Geografia e capitalismo: ripensare le contraddizioni

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Geografia e capitalismo: ripensare le contraddizioni
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 369-382
ANGELO TURCO
GEOGRAFIA E CAPITALISMO: RIPENSARE
LE CONTRADDIZIONI
…non scordate che siete un proprietario
a voi spetta solo coordinare
muovere i pezzi sulla scacchiera
[S. Massini, Lehman Trilogy]
Oltre le contraddizioni. – Questo seminario romano, che prende le mosse
dall’ultimo libro di David Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (2014), segue quello fiorentino incentrato sul libro di Thomas Piketty, Il
capitale nel XXI secolo (2014): temi che si incrociano dunque, tesi che cominciano a profilarsi, abbozzi di risposte agli interrogativi più pressanti. Tutto si svolge
nel segno di una problematizzazione eminente della relazione capitalistica: qual
è il ruolo della territorialità nella sua genesi e nel suo svolgimento? E come possono le discipline geografiche – e, per esse, i geografi – portare un contributo significativo alla comprensione di tale ruolo, tanto sul piano teorico, che su quello metodologico, che su quello empirico-analitico?
La problematica non nasce oggi, evidentemente, e si tratterà di impegnarsi
prioritariamente (e non occasionalmente) in un recupero critico dei contributi
anche corposi che la nostra disciplina ha prodotto in questo ambito. In rapido
sorvolo, penso agli studiosi francesi che hanno riflettuto sul tardo colonialismo,
dopo Brazzaville (per tutti, Suret-Canale), e alla loro eredità sminuzzata, ma non
dissolta; oppure a itinerari di ricerca iberici (antifranchisti e antisalazaristi) e latinoamericani «bolivariani», se così si può dire, e antimperialistici; o ancora a
esperienze complesse legate a riviste come «Antipode» e «Herodote»; senza dimenticare momenti significativi come «Geografia Democratica» in Italia, né trascurare la tradizione di una «geografia anarchica» che ha saputo cogliere fin dall’epoca dell’istituzionalizzazione disciplinare, nella seconda metà del XIX secolo
(Capel, 1987), le potenzialità emancipative di un sapere territoriale apertamente
«politico» (Ferretti, 2007).
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Ma oggi quella problematica trova nuove ragioni empiriche e nuovi modi di
definizione concettuale, come molti e disparati segnali concorrono a indicarci:
non ultimi, i due libri cui ci stiamo riferendo. E se di contraddizioni dobbiamo
parlare, seppure alla luce di una critica che più oltre tenterò di esplicitare, sarà importante cogliere le vecchie e le nuove. Come pure sarà decisivo cogliere le combinatorie inedite che si innestano su quelle che Harvey chiama le «contraddizioni
fondamentali», riflettendosi in qualche modo su quelle che l’autore definisce «in
movimento» e, ovviamente, su quelle «pericolose»: pericolose nel presente immediato, dice Harvey, «non solo per la capacità del motore economico del capitalismo di continuare a funzionare, ma anche per la riproduzione della vita umana in
condizioni anche minimamente ragionevoli» (Harvey, 2014, p. 221). La questione
è tanto più complessa, ove si pensi che tali articolate contraddizioni sono «interattive e dinamiche» anche per il gioco delle temporalità che ne reggono la genesi e
lo sviluppo. Così, per dire, gli esiti storici di queste contraddizioni, vale a dire le
crisi facilmente riconosciute come «economiche» non solo dalla mainstream economics, ma dai media e dall’opinione pubblica (1), si intrecciano con crisi più
profonde, di respiro temporale lungo, oltretutto non riconosciute come «economiche», ma che proseguono il proprio corso risultando di volta in volta incisivamente aggravate dalle crisi di respiro temporale corto. L’esempio più ricorrente è quello della crisi ambientale, che esiste da prima della caduta del Muro di Berlino e ha
attraversato le crisi di temporalità corta, con gli aggravamenti che conosciamo (2).
Ma è bene ricordare, nella sede della Società Geografica Italiana, che tutte le crisi
che investono in qualche modo la territorialità sono di respiro lungo (3) e ben poche di esse sono riconosciute come «economiche» (4). Alcune, anzi, non sono riconosciute neppure come «crisi»: pensiamo al consumo di suolo, rispetto al quale, in
(1) In particolare le quattro grandi crisi che hanno segnato il capitalismo globalitario dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, vale a dire la crisi delle borse asiatiche, quella dei debiti sovrani,
quella della new economy e quella della bolla speculativa immobiliare del 2008 da cui, si dice alquanto impropriamente, «non siamo ancora usciti». Ricordo che la bolla è scoppiata negli Stati Uniti a
causa di pratiche finanziarie disinvolte applicate in modo sistemico su vasta scala, investendo il resto
del mondo e, in particolare, l’Europa. È quest’ultima, di fatto, «a non esserne ancora uscita», perlomeno in alcune sue componenti deboli sullo scacchiere globalitario (tra queste è l’Italia, si capisce);
mentre gli Stati Uniti ne sono usciti da tempo, e sono in piena crescita attualmente. Le pratiche finanziarie di cui sopra sono consentite dalla legge americana, uno dei pilastri della globalizzazione,
ciò che conferma il diritto positivo come una delle istituzioni centrali del capitalismo.
