San Carlo Borromeo - Istituto Comprensivo di Fagnano Olona
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San Carlo Borromeo - Istituto Comprensivo di Fagnano Olona
San Carlo Borromeo: La Riforma comincia dall’io I santi riformano in profondo la Chiesa non predisponendo piani per nuove strutture, ma riformando se stessi . (Joseph Ratzinger) Carlo nacque ad Arona nel 1538, da famiglia nobile e potente, fu ben presto avviato alla carriera ecclesiastica: a sette anni ricevette la tonsura e l’abito clericale, a dodici anni fu nominato abate dell’Abbazia di Arona. Nel 1559 lo zio, eletto papa con il nome di PioIV, lo volle a Roma e a ventidue anni lo creò cardinale. Carlo era tenace e coscienzioso, infaticabile lavoratore, dotato di capacità organizzative non comuni. Il Pontefice amava chiamarlo “il mio occhio destro”: tutta la corrispondenza passava per le sue mani e toccava lui intrattenere i rapporti con nunzi ed ambasciatori. La vita romana di Carlo, onorato da tutti e circondato da una corte principesca, si adeguò alla sua posizione. Non si pensi che Carlo vivesse in modo dissoluto. Era uomo virtuoso e riservato, interamente dedito al lavoro. In particolare si impegnò a fondo per la riuscita del Concilio di Trento: fu grande paladino dell’ultima fase, ne difese strenuamente i lavori, guidò diverse ed importanti commissioni, favorì il superamento di tante incertezze. Diceva: “Gioverebbe ben poco fare decreti di riforma se poi noi stessi non li osserviamo” ed in effetti fu il primo a metterli in pratica, in seguito ad un episodio che cambiò il corso della sua vita. Il 19 novembre 1562, quando era al sommo della celebrità, improvvisamente morì Federico, suo fratello maggiore. Molti pensavano che Carlo, non ancora sacerdote, avrebbe abbandonato la carriera ecclesiastica per prendere il posto del primogenito, unico erede del patrimonio e dei privilegi di famiglia. Egli invece percepì tutta un’altra chiamata: “Questa morte è avvenuta per disposizione divina: il Signore vuole che dica addio alle cose caduche e mi rivolga a quelle importanti, vere, eterne”. La notte stessa chiamò il confessore e chiese di essere ordinato. Decisivo fu anche l’incontro con il gesuita padre Ribera. Questi aveva cercato invano di parlare al cardinale e quando fu introdotto nel suo studio gli rivolse queste parole: “ Il negozio che devo esporre non si può sbrigare in pochi minuti come lei vorrebbe. Allora dico soltanto che compatisco grandemente Vostra Signoria, avendo veduto quale sia la moltitudine dei negozi che lei tratta. Prego Dio che gli affari del mondo non le levino il tempo di pensare almeno un poco alla salute dell’anima: che giova guadagnare il mondo se poi si perde se stessi?” Carlo sentì il cuore trafitto da una spada, toccò che quanto il mondo può dare è vanità: così cominciò il suo cammino di conversione, trascinato anche dall’esempio degli altri riformatori del suo tempo. Nel 1564 venne nominato vescovo di Milano e secondo quanto dettato dal Concilio di Trento, pose la sua residenza in questa città. “Per la mia città farò tutto quello che un padre potrà fare al figlio”, scrisse poco prima di lasciare Roma alla volta della sia diocesi dove la riforma auspicata dal Concilio era quanto mai urgente. L’ignoranza in materia religiosa era così profonda che molti avevano perso la cognizione di Dio, non avevano mai letto passi del Vangelo, restavano senza sacramenti per anni o morivano senza neanche sapere cosa fossero. C’erano conventi in cui le suore si confessavano dalla madre badessa, monasteri usati come sale da ballo, chiese utilizzate per battere il grano e la biada. Carlo iniziò subito a lavorare senza sosta. Anzitutto decise, per quanto possibile, di conoscere ad uno ad uno i suoi fedeli, non