processo di riscrittura di un testo originale, il quale implica anche l’antologizzazione, la storiografia, la critica e l’edizione. Alla riscrittura si legano la ricezione e la canonizzazione di opere letterarie, conservando essa il suo statuto di arte letteraria così come l’opera originale. Questo nuovo approccio rivede anche il luogo dello stesso traduttore che, nell’assumere il ruolo di mediatore culturale, definisce, fra le altre cose, un’immagine e un costrutto dell’opera originale davanti ai possibili lettori. Così, è a partire dal processo di riscrittura che si disseminano le grandi opere della letteratura mondiale, quindi, anche questo processo contribuisce alla definizione del canone, che, riconosciuto nella sua dimensione ideologica, potrebbe altresì essere denominato “alta Cultura”. Le affermazioni di André Lefevere sono appropriate per comprendere l’inserimento di Bontempelli nel sistema letterario nazionale ed il rispettivo riconoscimento nel campo letterario europeo e mondiale. Fra gli anni ‘20 e ‘40, egli dirige riviste, scrive testi saggistici, pièce di teatro, ripubblica poesie e opere che all’inizio del secolo avevano avuto poca visibilità. Autore di opere di innegabile valore letterario, Bontempelli è tradotto solo in inglese, francese, tedesco e, in portoghese, solo un romanzo, nel 1933: Vita e morte di Adria e dei suoi figli, tradotto dalla Editora do Globo, di Porto Alegre. La produzione dell’autore italiano va oltre le opere narrative. Nella sua produzione intellettuale, si distaccano anche le teorizzazioni sul realismo magico e la contundente partecipazione al contesto politico italiano del periodo fra le due guerre, attraverso l’adesione e la successiva espulsione dal partito fascista. Insomma, un’esperienza intellettuale e politica intensa, propria di chi cercava di raggiungere l’armonia fra queste due dimensioni della sua vita.2 Le tesi di Lefevere sul mecenatismo aiutano a capire perché Bontempelli sia un autore tanto controverso per la storia letteraria. In base alla cerchia politica che definì per sé e all’adesione al partito fascista, poté beneficiarsi di una qualche circolazione internazionale per le sue opere. Ma, sin dal momento in cui rompe col partito, nel 1936, e prosegue la carriera in una situazione politica marginale, Bontempelli entra in una progressiva decadenza, fase che comincia ad aggravarsi con il suo ingresso nel partito comunista, quando viene eletto senatore nel 1948. Dunque, come spiegare se non con le forze occulte del mecenatismo il fatto che l’autore, che grazie al successo delle sue opere era stato nominato membro dell’Accademia d’Italia nel 1930, sia stato un fiasco nella riedizione delle opere negli anni ‘70?3 Per fare un passo avanti in questo dibattito, una pista può essere questa antologia di racconti brasiliana. Nel complesso, il testo tradotto e il citato preambolo storico, in quest’opera, possono essere intesi come dimensioni della riscrittura, considerando le definizioni di Lefevere. Si consideri che il riassunto biografico presentato offre un ricco materiale illustrativo di quello che può essere un processo di manipolazione ideologica che si fa presente nella riscrittura. Nel caso particolare della presentazione di Bontempelli, può essere identificato un processo manipolatorio che merita attenzione e che dev’essere qui discusso. In primo luogo, è possibile notarlo quando i “riscrittori” s’impegnano nel definire un’immagine dello scrittore, anticipando, dunque, che egli era portatore di una stilistica propria. Per far ciò, riassumono una delle sue narrative 2 Nell’opera L’Avventura Novecentista: dal “realismo magico” allo “stile naturale” soglia della terza epoca, Bontempelli avverte: “questo libro inopinato uno stato d’animo incline a cercare armonia tra il letterario e il politico, e rappresenta una personale esperienza ormai nettamente conchiusa” (BONTEMPELLI, 1938, p. 5). 3 Cfr. DE CAPRIO, Vincenzo; GIOVANARDI, Stefano. I testi della letteratura italiana: Il novecento. Milano: Einaudi Scuola, 1994. p. 983. 22 e l’associano al costrutto: “Um romance caracteristicamente bontempelliano. [...] Estilo límpido, sereno, classicamente perfeito e equilibrado [Un romanzo tipicamente bontempelliano. /.../ Stile limpido, sereno, classicamente perfetto ed equilibrato]”4; il che potrebbe anche essere inteso come un commento elogiativo alla poetica bontempelliana. Nel corso della succinta spiegazione, si distaccano anche degli aspetti della carriera che evidenziano il suo spirito versatile. Di fatto, tutte le informazioni procedono, purtuttavia si consideri che il brano che è stato scritto per descrivere la versatilità dello scrittore si avvicina molto più ad un costrutto dell’instabilità professionale di Bontempelli. Questo passaggio ci sembra appropriato per esplicitare il carattere manipolatorio che la traduzione o il campo maggiore della riscrittura può avere, come afferma Lefevere. In poche righe è riassunta la traiettoria intellettuale, senza lasciar chiaro che si tratta di più di cinquanta anni di produzione giornalistica e letteraria. In questo modo, la sottrazione della temporalità degli eventi citati corrobora un’immagine di ribellione che sfiora i limiti dell’“inconsequenzialità” di Bontempelli. Dissociare le opere e i fatti di un autore dal suo tempo storico è un’importante forma