Les Cenci - Fondazione Accademia Chigiana

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Les Cenci - Fondazione Accademia Chigiana
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63a
SETTIMANA MUSICALE SENESE
7-15 LUGLIO 2006
ACCADEMIA MUSICALE CHIGIANA
SIENA
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FONDAZIONE
ACCADEMIA MUSICALE
CHIGIANA ONLUS
SIENA
Vice Presidente
VITTORIO CARNESECCHI
Direttore artistico
ALDO BENNICI
Direttore amministrativo
LAURO MARIANI
Consiglio di amministrazione
FRANCESCO AGNELLO Ministero Beni e Attività Culturali
MARCO BAGLIONI Ministero Affari Esteri
ALDO BENNICI Direttore artistico
GIOVANNI BUCCIANTI Ministero Beni e Attività Culturali
GIOVANNI CARLI BALLOLA Fondazione Monte dei Paschi di Siena (Musicologo)
VITTORIO CARNESECCHI Società Esecutori Pie Disposizioni
GISELDA DE BONIS Ministero Istruzione, Università e Ricerca scientifica
VINCENZO DE VIVO Fondazione Monte dei Paschi di Siena (Musicologo)
MARIO NALDINI Comune di Siena
SANDRO NANNINI Università degli Studi di Siena
MARCO PARLANGELI Provveditore Fondazione Monte dei Paschi di Siena
ALESSANDRO PIAZZINI Comune di Siena
PIER PAOLO POGGIONI Amministrazione Provinciale di Siena
ROBERTO SALADINI Comune di Siena
CARLO SASSI Regione Toscana
Censori
LUCIANO CIMBOLINI Ministero Economia e Finanze
FABRIZIO PAGLINO Ministero Beni e Attività Culturali
VITALIANA VITALE Ministero Beni e Attività Culturali
Consulente musicologico
GUIDO BURCHI
Capo servizio attività didattiche e artistiche
CARLA BELLINI
Capo servizio segreteria amministrativa
MARIA ROSARIA COPPOLA
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Sommario
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Vittorio Carnesecchi Prefazione
Aldo Bennici Introduzione
Programma generale
7 luglio
Myung-Whun Chung / Orchestra Sinfonica Nazionale
della RAI
Daniele Spini Ravel e Šostakovič
Gli interpreti
8-9 luglio
Giorgio Battistelli
Les Cenci (I Cenci)
Ivanka Stoianova Giorgio Battistelli: della musica-teatro
Georges Lavaudant “Ici on enterre la paternité”
Argomento
Testo
Gli interpreti
10 luglio
Jurij Temirkanov
Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo
Francesco Ermini Polacci Itinerari russi, da Rimskij-Korsakov
a Stravinskij
Gli interpreti
11 luglio
Paul Lewis
Premio Internazionale “Accademia Musicale Chigiana”
Guido Burchi Beethoven, Sonata in sol magg. op. 79
Giovanni Carli Ballola Beethoven, Sonata in si bem.
magg. op. 106 “Für das Hammerklavier”
L’interprete
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12 luglio
Antonio Vivaldi
L’Atenaide
Frédéric Delaméa
gli affetti... gelosi
Trama dell’opera
Il libretto
Gli interpreti
L’Atenaide di Antonio Vivaldi ossia
13 e 14 luglio
Giuliano Carmignola / Orchestra da Camera di Mantova
Salvatore Accardo / Orchestra da Camera Italiana
Giovanni Carli Ballola Mozart violinista
Gli interpreti
15 luglio
Gianluigi Gelmetti / Orchestra della Toscana
Coro da Camera di Praga
Giovanni Carli Ballola Il Requiem di Mozart
Testo
Gli interpreti
Gli artisti dell’“Estate Musicale Chigiana”
e della “Settimana Musicale Senese”
Gli autori e i brani eseguiti nell’“Estate Musicale Chigiana”
e nella “Settimana Musicale Senese”
Con il contributo del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali
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Il Conte Guido Chigi Saracini in un medaglione di Emilio Gallori.
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VITTORIO CARNESECCHI
Vicepresidente
dell’Accademia Musicale Chigiana
a Settimana Musicale Senese festeggia quest’anno la sessantatreesima edizione, confermandosi fra i festival più antichi e
prestigiosi d’Italia.
Il Conte Guido Chigi Saracini ne ideò infatti la prima realizzazione
nel 1939, individuando quelle nette linee culturali che hanno caratterizzato fin dall’inizio questa importante manifestazione.
Accanto ai necessari ammodernamenti apportati dai diversi direttori
artistici che si sono succeduti, la Settimana Musicale Senese ha
mantenuto tuttavia ben salda l’impronta che le diede l’illustre Fondatore.
Certamente è rimasto vivo l’interesse rispettivamente per la musica
antica e quella contemporanea, che hanno sempre costituito i due
poli di attrazione dei programmi del festival, senza dimenticare i
grandi concerti sinfonici e le esibizioni di solisti di fama internazionale, spesso coinvolti anche nei Corsi di perfezionamento dell’Accademia stessa.
Pur nella moltitudine di manifestazioni simili che ai nostri giorni si
possono trovare dovunque numerose, il Festival senese seguita a
distinguersi per una sua forte personalità ed un sicuro equilibrio
culturale.
Non si può non notare anche lo stretto legame che la Settimana
Musicale ha con la città di Siena. Alcuni dei suoi incomparabili
monumenti sono infatti adoperati per ospitare le manifestazioni che
acquisiscono così una suggestione e una festosità che esaltano il
loro valore.
Auguro quindi a questa edizione lo stesso successo che ha caratterizzato tutta la lunga vita del festival.
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ALDO BENNICI
Direttore Artistico
dell’Accademia Musicale Chigiana
l teatro musicale di ieri e quello di oggi costituiscono il cardine
principale della Settimana Musicale Senese 2006. È ormai una
consuetudine della programmazione, che stavolta ha individuato
fra i dimenticati tesori del passato L’Atenaide di Antonio Vivaldi,
dramma per musica con parole di Apostolo Zeno scritto nel 1729:
L’Atenaide viene riproposta in esecuzione integrale, in forma di
concerto, grazie alle cure interpretative e musicologiche di Andrea
Marcon, che guida l’Orchestra Barocca di Venezia – formazione da
lui stesso fondata, oggi fra i migliori complessi specializzati nella
prassi esecutiva barocca – e un cast autorevole di voci che schiera
Ruth Rosique, Romina Basso, Laura Rizzetto, Franziska Gottwald,
Cristina Baggio, Bartolo Musil e Mark Tucker. Progettata e messa
in cantiere da più di un anno e mezzo, la realizzazione di quest’opera si propone come evento di grande significato, anche perché si
ricollega idealmente alla storia dell’Accademia Musicale Chigiana, a
quel 1939 che vide partire proprio da qui – promotori il Conte
Guido Chigi Saracini e Alfredo Casella – la grande riscoperta italiana di Vivaldi e della sua musica.
