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Valeria, la fidanzata di Fabo che sentiva di essere sola al
mondo, ingannata dalle filosofie orientali
Benedetta Frigerio
www.lanuovabq.it, 02-03-2017
Cosa può portare una fidanzata ad acconsentire e spingere verso il suicidio il proprio amore
nel momento del bisogno estremo? Immedesimandosi viene da ribellarsi, perché è proprio in
quel momento che vorresti compatire, sorreggere, abbracciare più forte la persona più
importante della tua vita. Anche se poi uno può non farcela o non reggere la fatica, è questo
il primo impeto, il moto vero e spontaneo del cuore umano. Non riuscendo dunque a
comprendere, si può provare a cercare di capire chi sia Valeria Imbrogno, la fidanzata di
Fabiano Antoniani, l’ex dj tetraplegico che lunedì scorso si è fatto uccidere in una clinica
Svizzera dell’eutanasia dopo una campagna mediatica ingaggiata insieme a lei e al partito
radicale. Una settimana prima, intervistata dalle Iene, Valeria aveva chiarito che “quella non
era vita”, che il suo fidanzato era già morto da due anni. Perciò era giusto “liberarlo”. Ma
liberarlo da cosa?
Valeria, 38 anni, oltre ad avere una laurea in psicologia, è una sportiva professionista che ha
fatto della boxe “uno stile di vita” in cui “poter chiedere a me stessa tutto il possibile”, ha
dichiarato alla rivista sportiva Seconds Out. Per lei lo sport è infatti la continua possibilità di
superare i propri limiti, come si legge in un suo post su Facebook dove commenta così un
video sulle prestazioni fisiche “sovraumane”: “Nulla è impossibile”. E ancora, scrive nel
2015, “c’è una sorta di furore in noi (…) un incessante desiderio di fare di più, di spingerci
oltre i limiti che riteniamo possibili”. Come si risponde a questo desiderio Valeria lo ha scritto
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lo scorso agosto riprendendo un pensiero del cantautore argentino, Facundo Cabral: “Se
avete un gran sogno, dovete essere disposti a fare grandi sforzi per renderlo realtà”.
Si scopre dunque che Valeria non ha molto di diverso da noi uomini e donne moderni che
fondiamo la nostra esistenza sulla riuscita e il continuo miglioramento di sé. Commentando
il film “La ricerca della felicità”, dove il protagonista dice al figlio che tutto ciò che si
desidera può essere ottenuto a costo di sforzi e sacrifici, la donna continua: “Se vuoi qualcosa
vai e inseguila, la vita è bella, bisogna crederci fino in fondo”. Fra le immagini postate appare
anche quella della divinità hindu Ganesh (mezzo uomo mezzo elefante) che si invoca o di
cui si imitano le posizioni anche in alcune palestre italiane per chiedere forza e successo nelle
proprie imprese.
Quello che impressiona di più, però, è il video di Omraam Mikhaël Aïvanhov, un esoterista
bulgaro formatosi in India (dove Valeria e Fabiano hanno vissuto 5 anni prima
dell’incidente) noto per le sue tecniche di perfezionamento necessarie a superare se stessi, il
proprio limite e male e quelli altrui. Aivanhov spiega che non bisogna aspettarsi mai amore
da nessuno, così da non rimanere delusi e che l’unico modo per essere in pace “è amare,
amare, amare noi”, così “da riempirci con il nostro amore” senza necessità di dipendere dagli
altri. Il resto sono post sulla natura a cui ritornare, contro i limiti imposti dalla globalizzazione
e dalla cultura. Come se il mondo qui, la materia, il proprio corpo appunto, fossero una gabbia
da infrangere tramite lo spirito. Sempre sulla sua pagina Facebook in un altro video si spiega
che il soggetto umano è l’artefice della sua vita e che con la sua mente e i propri sforzi può
creare le circostanze che preferisce. Tutto normale appunto agli occhi abituati di chi vive in
questa società, peccato che ciò non tenga conto del fatto che un limite alla fine esiste e che
l’uomo ha continuamente bisogno di un amore più grande del suo che, per grande che sia, è
pur sempre troppo piccolo e meschino. Insomma il moralismo potrà portare anche lontano,
ma mai risolvere interamente il bisogno d’infinito che la nostra finitezza non sa colmare.