di manipolazione que può essere operata attraverso la riscrittura. L’atemporalità, in questo caso, lo allontana dalla cultura o lo destituisce della tradizione, minando gli elementi storici che sostennero il comportamento inquieto dell’autore. Questo passaggio, in questo caso, si presta solo ed esclusivamente a condurre il lettore ad un sospiro di sollievo per non aver mai sentito parlare di Massimo Bontempelli; e ad avere, pertanto, anche una visione molto parziale del tutto. L’intenzione di Aurélio Buarque de Holanda Ferreira e Paulo Rónai, di portare dentro un sistema letterario periferico come il brasiliano un autore che non appartiene all’“alta letteratura” mondiale, avrebbe avuto maggior appropriatezza se fosse riuscito a contestualizzare l’inquietudine di Bontempelli. Rivolto lo sguardo al contesto culturale europeo, si scoprirebbe che l’“inquietudine” era propria di una generazione di artisti italiani d’inizio secolo XX. Il modo stesso di approcciare la presenza di Bontempelli nei confronti del “Novecentismo” indica che egli non era una voce solitaria a beneficio della ricerca di un approccio letterario adeguato all’atmosfera del XX secolo. Dopo essere uscita a pezzi dalla prima guerra mondiale, l’Italia entrò in una fase di cambiamenti e in tutti gli aspetti della vita sociale emergeva il desiderio di ricostruzione e di modernizzazione. Sotto l’influenza delle voci che provenivano dalla filosofia e dalle arti, per esempio, Bontempelli annuncia nelle sue 4 FERREIRA, Aurélio Buarque de Holanda & RÓNAI, Paulo (Orgs. e Trad.). Mar de histórias: antologia do conto mundial. 4. ed. Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1999, p.57. 23 pubblicazioni giornalistiche il desiderio di rinnovamento in campo letterario, poiché, per lui, la letteratura era la più alta espressione della vita di un paese. Pertanto, dialogava con le opere di Nietzsche, con esponenti del Surrealismo e con il maggior rappresentante, anche lui italiano, della pittura metafisica dell’epoca, Giorgio de Chirico. L’inquietudine descritta in Mar de Histórias si spiega alla luce di questo percorso intellettuale dell’autore, che perseguiva avidamente uno stile letterario che fosse in armonia con lo sviluppo economico, sociale e politico della società dell’epoca. Nel 1938, le sue brulicanti idee, scritte nel corso dei ventiquattro anni precedenti, furono riunite dell’opera L’avventura Novecentista; non a caso è intitolata avventura, essendo la testimonianza stessa di un’epoca segnata da uno spirito generalizzato di impresa, di audacia e grandi scommesse che, per qualche motivo, è rimasto ai margini nella riscrittura dei traduttori brasiliani. Oltre al problema della temporalità e dell’assenza di un’analisi che chiarisca gli sdoppiamenti storici su cui si è fondata la sua produzione letteraria, un’altra importante questione si presenta nebulosa nel processo di riscrittura: le originali teorizzazioni di Bontempelli sul realismo magico, concetto che i traduttori tendono a rileggere quando adottano la denominazione di “realismo umoristico”. In un tentativo di chiarire lo stile proprio di Bontempelli, i traduttori ricadono nuovamente nell’inferenza della comicità come un fondamento dell’opera: “Parte duma hipótese absurda para daí deduzir com irrespondível lógica as inevitáveis consequências, físicas e psíquicas [Parte da un’ipotesi assurda per dedurvi con logica irrefutabile le inevitabili conseguenze, fisiche e psichiche]”5; e ancora, “Em ‘Viagens e descobertas’ e ‘O Tabuleiro diante do espelho’, o autor desliga-se ainda mais da realidade para entregar-se a fantasias metafísicas de um humorismo algo cerebral” [In ‘Viaggi e scoperte’ e ‘La scacchiera davanti allo specchio’, l’autore si allontana ancor di più dalla realtà per consegnarsi a fantasie metafisiche di un umorismo alquanto cerebrale]6. E, infatti, quello di Bontempelli è un tentativo di cercare il rinnovamento in campo letterario; nel frattempo, se consideriamo l’esempio del racconto “O colecionador”, si può confermare che c’è il predominio di un genere metaforico, dovendosi frattanto discutere il presupposto del burlesco. Ne L’avventura Novecentista, Bontempelli si mostra convinto della funzione della letteratura: “La vera norma dell’arte narrativa è questa: raccontare il sogno come se fosse realtà, e la realtà come se fosse un sogno”7. Chissà se per questa ambiziosa pretesa, la stilistica dell’autore finì con l’essere interpretata come un “umorismo quasi cerebrale”, un indice che la ragione era un elemento strutturale nelle sue narrative. Quanto simile sarà il procedimento del Barone Raimundo della Valle che fa dell’arte di collezionare un motivo per morire, con i processi ossessivi che costituiscono l’uomo moderno, il quale, nel tentativo di umanizzarsi e vivere in società, compete con l’altro in una manifesta morte quotidiana? Bontempelli sembrava volere che le sue narrative ospitassero tali conflitti, subliminali alla realtà moderna. Tuttavia, bisogna ponderare se la denominazione “realismo umoristico” è appropriata per designare tali intenzioni. In ogni caso, per concludere, è bene dire che questa inclinazione per una nuova concezione dell’arte letteraria rese a Bontempelli associazioni più aride presso i suoi contemporanei, per i quali l’opera dello scrittore faceva parte della cultura di massa del fascismo. Ceserani e De Federicis8, storici della letteratura italiana, attribuiscono un ruolo unico alla narrativa di Bontempelli, “ideatore di personaggi adatti al consumo popolare”. Tale affermazione apre il campo a nuovi studi che, sviluppati nella prospettiva della metodologia della letteratura comparata, potranno chiarire i condizionamenti storici dei molteplici sdoppiamenti della carriera letteraria di Bontempelli. (Traduzione di Andrea Santurbano) FERREIRA, Aurélio Buarque de Holanda & RÓNAI, Paulo, Opt. Cit., p.57. Idem, p. 59 7 BONTEMPELLI, Massimo. L’Avventura Novecentista: dal “realismo magico” allo “stile naturale” soglia della terza epoca. Firenze: Vallecchi Editore, 1938, p.251. 