L’incursione nel teatro musicale del nostro tempo viene invece
offerta dalla proposta de Les Cenci di Giorgio Battistelli, in prima
esecuzione italiana e in forma scenica. Uno spettacolo ideato per
collocarsi in una dimensione internazionale, dal momento che viene
realizzato anche in coproduzione con il Théâtre de l’Odéon di Parigi. Da sempre Battistelli indaga le possibilità espressive della drammaturgia teatrale per musica e Les Cenci (creata per l’Almeida
Opera di Londra nel 1997), rappresenta uno dei suoi contributi più
interessanti nel genere: “teatro di musica” – per dirla con le parole
dello stesso Battistelli – tratto dall’omonima tragedia di Antonin
Artaud a sua volta ispirata alle fosche vicende della famiglia Cenci
e della sua più nota rappresentante, la nobile Beatrice, morta decapitata e vittima degli orrori del suo stesso casato. Lo spettacolo ha la
regia di Georges Lavaudant e vede sul podio dell’Orchestra della
Toscana Luca Pfaff, già paladino della riscoperta della Ville Morte
di Nadia Boulanger dell’anno passato. Ma la 63esima Settimana
Musicale Senese vuole celebrare anche due protagonisti della cultura
musicale, ricordati nella ricorrenza delle loro nascite: nel 2006 cade
difatti il duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Mozart,
ma pure il centenario di quella di Dmitrij Šostakovič, voce altrettan-
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to importante. Proprio con il nome di Šostakovič si apre la Settimana Musicale, con un concerto che vede il ritorno sempre gradito a
Siena dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai guidata dalla
brillante bacchetta di Myung-Whun Chung: accanto alle due raffinate suites orchestrali dal balletto Daphnis et Chloé di Ravel, di
Šostakovič ascolteremo la Sinfonia n. 5, pagina fra le sue più note
ed accattivanti. Appartiene alla cultura squisitamente russa di
Šostakovič Yurij Temirkanov, fra i direttori d’orchestra più carismatici di oggi, eccezionale virtuoso che giunge a Siena guidando quella formidabile legione di musicisti che è l’Orchestra Filarmonica di
San Pietroburgo, della quale è direttore stabile da lunghi anni: per
quello che è certo un concerto di spiccato valore internazionale,
Temirkanov e la filarmonica sanpietroburghese propongono alcune
fra le più seducenti pagine di Rimskij-Korsakov nonché un’indiscutibile pietra miliare della musica moderna come La Sagra della Primavera di Stravinskij. Tornando agli omaggi, Mozart viene onorato
con un trittico di appuntamenti ravvicinati e carichi di significati.
Da una parte, l’incursione nel mondo accattivante dei suoi lavori
per violino e orchestra (i cinque Concerti, ma pure il più raro Concertone per due violini), affidata ad ensemble orchestrali nostrani di
particolar pregio come l’Orchestra da Camera di Mantova e l’Orchestra da Camera Italiana con, rispettivamente, Giuliano Carmignola e Salvatore Accardo, entrambi presenti nel doppio ruolo di solista
e direttore. Dall’altra, il Requiem, che da sempre è la partitura più
rappresentativa di Mozart: lo propone, a suggello della Settimana,
Gianluigi Gelmetti, confidando sulle qualificate forze professionali
dell’Orchestra della Toscana, del Coro da Camera di Praga e di un
quartetto di solisti che include anche Laura Polverelli e Juan Francisco Gatell. Infine, la Settimana Musicale torna ad ospitare il Premio
Internazionale Chigiana. A ricevere il Premio è quest’anno il pianista inglese Paul Lewis, formatosi sotto la guida del suo mentore
Alfred Brendel, vincitore di numerosi premi internazionali, e che a
Siena, nella suggestiva Sala del Mappamondo di Palazzo Pubblico,
si presenta con un programma per intero dedicato a Beethoven. Il
Premio Internazionale Chigiana è un riconoscimento in piena sintonia con la filosofia della nostra Istituzione, da sempre fucina di qualificati talenti musicali: qui hanno studiato Luca Pfaff e Laura Polverelli, qui Salvatore Accardo e Giuliano Carmignola sono stati
allievi e oggi sono maestri, così come qui Myung-Whun Chung e
Yurij Temirkanov hanno tenuto per anni i loro corsi. Tutti nomi
oggi protagonisti di questa 63esima Settimana Musicale Senese.
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Il Palazzo Chigi Saracini, sede dell’Accademia Musicale Chigiana.
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63a SETTIMANA MUSICALE SENESE
Luglio 2006
7 venerdì
Piazza Jacopo
della Quercia
ore 21,15
ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE
DELLA RAI
MYUNG-WHUN CHUNG direttore
Ravel La Valse; Ma mère l’Oye / Šostakovič
Sinfonia n. 5 in re min. op. 47
8 sabato
ore 21,15
9 domenica
ore 18
Teatro dei Rozzi
GIORGIO BATTISTELLI
LES CENCI
Teatro di musica da Antonin Artaud
Adattamento del testo di Giorgio Battistelli
Prima esecuzione italiana
ORCHESTRA DELLA TOSCANA
LUCA PFAFF direttore
GEORGES LAVAUDANT regia
In collaborazione col Théâtre de l’Odéon di Parigi
10 lunedì
ORCHESTRA FILARMONICA
DI SAN PIETROBURGO
JURIJ TEMIRKANOV direttore
Rimskij-Korsakov La grande Pasqua russa,
ouverture op. 36 / Suite da Il gallo d’oro
Stravinskij La sagra della Primavera
Piazza Jacopo
della Quercia
ore 21,15
11 martedì
Palazzo Pubblico
Sala del
Mappamondo
ore 19
Premio Internazionale “Accademia Musicale
Chigiana” 2006 (25ª edizione)
PAUL LEWIS pianoforte
Beethoven Sonata in sol magg. op. 79 / Sonata in
si bem. magg. op. 106 “für das Hammerklavier”
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mercoledì
Chiesa di
Sant’Agostino
ore 20,30
ANTONIO VIVALDI
L’ATENAIDE
Dramma per musica in tre atti su libretto di
Apostolo Zeno (in forma di concerto)
Ruth Rosique Lopez soprano / Romina Basso
mezzosoprano / Laura Rizzetto mezzosoprano /
Franziska Gottwald mezzosoprano / Cristina
Baggio soprano / Bartolo Musil baritono / Mark
Tucker tenore
ORCHESTRA BAROCCA DI VENEZIA
ANDREA MARCON direttore
13 giovedì
ORCHESTRA DA CAMERA DI MANTOVA
GIULIANO CARMIGNOLA violinista e direttore
Mozart Concerti in re magg. K. 211, in si bem.
magg. K. 207, in re magg. K. 218 per violino e
orchestra
Chiesa di
Sant’Agostino
ore 21,15
14 venerdì
Chiesa di
Sant’Agostino
ore 21,15
15 sabato
Chiesa di
Sant’Agostino
ore 21,15
ORCHESTRA DA CAMERA ITALIANA
SALVATORE ACCARDO violinista e direttore
Mozart Concerto in sol magg. K. 216 per violino
e orchestra / Concertone in do magg. K. 190 per
due violini e orchestra / Concerto in la magg. K.
219 per violino e orchestra
ORCHESTRA DELLA TOSCANA
GIANLUIGI GELMETTI direttore
Coro da Camera di Praga
Pavel Vanek maestro del coro
Anna Rita Taliento soprano / Laura Polverelli
mezzosoprano / Juan Francisco Gatell tenore /
Alessandro Guerzoni basso
Mozart Requiem K. 626 per soli, coro e orchestra
Concerto offerto alla cittadinanza dalla Banca
Monte dei Paschi di Siena
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Myung-Whun Chung.
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Venerdì 7 luglio
Piazza Jacopo della Quercia
ore 21,15
Myung-Whun Chung
direttore
Orchestra Sinfonica Nazionale
della RAI
MAURICE RAVEL
Ciboure, Bassi Pirenei 1875 – Parigi 1937
La Valse
Poema coreografico
Ma mère l’Oye
Cinque Pezzi infantili per orchestra
Pavane de la Belle au bois dormante
(Pavana della bella addormentata nel bosco) (Lent)
Petit Poucet (Pollicino) (Très modéré)
Laideronnette, Impératrice des Pagodes
(Laideronnette, imperatrice delle pagode) (Mouvement de Marche)
Les entretiens de la Belle et de la Bête
(I dialoghi della Bella e della Bestia)
(Mouvement de Valse très modéré)
Le jardin féerique (Il giardino fatato) (Lent et grave)
DMITRIJ DMITREVIČ ŠOSTAKOVIČ
Pietroburgo 1906 – Mosca 1975
Sinfonia n. 5 in re minore op. 47
Moderato
Allegretto
Largo
Allegro non troppo
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RAVEL E ŠOSTAKOVIČ
DANIELE SPINI
La Valse
un poema sinfonico ispirato agli Strauss e al valzer viennese Ravel aveva cominciato a pensare già nel 1906: “un
grande valzer, una sorta di omaggio alla memoria del grande Strauss, non Richard, l’altro, Johann”, scrisse a un amico.