(2) Un’analisi critica dei posizionamenti disciplinari sul tema è in Castree (2008a e 2008b); ma
si vedano anche, tra i molti, McCarthy e Prudham (2004) e McCarthy (2006).
(3) Seppure in maniera diversamente durevole, secondo che si tratti di genesi, svolgimento ed
effetti della crisi, ovvero che la crisi stessa investa la territorialità costitutiva, configurativa oppure
ontologica, come vedremo. Un’indagine di sicuro interesse sulla temporalità specificamente paesistica svolge Mangani (2012).
(4) E ciò, nonostante gli studi come quelli di Secchi (1980, per tutti) sul ciclo edilizio, che non
provengono dall’economics e (forse per questo?) non vengono intercettati dai media né, di riflesso,
dalla più vasta pubblica opinione come fattori di crisi o quali elementi strutturali del ciclo economico. Del resto, come non manca di ricordarci Tinacci Mossello (2008), l’economia termodinamica di
Georgescu-Roegen (1998, per tutti), pur rappresentando un episodio importante, non ha cambiato i
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Italia, una studiosa come Paola Bonora (2015) sta gettando le basi per una «geografia civile» sempre più presente nel discorso pubblico.
Ebbene, a Firenze chiudevo la mia Introduzione (Turco, 2015) con il richiamo a un imperativo d’attenzione verso la natura politica dell’economia: più propriamente, un ritorno all’economia politica, come del resto ampiamente Harvey
mostra di fare. E ciò, intanto perché i dispositivi del capitale considerano la «politica» come una parte integrante delle loro «abilità tecniche»: basterà scorrere i
giornali del 4 maggio 2015, per averne ennesima conferma, leggendo che le
agenzie di rating Fitch e Moody’s hanno «promosso» l’«Italicum», a poche ore
dall’approvazione di questa legge elettorale, perlomeno controversa (5). La pretesa tipicamente globalitaria di arrogarsi non solo mezzi di fatto, ma autentiche
titolarità politiche da parte dei dispositivi del capitale, ci dice ormai che il capitalismo «lavora» alle architetture di quella che Foucault chiama la «governamentalità»: ossia l’insieme degli «ordinamenti» sociali, e non solo quelli che hanno a
che fare con l’economia (6).
Ma sia consentito riprendere il tema in un modo più circostanziato. Il capitalismo, possiamo dire, è il dispositivo attraverso il quale il capitale fa il suo me-
fondamenti della mainstream economics. Ciò vuole forse dire che tali approcci sono stati ignorati,
ma non vuol dire affatto che siano stati scartati o liquidati secondo gli stili appropriati della critica e
crescita della conoscenza scientifica. Come è noto, il percorso di alcune idee di Georgescu-Roegen
viene ripreso – con esiti informativamente in linea con lo spirito dei tempi e le esigenze della comunicazione veloce dei new media – da Rifkin (2014), oltretutto ben illustrando il funzionamento del
supermercato globale della cultura descritto da Bauman (2011).
(5) È solo uno degli episodi, il più recente che si può citare, nel quadro di ciò che, per
l’Europa, Gallino (2013) non esita a descrivere in modo sistemico come «attacco alla democrazia».
Le vicende elleniche restano sotto gli occhi di tutti (Grèce, le coup d’État silencieux, titola «Le
Monde Diplomatique» l’intervento di Kouloglou, 2015), ma certo una delle più importanti tessiture
che certificano questa «estensione» non economica del capitalismo globalitario resta il TTIP
(Transatlantic Trade and Investment Partnership), grazie al quale «would increase the size of the EU
economy around e 120 billion (or 0.5% of GDP) and the US by e 95 billion (or 0.4% of GDP). This
would be a permanent increase in the amount of wealth that the European and American economies can produce every year» (http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2013/september/tradoc
_151787.pdf). Sulle poste in gioco globalitarie del TTIP, di là dai richiami un po’ sciamanici al «libero mercato» e alle sue virtù «regolatrici», si veda Jennar (2014).
(6) Il problema dell’acquisizione capitalistica della governamentalità va ben oltre l’episodio citato (l’«Italicum»), peraltro di modesta portata «globale». Senza dimenticare ciò che è stato detto nella
nota precedente a proposito del TTIP, va sottolineato che esso ha un carattere storico ed è strettamente intrecciato con il processo di territorializzazione, nelle molteplici forme e scale che è dato
osservare. A fronte di una diffusa e consolidata sensibilità degli studi antichisti per questi temi
(Turco, in corso di stampa), emergono sempre nuove attenzioni verso età più tarde, medievale (per
la quale – accanto a un classico come Brunner, 1983 – vorrei citare almeno Somaini, 2012) o scenari
di transizione di lungo periodo (Romano e Vivanti, 1978). Per capire il nucleo dell’argomento e
ritornare sulla scena contemporanea, a tacere delle alleanze tattiche e strategiche delle istituzioni del
capitalismo globalitario (per tutti, il FMI) con le entità statuali e quindi con i governi, basterà pensare a «incursioni» di gravissimo impatto, lesive dell’autonomia stessa della politica (e dei crediti della
storia), come le affermazioni di un Rapporto di J.P. Morgan secondo cui le costituzioni antifasciste
dell’Europa meridionale costituirebbero un problema per il buon funzionamento dell’economia
(http://issuepedia.org/mw/wikiup/7/72/JPM-the-euro-area-adjustment--about-halfway-there.pdf).