Perciò, volenti o nolenti, bisogna ammattere che all’uomo serve qualcosa o qualcuno che lo
salvi dall’esterno.
Non a caso lo spiritualismo e l’ottimismo della boxer, che parrebbero inconciliabili con la
scelta di arrendersi, di smettere di sperare e assecondare l’omicidio del fidanzato, in fondo
sono solo un tentativo di mascherare la paura di non farcela da sé. Basti vedere quanti
occidentali ormai seguono filosofie, corsi di yoga o di altre tecniche spirituali o
pseudoreligiose, senza che la disperazione gaia in cui viviamo venga minimamente superata.
“A volte – ammette Valeria ancor prima dell’incidente di Fabiano – ho la sensazione di
essere sola al mondo. Altre volte ne sono sicura” e poi “urlo il mio dolore nel silenzio.
Nessuno sente più i miei pianti, nessuno può alleviare i tanti rimpianti. Nessuno sfiora i miei
occhi stanchi. La solitudine mi culla e sorride”. E nel dicembre 2015 riporta una poesia di
Fedrico Garcia Lorca: “I labirinti creati dal tempo svaniscono. (Rimane solo il deserto). Il
cuore, fonte del desiderio, svanisce. (Rimane solo il deserto). L'illusione dell'aurora e i baci
svaniscono. (Rimane solo il deserto; l’onduloso deserto).
Dunque che cosa non funziona in questo modo di concepire la vita, anche di tanti sedicenti
cristiani che vivono un ateismo pratico, per cui l’esistenza dipende interamente dai propri
sforzi, calcoli e decisioni? Dove si arresta la logica del successo e del moralismo che non
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hanno retto di fronte al “fallimento” di Valeria e Fabiano, quando dopo l’incidente avevano
provato a lottare per superare i limiti della tetraplegia senza riuscirci? Quello che manca alla
visione ottimista ma disperante in cui siamo immersi di per sé sarebbe un dato evidente
(riconosciuto finora da tutte le culture), ma che il razionalismo odierno nega: la dipendenza
da un Mistero che ci fa essere e che fa le cose secondo un ordine buono. Si tratta in fondo del
rifiuto a vivere responsabilmente di fronte al Dio della tradizione cristiana (e alla sua legge
che ci fa comprendere che esistono un bene ed un male) non perché “bisogna” ma perché “ci
conviene”. Infatti, è la stessa ragione che può comprendere che solo in chi ci ha fatti si può
essere felici. Ma forse Valeria ha accettato la visione del Dio cristiano della maggioranza,
che elimina il problema della libertà dipingendolo come un tiranno: “La religione – scrive
sulla sua bacheca riprendendo un comico anticlericale – di un uomo invisibile che vive nel
cielo, che guarda tutto ciò che fai ogni minuto di ogni giorno. E l’uomo invisibile ha una lista
di 10 cose specifiche che non vuole che tu faccia. E se tu fai una di queste cose ti manda in
un posto speciale, di fuoco e fiamme e fumo (…) e dolori e bruciore e urla fino alla fine dei
tempi. Ma ti ama. Ti ama e ha bisogno dei tuoi soldi”.
In quest’ottica il cattolicesimo diventa il vero nemico e la libertà anziché adesione al bene
diventa ribellione (fare quel che si vuole). Eppure, se è vero che Cristo chiede tutto, lo fa per
dare all’uomo tutto ciò a cui aspira. Tanto da renderlo libero anche in catene, anche inchiodato
a un letto. Anche se debole, anche se peccatore, anche se incapace di perfezionarsi. Come
hanno dimostrato tante persone disabili in queste ore in cui la stampa era più preoccupata di
spettacolarizzare la morte che non di dar voce alla loro speranza. Anche perché spesso
nemmeno la Chiesa offre più questo Dio come unica salvezza, lasciandolo in preda a filosofie
“new age” che non soddisfano pienamente e per cui l’eutanasia diventa un cuscinetto, una
zona franca in grado di tranquillizzare: si può continuare a vivere come pare e piace con l’idea
che quando non sarà più possibile farlo si potrà sempre uscire di scena, nell’ultimo tentativo
di dominare anche la morte.