“Conoscete la mia intensa simpatia per questi ritmi adorabili. E
quanto stimi la gioia di vivere espressa dalla danza…”. Johann
Strauss junior era morto da sette anni soltanto, Francesco Giuseppe
regnava tranquillamente sul suo impero, popolato da sudditi che
appartenevano a cinque religioni diverse, parlavano un numero
ancora maggiore di lingue e usavano due differenti alfabeti, il
mondo a tutto pensava fuor che a una possibile fine di tutto l’equilibrio politico e sociale che aveva dato all’Europa decenni di pace e
una fioritura culturale senza eguali. Presto però Ravel virò verso
un’altra identità storica del valzer, rendendo omaggio a Schubert
con le Valses nobles et sentimentales del 1911. Il progetto sembrò
rinascere nel 1914 (dopo che l’“altro” Strauss, Richard, aveva già
innalzato al valzer dei suoi omonimi un monumento nel Rosenkavalier), con un titolo quanto mai significativo: Wien, Vienna. Troppo
facile per noi oggi segnalarne la scarsa tempestività: il 28 giugno di
quell’anno le pistolettate di Sarajevo aprirono per l’Europa e il
mondo un capitolo storico in cui ci sarebbe stato ben poco posto
per omaggi al valzer viennese. Ravel andò al fronte, a fare l’autista
di ambulanze: si ammalò gravemente, cadde in una profonda
depressione. Furono per lui anni aridi, sostanzialmente infecondi. Il
ritorno alla composizione avvenne nel 1919, con il Tombeau de
Couperin, dedicato a sette amici caduti in guerra. Subito dopo, dietro un suggerimento dell’impresario dei Ballets Russes Sergej Djagilev, toccò a La Valse, “poema coreografico”, terminato nel 1920.
Il vecchio progetto rinasceva con ben altre premesse. La Vienna dei valzer non c’era più; o se c’era, poteva apparire come il
monumento postumo di se stessa. Così Ravel delimita l’evocazione
storico-sociale, pur chiarissima (l’indicazione di tempo al principio
dell’opera è “Mouv[emen]t de Valse viennoise”: precisa prescrizione stilistica anche per l’esecutore; e il tema principale evoca
comunque la melodia di un valzer di Johann Strauss junior, O
A
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Maurice Ravel in una caricatura di Aline Fruhauf.
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schöner Mai), in un contesto armonicamente e timbricamente deformato, quasi a prendere le distanze dall’oggetto stesso della sua ricognizione. L’orchestra è ricchissima di colori: legni a tre, quattro
corni, tre trombe, tre tromboni e tuba, due arpe e percussioni, contro un gruppo d’archi curiosamente limitato, almeno nelle indicazioni in partitura (sei primi violini, sei secondi, quattro viole, quattro
violoncelli, due contrabbassi).
Questo il “programma”, steso da Ravel stesso: “Nuvole turbinose lasciano intravedere a tratti alcune coppie che danzano il valzer. Le nuvole poco a poco si dissipano: si scorge una sala immensa, popolata da una folla volteggiante. Al fortissimo risplende la
luce dei lampadari. Una corte imperiale, intorno al 1855”. Una
traccia che a noi oggi (che forse abbiamo in mente più Carnet di
ballo di Duvivier che non i Ballets Russes di Djagilev) sembra più
cinematografica (ma allora il cinema non aveva né parole né musica) che non coreografica, e men che meno riferibile a un poema
sinfonico secondo l’uso romantico. Domina comunque l’idea di un
precisarsi progressivo dell’immagine, fino a un culmine sonoro e
visivo dato dal fortissimo abbinato al bagliore dei lampadari: tant’è
vero che l’ambientazione logistica e cronologica (“una corte imperiale, intorno al 1855” è data al lettore-ascoltatore soltanto alla fine;
come se solo alla fine, appunto, si rivelasse a che cosa la musica
abbia voluto alludere finora. Così procede la musica, che prende
l’avvio nelle zone più gravi dell’orchestra, dipanandosi lungo un
tessuto ritmico dapprima indistinto, poi sempre più decisamente
identificato con lo schema metrico del valzer viennese, fino a esplodere in una autentica frenesia motoria nel vorticoso susseguirsi delle
figurazioni. Ironia ed eleganza si incontrano in un gioco intellettuale
che lascia emergere più i fattori ritmici e timbrici che non quelli
melodici, quasi negando all’ascoltatore l’espressione esplicita di
quella stessa nostalgia che un omaggio al valzer viennese scritto
all’indomani della catastrofe poteva promettergli.
Ravel dedicò La Valse a Misia Sert, sorella del suo grande
amico Cipa Godebski e protagonista fra le più influenti della mondanità culturale e artistica parigina. Proprio in casa di Misia Sert,
però, la nuova composizione aveva incontrato uno smacco non facile da dimenticare, quando nel febbraio 1920, presenti Igor Stravinskij e un giovanissimo Francis Poulenc, Ravel, insieme con la pianista Marcelle Meyer aveva fatto ascoltare a Djagilev La Valse (che
ancora si chiamava Wien) nella versione per due pianoforti. “Caro
Ravel, è un capolavoro, ma non è un balletto”, aveva sentenziato
l’impresario. Ravel se ne andò in silenzio con la sua musica sotto-
Gioventù viennese che balla il valzer nella prima metà dell’Ottocento.
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braccio, interrompendo per sempre ogni rapporto con Djagilev.
Ribattezzata La Valse, la partitura fu eseguita in concerto il 12
dicembre 1920 da Camille Chevillard, con l’Orchestre Lamoureux.
In palcoscenico ci arrivò nel 1926, ad Anversa: ma fu soprattutto a
Parigi, grazie a Ida Rubinstein, che La Valse si affermò anche come
balletto, dal 1929 in poi.
Frontespizio illustrato dei Racconti di Mamma Oca.
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Ma mère l’Oye
Come La Valse, la suite sinfonica Ma mère l’Oye è il risultato
di una gestazione piuttosto lunga, in cui si intrecciano il pianoforte,
l’orchestra, la danza e la famiglia Godebski. L’atto di nascita risale al
1908, quando Ravel, ospite di Cipa Godebski nella sua residenza di
campagna, La Frangette, decise di scrivere una serie di pezzi infantili
per pianoforte a quattro mani, dedicandola ai bambini del suo amico,
Mimi e Jean Godebski, ai quali era solito la sera raccontare fiabe
come quelle contenute nella celebre raccolta pubblicata nel 1697 da
Charles Perrault, Contes de ma mère l’Oye (Racconti di Mamma Oca,
dal nome della contadina che si suppone autrice dei racconti, la stessa
Mother Goose di tante filastrocche e fiabe inglesi). Le Cinq pièces
enfantines di Ravel si ispiravano alle fiabe della Bella addormentata
nel bosco, appunto di Perrault, di Pollicino (ancora Perrault, citato in
epigrafe: “Credeva di trovare facilmente il cammino per mezzo del
pane che aveva seminato ovunque fosse passato; ma fu ben stupito
non riuscendo a ritrovarne una sola briciola: erano venuti gli uccelli e
avevano mangiato tutto”), di Laideronnette (la principessa Bruttina
servita da cento piccole statuine di porcellana cinese - pagodes - nel
racconto Il serpente verde di M.me D’Aulnoy, una “rivale” di Perrault: “Si spogliò e si mise nel bagno. Immediatamente pagode e
pagodine si misero a cantare e suonare strumenti: alcune avevano
tiorbe fatte con gusci di noce, altre viole fatte con gusci di mandorla;
poiché bisognava pure che gli strumenti fossero proporzionati alla
loro statura”), della Bella e della Bestia che fanno conversazione nel
racconto di M.me Leprince de Beaumont, altra narratrice di fiabe, stavolta del Settecento (“‘Quando penso al vostro buon cuore, non mi
sembrate così brutto.’ - ‘Oh! sì, signora! ho un buon cuore, ma sono
un mostro.’ - ‘Vi sono molti uomini più mostruosi di voi.’ - ‘Se
avessi un po’ di spirito vi farei un gran complimento per ringraziarvi,
ma non sono che una bestia.’ …… ‘Bella, volete essere mia
moglie?’ - ‘No, Bestia!...’ …… ‘Muoio contento poiché ho il piacere
di rivedervi ancora una volta.’ - ‘No, cara Bestia, non morrete: vivrete per divenire mio sposo!...’ La Bestia era scomparsa ed ella non
vide ai suoi piedi che un Principe più bello dell’Amore che la ringraziava per aver posto fine al suo incantesimo”), e genericamente alle
Fate nel cui giardino si conclude l’itinerario fantastico proposto ai
due bimbi. Con abilità stupefacente Ravel riuscì a sintetizzare un’intuizione poetica di eccezionale sottigliezza e una ricerca stilistica raffinatissima nella scrittura semplicizzata all’estremo di un quattromani
infantile, dato che era sua intenzione che gli interpreti della prima
esecuzione fossero i bambini stessi, che all’epoca avevano rispettiva-
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Due illustrazioni ottocentesche per la fiaba di Pollicino.