8 CESERANI, Remo e DE FEDERICIS, Lidia de. Il materiale e l’immaginario: la società industriale avanzata: conflitti sociali e differenze di cultura. Manuale e Laboratório di letteratura. Torino: Loescher Editore, 1993. 1531 p. (vol. V). 5 6 24 Uno sguardo alla scrittura sociale di Elio Vittorini e Vergílio Ferreira S Camila Landucci & Andrea Santurbano (Universidade Estadual Paulista & Univ. Federal de Santa Catarina) i può dire che le manifestazioni artistiche, in qualche modo, contribuiscano alla formazione e allo sviluppo dell’essere umano, che nella sua ricerca costante di comprendere la realtà che lo circonda si rifugia nell’arte, per tentare di spiegarla e di capire se stesso, como indica Alfredo Bosi nel suo libro Reflexões sobre a Arte1. In questo modo, pensando all’intimo rapporto che l’arte stabilisce con l’uomo, si può altresì considerarla lo specchio dell’umanità, che opera come indicatore di una realtà sociale, molte volte veicolo di denuncia e resistenza a quanto le è imposto. In questo ambito dell’arte come veicolo di denuncia sociale, la letteratura degli anni ‘40 ha un ruolo rimarchevole, principalmente come forma di impegno, che si preoccupa della questione dell’alienazione nella società moderna, proponendo una nuova forma di guardare la realtà, offerta tramite un approccio dialettico. Come direbbe Umberto Eco, solamente attraverso una so1 2 luzione dialettica l’uomo può comprendere la nuova realtà instauratasi nel mondo in crisi. Così, partendo dalla lettura di opere di Elio Vittorini e Vergílio Ferreira, questo articolo si propone di presentare uno sguardo sull’arte, in quanto letteratura, come indice di denuncia e resistenza, prodotta nel periodo dell’instaurazione delle grandi dittature che incatenarono l’Europa durante il XX secolo, modellando la cosiddetta letteratura di resistenza. Alfredo Bosi definisce la letteratura di resistenza2 come un movimento “interno al punto di vista narrativo” che, sebbene preoccupata del sociale, non permane appena in superficie sul piano storico, ma che nel corso del dialogo narrativo “affiora alla superficie del testo di finzione”, rivelando i più “autentici” e “sofferti” valori che danno voce al silenzio degli esclusi. Nell’ambito della Letteratura di Resistenza, la scrittura sociale di Elio Vittorini e Vergílio Ferreira conduce il lettore a una linea di pensiero che cerca di stabilire un equilibrio dialettico, dal momento che entrambi penetrano nella realtà sociale del loro paese, adottando il linguaggio come loro strumento di espressione, BOSI, Alfredo. Reflexões sobre a Arte. Coleção: Fundamentos. São Paulo: Ática, 1995. BOSI, Alfredo. Literatura e Resistência. São Paulo: Companhia das Letras, 2002. 25 servendosi della letteratura come un’armata di resistenza, mostrando attraverso le lettere una forma di reazione contro l’alienazione che schiavizza la popolazione. Elio Vittorini in Italia e Vergílio Ferreira in Portogallo, impegnati nella realtà del loro paese, attraverso la scrittura traducono tutto lo spirito di un momento culturale, che iù tardi sarà chiamato neorealismo. La scrittura iniziale di Vergílio Ferreira porta con sé le sfumature del neorealismo, le impronte di una letteratura impegnata con i valori del suo tempo per un’imposizione politica e partitica. Tuttavia, è importante sottolineare che con la maturità del suo fare letterario lo scrittore portoghese svolge la sua arte sublimando l’indirizzo umanista, che risulterà nella narrativa esistenzialista seguendo la corrente filosofica sostenuta da Sartre, come indica la studiosa Isabel Cristina Saraiva de Assunção Rodrigues. Per Ferreira, dando corpo a un pensiero di base esistenzialista, emerge il primato del sentire, “l’essenziale non è nel pensare, ma nel 3 4 5 26 sentire”, che dice “la verità è amore”, per il fatto di essere la verità emotiva la prima e l’ultima che unisce il mondo. Secondo Flory, il neorealismo vergiliano è una decorrenza degli ideali degli anni ‘40, con le rivendicazioni sociali del suo tempo. Il racconto Mãe Genoveva3, all’interno di questa prospettiva neorealista, è basato sulla denuncia della miseria sociale, come un ritratto della società portoghese in quel momento, ma che carica in sé le prime tracce dell’esistenzialismo che contraddistinguerà l’attività letteraria dello scrittore lusitano. Elio Vittorini: la resistenza italiana attraverso il dialogo siciliano Intellettuale forgiato dai sentimenti esperimentati nel quotidiano, Vittorini contribuì fin dall’inizio della sua attività di scrittore alla divulgazione della parola, lavorando in opposizione agli interessi del regime fascista, scrivendo opere che