Ma, al di là di tutto, Fabiano non c’è più e il dramma di Valeria che pensava di risolvergli e
risolversi la vita aiutandolo ad uccidersi resta. Chi vincerà la sua solitudine che forse si farà
più forte? Chi la libererà pienamente dal suo di limite? Potrà provare a non pensarci, a cercare
nuove tecniche, ma prima o poi la questione si ripresenterà. Il cappellano della Maddalena
Grassi, don Vincent Nagle, aveva offerto a Fabiano la possibilità di incontrare l’Amore
infinito di Cristo, Dio fatto carne nella compagnia della Chiesa, ma un rapporto in cui non
fosse lui a stabilire le regole il dj non lo ha voluto accettare. Le ragioni del rifiuto possono
essere tantissime e magari attenuanti, ma non è l’anima o le persone coinvolte in questa
vicenda che ci spetta di giudicare. Bensì un individualismo irrazionale da cui mettere in
guardia tutti, indicando la sola ipotesi ragionevole di salvezza: quella dell’amore folle e vivo
di Gesù crocifisso.
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Avvenire e il dovere di avere qualche cosa da dire
Renzo Puccetti
www.lanuovabq.it, 01-03-2017
Sulla morte del Dj Fabo, nato Fabiano Antoniani, molto si è scritto e per un po' ancora si
scriverà. Poi, come inevitabile, l’emozione e il clamore passeranno e per alcuni rimarrà il
silenzio della morte, del cadavere e della tomba, per la massa quello del trentanovenne
deceduto in un villino di Zurigo secondo il protocollo suicidario svizzero, sarà un caso pietoso
e controverso che ha preso il suo navigare nel passato. I giornali di ieri hanno dedicato ancora
grande spazio al fatto e così ha fatto anche Avvenire, quotidiano della Conferenza
Episcopale Italiana, con alcuni interventi molto belli, tra cui quelli del palliativista Marco
Maltoni e del fisiatra Angelo Mainini che ha seguito Fabo.
L'editoriale di Avvenire è stato affidato al professor Giuseppe Savagnone, storico e filosofo
universitario, di cui ricordo una squisita conversazione sul gender nella sua magnifica Sicilia
prima di un congresso. Come allora, accanto ad elementi di assoluta identità di vedute, devo
registrare punti su cui non posso dire di concordare con le riflessioni di Savagnone sul caso
Antoniani.
Trovo molto acuta la risposta dell’editorialista di Avvenire e a coloro che accusano l’Italia di
non conformarsi alle legislazioni eutanasiste di altri Paesi: “È vero”, scrive Savagnone,
“L’Italia forse è l’unica democrazia matura a non ammettere alcuna forma di eutanasia. Ma è
rimasta anche l’unica a non alzare muri per bloccare l’ingresso dei migranti e a continuare a
spendere soldi per cercare di salvare vite umane dalla morte per annegamento”.
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Touché, la contraddizione tra individualismo etico e comunitarismo sociale è infilzata. E
concordo con Savagnone anche nello stigmatizzare la strumentalizzazione ideologica di un
caso “in cui tutte le forme di pudore sono sistematicamente travolte dalla logica dello
spettacolo”. Un primo elemento di distanza dall’analisi di Savagnone risiede nel fatto che la
spettacolarizzazione, in questo caso, così come in quello Welby, non è avvenuta senza il
consenso del protagonista della vicenda.
Proprio il rispetto della ragione e della volontà di cui gode la persona mi obbliga a prendere
atto che Fabo ha scritto pubblicamente al presidente della Repubblica, ha rilasciato
un’intervista alle Iene, appare ritratto con un logo apposta coniato: “Fabo libero, per vivere
liberi fino alla fine”. L’ex Dj ha sì commesso l’omicidio di se stesso, ma prima di questo si è
reso protagonista di una campagna affinché ciò che lui ha fatto fosse un diritto legalmente
riconosciuto in Italia. Questa cosa ha un nome e si chiama azione politica.
