Il maestro Degli Esposti

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Il maestro Degli Esposti
Il maestro Degli Esposti
(Paolo Bassi)
I capelli erano quasi tutti bianchi, ondulati e leggermente impiastricciati di brillantina. Poco, poco,
quasi non si notava, ma le nostre mamme un occhio di riguardo ce l’avevano: “E’ un uomo
interessante, ha una sua presenza, un suo stile particolare …” ed è detto tutto.
A noi, invece, piaceva molto, perché ci trattava quasi da ometti, ci aveva lasciato la libertà di
sistemarci nei banchi come volevamo, non era particolarmente interessato alla precisione delle file,
durante la merenda si potevano fare anche le briciole e amava in modo smisurato la matematica e il
disegno. Con la prima si apriva la mente, diceva, e con il secondo si dava spazio alla fantasia. Mica
male, eh! Credo ci fosse riconoscente del fatto che eravamo riusciti a trasformarci, in breve tempo,
da una classe di organismi monocellulari, anche se pensanti, in una squadra di ventisette esseri
umani alcuni dei quali si permisero subito di ridere, parlare col compagno di banco e far cadere la
“cannetta” spuntando il pennino.
Diversi anni dopo la mia fuoriuscita dalle elementari, il maestro Degli Esposti, confessò ai miei
genitori, (intanto eravamo diventati amici di famiglia abitando nello stesso quartiere), che i primi
giorni di quel triennio che gli era stato affidato, furono per lui terrorizzanti. Disse che si trovò di
fronte ad un gruppo di bambini che gli sembravano usciti, parole sue, da una classe differenziale,
insomma, bambini subnormali … strano destino …
E’ impensabile che lui non fosse a conoscenza dei trascorsi della maestra Tattini, del suo metodo
d’insegnamento e di ciò che si sarebbe trovato davanti quel primo di Ottobre della sua e della nostra
nuova fase. Ci faceva domande su ciò che avevamo imparato negli anni precedenti, su ciò che ci era
piaciuto di più e su quello che avremmo avuto piacere di fare in sua compagnia. Sì, parlò proprio di
compagnia, perché si sforzò da subito e ci riuscì benissimo, di apparire, non tanto e non solo il
maestro, ma anche una specie di compagno che, se anche più “grande” di noi, poteva benissimo e
anzi ne aveva proprio voglia, di giocare insieme al suo gruppo di “ragazzi”.
E non più bambini.
Cominciammo fin da subito a fidarci del maestro Degli Esposti e lo dimostrammo portando i
colletti bianchi non più inamidati, a volte interrompendolo per fargli domande su ciò che spiegava,
ma anche su nostre curiosità che spesso esulavano dagli argomenti scolastici, si cercava di
assecondarlo nella sua passione per la matematica, che era poi aritmetica, impegnandoci in enormi,
per noi, moltiplicazioni o divisioni ed anche in quei meravigliosi disegni geometrici che riusciva a
farci fare utilizzando, come piccoli ingegneri, riga, squadra e compasso, a farceli ripassare col
tiralinee caricato a china ed infine a riempirli di colore usando acquerelli diluiti opportunamente
senza lasciare macchie o aloni. Erano cose non facili, che tuttora molto probabilmente non sarei più
in grado di fare, ma erano, vi garantisco, grandi soddisfazioni, per noi e per lui.
C’erano, come era giusto ci fossero, quelli che, tra matite, china e acquerelli non ci azzeccavano
proprio: Tommasini, detto Tommy era uno di quelli.
“Bassi (sono io) è la riga che deve stare ferma e la squadra si muove o alla rovescia?” poi “Guarda
qui, la china mi va sotto alla squadra e sbavo tutto!” e ancora “C’è troppa acqua nel ciotolino, il
colore non si vede!” e infine “Come si fa? … Aiutami …”.
In quei momenti Tommy, per me, era angosciante, gli volevo bene, ma anch’io avevo i miei
problemi con quelle tavole, cercavo di passargli le informazioni più utili, ma non facevo altro che
peggiorare la sua situazione. A quell’età eravamo tutti un po’ piagnucoloni, ma Tommy, su questo,
era un vero professionista. Preso dal panico si ammutoliva, incassava il collo tra le spalle, con gli
occhi bassi sembrava guardasse il nulla o il disastro che c’era sul suo banco, ma non cacciava fuori
una lacrima nemmeno a pagarlo. Io cercavo di limitare i danni con una pacca sulla spalla, oppure
rimescolandogli il colore che si stava asciugando, arrivavo anche a fargli qualche riga non sbavata
sul disegno, ma non sono mai riuscito ad ottenere grandi risultati.
Per fortuna, attraverso la nuvola di fumo della sua perenne sigaretta, il maestro Degli Esposti teneva
sotto controllo la situazione e in un attimo arrivava alle spalle di Tommy, inglobava la sua manina
dentro alla sua manona e gli faceva tracciare delle linee perfette, gli girava la squadra in modo tale
che il tiralinee scorresse sul lato dove c’era il gradino fatto apposta e la china non sbavava più ed
infine gli spiegava che con un po’ più di acquerello schiacciato dal tubetto i suoi colori sarebbero
diventati più carichi e brillanti.
Un vero amico.
Poi tornava alla cattedra e riprendeva a fumare.
No, non criticatelo: in quegli anni la sigaretta era un’appendice inseparabile del fumatore ed una
cosa normalissima per il non fumatore. Pensate, oltre al “libero fumo” nei cinema e nei bar, su
autobus e tram c’era un posacenere, quasi sempre pieno, sullo schienale di ogni seggiolino, si
fumava nelle sale d’attesa degli ambulatori, il mio “medico della mutua” aveva la sigaretta in bocca
mentre mi prescriveva lo sciroppo per la tosse e in chiesa, beh, in effetti in chiesa non ho mai visto
nessuno fumare. Tenevano in mano la sigaretta in attesa del finale “Ite missa est”.