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mente nove e sette anni. Con indicibile sollievo della piccola Mimie
(che in età adulta ricordò l’episodio in una pagina autobiografica) gli
esecutori furono scelti altrimenti. Si trattò pur sempre di interpreti in
erba: a presentare al pubblico Ma mère l’Oye il 20 aprile 1910 alla
Salle Gaveau, nel corso del primo concerto della neonata Société
Musicale Indépendante, furono la quattordicenne Geneviève Durony e
l’appena undicenne Jeanne Leleu. Una collocazione ben seriosa per
una suite ufficialmente ad usum infantium: di fatto Ravel aveva sentito questa esigenza di miniaturizzazione come una di quelle sfide in
cui la sua ispirazione trovava sempre l’esca migliore. Dalle linee terse
e scorrevoli della Belle au bois dormant alla narrazione asettica ma
favolosa di Petit Poucet all’incredibile virtuosismo stilistico delle
cineserie di Laideronnette, al valzer sospeso e misuratissimo de La
Belle et la Bête, fino all’apoteosi rapidissima del conclusivo Jardin
féerique è proprio l’autolimitazione quasi feroce dei mezzi a stimolare
di più l’abilità di quell’orologiaio magico che sembra sempre essersi
nascosto dietro i mezzi sorrisi enigmatici di Ravel.
A far trapassare anche Ma mère l’Oye dal pianoforte all’orchestra
fu Jacques Rouch, il direttore del Théâtre des Arts, in cerca di una
partitura di balletto tutta francese in grado di competere con i Ballets
Russes di Djagilev. Ravel orchestrò i cinque pezzi di Ma mère l’Oye
aggiungendovi un preludio, una sesta scena e quattro interludi, adattando questa sostanza musicale a un canovaccio che incorniciava l’azione
tra due quadri riferiti alla favola della Bella addormentata e collocati
rispettivamente al principio e alla fine. In questa forma Ma mère l’Oye
andò in scena il 28 gennaio 1912 con la coreografia di Jeanne Hugard
e la direzione di Gabriel Grovlez. In seguito Ravel preferì ricondurre
anche questa versione all’articolazione originale in cinque movimenti,
estraendone la suite che si esegue di solito in concerto, e che ripete
l’organizzazione limpidissima della pagina infantile rivestendola però
dei colori fantasmagorici di cui era capace un mago dell’orchestrazione come lui: una dilatazione nello spazio sonoro che senza violentare
la semplicità dell’originale ne porta in luce le grandi potenzialità che
vi stavano in certo senso annidate.
Sinfonia n. 5 in re minore op. 47
Passare da Ravel a Šostakovič significa affrontare due mondi
abbastanza distanti tra loro: cronologicamente, geograficamente, culturalmente. Ravel ci ha portato in una Parigi ribollente di novità in
tutti i campi della cultura, dalla letteratura alle arti figurative, dal
teatro alla danza. Con la Quinta sinfonia di Šostakovič siamo nel
1937, in un momento fra i più duri per la cultura sovietica, costretta
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a fare i conti da vicino, e assai concretamente, con la pesante ingerenza del potere nelle cose della cultura e dell’arte.
Dmitrij Šostakovič ha trentun anni. Ha alle spalle una giovinezza tumultuosa, vulcanica, che lo ha caratterizzato come uno dei protagonisti più precoci e vivaci di un’avanguardia incendiaria quale
quella che ha animato la Russia negli anni Venti. E da principio
questa vocazione rivoluzionaria ha convissuto felicemente con il quadro di novità e di sperimentazione vissuto dall’Urss nel primo periodo della sua storia, estendendo alla cultura e all’arte gli entusiasmi e
le aspirazioni della Rivoluzione d’Ottobre. Ne è stato documento folgorante nel 1930 Il naso, da Gogol’. Ma poi, con il consolidarsi del
regime staliniano, la situazione è peggiorata decisamente, e
Šostakovič è incorso in un infortunio che potrebbe costargli caro.
Nel 1936 ha portato in scena un’opera, Una lady Macbeth del
distretto di Mzensk. È una storia cruda, di passioni animalesche, di
degradazione, di violenza psicologica e fisica, sullo sfondo di una
Russia contadina ottusa e priva di ideali, raccontata da una musica
Dmitrij Šostakovič.
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Monumento ai caduti di Leningrado.
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aspra, incalzante, esplosiva: uno dei capolavori del teatro musicale
del Novecento, accolto lì per lì da grande successo. Ma anche Stalin
è andato a vederla, e improvvisamente per Šostakovič le cose si
sono messe male: il dittatore ha abbandonato ostentatamente il teatro, indignato di fronte a un’opera che sembra mettere in crisi i
valori morali di una Russia austera e patriarcale, con la quale il
regime intende mostrarsi in continuità. Poco dopo la “Pravda” l’ha
stroncata, definendola “Caos, anziché musica”. È il tempo delle
purghe, che coinvolgono e travolgono tanto gli oppositori politici di
Stalin quanto gli intellettuali e gli artisti che sembrano distaccarsi
dai canoni del regime. L’accusa è quella, poco men che infamante
in quel clima, di “formalismo”. Šostakovič ha appena composto la
sua Quarta sinfonia: un’opera grandiosa, animata, innovativa fino a
rischiare di apparire provocatoria. Di fronte a questo minaccioso
segnale da parte del potere opta per la prudenza: ritira la partitura,
quando già sono cominciate le prove della prima esecuzione (dovrà
aspettare fino al 1961, per poterla ascoltare), e cerca rapidamente di
rifarsi un’immagine con un’altra sinfonia, la Quinta, in qualche
modo più tranquilla e positiva. Otterrà il suo scopo, riscuotendo un
grande successo senza pagare lo scotto che si sarebbe potuto temere.
La nuova sinfonia nasce nel 1937, fra aprile e luglio. Šostakovič imposta l’opera su uno schema abbastanza tradizionale, articolato in quattro movimenti ma sovvertendo la successione canonica di
quelli centrali (piazzando cioè lo scherzo, o ciò che ne fa le veci,
prima del tempo lento), e la mantiene entro limiti di durata accettabili, senza dilatarne la forma come ha fatto con la Quarta.
Il tema principale del Moderato iniziale scorre su intervalli
ampi, ed è costruito come un canone. Il secondo è più cantabile,
sempre secondo tradizione. Segue uno sviluppo drammaticissimo,
che impegna tutte le sezioni dell’orchestra in elaborazioni serrate,
conflittuali, portando le sonorità degli ottoni a culmini quasi violenti, disegnando un clima decisamente tragico. Il movimento si chiude
in un clima sospeso, con il canto del violino solo che muore contro
le scale cromatiche della celesta. Forse una citazione, certo un
ricordo di un analogo episodio in Mahler, come testimonia il ricordo di Edison Denisov, il più celebre allievo di Šostakovič: “Diceva
di aver sentito sei o sette volte di fila Il canto della terra di Mahler, quando era a letto ammalato, fino a impararlo a memoria. Già
prima […] lo avevo sentito affermare che l’ultimo tempo del Canto
della terra era il pezzo più geniale mai scritto in tutta la storia
della musica […]. Scherzava sul fatto che Mahler avesse rappresentato l’eternità con il timbro della celesta”. L’Allegretto successivo
ci riporta ancora a Mahler, con le sue movenze di danza oscillanti
fra spensieratezza e sarcasmo. Il Largo si propone come una delle
28
Una caricatura di Dmitrij Šostakovič.
