I piedi del figliol prodigo

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I piedi del figliol prodigo
Sergio Premoli
I piedi del figliol prodigo
Uno psicoanalista riflette
sulle parabole della misericordia
Prefazione di Virginio Colmegna
Immagine di copertina:
Rembrandt (1606-1669), Il ritorno del figliol prodigo, particolare
Per i testi biblici:
© 2008 Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi
e Caterina da Siena, per gentile concessione
© 2017 ÀNCORA S.r.l.
ÀNCORA EDITRICE
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Tel. 02.345608.1 - Fax 02.345608.66
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N.A. 5679
ISBN 978-88-514-1791-8
Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano
Questo libro è stampato su carta
certificata FSC , che salvaguarda le foreste,
in uno stabilimento grafico
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(Forest Stewardship Council ).
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Prefazione
Ho accettato con gioia di scrivere una prefazione a questo libro
di Sergio Premoli, un testo originale nella sua capacità di accostare al linguaggio e alla prospettiva psicoanalitica due delle pagine
bibliche più conosciute, ormai consegnate a tutte le culture e, in
un certo senso, a tutta l’umanità: la parabola del figliol prodigo e
la parabola del samaritano.
Quel che fa Premoli è cercare di riscoprire un significato che
interpella soprattutto la coscienza e la personalità di ciascuno,
partendo dall’esperienza vissuta e da una rilettura dei temi che,
anche per l’umanità contemporanea, si presentano in tutta la loro
«drammaticità», come ad esempio i legami genitoriali, le proprie
storie affettive, la rottura di schemi consolidati, il tema della colpa e del perdono. Quelle di Premoli sono riletture approfondite
con minuziosa indagine, anche letteraria, che ho sentito in forte
dialogo con la mia frequentazione biblica. Per me infatti la Parola
di Dio, così come ci ha insegnato il cardinal Carlo Maria Martini,
entra nelle tante parole dell’umano: ha un orizzonte di senso che
va accolto con profondità e sapienza. La Parola va cioè «studiata».
Ormai da diversi anni partecipo a incontri di riflessione che si
svolgono mensilmente alla Cascina Baraggia di Sesto San Giovanni – dove abitano alcune famiglie che condividono un percorso di
ospitalità e condivisione con uno stile di gratuità – in quello che
abbiamo chiamato «Pozzo della Baraggia». Ci ritroviamo per confrontarci a partire dalla lettura condivisa di un libro, come quelli
dell’economista e amico Luigino Bruni, o dalle esperienze personali
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e lavorative di ognuno. È un confronto aperto e appassionato tra
persone di orientamento culturale e professionale diverso, ormai un
consolidato gruppo di amici, che prova a valorizzare e riscoprire il
senso dello scambio, a stimolare nuovi legami e percorsi innovativi,
a continuare a interrogarsi per non smarrire il perché ci si ospita.
Qui ho incontrato e apprezzato il pensare di Sergio che, con continuità e metodo, ci ha sempre riportato a una riflessione di stampo
direi clinico, ma con una sapienza educativa e pedagogica affascinante. Mi ha stupito positivamente la sua capacità di ascoltare, di
rileggere dentro la propria professionalità e la propria conoscenza,
se volete anche dentro la propria emotività, i testi che erano oggetto
di confronto comune. Interveniva sempre alla fine dell’incontro
proprio perché ascoltava davvero. Questo libro, che approfondisce
e raccoglie alcune letture fatte negli incontri, è una limpida testimonianza di questo «metodo», che in questo caso è anche contenuto.
Questo libro è certamente impegnativo, ma comunque capace
di sollecitare anche un approccio diverso ai testi biblici. Sergio ha
posto particolare cura e attenzione nel riconsegnare continuamente le emozioni che il racconto delle due parabole suscita, rapportandolo anche alla propria esperienza di supervisore di comunità,
di persona interrogata dal suo sapere clinico che parte dal vissuto
concreto. Trovo che questo rapporto tra linguaggio psicoanalitico e lettura del Vangelo sia estremamente interessante, e lo dico
riconoscendo di non essere un clinico, ma avvertendo sempre
più quanto l’attenzione ai sentimenti, alla cura degli affetti, alle
proprie esperienze personali e alle relazioni diventi importante,
proprio per accogliere la Bibbia come parola rivolta «all’umanità
dell’umano», mi verrebbe da dire.