Il suo fine è una legge per l’eutanasia e l’auto-eutanasia. Per questo non concordo con
Savagnone quando egli afferma di non avere “nulla da dire sulla tragica scelta di questa
persona”. Al contrario di Savagnone, e dato per scontato il riconoscimento della tragicità e
della sofferenza di Fabo, io ho molto da dire sulla sua scelta. Questa, così come ogni atto
moralmente rilevante, chiama in causa la ragione e la libertà della persona ed è soggetta al
giudizio morale di chi la compie, come di chi, facendo parte di una comunità sociale,
direttamente o indirettamente ne risulta toccato.
Questo non significa giudicare la persona, ma ciò che la persona compie è giudicabile, tanto
più se costituisce un atto politico. Fabo non ha chiesto aiuto per la sua sofferenza, o meglio
l’ha fatto per un periodo, come rivela il dottor Mainini, ma ad un certo punto la sua richiesta
è cambiata ed è diventata quella di morire per non soffrire più, una richiesta chiaramente
eutanasica, attuata mediante suicidio assistito.
Il magistero della Chiesa e la scienza danno dell’eutanasia la stessa definizione: “L’atto o
la pratica di uccidere o consentire la morte degli individui irrimediabilmente malati o feriti in
modo relativamente indolore per motivi di pietà”, è la definizione del dizionario medico
Merriam-Webster, praticamente coincidente con quella fornita dalla Congregazione per la
Dottrina della Fede nel 1980 nel documento “Iura et bona”. Fabo si è auto-eutanasizzato.
Non concordo con Savagnone quando egli afferma che nel caso Welby “si sarebbe potuto
valutare il peso di quell’accanimento terapeutico che anche la morale cattolica condanna e, di
conseguenza, il diritto etico della persona di rinunziare all’uso di mezzi eccezionali e senza
speranza di guarigione”.
Presentare in questo modo il caso Welby non credo sia rendere giustizia alla verità fattuale.
Come Fabo, anche Welby scrisse al presidente della Repubblica, partecipò alla campagna
mediatica radicale, e non chiese di interrompere la terapia perché non più proporzionata, o di
alleviare la sofferenza. Nella sua lettera scritta a Napolitano si legge: “la mia richiesta, che
voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più
chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia”. È la motivazione era esplicitata in quello
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stesso scritto: “Ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento
nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.
Per Welby “Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata
notturna con un amico”. L’antropologia soggiacente è evidente: la vita è tale, è degna di essere
vissuta, se e fino a quando determinate condizioni sono adempiute, in loro assenza rimangono
solo funzioni biologiche. Prendere atto della volontà di Welby di attuare l’eutanasia rifiutando
i funerali religiosi da parte della diocesi di Roma, seppure considerato allora un’offesa, fu in
realtà un atto di grande rispetto per il libero arbitrio di Piergiorgio Welby.
Ha ragione Savagnano ad evidenziare la differenza tra Fabo e Eluana, la donna deceduta
dopo interruzione della nutrizione e idratazione assistita su richiesta del tutore, il padre,
mediante ricostruzione giudiziaria, retrospettiva e indiziaria delle volontà della figlia.
Tuttavia si dovrebbe prendere atto che anche in questo caso l’intenzione fu chiaramente
eutanasica; “Eluana, purosangue della libertà” fu lo slogan martellante di quei giorni. La
triade eutanasica nei casi Welby, Eluana, Fabo è sempre presente: vita indegna di essere
vissuta, intenzione pietosa, mezzi idonei a provocare la morte. Volontaria o involontaria, con
mezzi omissivi o commissivi, si tratta di aspetti accidentali, non sostanziali.
Il testamento biologico è solo lo strumento giuridico strumentale messo in piedi per
affiancare questi casi pilota ad accelerare quel cambio di paradigma auspicato e predetto da
Maurizio Mori: “dal vitalismo ippocratico”, ad “un aurorale controllo della propria vita da
parte delle persone”. Se qualcuno dalle parti della CEI dovesse accondiscendere sarebbe
tragico e scandaloso.
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