29
pagine più intense di Šostakovič, segnata da una cantabilità pura,
elementare. Nel finale, Allegro non troppo, è evidente l’ambizione
di disegnare una risoluzione in positivo della drammaticità che ha
segnato i tempi precedenti, confermando come l’argomento della
sinfonia sia “lo sviluppo della personalità umana”, come avverte
Šostakovič stesso, che così chiarisce le sue intenzioni: “Al centro
della composizione, concepita liricamente dal principio alla fine, ho
posto un uomo e tutta la sua esperienza; il Finale risolve in ottimismo e gioia di vivere gli impulsi e la tensione tragica del primo
movimento.
Presentata da Šostakovič stesso con il sottotitolo “Risposta pratica di un compositore a una giusta critica”, la Quinta sinfonia fu
eseguita per la prima volta il 21 novembre 1937 a Leningrado nel
ventesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, sotto la direzione di Evgenij Mravinskij. Il regime ammise che l’opera era consona
all’estetica del Realismo Socialista e Šostakovič fu riabilitato. Il successo fu comunque entusiastico, da parte di un pubblico eccezionalmente commosso. Se gli ambienti ufficiali riconobbero nel lavoro e
nelle linee programmatiche esposte da Šostakovič un’adesione (sincera o meno che potesse essere) a un ottimismo celebrativo ormai
obbligatorio, forse questo itinerario affermativo può esser letto invece come epilogo positivo dello scontro con una condizione culturale
e politica angosciante quale Šostakovič stava vivendo così come il
paese intero, che con quest’opera volle identificarsi immediatamente.
Più tardi, quando l’Urss e il mondo erano molto cambiati,
Šostakovič precisò meglio il significato del suo finale e dell’intera
sinfonia: “Mi sembra chiaro che cosa accada davvero nella Quinta.
Il giubilo è forzato, indotto da una costrizione, proprio come nel
Boris Godunov. È come se qualcuno ti battesse con un bastone e
intanto ti ripetesse ‘Devi giubilare, devi giubilare…’. Ti rialzi tremando, con le ossa rotte, e riprendi il cammino borbottando ‘Dobbiamo giubilare, dobbiamo giubilare”.
Così anziché prodotto ossequioso di una retorica reazionaria e
celebrativa, la Quinta ci si presenta oggi come il frutto pregevole e
geniale e originale di una prima maturità creativa di Šostakovič: per
le scoperte evocazioni del vissuto che fanno di lui il primo vero - e
consapevole - epigono di Gustav Mahler, come per le estroversioni
ritmiche e foniche che lo identificano a ogni effetto tra i protagonisti più forti e caratterizzati delle inquietudini e dell’ansia di ricerca
del secolo scorso; per l’immediatezza comunicativa delle sue ansie
espressive come per la solidità poderosa di un impianto compositivo complesso, degno e consapevole erede del maggior sinfonismo
ottocentesco europeo; per l’assunzione di formule melodiche e ritmiche chiaramente ispirate alla tradizione russa come per la ric-
30
chezza delle suggestioni culturali. Quanto e con quali conseguenze
il conflitto di Šostakovič con il potere politico e culturale abbia
influito sulle sue scelte artistiche, resta difficile da stabilire, anche
alla luce di quanto è stato lasciato scritto da lui stesso a questo
proposito. Certamente oggi Šostakovič, ben lungi dall’apparirci un
rètore un po’ opportunista, se non cinico addirittura, come per
molto tempo lo ha etichettato parte della cultura occidentale, ci si
rivela anche e proprio con le sue ambiguità (oppositore ossequente,
modernista e conservatore) come uno dei testimoni più autentici del
disagio proprio di ogni artista del Novecento.
Stalin in un ritratto del 1934.
31
MYUNG-WHUN CHUNG
Ha iniziato la carriera musicale come pianista, debuttando all’età di sette
anni con la Seoul Philharmonic. Nel 1974 ha vinto il secondo premio al
Concorso pianistico Čajkovskij di Mosca. Completati gli studi musicali alla
Juilliard School di New York, nel 1978 è divenuto Assistente e poi Direttore associato di Carlo Maria Giulini alla Los Angeles Philharmonic.
Direttore musicale all’Orchestra della Radio di Saarbrücken dal 1984 al
1990, Direttore ospite principale del Teatro Comunale di Firenze dal 1987
al 1992, Direttore musicale all’Opéra di Parigi dal 1989 al 1994, è dal
1997 Direttore principale dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa
Cecilia. Nel 2000 ha assunto inoltre la Direzione musicale dell’Orchestre
Philharmonique de Radio France.
Ha diretto le più prestigiose orchestre europee e statunitensi, fra cui i Berliner Philharmoniker, il Concertgebouw di Amsterdam, la London
Symphony, l’Orchestra Filarmonica della Scala, i Wiener Philharmonique,
la Chicago Symphony e la New York Philharmonic.
Artista esclusivo della Deutsche Grammophon dal 1990, le sue numerose
produzioni hanno spesso ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti dalla
critica musicale. Le sue recenti incisioni includono una serie dedicata a
Dvořák realizzata con i Wiener Philharmoniker ed una serie di musica
sacra con l’Orchestra di Santa Cecilia.
Fra i riconoscimenti alla sua attività artistica si ricordano il Premio Abbiati
e il Premio Arturo Toscanini in Italia, il titolo di “Artista dell’anno” nel
1991 attribuitogli dall’Associazione dei Teatri francesi, la “Legion d’Onore” nel 1992 da parte del Governo francese per il contributo dato all’Opéra
di Parigi, l’attribuzione per tre volte del Premio “Victoire de la Musique”.
Nel 2002 è stato nominato Accademico Onorario dell’Accademia Nazionale
di Santa Cecilia.
Parallelamente alla sua attività musicale, è impegnato in iniziative di carattere umanitario e di salvaguardia dell’ambiente. Dal 1992 è Ambasciatore
per il “Drug Control Program” alle Nazioni Unite (UNDCP). Nel dicembre
1995 è stato nominato “Man of the Year” dall’UNESCO e nel 1996 il
Governo della Corea gli ha conferito il “Kumkuan”, il più importante riconoscimento in campo culturale. Attualmente ha l’incarico di Ambasciatore
onorario per la Cultura per la Corea, il primo nella storia del Governo del
suo Paese.
Myung-Whun Chung nel 1995 e 1996 ha tenuto il corso di Direzione d’orchestra presso l’Accademia Chigiana dove peraltro nel 1976 fu allievo di
Franco Ferrara.
ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE DELLA RAI
Le origini dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai risalgono al 1931,
quando a Torino fu fondato il primo complesso sinfonico dell’Ente radiofonico pubblico a cui si aggiunsero successivamente le Orchestre di Roma,
Milano e Napoli. Nel corso degli anni, alla guida delle varie compagini
orchestrali si sono succeduti tutti i principali direttori del momento, da Vittorio Gui a Wilhelm Furtwängler, da Herbert von Karajan ad Antonio
Guarnieri, da Igor Stravinskij a Leopold Stokowski, Sergiu Celibidache,
Carlo Maria Giulini, Mario Rossi, Lorin Maazel, Thomas Schippers, Zubin
Mehta, Wolfgang Sawallisch. Con le quattro orchestre si presentarono al
pubblico nelle prime prove importanti Claudio Abbado, Riccardo Chailly,
Riccardo Muti e Giuseppe Sinopoli.