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stiere: si accumula e (in subordine) si distribuisce. L’idea è che per quanto ci si
sforzi di elencare e teorizzare e analizzare empiricamente le crisi del capitalismo, anche in prospettiva storica, queste non si trasformano in contraddizioni:
tantomeno in quelle contraddizioni esplosive che dovrebbero segnarne la fine (7). O, inversamente, senza che ciò cambi il risultato, che il dispositivo è in
grado di macinare le contraddizioni, impedendone l’esplosione distruttiva. E fa
ciò attraverso uno stupefacente (parola molto utilizzata da Harvey) processo
metamorfico, trasformando le contraddizioni in crisi e dunque tramutando situazioni che rischierebbero di metterlo in pericolo in situazioni che è complessivamente in grado di gestire (8).
Non stiamo dicendo nulla di veramente nuovo, si capisce: già la teoria maoista delle contraddizioni, introducendo la distinzione tra «contraddizioni antagoniste» e «contraddizioni non antagoniste», aveva indicato, per vie interne al
marxismo, da un lato l’universalità categoriale delle contraddizioni che si sviluppano pertanto anche «in seno al popolo» e, dall’altro lato, una via possibile di
depotenziamento attraverso la loro trasformazione in «crisi» (9).
Se questa lettura è plausibile, si può avanzare lungo qualche direttrice. Intanto, il focus si sposta: dalle contraddizioni alle crisi. Intese queste ultime nella loro semantica di capacità di discernimento, giudizio, valutazione e, quindi, di
prendere delle decisioni appropriate, grazie all’esercizio di questa capacità di
fronte a qualcosa di inaspettato o di non desiderato. La potenza oggettiva e logica della contraddizione (anche solo «dialettica» come vuole Harvey) si stempera
in un esercizio valutativo che ridefinisce le sue proprie regole: chi decide che c’è
la crisi? Di che crisi stiamo parlando (10)? Chi sono i soggetti che ne guidano il su(7) Le stesse contraddizioni «pericolose» di Harvey sembrano esserlo più per la «sopravvivenza
dell’umanità» che per «il motore economico del capitalismo».
(8) Un esempio illuminante di come il capitalismo sappia dotarsi degli strumenti culturali per
operare le metamorfosi contraddizioni/crisi, depotenziando le condizioni avverse e spuntando, di
esse, le armi documentali e argomentative della «critica», è offerto da Boltanski e Chiapello (2014).
(9) Il pensiero di Mao sulle contraddizioni è espresso principalmente nel saggio filosofico del
1937 Sulla contraddizione (in Opere scelte) e nell’intervento del 1957 Della giusta soluzione delle
contraddizioni nel popolo (Il libretto rosso). Il passaggio da un tipo di contraddizione a un altro,
ovviamente, non è affatto scontato e anzi non sempre è possibile, come mostrano proprio i cataclismi della Rivoluzione Culturale cinese, sociali prim’ancora che politici.
(10) Ad esempio: descrive una crisi (e che tipo di crisi) l’informazione che ricavo dalla stampa
(«La Repubblica», 23.V.2015, p. 17), mentre sto rifinendo questo contributo – e in chiara relazione con
l’Expo di Milano – e cioè che al mondo si producono 1.300 MT di cibo di cui 670 MT vanno persi?
Non sto parlando di fame nel mondo; tanto meno di sottonutrizione, malnutrizione, vulnerabilità alimentare, in termini di politica internazionale o al modo – se posso dire – «morale»: su tali temi si può
consultare l’ultimo Rapporto FAO sull’insicurezza alimentare planetaria (http://reliefweb.int/sites/
reliefweb.int/files/resources/Etat%20de%20linsecurite%20alimentaire.pdf), uscito in questi stessi giorni.
Mi riferisco piuttosto alle (dis-)abilità tecniche del sistema capitalistico-globalitario: al suo modo di
funzionamento strutturale, sia interno (produzione/distribuzione) sia in rapporto agli altri dispositivi
sociali, in particolare la politica. Insomma, non vorrei scomodare il famoso battito d’ali della farfalla,
ma certo proverei a mettere insieme, magari in una qualche correlazione matematica di tipo fuzzy,
670 MT di cibo perso e gli sbarchi di Lampedusa.
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peramento e dunque, in definitiva, quali sono gli interessi e le culture in base a
cui si stabiliscono i nuovi assetti sociali e si ri-definiscono le regole del gioco?
Per effetto di questo spostamento di focus, diventano così centrali per un verso le mappe attoriali che vanno a comporsi e ri-comporsi in ogni crisi (e, in questo, la crisi appare come una grande opportunità di riconfigurazione sociale, con
l’emergenza di nuove forze e di nuove leadership); ma centrale appare pure, per
altro verso, il meccanismo di gestione della crisi, che – trattandosi di capitalismo
– si impernia tanto sul lato dell’accumulazione quanto su quello della distribuzione. Sul lato dell’accumulazione, «inventando» nuove forme di capitale (11) che
generano a loro volta nuovi dispositivi capitalistici. Sul lato della distribuzione,
investendo ad esempio le posizioni deboli nella ripartizione del plusvalore (profitti, rendite, differenza tra valore di scambio/valore d’uso) e dello stesso valore
complessivo, cioè del capitale di nuova accumulazione sommato al capitale già
disponibile.