Il rigore dell’autore nella riflessione e la sua attenzione anche
al senso originale ed etimologico delle parole denotano una spiritualità laicamente intesa e ci impongono di non essere superficiali
nell’accogliere, nel meditare e nel confrontarsi di fronte a certi
linguaggi. È uno degli insegnamenti che ho colto dalla lettura di
questo libro, sollecitato da alcune tematiche. Penso alla parabola
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del samaritano: il senso della prossimità, della cura, della capacità
di interrogarsi di fronte agli incontri, dei quali non bisogna disperdere il valore. Spesso ai credenti capita di «consumare» la Parola di
Dio nell’ovvietà e nella banalità della retorica, del buon senso, delle
frasi fatte. Leggendo questo testo, invece, non è possibile essere
raggiunti dalla banalità, perché vi è un approfondimento molto
intenso che rimette in gioco la propria soggettività. Personalmente
la lettura paziente del libro di Sergio mi ha stimolato a rivivere il
testo biblico all’interno della mia quotidianità, rimettendo in moto
emozioni, sentimenti, interrogativi che si sono fatti ancor più forti
e attuali nell’anno del Giubileo della Misericordia.
Ritornando al gruppo del Pozzo della Baraggia, molte delle
persone che vi si ritrovano sono impegnate in quello che, genericamente, viene chiamato «Terzo Settore». In questo momento storico,
in cui sembra si sia persa ogni capacità di indignazione, con il dominio di quella che papa Francesco ha definito «la globalizzazione
dell’indifferenza», e in un periodo in cui noi operatori del Terzo
Settore abbiamo spesso a che fare con un’affannosa rincorsa alle
emergenze, leggere questo libro è stato uno stimolo a lasciarsi affascinare e interrogare dalla Parola di Dio, aiutandoci a riscoprire
il valore del riflettere, del contemplare e dell’andare al profondo di
se stessi, della complessità delle cose e di quello che si fa. Proprio
come ci suggeriva anche il cardinal Martini che, quando ha voluto
la Casa della carità, parlava proprio di «sapienza della carità».
Un mistico diceva che la parola nasce dal silenzio e ritorna al
silenzio. Per questo motivo, desidero ringraziare Sergio Premoli,
cui mi lega un’amicizia profonda, per il grande e continuo regalo
che è per me la sua presenza durante gli incontri al Pozzo della
Baraggia. Lo ringrazio per la sua meticolosa attenzione al testo,
la sua cura nei confronti della corposità e della «pesantezza» della
parola, per la capacità di non usarla frettolosamente, lasciandosi
avvolgere dal silenzio della riflessione.
Don Virginio Colmegna
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Una premessa per «fare spazio»
Da un po’ di tempo a questa parte non poche persone, compreso chi scrive, hanno avvertito il desiderio, se non la necessità, di
scambiare materiali ed esperienze di riflessione di natura diversa,
superando steccati che in passato hanno impedito la possibilità di
dialogare proficuamente, senza bisogno di arrivare a condividere
le stesse conclusioni. Una delle barriere particolarmente rigide,
soprattutto nel nostro contesto socioculturale, è quella che si situa
in corrispondenza delle scelte di fede religiosa, con il risultato di
disegnare due campi distinti ma contrapposti tra loro: quello dei
credenti e quello dei cosiddetti laici.
Il desiderio di parlarsi non è mai stato, se non in pochi casi di
fanatismo ideologico, in linea di principio negato, ma gli scambi
hanno finito per concludersi in un nulla di fatto, come in un dialogo tra sordi. In questi tentativi di dialogo è sempre stato vivo il
vincolo implicito, imposto all’intellettuale laico, di non occuparsi
di materiali, e a volte anche di problemi, che non fossero di sua
stretta competenza, come ad esempio le Sacre Scritture o alcuni
problemi di natura religiosa e morale, nella convinzione che fossero da lasciare a chi, avendo fatto una scelta di fede, poteva vantare
un’adeguata competenza in merito.
Qui si vuole tentare una riflessione che non tenga conto di
questo vincolo, in quanto il materiale utilizzato sarà costituito
da frammenti di testi biblici neotestamentari che verranno accreditati non in quanto testi sacri ispirati, ma a partire dalla loro
valenza (ritenuta condizione sufficiente) di «testi sapienziali»,
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cioè di testi che hanno avuto nel passato, e mantengono nel presente, la forza di trattare alcune questioni riguardanti il vivere
con la capacità di fornire significative indicazioni di senso. I testi
scelti per la nostra riflessione hanno il vantaggio di godere di una
notorietà pressoché generale in quanto riguardano due parabole, quella del cosiddetto figliol prodigo e quella del samaritano,
e la preghiera del Padre nostro che, al di là di ogni ragionevole
dubbio, appartengono al patrimonio culturale di tutti, credenti
e non credenti1.