Nel 1994 le quattro orchestre furono riunite a Torino. La nuova istituzione
sinfonica della Rai fu ufficialmente tenuta a battesimo da Georges Prêtre e
32
da Giuseppe Sinopoli. Da allora all’organico originario si sono aggiunti
molti fra i migliori strumentisti delle ultime generazioni.
Dal 1996 al 2001 Eliahu Inbal è stato Direttore onorario dell’Orchestra.
Dal settembre 2001 Rafael Frühbeck de Burgos è Direttore principale. Jeffrey Tate è stato Primo direttore ospite dal 1998 al 2002, assumendo quindi il titolo di Direttore onorario. Dal settembre 2003 Gianandrea Noseda è
Primo direttore ospite.
Altre presenze significative sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale
della Rai sono state quelle di Carlo Maria Giulini, Wolfgang Sawallisch,
Mstislav Rostropovič, Myung-Whun Chung, Riccardo Chailly, Lorin Maazel, Zubin Mehta, Yuri Ahronovitch, Marek Janowski, Dmitrij Kitaenko,
Aleksandr Lazarev, Valerij Gergiev, Gerd Albrecht, Yutaka Sado, Mikko
Franck.
L’Orchestra tiene a Torino regolari stagioni, affiancandovi spesso cicli primaverili o speciali: fra questi fortunatissimo quello dedicato alle sinfonie di
Beethoven dirette da Rafael Frühbeck de Burgos nel giugno 2004. Dal febbraio 2004 si svolge a Torino il ciclo “Rai NuovaMusica”: una rassegna
dedicata alla produzione contemporanea che presenta in concerti sinfonici e
da camera prime esecuzioni assolute, molte delle quali di opere composte
su commissione, o per l’Italia. l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
suona anche molto spesso in concerti sinfonici e da camera nelle principali
città e nei festival più importanti d’Italia. Abituali ormai le sue presenze a
Torino Settembre Musica, alla Biennale di Venezia e alle Settimane Musicali Internazionali di Stresa. Numerosi e prestigiosi anche gli impegni all’estero: fra questi le tournées in Giappone, Germania, Inghilterra, Irlanda,
Francia, Spagna, Canarie, Sud America, Svizzera, Austria, Grecia ed exJugoslavia e l’invito a suonare il 26 agosto 2006 nel concerto conclusivo
del Festival di Salisburgo.
L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai ha inoltre preso parte a eventi
particolarmente significativi, come la Conferenza Intergovernativa dell’Unione Europea svoltasi a Torino, l’omaggio per il Giubileo Sacerdotale di
Giovanni Paolo II in piazza San Pietro a Roma, il Concerto di Solidarietà
con la Città di Torino per la ricostruzione della Cappella del Guarini, i
concerti per la Festa della Repubblica (in molte edizioni dal 1997 a oggi) e
il Capodanno 2000 nella piazza del Quirinale, tutte manifestazioni trasmesse in diretta televisiva. Altro tradizionale appuntamento è il Concerto di
Natale ad Assisi nella Basilica Superiore di San Francesco.
Il 3 e 4 giugno del 2000, in diretta su RaiUno e in mondovisione, l’Orchestra è stata protagonista dell’evento televisivo “Traviata à Paris”, con la
direzione di Zubin Mehta. Questa produzione della Rai ha conseguito nel
2001 l’Emmy Award per il miglior spettacolo musicale dell’anno e il Prix
Italia come miglior programma televisivo nella categoria dello spettacolo.
Il 27 gennaio 2001 l’Orchestra ha aperto ufficialmente in diretta televisiva
su RaiTre le celebrazioni per il centenario della morte di Giuseppe Verdi,
eseguendo nella Cattedrale di Parma la Messa da Requiem sotto la direzione di Valerij Gergiev.
Il 23 ottobre 2005 Rafael Frühbeck de Burgos e l’Orchestra hanno eseguito
il concerto di riapertura del restaurato Auditorium “Domenico Scarlatti” di
Napoli della Rai.
Tutti i concerti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai sono trasmessi
da Radio3. Molti sono ripresi anche in televisione e trasmessi da RaiTre.
L’Orchestra svolge una ricca attività discografica, specialmente in campo
contemporaneo. Dai suoi concerti dal vivo sono spesso ricavati CD e
DVD.
33
Giorgio Battistelli.
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Sabato 8 luglio, ore 21,15
Domenica 9 luglio, ore 18
Teatro dei Rozzi
GIORGIO BATTISTELLI
Albano Laziale 1953
Les Cenci (I Cenci)
Teatro di musica da Antonin Artaud
Adattamento del testo di Giorgio Battistelli
Editore Casa Ricordi - BMG
Prima esecuzione italiana
Luca Pfaff
direttore
Orchestra della Toscana
Georges Lavaudant
regia
Jean-Pierre Vergier costumi
Personaggi e interpreti
Cenci André Wilms attore
Lucrétia Dany Kogan attrice
Béatrice Astrid Bas attrice
Orsino Gilles Arbona attore
BH Service (Ferrara) live electronics
Alvise Vidolin e Davide Tiso regia del suono
Allestimento scenico del Théâtre de l’Odéon di Parigi
Rémi Vidal direttore di scena / Xavier Baron elettricista /
Jennifer Ribière sarta / Silvie Cailler truccatrice
In collaborazione con il Théâtre de l’Odéon di Parigi
L’opera è trasmessa in diretta dalla RAI - Radio3
35
GIORGIO BATTISTELLI:
DELLA MUSICA-TEATRO
IVANKA STOIANOVA
utore di una ventina di opere destinate alla scena musicale,
di numerosi pezzi per orchestra e per diverse formazioni da
camera, Giorgio Battistelli si impone come il maestro italiano della musica–teatro. Infatti le sue opere sceniche – Experimentum mundi, Jules Verne, Keplers Traum, Teorema o Richard III –
ma anche i suoi lavori per orchestra come Anarca, La fattoria del
vento, Il y a un firmament o After thought / about a tragedy o i
suoi pezzi di musica da camera come Anima, Comme un opéra
fabuleux, Psychopompos o Uno e trino – elaborano, con mezzi
diversi e in contesti diversi, una teatralità musicale a diverse
dimensioni. Destinati che siano alla scena o non, i lavori di Giorgio
Battistelli possiedono sempre una dimensione teatrale: visti o semplicemente ascoltati, essi sono già teatro per le orecchie, teatro che
attraverso la molteplicità delle sue suggestioni incita all’esplorazione di universi immaginari sempre aperti.
Contrariamente a Mauricio Kagel degli anni 1960–70, con il
suo interesse esclusivo per la materia suono–gesto, o a Georges
Aperghis che lavora soprattutto su un terreno astratto; contrariamente ad Hans–Werner Henze, sempre fedele alla narrativa unidirezionale del libretto o a Luigi Nono, fortemente attratto dal messaggio
ideologico esplicito o dalla spazializzazione interiorizzata della “tragedia dell’ascolto”, Battistelli cerca il più delle volte l’embricatura
densa di molteplici narrazioni lineari – strategia più vicina a quella
di Luciano Berio – e l’elaborazione di strutture narrative multidimensionali: sempre sottomesse all’intenzionalità soggiacente del
pensiero sinfonico – cioè della “drammaturgia del suono” (Battistelli) – e sempre esplorabili in diverse direzioni. Per questo i suoi
lavori destinati alla scena si staccano definitivamente dall’unidimensionalità della scrittura figurativa tratta dall’esperienza dell’avanguardia degli anni ’60 ma anche dall’osservazione autocompiaciuta
della materia sonora divenuta la definizione stessa di un buon
numero delle attuali ricerche scientifico–musicali. Per essere sempre
alla ricerca di sistemi pluridimensionali aperti: cioè adatti ad integrare esperienze imprevedibili di natura fortemente divergente ed
estranee a tutti gli schemi formali preesistenti.