C’è tuttavia un importante aspetto connettivo da considerare, parlando di accumulazione/distribuzione. Ossia che una cattiva distribuzione è alla base di
una cattiva accumulazione: e che, quindi, un capitalismo che si occupa troppo
della prima e troppo poco della seconda, quali che siano le performances apparenti (o di breve periodo), rende un cattivo servizio al capitale, non riuscendo a
garantire né nel medio periodo e tanto meno nel lungo periodo, le condizioni di
accumulazione. Tutti ricordano che Ford aumentava gli stipendi affinché i suoi
operai comprassero le automobili che producevano. Ma la faccenda è molto più
complicata, oltretutto perché una relazione capitalistica inefficiente sul piano
della distribuzione: a) incide pesantemente su quello che con espressione lefebvriana possiamo chiamare il «modo di produzione statuale» (Lefebvre, 1977), e
ponendosi con ciò al centro della crisi del welfare; b) impoverisce il senso della
politica, che può agire sull’economia non in quanto «politica» ma attraverso la
strumentazione giuridico-normativa (12).
È dunque sulle condizioni di apparizione della crisi e sulla sua gestione (accumulazione/distribuzione) che, attraverso la ridefinizione incessante delle mappe attoriali, va recuperato particolarmente il senso politico dell’economia. La necessità di un’economia politica, l’abbandono di forme di economics sempre più
rarefatte e avvitate su se stesse, incapaci – come dovette notare persino la regina
d’Inghilterra (13) – di analizzare e prevedere gli svolgimenti concreti, vitali, del(11) Ad esempio il «capitale conversazionale» per il web 2.0 e seguenti; oppure i capitali territoriali di cui andremo a parlare più oltre.
(12) Ciò che, osserviamo di nuovo, sposta sempre più il focus della relazione capitalistica sul
diritto; e in particolare sul diritto internazionale, trattandosi di capitalismo globalitario.
(13) L’episodio risale al novembre del 2008 ed è noto: in visita alla London School of
Economics, Elisabetta chiede con raffinato candore come mai gli illustri studiosi non avessero previsto il credit crunch che investiva ormai l’Europa e che evidentemente la preoccupava molto.
Meno noto è il dibattito che, in reazione alla questione posta dalla regina, si sviluppa in seno alla
comunità degli economisti britannici nei mesi successivi e che chiama in causa, nella mancata previsione della crisi finanziaria, un deficit di «immaginazione».
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l’economia, sta allora proprio in questo: creare le condizioni per un’avocazione
alla società, nelle sue più ampie forme di rappresentanza, dei processi che vanno a definire: a) il senso della crisi; b) la gestione accumulativa della crisi; c) infine, la gestione distributiva della crisi.
E ciò, in un contesto governamentale pur vario e variabile, ma saldamente ancorato alla democrazia, nel quale si possano creare aree di intangibilità dei diritti,
anzitutto, e, in parallelo, regolamentare le condizioni non solo di appropriazione,
ma di disposizione del «valore sociale» come lo chiama Harvey. Che va tutelato in
quanto tale e comunque in quanto tale «remunerato», giacché è grazie ad esso e
solo grazie ad esso che l’accumulazione capitalistica può dispiegarsi.
Oltre la territorialità costitutiva. – Se dovessi dire qual è il testo di Harvey
che ho sentito più vicino alle mie preoccupazioni di studioso, indicherei quello
intitolato a Sviluppi geografici disomogenei e produzione dello spazio. Si tratta
del capitolo 11, che a sua volta fa parte delle Contraddizioni in movimento,
quelle che «generano gran parte dell’energia e dell’impeto innovativo nella coevoluzione di capitale e capitalismo e aprono una ricchezza di possibilità per
nuove iniziative» (14).
Questo capitolo mi ha dato ovviamente molto da pensare. Centrale è il concetto di disomogeneità. È vero che, nelle analisi «geografiche» del capitalismo,
quest’ultimo viene da lontano: diciamo da Rosa Luxemburg, almeno. Ma, nell’elaborazione di Harvey, esso apre prospettive nuove, almeno per chi è impegnato a costruire visioni plurali della territorialità e architetture concettuali complesse del processo di territorializzazione.
Harvey coglie magnificamente il processo di territorializzazione nella sua dimensione costitutiva, definendone il ruolo preciso nella relazione capitalistica (15). Sembra tuttavia incline a ignorare le altre articolazioni della territorialità
(Turco, 2010). Queste, attraverso procedimenti «riduzionistici», in modo implicito
o esplicito, declinano la territorialità «configurativa» e quella «ontologica» in una
loro forzata (e perciò stesso fuorviante) espressione «costitutiva». Ne è testimonianza un uso disinvolto del linguaggio, dove i termini non acquistano autonomia dal punto di vista concettuale perché non sono riconosciuti come «realtà esistenziali», strati di mondo. Formazioni vitali non solo preziose, ma «ricchezze» essenziali per lo «sviluppo delle capacità umane». E dunque i «termini» non riescono a diventare «concetti»: non sono problematizzati, nel senso di una loro definizione teoreticamente significativa (16); ma neppure problematizzati l’uno rispetto
all’altro. Paesaggio (geografico), luogo, ambiente (spaziale), spazio (geografico),
(14) Harvey precisa che usa la parola ricchezza «deliberatamente nel senso di un potenziale sviluppo delle capacità umane, e non in quello del puro possesso» (Harvey, 2014, p. 218).