illustravano una condizione umana fuori dal tempo e dalla storia, aspetti inediti della società italiana: la violenza del “mondo offeso”, il dolore per il “genere umano perduto” e i suoi riflessi sulla condizione miserevole imposta all’uomo. Uomo di lettere, attento agli appelli della società del suo tempo, Vittorini prende parte alla vita culturale italiana nel momento in cui il dibattito sulla funzione della letteratura e la sua relazione con la realtà sociale acquista l’intensità della resistenza e attinge il suo apice. Come gli intellettuali portoghesi, anche i letterati italiani cercavano una forma di impegno con la realtà per vincere la situazione alienante che legava gli immersi nell’ignoranza a causa del dominio di interessi politici. La forza della resistenza, nel percorso dello scrittore italiano, si traduce nella sua attività letteraria, trascendendo i modelli della rappresentazione artistica, producendo con maestria opere soggette a una prosa lirica e evocativa che uniformizzano: “la rappresentazione della realtà non ufficiale viene filtrata, distanziata, rarefatta mediante la ben nota prospettiva della memoria”4. Conversazione in Sicilia5 narra il ritorno di Silvestro, narratore protagonista, nella sua terra natale, e tramite il dialogo stabilito tra lui e i personaggi che appaiono nel corso del romanzo vengono mostrate al lettore le situazioni di ingiustizia, repressione, disuguaglianza sociale, le quali producono la sensazione scomoda di qualcosa che non sta al posto giusto e che causa malessere come l’acqua che entra in una scarpa bucata. In questo romanzo, Vittorini riempie la narrativa con le FERREIRA, Vergílio. Mãe Genoveva. In:__________. Contos. Lisboa: Bertrand, 1993. GUGLIELMINO, Salvatore. Guida al Novecento. Milano: Principato Editore, 1998. VITTORINI, Elio. Conversazione in Sicilia. Milano: Bompiani, 1958. impressioni di immagini dei paesaggi ed eventi che sigillarono la sua infanzia, con le impressioni di una narrativa che contempla il lettore con un dialogo allusivo e lirico, cadenzato dalla ripetizioni di frasi, avvicinando la narrativa alla poesia e al sogno. Si avvicina a Vergílio Ferreira nell’uso raffinato della lingua, infatti anche lo scrittore italiano si è appropriato del linguaggio metaforico per sfuggire alla censura fascista, modulando coerentemente la sua tecnica letteraria. Durante la traversata di Silvestro, i personaggi portati alla luce da Vittorini contribuiscono alla rappresentazione di una collettività. È notevole nella descrizione e nel discorso del piccolo siciliano la caratterizzazione di tutta una comunità di esclusi, così come nell’allontanamento e recriminazione di Coi Baffi e Senza Baffi, allorché fanno riferimento al piccolo siciliano, dimostrando la supremazia ingiusta di coloro che sfruttano una posizione di privilegio. 6 La rappresentazione umana creata da Vittorini va al di là della creazione immagetica dei personaggi, descritti per mezzo delle loro azioni e dialoghi, componendo una fisionomia fisica, senza addentrarsi nelle venature psicologiche, conducendo il lettore a riflettere sugli atteggiamenti dei personaggi di fronte alla situazione che è loro imposta, agendo come un fattore di denuncia della sofferenza muta di tutta una collettività. L’esperienza della narrativa come molla della resistenza intellettuale privilegia il canone letterario con romanzi che arricchiscono la lingua scritta e documentano la memoria storica di un paese. Contribuendo ognuno a modo suo, Ferreira e Vittorini si configurano quali letterati europei che, in possesso del buon uso della scrittura e nel dominio della tecnica rappresentativa, hanno saputo dare spazio alla memoria degli avvenimenti della loro epoca, senza tacere le loro voci di fronte alla censura della repressione, reagendo alla letargia di uomini e donne incatenati ai sistemi sociali e politici: È uno dei modi attraverso i quali la narrativa neorealista cerca di rispondere a un bisogno di rappresentazione épica difuso nella cultura del tempo, richesto dal nuovo livello di partecipazione sociale alle vicende della nazione. La coralità épica raggiunta in tal modo suggerisce però l’immagine di una comunità ancora dispersa e frammentata, lontana dal suggerire nuovi modeli di rapporti sociali: una colletività raccolta soltanto attorno ad alcuni fondamentali valori morali di solidarietà messi in luce dall’oppressione e dalla sofferenza sperimentata in guerra o in prigionia.6 BIANCHINI, Andrea; LOLLI Francesca. Letteratura e resistenza. Bologna: CLUEB, 1997. 27 Ritorno aperto Manuela Lunati Queste lettere fanno parte di un epistolario di viaggio che, se mai fosse divulgato integralmente, si chiamerebbe “Ritorno aperto”, perché la data di rientro, non determinata a priori, è dipesa esclusivamente dall’esaurimento delle finanze della viaggiatrice. Nove mesi per le strade (e sentieri) di Brasile, Uruguay, Argentina. La gestazione - sudata, sporca, scomoda, magica - di una donna nuova. Il più bello sfizio che qualcuno possa togliersi in questa vita. Quasi un diario vero Maranhão, 14 giugno 2006 B rasilia, alla fine, mi conquista. È perché mi lascia vivere ariosa ed astratta. Nella meta-architettura della città ritrovo qualcosa del mio meta-vivere. Stringiamo un patto di amicizia, io e Brasilia. Quando ci rivedremo saremo entrambe un po’ ansiose ed un