Le prime opere teatrali di Battistelli – Omaggio a Pulcinella
(1975), opera di teatro acustico napoletano, Experimentum mundi
A
36
(1981), musica “immaginistica” e Linzer Stahloper (1982), teatro
musicale – rivelano, con mezzi molto diversi e risultati musicali e
scenici non confrontabili, lo stesso radicamento “terreno”: lo spettacolo musico–teatrale è un’elaborazione artistica di un’esperienza
vissuta quotidianamente. Il teatro musicale infatti oggettiva e afferra
immediatamente il parlare del dialetto napoletano in Omaggio a
Pulcinella, il lavoro ritmato di diciassette artigiani di paese in
Experimentum mundi, il funzionamento di un’officina con i suoi
sessantacinque operai meccanici e metallurgici nella Linzer Stahloper. Per riflettere, decontestualizzandolo, ma anche per aprirsi a
nuove forme d’espressione musicale, ciò che si manifesta oggettivamente nel vissuto quotidiano. Scegliendo la via della sperimentazione con la vita reale, il compositore si pone un compito ambizioso:
dare al passato o alla quotidianità banale un’importanza attuale,
mettere in evidenza l’ampiezza del presente e proporre – all’interprete e allo spettatore – occasioni propizie per afferrare il presente
in quanto divenire, aiutarlo a vedere l’immediatezza del suo vissuto
quotidiano sotto l’aspetto di un “futuro autentico”.1
Strumentista–percussionista, Battistelli è estremamente sensibile
al gesto–produttore di suono e alla sua teatralità esplicita. Ma anche
alla teatralità vocale. Successore diretto di Luciano Berio (pensiamo
a Visage, Sequenza III, Circles, Recital for Cathy e alle opere sceniche), Battistelli cerca di elaborare il proprio stile di scrittura
vocale. Le sue opere Aphrodite (1983), “monodramma di costumi
antichi”, Ascolto di Rembrandt (1991) per voce, piccola orchestra e
nastro magnetico tratta da due quadri di Rembrandt e da due poesie
di Guido Ceronetti, oltre a Frau Frankenstein (1993) “monodramma del Prometeo” moderno tratto dal romanzo nero di Mary Shelley Frankenstein o il moderno Prometeo, mettono in evidenza l’illimitatezza dell’esplorazione dell’espressività vocale.
Direttamente ispirato dal “romanzo di modi antichi” Aphrodite
(1896) di Pierre Louÿs, 2 l’opera di Battistelli Aphrodite (1983),
“monodramma di costumi antichi” per attrice, flauti, arpa e tre percussionisti, rinuncia totalmente ai princìpi dell’opera letteraria. Per
1
2
E. Bloch, Experimentum mundi, Payot, Paris, 1981, p. 86-87.
P. Louÿs (1870-1925) è anche l’autore delle Chansons de Bilitis
(1895) (musicate nel 1897-98 da Claude Debussy) che furono presentate
all’origine come una scoperta della letteratura ellenistica, provocando, con
questo, un vero scandalo nell’ambiente filologico. Molto vicino alla sensibilità di Gabriele D’Annunzio - con l’estetismo e l’erotismo esacerbati, la
deliberata provocazione contro il moralismo e l’ipocrisia, il gusto marcato
per un’antichità ideale, ecc. Pierre Louÿs fu molto apprezzato da D’Annunzio per il suo romanzo Aphrodite.
37
diventare teatro sperimentale in monologo: ricerca sulla voce e sui
colori – vocali–strumentali – della sensualità. Sopprimendo completamente la narrazione cronologica del romanzo e riducendo i suoi
personaggi alla sola protagonista – Chrysis, doppio umano della dea
Afrodite – Battistelli inventa un’anamorfosi dell’opera letteraria, un
monodramma–oscillogramma dell’erotismo, come se seguisse l’apologia della sensualità che Pierre Louÿs scrive nella prefazione del
suo libro: “[…] La sensualità è la condizione misteriosa, ma necessaria e creatrice, dello sviluppo intellettuale. Coloro che non hanno
sentito fino al limite, sia per amarle, sia per maledirle, le esigenze
della carne sono proprio per questo incapaci di comprendere tutta
l’estensione dell’esigenza dello spirito”. 3 Fortemente attratto fin
dalla giovinezza dal romanzo di Louÿs, Battistelli scopre, nel
pasticcio erudito della civiltà alessandrina, nella molteplicità dei
caratteri (pseudo–antico, esotico, liberty), nella costruzione del
romanzo con il suo erotismo ed estetismo decadente, nel tipo di
immaginario, nei colori e nei sapori sensuali di Louÿs, un aspetto
quasi postmoderno. E la sua apologia musico–teatrale della sensualità – “il genio dei popoli”, citato da Pierre Louÿs – diviene esplorazione estremamente raffinata della vocalità in un genere ambiguo,
esitando in modo particolarmente attraente fra il teatro di prosa (la
protagonista è un’attrice e non una cantante) e il teatro lirico. La
evidenziazione sonora della relazione eros–musica passa necessariamente attraverso la frammentazione, attraverso lo spezzettamento,
attraverso le interruzioni inattese del testo, attraverso le emissioni
vocali prive di significato linguistico, ma ricche di emozione, attraverso l’espressività fonica averbale, traducendo direttamente la sensualità in suono.
Il prolungarsi dello stesso tipo di ricerca di espressività vocale
si può osservare in Ascolto di Rembrandt (1991) per voce, piccola
orchestra e nastro magnetico ispirata a due noti quadri del pittore –
l’incisione Donna seminuda (1658) e il ritratto a olio Il filosofo
(1631) – ma anche a due poesie di Guido Ceronetti nate dall’osservazione di queste due opere di Rembrandt.4 Anch’essa destinata ad
un’attrice–cantante, Ascolto di Rembrandt allarga considerevolmente
la ricerca vocale insistendo sempre sulla corporeità fisica del suono
che diventa fondamento drammaturgico dell’opera. Contrariamente
al monologo quasi sistematicamente mantenuto da Chrysis in Aph-
3
4
P. Louÿs, Aphrodite, Tallandier Ed., Paris, 1896, p. XI.
G. Ceronetti, Nudo di matura donna seduta accanto una stufa, Il
filosofo di Rembrandt in Compassioni e disperazioni, Einaudi, Milano,
1987.
38
rodite, il monodramma vocale Ascolto di Rembrandt si gioca continuamente fra più personaggi: prima di tutto fra i due protagonisti, il
vecchio filosofo e la donna seminuda che si asciuga. Ma anche fra
questi personaggi e la voce dell’osservatore–pittore Rembrandt; o
quella dell’osservatore–poeta Ceronetti; o ancora quella dell’osservatore–compositore Battistelli. All’ascolto del mistero di Rembrandt, divenuto ai nostri occhi “come una formula esoterica che si
può comprendere grazie all’ascolto dei personaggi, fantasmi, simboli e emblemi che vivono come prigionieri di un altro mondo”,5 la
parte vocale dell’opera di Battistelli diviene il ricettacolo magico di
tutte le voci, di tutte le emissioni vocali atte a trasmettere l’emozione del contatto diretto – tattile, visivo, auditivo, sensuale – con la
“luce auricolare”6 presente nell’universo misterioso di Rembrandt. Il
rapporto fra le due opere di Rembrandt e i due testi poetici all’interno della “drammaturgia invisibile”7 ma udibile dell’opera di Battistelli, conferma una delle caratteristiche primigenie della sua ricerca di compositore: la necessità di inventare universi immaginari
molteplici, densi di materie divergenti esplorabili in molteplici direzioni, proponendo agli ascoltatori–spettatori numerosi punti di
proiezione dell’immaginario e, perciò, di numerose istanze di identificazione.
Frau Frankenstein (1993), “monodramma del Prometeo moderno” su testo di Battistelli dal romanzo nero Frankenstein o il
moderno Prometeo (1816) di Mary Shelley,8 è il secondo monodramma di Battistelli destinato a un protagonista, attore o attrice
secondo le circostanze. E se Aphrodita, dal romanzo di Pierre
Louÿs, diventa una radiografia vocale–strumentale della sensualità,
Frau Frankenstein esplora “le sfere impure della fantasia e della
psiche” (Battistelli).