(15) Si vedano come sfondo a quanto andiamo dicendo almeno Harvey (2007 e 2011).
(16) E quindi rischiosa, come è nella logica della scoperta scientifica, poiché contiene sempre elementi in qualche modo congetturali e può dunque essere falsificata, secondo lo schema popperiano.
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concorrenza spaziale e, ovviamente, produzione dello spazio: la sinonimia è palese, l’intercambiabilità (quasi) totale. Il «paesaggio geografico» sembra assumere
talvolta il ruolo di «totalità inclusiva» (17), diventa il territorio tout court (18). Lo
stesso «ambiente», che riceve giustamente una robusta attenzione da parte di
Harvey, viene «ridotto» al suo contenuto di «natura» (19). La quale appartiene certamente al nucleo duro di qualunque concettualizzazione si voglia fare dell’ambiente, ma non esaurisce, di quest’ultimo, né le valenze culturali né i significati
sociali, tantomeno le pratiche trasformative e le politiche (Faggi e Turco, 2001;
Turco, 2014) (20).
Attraverso la sua teoria geografica del capitalismo, edificata su queste basi,
Harvey descrive il successo e le operazioni di successo del capitale. Tra queste,
fondamentale è la generazione della crisi e la sua gestione, ovvero la sua risoluzione in termini di mantenimento e consolidamento delle condizioni di ulteriore
sviluppo capitalistico. La circolarità, nelle sue linee essenziali, potrebbe essere la
seguente:
CRISI (21) ---- → TERRITORIO (22) ---- → DISOMOGENEITÀ GEOGRAFICHE (23)
---- → RIASSETTO POLITICO (24) ---- → SUPERAMENTO DELLA CRISI (25)
(17) Nella sola pagina d’attacco del cap. 11: «Il capitale punta a produrre un paesaggio geografico favorevole alla sua stessa riproduzione e alla sua ulteriore riproduzione […] Il paesaggio geografico del capitalismo […] è reso perpetuamente instabile […] Le contraddizioni […] sono tutte espresse
e ricevono forma materiale nel paesaggio geografico […] Il modo in cui evolve il paesaggio influisce
sull’accumulazione del capitale» (Harvey, 2014, p. 150).
(18) O forse dovremmo dire «spazio», termine più consono al linguaggio di Harvey, che si ispira
manifestamente a Lefebvre (1974) su questo punto (come su parecchi altri).
(19) Non al modo ingenuo in cui molti geografi e ricercatori sociali fanno questa operazione,
evidentemente, ma a mio giudizio oltre i limiti consentiti da analisi come quelle più sopra ricordate
di Castree, come quella di Quaini (1974, specialmente nel cap. V), che Harvey purtroppo non
conosce, ma altresì come quella di Foster (2000), che pure Harvey conosce e cita.
(20) Del resto, è proprio dal superamento di questa strettoia, che proietta l’ambiente da una
piattaforma concettuale di stampo naturalistico a una geografica di tipo configurativo, che si segnalano i pochi riusciti tentativi della nostra disciplina di inserirsi, pur da posizioni ideologico-politiche
diverse, nel dibattito pubblico sul cambiamento climatico o su altri temi «ambientali» (Peet, Robbins
e Watts, 2011; Brunel e Pitte, 2010).
(21) «Le crisi sono essenziali per la riproduzione del capitalismo» (Harvey, 2014, p. 9).
(22) Quel che Harvey chiama «paesaggio geografico»: «Il paesaggio geografico ha un ruolo chiave nella formazione delle crisi» (ibidem, p. 151).
(23) «Senza lo sviluppo geografico disomogeneo e le sue contraddizioni, da molto tempo il
capitale si sarebbe fossilizzato e sarebbe caduto in rovina» (ibidem, p. 151). La disomogeneità, frutto in parte della «evoluzione combinatoria» delle tecnologie e dei «processi molecolari dell’accumulazione», in parte come esito di politiche specifiche dello «Stato capitalista». Come dice l’autore, «se
lo Stato non fosse ancora esistito, il capitale avrebbe dovuto creare qualcosa di simile per facilitare
e gestire le sue condizioni collettive di produzione e consumo» (ibidem, p. 153).
(24) «Si possono formare classi dominanti e alleanze egemoniche di classe che possono dare un
carattere specifico all’attività politica e non solo economica in quella regione» (ibidem, p. 153).
(25) Che dal punto di vista capitalistico significa mantenimento e consolidamento delle condizioni di accumulazione: «Questo è un mezzo fondamentale grazie al quale il capitale periodicamente reinventa se stesso» (ibidem, p. 151).
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Le prospettive aperte da Harvey si mostrano particolarmente nei punti di
passaggio da un termine/momento all’altro. Questi non sono affatto neutri, ma
rappresentano i luoghi dove si attivano e si sviluppano le dinamiche attoriali
della crisi: nuovi soggetti, nuovi interessi, nuove strategie, nuove tattiche, a elevata accelerazione e ad alta flessibilità. E nuove territorialità (26).