Il metodo
La prospettiva non è quella di fare un’esegesi biblica testuale alla
ricerca di un significato filologicamente corretto, ma quella di un
utilizzo di questi testi come spunto per considerazioni destinate a
una circolazione più ampia rispetto a quella di un ambito strettamente confessionale e religioso, mettendoli «al lavoro», senza finalità di confronto (che porterebbe inevitabilmente a uno scontro),
con la prospettiva teorica della psicoanalisi. Non si tratta quindi
di utilizzare una prospettiva laica, in questo caso la psicoanalisi,
per «interpretare» un testo biblico, ma neanche di leggere la psicoanalisi alla luce della Bibbia. Questa modalità finirebbe per avere
una valenza «riduzionista», nel senso di ridurre una prospettiva nel
solco dell’altra e di impoverire il pensiero, che può invece trarre un
arricchimento dal mettere al lavoro due linguaggi e due prospettive
diverse, ma in grado di dialogare tra loro in libertà.
L’analisi dei testi biblici ha la finalità di promuovere un lavoro
del pensiero – e non di fare appello o di solleticare le emozioni,
senza per questo rinunciare a legare il pensiero alla passione – ma
Questa distinzione è da più parti criticata e messa in discussione a favore di
un’altra, quella tra pensanti e non pensanti, promossa, tra gli altri, anche dal
cardinal Carlo Maria Martini nell’ambito della cosiddetta «Cattedra dei non
credenti», che egli promosse durante il suo episcopato milanese (cf Carlo Maria
Martini, Le Cattedre dei non credenti, Bompiani, Milano 2015).
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non avendo però come obiettivo la comprensione, il comprendere.
Questa affermazione sembra a prima vista mettersi in contrasto
con il senso del noto detto evangelico che recita: «Chi vuole comprendere, comprenda» (Mt 19,12), tradotto nella Vulgata con: «Qui
vult càpere, càpiat». In realtà, la traduzione latina ha dato al testo
originale greco quella piccola torsione che ha operato di fatto una
«distorsione» del senso nella direzione, tipica della cultura del
cosiddetto uomo dell’occidente, di privilegiare una valenza «idealistica» in contrapposizione con quella «materialistica», lo spirito
contro il corpo, il simbolico-ideale-spirituale contro il concretomateriale-corporeo. Il detto citato, se preso nella formulazione
originaria, non parla infatti di «comprendere», ma di «fare spazio»:
il verbo greco impiegato, chorèo, ha una denotazione semantica
spaziale precisa, come si evince anche dal passo di Mt 15,17 nel
quale il verbo viene impiegato per indicare lo spazio che si deve fare
nello stomaco per il cibo ingerito attraverso la bocca: «Tutto ciò che
entra nella bocca trova spazio (chorèo) nel ventre e poi finisce nella
fogna». Il parallelismo tra cibo e parola è chiarito ulteriormente
dal senso dell’altro detto: «Chi ha orecchi per intendere, intenda»
(Mc 4,23), dove si evince che come al cibo che entra nello stomaco
va fatto spazio, così va fatto spazio anche alla parola che entra
attraverso le orecchie e passa nella mente.
Lo spostamento che qui viene proposto consiste allora semplicemente nel «rimettere le cose al loro posto» quando parliamo di
comprensione, in quanto non si tratta dell’attivazione di un processo cognitivo nella direzione di «prendere dentro (com-prendere)»
un oggetto ma, al contrario, si tratta di operare un’apertura verso
l’esterno, di fare spazio, allargare uno spazio dato, in modo da poter accogliere qualcosa di nuovo che viene dal di fuori. Intendere
l’azione del pensare in questo modo comporterebbe una modifica
significativa nelle pratiche di vita, sia individuali che sociali. Si
pensi, ad esempio, che cosa potrebbe significare «comprendere
lo straniero» nella forma di «fargli spazio» piuttosto che, astrattamente, nella forma di «capirlo e tollerarlo nella sua differenza».
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Dopo questa precisazione sull’oscillazione di senso tra «comprendere» e «fare spazio», è importante precisare che non si vuole
affermare una contrapposizione tra i due sensi in quanto, quando
usiamo il verbo «comprendere», è chiaro che, in qualche modo,
diciamo che è stata presa una decisione di fare spazio a un messaggio che è stato inviato, messaggio al quale si è dato ascolto e che
si è registrato. L’accentuazione del «fare posto» si propone però di
sollecitare un ascolto capace di arricchire il sapere della sua necessità intrinseca di tradursi in carne e sangue, cioè in forme di vita,
perché non rimanga semplicemente una nozione staccata dalla
concretezza dell’esistenza.
Il contenuto
Venendo al contenuto del libro, il testo si articolerà in tre capitoli. I primi due prenderanno le mosse da due tra le parabole
più note: quella del cosiddetto figliol prodigo e quella del (buon)
samaritano. La forma letteraria della parabola, che trova nei Vangeli la sua espressione più estesa e alta, è particolarmente adatta a
fornire spunti di riflessione che non hanno comunque la pretesa
di esaurire la ricchezza del tema affrontato. Con la prima parabola
ci affacceremo su alcune domande cruciali che riguardano i rapporti familiari nella loro duplice valenza: quella tra genitori e figli
e quella tra fratelli. Cercheremo di capire in che cosa consista una
corretta funzione educativa paterna, chiamata ad armonizzare il
dovere di imporre regole e limiti con la capacità di concedere spazi
di libertà e di autodeterminazione anche quando tutto sembra indicare che un figlio si mette nei guai e rischia di rovinarsi la vita.