soltanto accogliendoli, ma andando loro incontro là dove abitavano, per comprendere da vicino le loro condizioni di vita e intervenire nel modo più efficace, Nel giugno 1566 indisse la prima visita pastorale della sua diocesi (una delle più vaste): alla fine del 1570 l’aveva già percorsa tutta, comprese le valli svizzere. Viaggiava durante le ore più calde della giornata, durante il tragitto pregava, leggeva o rispondeva alle lettere; era seguito da un baule colmo di libri e foglietti di appunti. Raggiungevi anche i luoghi più sperduti ed ovunque richiamava ad attuare il santo Concilio. I suoi discorsi, nonostante non parlasse bene, erano sempre convincenti e commoventi. La gente parlava con lui e soprattutto i sacerdoti che venivano ascoltati, incoraggiati, richiamati ai loro doveri, consigliati al letture. Carlo non amò il popolo genericamente inteso, ma singoli uomini e singole donne, personalmente. Durante le visite annotava su un libro i nomi dei più bisognosi di aiuto, poi li faceva seguire, chiedendone conto alle persone a cui li aveva affidati. Tra il 1576 e il 1578, quando Milano fu colpita dalla peste, la sua immensa statura e la grande dedizione al popolo si mostrarono in tutta la loro profondità. I morti erano centinaia, tutti i giorni, ovunque si diffondeva sofferenza e povertà. I medici si aggiravano guardinghi, tenendosi a distanza dagli ammalati; i sani che non avevano i mezzi per lasciare la città restavano asserragliati in casa, abbandonando qualunque tipo di lavoro e lasciando la città senza risorse. Gli appestati languivano soli in misere stanze, senza cibi né cure. Non si trovava neppure chi seppellisse i morti. Al primo diffondersi della malattia il governatore spagnolo, i nobili e i cittadini abbienti si rifugiarono in campagna per paura del contagia; Carlo decise di non lasciare la città, fino al termine del contagio. Diede i suoi averi ai poveri, compresi mobili e masserizie di casa. Vendette argenti e drappi; sopraggiunto l’inverno con tappezzerie, tende e coperte da letto fece confezionare abiti per i poveri. Raccolse dalle strade tremila mendicanti e li radunò in un convento fuori città, dove provvide perché conducessero una vita regolata e edificante: pregavano e facevano questua nei paesi vicini (quando le elemosine non bastavano, provvedeva lui stesso al loro nutrimento). Ogni giorno percorreva le strade della città, entrava nelle case, visitava gli appestati al lazzaretto. Per istruirsi sulla peste e sulle modalità di contagio, radunò medici esperti e raccolse i migliori testi. Così poté stabilire preziose norme sanitarie, che pretendeva fossero seguite anche dai suoi collaboratori: non toccare le vesti e i giacigli dei malati; purificarsi le mani con l’aceto; disinfettare gli abiti dopo le visite. Scomunicò coloro che cercavano di arricchirsi vendendo le vesti degli appestati. Quando fu decretata la quarantena della città, fece erigere 19 altari nelle piazze da cui si diramavano le strade principali, permettendo ai milanesi segregati nelle loro abitazioni di partecipare ai riti religiosi senza uscire dalle case. Fece suonare le campane sette volte al giorno, per invitare alla preghiera e ad invocare senza sosta l’aiuto divino. In un momento di lotta vertiginosa contro il male decise di celebrare tre grandi processioni. I magistrati dapprima ostili, dovettero cedere, anche perché dietro il vescovo, che reggeva la croce con il Santo Chiodo, c’era tutta la città. Così il popolo fu aiutato a riconoscere la mano di Dio dietro a quegli eventi tanto drammatici: anche circostanze così dure diventarono occasione di conversione. Quando la peste terminò, perché i milanesi non si dimenticassero della grazia, sostituì i 19 altari con delle colonne con una