Quest’ultimo punto è cruciale, si capisce, perché sollecita la mia competenza
di geografo, ma richiama anche, e più specificatamente, il focus delle mie preoccupazioni, tese a superare l’egemonia interpretativa della territorialità costitutiva e
a mettere in circolo tutta una serie di riflessioni e strumenti analitici legati alle altre articolazioni della territorialità: quella configurativa e quella ontologica. Si tratta, val la pena ribadire con forza, di due componenti specifiche e irriducibili della geografia; mondi vitali costruiti, usati, fruiti, dalle società umane; corpi mediali
che nella loro autonomia fenomenologica entrano nel circolo del funzionamento
e della riproduzione sociale. La messa in gioco di queste due ulteriori articolazioni della territorialità consente, credo, di portare un contributo autenticamente
«geografico» all’analisi della «relazione capitalistica», allo svolgimento dei rapporti
tra il capitale e il capitalismo – suo dispositivo storico di funzionamento – e alla
traslazione del focus analitico dalla contraddizione alla crisi.
L’irruzione di altre forme di territorialità, la loro incorporazione «normale»
nella geografia, consente di descrivere un ruolo dello spazio nel modello di
cambiamento del capitalismo assai diverso da quello precedente. Le nuove articolazioni, infatti, non sono solo censite ed evocate in perorazioni retoriche, o
magari mobilitate in rivendicazioni di impronta etica o estetica, ma vanno individuate concettualmente ed empiricamente come componenti stabili della società
e della sua espressione territoriale. Come potenti «disomogeneità» qualitative che
si dispiegano su un medesimo spazio perché coesistono su di esso, rappresentano complessivamente, tutte insieme e nella loro distintività, il territorio di quello
spazio. Come poste in gioco di conflitti che si estendono dal dominio economico a quello politico, culturale, giuridico, tecnologico, religioso. In questo modo,
la geografia non solo non può più, e vorrei dire non si presta «tecnicamente» a
essere ridotta a «strumento» del capitale incluso nel dispositivo capitalistico (come avviene per la territorialità costitutiva), ma appare come una forza (non
commutabile) del cambiamento, capace di imporre la sua propria logica, irriducibile ad altre logiche. Mi rendo conto del carattere alquanto assertivo di quanto
vado dicendo, ed è certo che occorrerà ritornare su tutto questo: già nel paragrafo successivo e ulteriormente nel corso di questo seminario, mi riprometto.
Il capitale della geografia e il «suo» capitalismo. – Il capitale della geografia è
la territorialità del mondo. Il lavoro sociale che è stato «fissato» nel pianeta Terra,
(26) Una radiografia dell’Italia «dentro» la crisi, delle fermentazioni territoriali di quest’ultima e
delle metamorfosi del «capitalismo molecolare» offre Bonomi (2013).
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nelle sue ossature fisico-naturali comunque declinate, che determina ormai il
modo di «essere-umani-sulla-Terra» (Berque, 1996). Giacché la qualità territoriale
dello spazio terrestre non solo è il risultato dell’azione trasformatrice dell’uomo,
delle società e delle culture, ma è la condizione per l’ulteriore dispiegamento
del processo di territorializzazione e, con esso e attraverso di esso, della stessa
vita umana. Per dirla nei termini più espliciti, in forza del processo di territorializzazione il nostro pianeta non solo ha un destino fisico-naturale, ma ha altresì,
e sempre più, un destino umano, un destino propriamente storico.
Come i geografi sanno da tempo, anche se non sempre sembrano disposti a
trarre le conseguenze, la territorialità del mondo viene costruita storicamente attraverso il lavoro umano (Raffestin e Bresso, 1979). Un lavoro fatto di pensiero e
di pratiche, specifico e infungibile, che riflette e nutre una espressione peculiare
dell’azione umana: l’agire territoriale. Un lavoro organizzato socialmente – attraverso istituzioni più o meno formalizzate – e orientato culturalmente secondo
contenuti tecnici più o meno accentuati (27). Un lavoro scandito da temporalità
plurali, distribuzioni spaziali non solo paratattiche ma liminari (Turco, 2011),
causalità non necessariamente lineari. Un lavoro, infine con esiti che sono sempre in qualche modo di natura simbolica, anche quando il prodotto possa assumere la forma materiale di un oggetto, o di una costruzione o di una localizzazione fisica (ad esempio di un posto di lavoro). Questo aspetto è cruciale: qualunque teoria del valore che riguardi il «fatto geografico» deve prendere in carico
la sua coessenziale natura simbolica. Senza questa presa in carico il valore del
capitale geografico, quale che sia la metrica che lo misura, è improprio, o incoerente, o semplicemente falso: ciò che, in una visione geografica critica del capitalismo, va senza dubbio ad allungare la lista delle contraddizioni di Harvey.
La territorialità del mondo è dunque un processo. Che germina e si svolge
nel segno di due condizionalità essenziali del pianeta, il mondo appunto, nella
sua relazione cosmologica. Si tratta della natura, da un lato, e, dall’altro, dello
spazio. Per quanto la geografia debba avere costantemente a che fare con queste due condizionalità planetarie, essa non vi si può confondere. Platone ha
messo in guardia assai per tempo dalla concezione degli atti umani nel mondo
come chôrismos, come spazializzazione. La geografia si ridurrebbe con ciò a
una mappa dei posizionamenti, a un calcolo di distanze, al supporto, quando va
bene, di reti localizzative che hanno origini e motivazioni aspaziali. La reductio
naturalistica, dal suo canto, ignorando che ormai la natura ha una lunga storia
umana (Moscovici, 1977), incorporata perciò in una geografia (Bertrand e Bertrand, 2002), ha rischiato e rischia di declinare faccende complesse (come l’emozionalità umana, o i modelli comportamentali generati da interessi sociali sul-
(27) La riflessione pionieristica in questa direzione risale nella nostra disciplina a Gourou (1973),
che dedica tutta la Prima Parte del suo compendio alle «tecniche», relega alla Seconda Parte le «condizioni fisiche», sovvertendo, così, uno schema consolidato. Nonostante l’autorevolezza di Gourou, nessun programma di ricerca, su questo pur cruciale tema, sembra essersi costituito in Geografia.