Inoltre ci porremo alcune domande: qual è stata la vera natura del
peccato del figlio più giovane che si è allontanato da casa? Siamo
sicuri che si tratti di un peccato che riguarda una vita sessuale
dissoluta o non invece qualcosa di molto più serio e grave? Come
amministra correttamente la giustizia un padre nei confronti di
figli che fanno scelte di vita diverse? Non ha forse delle buone ra14
gioni il figlio maggiore per risentirsi nei confronti del padre che
premia in forma esagerata (la veste più bella, il vitello più grasso,
banchetti e balli) chi ha dissipato tutto e che impone invece sacrifici a chi si è dimostrato fedele e operoso (neanche un capretto per
me e gli amici)? Non c’è il rischio di promuovere il disimpegno e il
parassitismo invece che l’amore per il lavoro e il sacrificio?
Nel tentare di fare spazio a queste domande alla ricerca di una
possibile risposta, ci muoveremo, con l’aiuto della psicoanalisi,
utilizzando le singole figure della parabola come riferimenti per
esplorare i diversi aspetti di una nostra possibile identificazione
con ciascuna di esse, intese come la sfaccettatura di un’unica composizione soggettiva.
La parabola del samaritano ci permetterà invece di spostarci sul
terreno delle relazioni sociali, quelle che ci fanno incontrare ogni
giorno il prossimo che ci interpella da una posizione di sofferenza
e di bisogno. Come pensiamo di regolarci? Pensiamo sia meglio
vedere e tirare avanti come hanno fatto il sacerdote e il levita o
riteniamo invece sia doveroso andare incontro a chi si trova nel
bisogno? Ma come facciamo, se si hanno già altri impegni seri ai
quali sentiamo di dovere essere fedeli? Siamo poi così sicuri che il
sacerdote e il levita siano da considerare persone fredde, indifferenti e insensibili ai bisogni altrui?
A proposito poi del concetto di «prossimo», come possiamo
rispondere in forma nuova alla domanda del dottore della legge
che chiede: «Chi è il mio prossimo?» Di quale prossimo parliamo?
Oltre a un «chi?» non c’è finalmente oggi spazio anche per un «che
cosa?» quando parliamo di prossimo, riformulando la domanda in:
«Chi e che cosa possiamo considerare nostro prossimo?».
La parabola del samaritano ci è sempre stata indicata come la
parabola della compassione: «Provò compassione e gli andò incontro». Siamo sicuri che sia questo il messaggio originario o non ci
sarà stato per caso anche qui un piccolo «tradimento» nella traduzione dal testo greco originario, nel quale non si parla in realtà del
sentimento della compassione, ma di un’altra emozione più forte
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e più profonda? Inoltre, sempre a proposito della compassione,
chiameremo in soccorso la psicoanalisi per capire se realmente
ci possiamo fidare di questo sentimento o se non sia più utile e
conveniente imparare a dubitare del suo valore, senza per questo
doverlo gettare via.
Venendo poi al terzo capitolo del testo, relativo alla seconda
parte del Padre nostro, ci faremo interrogare dalla questione del
peccato preso nella sua connotazione di «debito» e ci chiederemo
quale sia l’aspetto più problematico di questa visione, nel sospetto
che abbia a che fare non tanto con una colpa verso Dio quanto con
i vincoli dannosi che produce tra gli uomini. Rifletteremo anche
attorno al concetto della conversione per vederne le implicazioni
non tanto con le «buone intenzioni» (pentimento, propositi) quanto con le «buone azioni» (cambio di vita e riparazione). E ancora:
siamo convinti che sia conveniente alimentare il senso di colpa
rispetto ai nostri peccati-debiti e non piuttosto, come ci segnala la
psicoanalisi, sia più utile spostarci dal campo della colpa a quello
del danno, distinguendo tra innocenza e innocuità? Per finire, ci
porremo delle domande sull’antichissima, e sempre attuale, questione del male e delle forme possibili con le quali pensiamo di
fronteggiarlo in noi e negli altri.
Come si vede, procederemo tentando non di «comprendere»
(chi mai potrà dire di avere capito veramente la natura di questi
problemi?), ma di «fare posto» a un lavoro del pensiero alimentato
da una passione per la ricerca di frammenti di verità, da utilizzare
per nutrire una rete di scambi piuttosto di usarli come armi da
scagliare contro quelli che non la pensano come noi e non hanno
il nostro stesso credo, religioso o laico che sia.
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