po’ 28 commosse, come i vecchi compagni di scuola. La vera avventura, quella con la borraccia ed il coltellino da tasca multiuso, direi che comincia a Parnaiba. Qui ci imbarchiamo sulla Cidade Tutoia, una navigazione di otto ore lungo i canali del Delta del Rio Parnaiba ci porterà alla città da cui prende il nome la nostra gaiola. Il viaggio è una sorta di iniziazione: chi resisterà alla monotonia del lungo pomeriggio di un solo paesaggio (acqua torbida, vegetazione blindata, il nascondino dei granchi e la caccia delle gazze turchesi quali uniche concessioni alla disposizione da safari del turista) è pronto a sopportare l’ozio delle sieste imposte dal sole nordestino. Io non sono affatto una buona candidata: il mio zaino nasconde riviste e salatini con cui tenterò di ingannare il tempo. João, al contrario, è un passeggeromodello: la barca neanche è partita e lui sta già sonnecchiando nell’amaca. A dire il vero, anche gli altri passeggeri già dormono: il vecchio misteri dell’amaca! – con mio grande stupore riposa prono, la donna ripropone la posizione classica mentre la ragazza è distesa in senso contrario rispetto alla lunghezza della rede, come per assicurarsi una transizione rapida dallo stato “sdraiato” allo stato “in piedi”, l’irrequietezza santa degli adolescenti. Io esordisco nella “posizione del turista”, che consiste nell’allineare il corpo ai due lati maggiori del supporto come una terza parallela centrale. Ciò che si ottiene così è di essere inghiottiti dal tessuto, liberarsi da tale sudario si rivela allora difficilissimo, gli arti si dimenano con la disperazione stupida delle galline afferrate per le zampe. João si accorge che sto affondando nelle maglie della mia amaca (la mia prima amaca da viaggio!) e mi salva. Mi rivela, quindi, il trucco di un buon pisolino sospeso: il corpo deve disporsi in diagonale rispetto al rettangolo di stoffa, con il sedere bene al centro ed i piedi che sbucano da un lato. Messa a parte dei segreti dell’“arte dell’amaca” chiudo gli occhi, e sto quasi sognando. Se la mia vita di sapone neutro ed olio di mandorle fosse fecondata da una creatura del fango, partorirei che cosa? Unti di cherosene per scoraggiare le zanzare, i cacciatori di granchi osservano semisepolti la nostra navigazione, il braccio affondato nella terra molle non interrompe l’estrazione per rispondere al nostro saluto, il mio spirito di confraternizzazione sfama meno che l’esperto crostaceo. Il fuoristrada che da Tutoia ci permetterà di raggiungere Paulino Neves viene a prelevarci alla pousada all’ora combinata. Quando l’autista ci indica il veicolo il mio primo pensiero è che la portata non dico ‘consentita’ – il concetto non si applica a questa latitudine – ma quantomeno ‘possibile’ sia stata ampiamente superata. Invece, lungo il tragitto riusciamo a caricare ancora due passeggeri, quattro cocomeri, vari sacchi di sale ed altri pacchi sigillati. Trasportiamo inoltre per brevi tratti gli alunni delle elementari diretti a lezione, ma questi non richiedono ulteriori sacrifici di spazio, viaggiano in equilibrio sul parafango o siedono a cavallo dei bagagli. Magnifica composizione di umanità compressa a cui partecipo col mio odore, colore e temperatura, che sono diversi dall’odore, colore e temperatura della mia vicina, gli uni e gli altri democraticamente offerti come dati accessibili a ciascuno in virtù della socievole concentrazione dei corpi. Il passeggero alle mie spalle affonda il ginocchio tra le mie vertebre, ed io gli sono grata. Il braccio che si strofina contro il mio è ruvido, ed io gli sono grata. Sono grata perfino a questa strada sconnessa ed accidentata, ogni fossa è una risata, ogni pietra uno scherzo. Attraversiamo un ruscello e mi bagno: sono grata e bagnata. Per fortuna non devo spiegarlo a João: lui mi guarda e capisce la mia allegria di stare scomoda. Soggiornare a Paulino Neves è sinonimo di essere ospiti di Dona Mazé: nessun viaggiatore si sognerebbe di pernottare in un’altra pousada, rinunciando così alla ormai leggendaria mariscada di benvenuto. Dona Mazé è citata in tutte le pubblicazioni sul Maranhão, la sua foto compare nelle riviste di viaggio, le sue ricette nei periodici di gastronomia; eppure, Maria José da Silvia Gomes, così Dona Mazé è registrata all’anagrafe, conserva la semplicità di un’anonima albergatrice, è più carne ed ossa che mito. Prima ancora di vederci, mentre João si sta congedando dall’autista, Mazé lo riconosce dalla sola risata, benché siano trascorsi cinque anni dal suo ultimo passaggio. Una sensazione di conforto mi avvolge nell’apprendere che il mio compagno è riconosciuto per come ride. Nel cortile fiorito di Dona Mazé, all’ombra della gigante mangueira, trascorriamo pomeriggi lentissimi, tra le acro- bazie terrestri delle ranocchie e quelle aeree degli urubu. La natura ha disegnato questa gente con una punta più sottile. Le figlie degli indios Tabajaras hanno occhi timidi dietro fessure strettissime, e contorni perfetti per labbra di polpa matura. Qualcuna, senza saperlo, porta un’Europa di altre generazioni nelle verdi iridi. Fanno il bagno nel fiume vestite e non tagliano i capelli. Vanno in chiesa, o all’Assemblea di Dio, o sono evangeliche. Rimangono in cinta di dieci figli. Danzano un forró che è al passo coi tempi, i tempi del commercialismo e del cattivo gusto. Si lasciano