croce. La sua grande attenzione a tutti gli aspetti della vita dei singoli e delle comunità lo portarono a stilare una serie di decreti, minuziosi, che però conferirono solidità e durevolezza alla riforma: si restauravano e abbellivano chiese, nascevano confraternite, si diffondeva l’insegnamento della dottrina cristiana. Così il volto della diocesi pian piano si trasformava. Il Concilio aveva raccomandato che in ogni diocesi sorgesse un seminario, e Carlo ne fondò personalmente diversi. Mosso dall’attenzione ad ogni sfumatura dell’umano, fondò istituti con caratteristiche diverse: chi era in grado di studiare con facilità era ammesso al Seminario Maggiore; per i meno agili c’era il Seminario di santa Maria della Canonica, dove si insegnavano solo i fondamentali; il Seminario di Santa Maria Fulcorina accoglieva chi era avanti in età, era detto “dei parroci”, perché subito dopo l’ordinazione si era mandati a reggere una parrocchia. Carlo conosceva i suoi seminaristi, parlava spesso con loro facendosi raccontare progressi o difficoltà: il cammino educativo mirava ad introdurli alla conoscenza di Cristo, perché crescesse il desiderio di servirlo. Tre erano le raccomandazioni: vita comune, studio, liturgia. Il suo motto era: “tanta osservazione, poche parole, molti fatti”: fondò e sostenne tante forme di servizio per i poveri (Monte di Pietà; Casa di santa Maria Maddalena, Ospizio dei Poveri mendicanti e Vergognosi della Stella). Sviluppò la vita delle Confraternite, libere associazioni di laici con scopi religiosi, sociali, caritativi; gli iscritti si radunavano per momenti di preghiere comune, si sostenevano nella vita, si aiutavano l’un l’altro, soprattutto in caso di malattia o morte. Potenziò le scuole della dottrina cristiana, che si tenevano in ogni parrocchia la domenica e nei giorni festivi; il testo era un semplice catechismo scritto in forma di dialogo. Carlo era forte perché amava, e questo perché innanzitutto riconosceva di essere amato. Nella preghiera trovava la ragione e la forza del suo lavoro: recitava sempre l’Ufficio divino; spesso prima di prendere decisioni importanti trascorreva l’intera notte in preghiera; digiunava e dormiva poco, ma per poter pregare di più. A 46 anni era sfinito per le fatiche, i viaggi, i sacrifici: non si era mai concesso un giorno di riposo, consumandosi minuto dopo minuto per Dio e per gli uomini. In quelli che sarebbero stati gli ultimi suoi giorni, volle ritirarsi per un periodo di riposo al Sacro Monte di Varallo. Trascorse il tempo nel silenzio, anche di notte usciva a pregare, piangendo e supplicando il Signore che perdonasse i suoi peccati. La sera del 2 novembre 1584, violenti attacchi di febbre lo costrinsero a letto. Era ad Arona, ma volle essere portato a Milano, par morire nel suo letto. Morì la sera del giorno seguente dopo aver ricevuto i Sacramenti e dicendo: “Guarda, Signore, sto arrivando…”. In un secolo segnato da eresie, guerre, epidemie, Carlo è stato un bagliore nella notte, generatore di popolo e di storia. Carlo Borromeo è l’espressione di una vera riforma, cioè di un rinnovamento che conduce in avanti perché insegna a vivere in modo nuovo i valori permanenti. In lui si può vedere quale sia il presupposto essenziale per un simile rinnovamento: Carlo potè convincere altri perché lui stesso era un uomo convinto, potè resistere con la sua certezza in mezzo alle contraddizioni del suo tempo perché era cristiano nel suo più profondo senso della parola, cioè totalmente centrato su Cristo. Questa integrale relazione a Cristo è ciò che veramente conta. Di essa non si può convincere nessuno solo argomentando; però la si può vivere e attraverso ciò renderla credibile agli altri, invitare gli altri a condividerla.” (J Ratzinger)