Tornando al maestro, lui fumava le STOP senza filtro, le stesse di mia mamma, aveva la chiazza
marrone tra l’indice e il medio della mano destra e i denti, inutile dirlo, non proprio candidi.
Le prime ore del sabato mattina erano dedicate al ricevimento dei genitori. Mentre loro parlavano
noi potevamo dedicarci, senza fare troppo rumore, ovvio, a qualche attività extrascolastica,
insomma, si poteva giocare un po’ tra di noi. Spuntavano le figurine Panini, qualche collezione di
francobolli e i soldatini di plastica. Ricordo che andava per la maggiore la serie “Afrika Korps”,
composta da quei piccoli ometti in mille posizioni di colore beige sabbia, corpo militare tedesco che
doveva ricordare le truppe di Rommel, la Volpe del deserto, poi c’erano quelli che disegnavano o
sfogliavano Topolino. A turno, però, ognuno di noi si interrompeva per ascoltare le parole del
maestro quando alla cattedra arrivavano i propri genitori. Parlavano di condotta, di rendimento
scolastico nelle varie materie, poi l’attenzione e l’impegno, ma il tutto riferito con dolcezza ed
educazione e mai con minacce o considerazioni sgarbate.
Tra i vari genitori due in particolare suscitavano la nostra curiosità, perché rappresentavano le
famiglie di quelli che, oggi, sarebbero bollati come casi sociali. Piccoli e Locatelli erano due bimbi
silenziosi per la maggior parte del tempo, ma si trasformavano in piccole furie quando qualcosa non
girava per il verso giusto. Piccoli odiava la china che sbavava, (aveva gli stessi problemi di
Tommy), Locatelli ammetteva divisioni solo senza resto e la loro reazione a questi due intoppi era
una serie di pugni sul banco che impaurivano noi e preoccupavano il maestro Degli Esposti.
“Non fare così Piccoli, finisce poi che la china si impressiona e sbava di più”
Provava a metterla sullo scherzo.
“Se ti sentissero mamma e papà si prenderebbero paura anche loro”.
“Io il papà non ce l’ho, è saltato per aria con tutte le bombole del suo camion”.
Gelo totale. Anche il maestro non lo sapeva e, in effetti, pure noi c’eravamo sempre chiesti il
motivo per cui al sabato compariva solo la mamma, che sicuramente non aveva detto nulla con
nessuno.
“Beh, allora fallo per mamma: anche lei, sai, ha tanto dispiacere, ti vuole bene e vorrebbe che il tuo
papà ti vedesse sempre contento”.
Piccoli si calmava, forse piangeva in silenzio e, di certo le linee non sbavate le dedicava a suo
padre.
Locatelli era più solare e meno sfortunato: non sopportava quelle divisioni perché, diceva, al
mercato, (non c’erano ancora le COOP), vedeva solo le mele intere e non capiva dove avrebbe
potuto esserci un resto. Unico resto ammesso, per lui, erano gli spiccioli che il negoziante rendeva a
sua mamma e che, qualche volta, finivano nel suo salvadanaio. Logica ferrea degli otto, dieci anni.
Col passare del tempo, il maestro Degli Esposti introdusse nel suo personalissimo programma
didattico l’insegnamento e la pratica del gioco degli scacchi. Al sabato, dopo il ricevimento
genitori, spuntavano sui banchi le nostre piccole scacchiere e tutti eravamo pronti ad affrontare le
prime mosse, le prime aperture, i primi schemi di gioco e le prime strategie. Ci fece disegnare su
tanti cartoncini quadrati, tipo Polaroid, altrettante piccole scacchiere con diverse posizioni di pezzi
ognuna delle quali rispecchiava una situazione a partita avanzata, dalla quale si poteva partire per
affrontare l’avversario nel miglior modo possibile.
Come per il disegno e la matematica c’era chi riusciva meglio, con intuizioni e tattiche via via
sempre migliori e chi si lasciava un po’ andare dopo le prime mosse, sicuramente per evitare un
eccessivo consumo cerebrale. Ma, per tutti, questo era un gioco, un gioco molto utile e formativo,
un aiuto all’elasticità mentale e uno stimolo da applicare nelle materie scolastiche e nella vita.
Il bello, comunque, arrivava quando si giocava realmente, quando eri di fronte al tuo avversario,
quando avevi tra le mani i tuoi pezzi e li muovevi da un quadretto all’altro. Però non finiva lì: le
partite si giocavano per lo più in classe al sabato, ma la lungimiranza e la passione del maestro
Degli Esposti faceva in modo che alcune giornate fossero dedicate alle partite “serie” giocate al
Circolo Scacchistico Bolognese, del quale il maestro era socio, contro gli appassionati, i pensionati
e, pure, alcuni agonisti del settore.
Immaginatevi, quindi, un gruppo di bambini che si disponevano, con una serietà ed una
professionalità da adulti, ai tavoli con le scacchiere, di fronte a persone che, nella maggior parte dei
casi, sarebbero potuti essere i loro nonni.
Applicavamo con cura e, a volte, anche con cattiveria tutti gli insegnamenti del maestro Degli
Esposti e non erano rare le volte che qualche pensionato ci “lasciava le penne”, come dicevamo noi.
In quei casi era enorme la felicità, e l’ingenuità fanciullesca mai ci portava a dubitare della nostra
bravura e mai avremmo preso in considerazione un eventuale “aiutino” da parte dell’avversario per
non rimandarci in classe senza qualche risultato positivo.
Anche quei nonni furono gli artefici della nostra adolescenza, oserei dire, veramente serena.