corteggiare al buio del ponte di legno dove tutto succede, almeno tutto ciò che può succedere in un posto così. Hanno poco da dire. Mi guardano. Una di loro, Nubia, mi chiede se è bello là in Italia. Cosa rispondere a qualcuno che non sa dove si trova l’Italia, che non sospetta che sia esistito un Impero Romano, figuriamoci poi un Rinascimento? Neanche il Papa mi viene in aiuto: la ragazza è evangelica. Così rispondo che l’Italia è bella ma molto diversa dal Brasile, ed immensamente diversa dal Maranhão. Anche là la natura è preziosa, però non ci sono le palme da cocco né i manguezais, e gli alberi di là cambiano il colore delle foglie, o perfino le perdono, a seconda della stagione dell’anno (a questo punto dovrei spiegare che le stagioni sono quattro, e non due come qui, dove solo si distingue tra epoca di pioggia e di secca, ma finirei per confonderla con troppe informazioni tutte in una volta). Aggiungo che il mare di là è calmo perché più chiuso e riparato dell’oceano (chissà 29 se Nubia sa di vivere ai margini dell’oceano), non ci sono onde alte e violente come qui e l’acqua sa essere azzurra e trasparente. Mi spingo oltre: in Italia ci sono città antichissime come Roma che ha più di duemila anni, e tesori di arte ed architettura come Venezia e Firenze. La ragazza, che fino alla parte del mare mi era sembrata sintonizzata, comincia come a retrocedere dietro uno sguardo tra il vuoto e l’intimorito. Intuisco che Nubia non ha mai sentito parlare di Firenze, né di Venezia. Forse neanche di Roma, o forse sì ma vagamente, e non in necessaria associazione con l’Italia. “Ma il Brasile è bello, mi piace molto. Specialmente il Maranhão”. Nubia ci invita a fare una gita in canoa fino alla foce del Rio Novo. Con noi vanno Leonardo e Leonilson, proprietari della barchetta a motore, e la piccola Denise, di cui Nubia si sta prendendo cura da quando la bimba è stata allontanata dalla famiglia di origine, dove era vittima di violenza. Denise si diverte a mettersi in posa per le foto, sta seduta con le gambe fuori dalla canoa per godersi gli spruzzi e non la smette di contare ad alta voce da uno a cinquanta, deve aver imparato di recente. Ci lasciamo alle spalle le curve del fiume una dopo l’altra e quasi in silenzio, siamo tutti un po’ timidi. Ad aiutarci a rompere il ghiaccio è l’equilibrio fragile della canoa, nessuno può alzarsi dal posto senza avvisare gli altri, così a poco a poco, di tanto negoziare strategie di bilanciamento, cominciamo a chiamarci per nome e a scambiarci domande sulle rispettive vite. Le scimmie mimetizzate tra le radici del- 30 le mangrovie contribuiscono alla socializzazione, chi ne avvista una deve dare agli altri istruzioni chiare e rapide per individuare l’animale nel rompicapo del manguezal. Quando arriviamo alla duna che marca l’incontro del fiume con l’oceano siamo ormai vecchi amici. E siccome gli amici veri si riconoscono nel momento del bisogno, quando il motore, al ritorno, si rompe, João ed io sappiamo di poter contare sulle braccia allenate dei fratelli Leo&Leo per risalire il fiume a remi. Tra una remata e l’altra i maruin mi divorano, su suggerimento dei due Leo ungo il corpo di cherosene, gli insetti rimangono allora invischiati e non sono più capaci di pungere. Piove. Scende la notte. La marea è troppo bassa: meglio scendere e spingere la canoa. Il letto del fiume è disseminato di ostriche: uno dei Leo si ferisce. Quando, dopo l’ennesima curva, avvistiamo la prima luce del villaggio è felicità grande. Cosa non dimenticherò? La sagoma scura delle palme ai margini del fiume, esili giganti neri guardiani della mia paura. Quando finalmente arriviamo alla pousada Dona Mazé è già con i soccorritori, è tanto preoccupata che, se non fosse negra, sarebbe diventata pallida di tanto immaginare una disgrazia. “Ero così in pensiero”, ci racconta, “che non sono riuscita neanche a seguire la telenovela”. Intuiamo presto che la sua agitazione riguarda più João che me. “Tu mi piaci tanto, e quando qualcuno mi piace io mi preoccupo. Sono fatta così”. “Che tipo di amore è questo?”, non si fa scrupoli a chiedersi Mazé, che a sessant’anni continua a ricevere proposte di matrimonio dagli ospiti della pousada. “Amore di madre? Amore di donna?”. Già. Che tipo di amore? La domanda di tutti, almeno una volta nella vita. Di Caburé porto con me la notte, notte che si accende di luna quando il generatore alle ventidue si arresta e le capanne dei pescatori si spengono ad unisono di orchestra. Com’è bello il mio presepe! Notte bianca di arena bianca, bianca la luna e bianco il tuo volto che dal buio si rivela, amore mio. Notte di vacche sulla spiaggia a godersi la brezza. Notte primitiva, notte di fare l’amore e dormire. Notte che non è per gli insonni. Notte che se chiudo gli occhi ho paura di non avere più una notte così. Di giorno Caburé è il triste presagio di un villaggio in paglia di buriti sepolto nella sabbia. La duna avanza ed inghiotte, le capanne superstiti attendono il loro turno senza troppi sentimentalismi. La scuola locale si previene e sorge su una palafitta. Ma gli alunni sono distratti dal passeggio dei turisti. Gli alunni sono i bambini che dopo la campana mi chiedono un real, io non glielo do e loro se ne vanno leggeri a schiacciare le larve sulle foglie dei cajueiros. Poi mi mostrano orgogliosi il cadavere di lagarta, questo