378 Angelo Turco
la natura) secondo le linee – anche etiche, anche normative – di alcune sue
componenti fisicaliste, pur importanti ma limitative.
Tremendamente complessa, la territorialità del mondo può dunque essere
descritta, al pari di tutti i processi, come uno «stato di cose». Qui vorrei riprendere e ampliare il tema della triplice articolazione in cui la territorialità può essere
colta, seguendo percorsi esplorati particolarmente nell’ultimo decennio. Si tratta,
ribadiamo, di forme di esistenza della territorialità. Forme plurali. Che, pur essendo strettamente intrecciate e persino fuse, sono tuttavia autonome l’una rispetto all’altra, dal punto di vista sia del pensiero sia delle pratiche.
Parliamo dunque anzitutto di una territorialità costitutiva, la quale consiste nel
modellamento di base della superficie terrestre, volto a istituire un controllo sul
mondo attraverso procedure simboliche (che non incidono sulla materialità del
territorio, ma ne alterano il significato, talora anche profondamente), materiali (reificazione) e organizzative (strutturazione). È ciò a cui si fa maggiormente riferimento nel grande pubblico, nei media, negli ambiti accademici extra-disciplinari.
Ed è ciò che, nei dispositivi del capitale, e dunque nella relazione capitalistica, funziona di più. Questa affermazione «costitutiva» della territorialità non è innocente e
ha una storia. Essa risale all’istituzionalizzazione disciplinare, come Capel (1987)
ha brillantemente dimostrato e come abbiamo avuto modo di indicare più volte
per alcuni aspetti qui particolarmente significativi (Berdoulay e Turco, 2001) (28).
Non meno importante della prima e, come detto, a essa fortemente intrecciata, è una territorialità configurativa la quale esprime le modalità percettive attraverso le quali noi facciamo esperienza del territorio. Esse sono universali, ancorché temporalmente e spazialmente differenziate, e si declinano – fondamentalmente anche se non esclusivamente – nelle tre configurazioni di paesaggio, luogo, ambiente. È importante sottolineare come, dal punto di vista che ci occupa,
le configurazioni della territorialità sono per noi particolarmente importanti perché hanno a che fare con le emozioni, e particolarmente con quel vasto e ancora largamente inesplorato campo che è l’emozionalità configurativa. Quest’ultima ricomprende – ma non vi si esaurisce – una «estetica», dando corso al piacere o generando stati d’animo come la soddisfazione, la pienezza, la serenità,
l’appagamento, la pace. Le configurazioni, pur essendo universali, non sono date, ma, al pari delle altre dimensioni della territorialità, rappresentano una costruzione sociale e, insieme, una conquista culturale. Infine, e perciò, per quan-
(28) Per vero, la territorialità costitutiva traffica intellettualmente molto con la «geografia del senso comune», generando fin dall’antichità non solo gli equivoci divertenti che Aristofane mette in scena, ad esempio, nelle Nuvole, ma vere e proprie transazioni semantiche basate, inutile dirlo, sul comune linguaggio ordinario impiegato. Si veda, in un campo che meriterebbe di essere esplorato ben
più a fondo, Geus e Thiering (2014). È appena il caso di aggiungere che in genere le operazioni di
«difesa» della geografia, nel seno di contrasto a «riforme» ministeriali tese a ridimensionare il ruolo
della disciplina come materia di insegnamento scolastico, fanno buona leva su questo «traffico» e derivano proprio da ciò una loro dialettica paradossale, di apparente successo nell’immediato, ma di
debole efficacia nel lungo periodo.
Geografia e capitalismo: ripensare le contraddizioni 379
to esse abbiano una declinazione intima e personale, si formano storicamente
secondo determinazioni sociali e culturali che vanno accuratamente ricostruite.
Val la pena insistere: l’articolazione configurativa di una totalità geografica,
non è una «parte» della territorialità costitutiva, né può essere in nessun modo
«ridotta» a essa. Questo è l’errore più comune e grave che viene fatto, in ambito
scientifico, nell’ambito della pianificazione territoriale, e ovviamente nell’ambito
dell’analisi geografica del capitalismo, dove non si è assolutamente in grado di
conferire autonomia analitica – e fattuale – alla territorialità configurativa, spesso
considerata sbrigativamente come una componente della territorialità costitutiva.
Infine, la territorialità ontologica concerne il significato profondo di homo
geographicus. Ha a che fare con «l’essere-umano-sulla-terra». Si interroga sulle
origini del mondo (cosmogonia) e sul posto dell’uomo in questo mondo (geografia). Ha a che fare con il territorio come una forma di comprensione dell’esistenza in generale, della vita e della vita umana in particolare (29). Dal punto di
vista ontologico, la distinzione fondamentale è quella che sussiste tra un mondo
e un nulla che lo precede (come è nella Genesi biblica, ad esempio) ovvero tra
un mondo pre-umano (inadatto alla vita dell’uomo) e quello umano (come narrano le cosmogonie senufo in Africa occidentale, ad esempio).