non è ripugnante né improprio, è un gioco, nient’altro che un gioco ad anelli gialli e neri. E tutto è naturale, tutto è come deve essere e non in un altro modo, la fine della larva tra i polpastrelli come le fine di Caburé sotto la sabbia. Barreirinhas ha una piaz- za e non lo sa. La piazza di Barreirinhas è la duna che si erge, incongrua, tra il margine del Rio Preguiça e la brutta chiesa battista. Sul dorso della duna si gioca a calcio, sei scheletri di porta nella sabbia per tre campi immaginari, tre partite che si svolgono allo stesso tempo contendendosi il tifo dei ragazzini. Sulla cresta della duna si aspetta il tramonto, lei con la guancia sulla spalla di lui o lui con la testa sul ventre di lei, ci si ama molto negli ultimi istanti di luce. Ai piedi della duna si passeggia dopo la scuola, il traffico nelle due direzioni è tutto uno scambiarsi di messaggi con gli occhi, le ragazze guardano le ragazze con invidia ed i ragazzi guardano le ragazze stringendo la speranza tra le pagine del libro. All’ombra della duna si fa il bucato nel fiume, cen- to panni da lavare per figli a dozzine, si approfitta del sapone e si strofinano pure i figli, nudi e festosi nel fiume vorrei che fossero i miei. Di Barreirinhas mi prendo la piazza. Infine, Santo Amaro. Chiara solitudine senza pareti. Santo Amaro non mi lascia rubare niente. Sabbia e acqua, la prima scivola tra le dita mentre la seconda già evapora nel palmo. Né raccontarlo posso, Santo Amaro: dovrei avere colori invece che parole, ombre al posto dei significati. Due punti aperte le virgolette, 3 agosto 2006 I giorni si inseguono senza punti, virgole, parentesi, quasi senza spazi tra le parole. Una mattina cedo la mano alla corrente e questo ottengo: “cari amici io apro gli occhi già pieni di una domanda che è se sarà un giorno di sole o di pioggia ma prima di rispondere mi ricordo che a momenti c’è la colazione imperiale che ingoierò tra sensi di colpa come se i venti chilometri che ho da percorrere non bastassero a smaltirla e chissà se oggi saranno dune o falesie e chissà se saranno bagni di onde o di pozze quiete tra i coralli ma non mancherà il mare a cena anche se ancora non ho deciso tra gamberi e polipo mentre già so che se la luna è piena è magia di luce e se la luna è nuova è silenzio di stelle” Ma chi sono, io, per permettermi di scrivere una lettera senza punteggiatura? Preferisco aspettare, se sarò paziente qualcosa accadrà che darà alle possibili parole un ritmo di pause ed accelerazioni. E così è. A Ponta Grossa si manifesta, nero e rotondo, il primo punto: le alghe rosse che la 31 bassa marea lascia scoperte marcano – senza possibilità di malintesi – un nuovo capoverso. Il sapore di ruggine che le alghe conferiscono all’aria, ai miei vestiti, al cuscino non ha nulla a che vedere con lo zucchero e cannella di questi giorni, la putrefazione vegetale risveglia le narici alla coscienza, mi rendo conto di aver avuto nostalgia di qualcosa che fosse brutto o magari solo imperfetto, il paradiso tropicale non assomiglia alla vita che mi ha allevata, a quella balia io ritorno cavalcando una fragranza di ferro ossidato. Punto. Ma senza andare a capo. Perché è ancora un punto di morte putrefatta. Un punto largo, pesante, come se la penna avesse indugiato, un po’ incantata, per scoprire fino a dove la macchia di inchiostro è capace di espandersi. Quando, a São Cristovão, mi imbatto nella tartaruga gigante arenata sul dorso, la corte di urubu già 32 al lavoro, sento come l’impulso di avvisare qualcuno, la polizia, i fiscali dell’Ibama, magari anche solo un pescatore, qualcuno che divida con me la responsabilità di assistere ad una tanto grandiosa decomposizione. Grandiosa quanto sfacciata. Troppo volume per un cadavere al sole, sulla sabbia chiarissima, nello spazio senza ostacoli. Un’ombra, una coperta di foglie secche, questo sarebbe appropriato. Invece no. A São Cristovão la morte prende il sole approfittando della bassa marea. Punto e a capo. A capo, decide la nuova pausa di vita, la vita circense dei delfini che a Pipa inventano sincronie di coppia per la disperazione dei pescetti che scappano via a pelo d’acqua dal loro destino di colazione. Siamo tutti in piedi, immobili, ad indovinare il luogo della prossima emersione, immaginiamo traiettorie di caccia sottomarina e ci mettiamo in allerta ad ogni spumare che non sia di onda. E forse la lettera procederebbe così, tra punti e punti a capo, se a Quixaba non facesse la sua comparsa un segno di interrogazione, e la domanda è: morte o vita? La stella marina incrocia il mio cammino lucida ed intatta come su una bancarella di souvenir. La prendo in mano: il peso, la durezza, la rugosità, tutto è nuovo per me. Sulla pancia ha dei solchi a raggiera ed al centro forse una bocca, però tutto è serrato, solido, immobile, ed io non so dire se è di difesa o morte che si tratta. A quasi trent’anni diplomati e laureati non so dire se la stella marina nel mio palmo è ancora viva. Un pescatore seduto su un tronco di coqueiro abbattuto mi sta osservando. Mi avvicino. “Scusi, è viva o morta?” Il pescatore esamina la stella. “Viva.” “Vuol dire che, se la rimetto nell’acqua, vive?” “Vive.” Anche mio nonno era pescatore e parlava poco. Entro nel mare ed avanzo fino a raggiungere una profondità che mi sembra appropriata, se l’abbandono qui le onde non la riporteranno alla riva. A Quixaba salvo una stella. Un punto interrogativo ed un salvataggio chiuderebbero degnamente qualsiasi lettera. Ma la mia fortuna – la chiamano fortuna del principiante – va oltre, a Cibauma ricevo in offerta ciò che può rendermi davvero contemporanea, davvero interprete del mio tempo, una di quelle cose insomma che si leggono nelle recensioni. Si tratta di tre, ne più ne meno, tre ed equidistanti puntini di sospensione, ma io ancora non lo so. Vengo investita da qualcosa, mai niente prima d’ora era stato tanto qualcosa quanto questa cosa qui. Una visione rapida attraversa il sentiero, per metà nera e per metà fucsia, che non saprei dire se salta o vola, ha le zampe ma anche le ali, è un po’ elegante e un po’ sgraziata, cade senza ferirsi e di nuovo decolla. “Hai visto?”, chiede João. “Si, ho visto. Cos’era?” “Una larva che si sta trasformando in farfalla”. Per una rarissima eccezione questo avviene sotto i miei occhi, il suo posto sarebbe il mondo delle foglie, il mondo umido vicino ai muschi, nel segreto delle radici. Decido che si tratta di un segno, di una visione premonitrice, “stai per diventare colorata”, questo dice l’oracolo della larva-farfalla. Puntini, puntini, puntini… Pousada di Caraíva, 1 marzo 2007 Qui la colazione la prepara Branca. Branca in portoghese vuol dire “bianca”. Ma Branca è marrone, coi capelli neri. Mentre prepara la colazione, Branca non fa rumore. Un po’ perché – lo scopriamo dopo – piatti e posate sono di legno (e il legno non fa rumore, al massimo fa musica); ed un po’ perché le mani di Branca non fanno rumore. Branca si avvicina reggendo il vassoio col pane, il burro salato, la composta di prugne, il formaggio, la tapioca; Branca si avvicina, ma noi non sentiamo i suoi passi. E non è solo perché Branca cammina sulla sabbia: è che i piedi di Branca non fanno rumore. Branca ci spiega come fa il pane ed i suoi denti sono piccoli e separati come quelli dei bambini. Se non avesse le rughe, Branca sarebbe una bambina. Branca ha qualche capello bianco, ma nessuno lo vede. Perché nessuno guarda i capelli, tutti guardano gli occhi. Branca ha gli occhi grandi? No. Branca ha il naso piccolo, la bocca piccola, le orecchie piccole. Per questo gli occhi sembrano grandi, come succede coi bambini. Branca viene a lavoro in canoa, in canoa torna a casa la sera. La sera è più stanca e più bella, appena un ombra contro il tramonto. La pala del remo penetra il fiume senza rumore, senza rumore la canoa scivola. A casa Branca ha un marito, figli, nuore, forse nipoti. Fino a domani Branca appartiene a loro. (Foto: Manuela Lunati) 33 34 eccezionali con una grande intelligenza, la mente aperta, la capacità di creare e di rinnovarsi continuamente. Goethe, Freud, Marie Curie, Simone de Beauvoir, Verdi, Puccini, Charlie Chaplin, sono sempre rimasti giovani. Ma non è necessario avere il loro genio per restare giovani. Basta coltivare le nostre qualità umane. Invece molte persone diventano psicologicamente vecchie a trent’anni perché si rinchiudono nelle loro abitudini, nei loro preconcetti, nel loro orizzonte ideologico, non accettano il nuovo, il diverso. Frenano le loro emozioni, non affrontano nuovi problemi, diventano rigide e ripetitive. E se, grazie alla ginnastica, alle diete, alla chirurgia estetica riescono ad apparire fisicamente giovani, quando parlano ti accorgi che interiormente sono rimaste quelle che erano nel passato. Vecchio è chi non evolve. Per restare psicologicamente giovani servono a poco le palestre e gli interventi estetici. Bisogna tenere aperta la mente ed il cuore, accettare l’umanità in tutte le sue forme, osservare, studiare il nuovo, cercare di capirlo, non seguire il gregge, non seguire le mode, non farsi trascinare dalla corrente, giudicare con la propria testa, vivere le proprie emozioni, cercare ciò che è intenso, essenziale e il resto buttarlo via. A schema fisso C i sono delle persone che, grazie alle cure ormoniche, alla ginnastica, alla chirurgia estetica, al trucco, all’abbigliamento, a settant’anni appaiono ancora giovani. Ed alcune lo sono anche interiormente. Altre no, altre interiormente sono vecchie. Cosa vuol dire esattamente essere giovani o vecchi? Quando pensi al giovane ti viene in mente il cucciolo degli animali: morbido, elastico, giocherellone. Poi la vivacità, la freschezza e lo stupore del bambino. Il giovane lo immagini pieno di energia, rapido, scattante, recupera le forze rapidamente. Sul piano mentale è curioso, sperimenta, impara rapidamente, ha fiducia nel futuro, si adatta alle diverse circostanze, pensa fuori dagli schemi costituiti, è creativo, costruttivo. Nel vecchio tutte queste qualità si irrigidiscono. Ma è proprio così? Sono proprio così tutti i giovani che conosciamo? No. Molti sono abitudinari seguono passivamente le mode, le direttive del gruppo, perdono tempo con giochi stupidi. Altri sono pigri, non leggono, non studiano, non sanno concentrarsi, non hanno fiducia nel futuro, non sanno porsi e perseguire una meta. Le qualità che abbiamo descritto come tipiche della giovinezza le troviamo piuttosto in alcune persone A schema fisso SOLUZIONI Francesco Alberoni Per essere sempre giovani tenere aperti mente e cuore Curiosità: Il veleno del cobra è davvero miccidiale. Ne basta un grammo per dare in teoria la morte a circa duecento persone. 35