Sotto il profilo ontologico, d’altronde, il mondo è umano non tanto per le
sue caratteristiche fattuali, che pure sono importanti (perché l’uomo ci può vivere: respirare, nutrirsi), ma essenzialmente per le responsabilità che gli umani sono tenuti ad assumervi (30). È questa responsabilità, precisamente, che si esprime
come agire territoriale, facendo fruttare in qualche modo i «talenti» contenuti nel
mondo umano. Ciò che equivale, si capisce, a dar corso al processo di territorializzazione (che è unitario), in tutte le sue articolazioni. Le quali tuttavia sono distinte e rimangono autonome nel loro processo storico di modellamento territoriale del pianeta Terra.
Andremo a parlare più oltre della territorialità ontologica, in questo stesso seminario. Ma vorrei qui notare che essa è ancora più distante dagli approcci geografici di senso comune; del tutto controintuitiva, anzi, anche se oggi le lotte per
il territorio si svolgono nel suo segno, oltre e (talora) più che in ambito costitutivo o configurativo.
Se questo è il «capitale» della geografia, il patrimonio umano fondamentale
per la vita e il destino della Terra intera come per le diverse scale territoriali a
cui questa vita concretamente si svolge, ebbene: qual è il «suo» capitalismo? E
per dir meglio: quali sono o possono essere i dispositivi capitalistici della geografia, capaci di massimizzare le performances del suo capitale? Quale capitalismo, in grado di ottimizzare i processi accumulativi di una ricchezza intesa, al
(29) Per le nostre preoccupazioni, è certo il senso più vivido dell’argomentazione platonica sulla
chora, in virtù della quale il territorio è una «matrice» di intelligibilità del mondo.
(30) Per consapevolezza autodeterminata, etica della responsabilità ovvero secondando o completando un qualche disegno divino (per restare in ambito religioso e sacrale).
380 Angelo Turco
modo di Harvey, come implementazione delle possibilità di crescita umana, di
fioritura umana, di autorealizzazione del sé nel contesto sociale che ci accoglie?
Difficile dire, ovviamente, e certo qui poco possiamo dire. Ma un programma di
ricerca può essere fin d’ora lanciato su una problematica disciplinarmente così
cruciale. Lo slittamento dei punti di vista è assolutamente strategico. Nella territorialità integrata da tutti i suoi strati di realtà, il territorio cessa ipso facto di essere un semplice strumento, per assumere la sua fisionomia piena di «corpo mediale» (Berque, 2000) dotato di una sua autonomia di vita, di esistenza, di sostanza analitica, strategie, decisioni che confluiranno nel processo di formazione
del «nuovo» capitalismo. Con le sue trame ideologiche, le sue istituzioni (in primis giuridico-normative), le sue tecnologie, i suoi linguaggi.
D’altro canto, i contenuti simbolici del territorio è vero che non sono calcolabili, in quanto imperniati sull’emozionalità configurativa e sulle assiologie ontologiche. Ma una volta liberati dai loro stampi strumentali e ri-consegnati alla loro natura storica di energie comunitarie, una volta riconosciuti nella loro qualità
di poteri motivanti, i simbolismi territoriali sapranno fare il loro mestiere, come
hanno sempre fatto: rivendicare, assumere e implementare un loro peso nelle
dinamiche sociali (31).
È nella constatazione di tutti, in ogni caso, come da sempre il capitalismo, e
segnatamente, ora, il capitalismo globalitario, si accosti alla territorialità costitutiva con logiche appropriative e metodi incernierati sul «riduzionismo» progressivo
a causa di una inadeguata teoria dei valori territoriali (32). Dovrebbe entrare a far
parte della ragionevolezza comune, sembra, il fatto che il capitalismo globalitario sia un grandissimo dissipatore di ricchezza. Ancora una volta, un capitalismo
che non fa più, non è più in grado di fare gli interessi del capitale. Un capitalismo irriformabile. Un capitalismo da cambiare come solo la politica può avere,
se non la certezza, almeno una chance di fare.
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(31) Magari ricorrendo a scorciatoie di tipo identitario.
(32) Di cui, riprendendo l’argomento centrale di Harvey, la «disomogeneità» va presa in carico
non solo a livello di territorialità costitutiva, come detto, ma tra le diverse articolazioni della territorialità. Per modo che i dispositivi del capitale agiscano riflessivamente su questo innovante tipo di
disomogeneità geografica – e sui loro «indipendenti» modi di evoluzione – per sostenere i processi
accumulativi in atto o innescarne di nuovi.
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GEOGRAPHY AND CAPITALISM: RETHINKING CONTRADICTIONS. – From the last
book of D. Harvey Seventeen Contradictions and the End of Capitalism a workshop was
held in Rome in May 2015. It is proposed here, among different perspectives of remarks, a
change of focus in the analysis of the capitalist relation, from concept of contradiction to the
one of crisis. This focus, necessarily goes with a complete articulation of the territorialization
process, with the constitutive territoriality overcoming and the integration of other articulations of territoriality, especially that configurative and ontological. This allows to put in a
specifically geographical perspective the issue of the globalitarian capitalistic relation.
Milano, Libera Università di Lingue e Comunicazione-IULM, Dipartimento di Studi
Classici, Umanistici e Geografici
[email protected]