Scritto per rispondere a una famosa sfida lanciata da Lord
Byron durante una serata memorabile che riuniva alcuni amici fra i
quali Shelley e sua moglie Mary, il romanzo Frankenstein o il
moderno Prometeo racconta la storia inquietante dello scienziato
Victor Frankenstein che costruisce con parti di cadaveri “la creatura”: un essere terrificante capace di sentire, pensare, parlare e che
perseguita il suo creatore fino al Polo Nord, diventando l’angelo
5 G. Battistelli, “Théâtre de la mémoire”, in Ascolto di Rembrandt,
XLIII Premio Italia, Urbino/Pesaro, 1991, RAI.
6 G. Battistelli, Ibid.
7 G. Battistelli, Ibid.
8 Mary Wollstonecraft (1797-1851), moglie del celebre poeta romantico
inglese P.B. Shelley, ha solo 19 anni all’epoca in cui scrive suo romanzo
divenuto celebre.
39
della morte per tutta la famiglia Frankenstein. Effettivamente il
romanzo di Mary Shelley “non è una storia fantastica o un racconto
di fantascienza, ma qualcosa di più serio, di più ermetico, di più
filosofico” (Battistelli). È anche una parabola nera sulla ricerca
scientifica irresponsabile che porta alla catastrofe: il dio, genio del
fuoco, creatore dell’uomo e rapitore del fuoco, Prometeo, appare
qui nella sua versione “nera”. È lo scienziato ossessionato che consacra la sua vita e la sua ricerca al bene, ma crea ineluttabilmente
del male. La protagonista dell’opera è la voce umana: quella della
narratrice Mary Shelley che descrive la sua esperienza di scrittura e
che esterna “le pulsioni dei propri incubi”, amplificati e inseriti nel
contesto sonoro dal gruppo strumentale e dallo sviluppo spaziale. È
il suono della globalità – cioè la materia vocale–strumentale rappresentata – che assume interamente la funzione drammaturgica. I
comportamenti vocali senza significato – suono soffiato, bisbigliato,
gridato, pianto, ecc. – i tremoli e i glissando degli archi, le irruzioni violente e gli intrecci misteriosi delle percussioni, le brusche
esplosioni degli ottoni, i silenzi carichi di tensione, ecc. – sono fra
gli efficaci procedimenti destinati a immergerci nel mondo fuori dal
tempo del globo d’orrore fatto dalle paure più cupe della nostra
natura profonda.
L’elaborazione di una moltitudine di elementi, in Battistelli
sempre al servizio dell’espressione, corrisponde alla sua ricerca permanente di un lingua nuova, originale, carica di affetti ed essenzialmente disparata che detiene tutte le possibilità di linguaggio. E se
la sperimentazione con le emissioni vocali in Aphrodita segue sistematicamente la guida immaginaria monologica ispirata al romanzo
di Pierre Louÿs, se Ascolto di Rembrandt apre lo spazio intertestuale navigando fra due quadri di Rembrandt e due poesie di Ceronetti
sulla base di una complementarietà dei messaggi,9 le opere di teatro
musicale come la “fantasia da camera” Jules Verne (1984–85) o la
“rappresentazione del corpo e della memoria” Combattimento di
Ettore e Achille (1988–89) sono dei veri viaggi immaginari nella
memoria o all’interno di se stessi attraverso una moltitudine di
spazi letterari e musicali divergenti. La “fantasia musico–teatrale”
Jules Verne , scritta per il celebre gruppo di percussionisti Le Cercle (J.–P. Drouet, G. Sylvestre e W. Coquillat), è liberamente ispirato a tre romanzi di Jules Verne: Viaggio al centro della terra,
Ventimila leghe sotto i mari e Cinque settimane in pallone, appartenenti alla serie dei Viaggi straordinari. La “rappresentazione del
9 Un po’ alla maniera di L. Nono ne La terra è la compagna, su due
poesie di C. Pavese.
40
corpo e della memoria” Combattimento di Ettore e Achille10 effettua il viaggio di Ettore e Achille nella memoria del tempo attraverso frammenti di testi di Omero, Tirso de Molina, Goethe, Schiller,
Shakespeare, J. Du Bellay, Racine, Stazio, Quintus, Monti, Leopardi, Foscolo, Chiabrera, Ariosto, Catullo, Ronsard e Valéry in inglese, spagnolo, francese, tedesco, italiano…
La moltiplicazione dei percorsi narrativi all’interno dell’opera
di teatro musicale significa infatti spazializzazione e mobilizzazione
dall’interno della narratività piatta a una dimensione. Nel contesto
degli spettacoli musico–teatrali di Battistelli, la sequenza narrativa
orientata non è soppressa ma molto spesso moltiplicata, messa in
relazione con altri percorsi narrativi organizzati. La sovrapposizione
e l’interazione di questi diversi livelli di narrazione rendono possibili i viaggi immaginari fra diversi livelli di discorso, i continui
cambiamenti di livelli compositivi, generatori – inevitabilmente – di
interpretazioni diverse nel momento dell’ascolto–lettura.
Le opere musico–teatrali di Battistelli dove si fondono diversi
percorsi narrativi si definiscono molto spesso come “teatro della
memoria”;11 non racconto storico, ma racconto o insieme di racconti di fantasia, luoghi onirici aperti dove ribolle l’immaginario. La
dimensione acronica, configurazionale sottomette qui la dimensione
cronologica delle sequenze direzionali. I molteplici racconti – racconti di finzione – in Battistelli si dispiegano in altezza e in
profondità “esplorando a 360°” (Battistelli), “in drammaturgia in
dimensione sferica”,12 divenendo teatri–“globi”.13 È questa neces-
10 Si pensa, certamente, alla celebre Rappresentazione di Anima e di
Corpo (1600) del compositore romano E. Cavalieri (1550-1602), considerata un oratorio nello “stile rappresentativo” che imita il più possibile il
ritmo e la melopea del testo. E anche al celeberrimo Combattimento di
Tancredi e Clorinda (1624), cantata drammatica di Monteverdi (1567-1643)
appartenente all’Ottavo Libro di madrigali guerrieri e amorosi. Nemico
della purezza, Battistelli a proposito del suo Combat d’Hector et Achille
dice che è un “intruglio di testi”. Cfr. “Au pays de la Magie…” / Entretien
de Fr. Mallet avec G. Battistelli, in Impressions d’Afrique, Programma dell’Opéra du Rhin, Strasbourg, 2001, p. 11.
11 Ispirandosi a Robert Fludd, Ars memoriae (1617-1619). Cfr. G. Battistelli, Globe Théâtre (1990). R. Fludd (1574-1637), medico inglese,
rosacroce e filosofo mistico del Kent; contemporaneo di Shakespeare, successore di Paracelso, autore di numerose opere di teosofia, filosofia e
matematica.
12 G. Battistelli a proposito del Combattimento di Ettore e Achille, in
Musica 89 / DNA, Programme du festival international des musiques
aujourd’hui, Strasbourg, 1989, p. 28.
13 Si pensa, certamente, al Globe Theatre di Shakespeare. Cfr. F.
Yates, L’art de la mémoire, Gallimard, Paris, 1975.
41
sità di rappresentare vari riferimenti culturali che impone una tecnica della citazione specifica: non orizzontale e diacronica, che gioca
con l’opposizione dei linguaggi individuali, ma verticale, spaziale e
in movimento, esplorando rapidamente tutte le dimensioni
spazio–temporali in un movimento vertiginoso di sintesi e di ibridazioni illimitate.
La decontestualizzazione in Experimentum mundi e in Linzer
Stahloper, l’esplorazione della intertestualità letterario–pittorica in
Ascolto di Rembrandt, i viaggi immaginari attraverso testi diversi in
Jules Verne e Combattimento di Ettore e Achille, ma, più ancora, le
fantasie oniriche – l’opera da camera Kelpers Traum (1989–90) e il
“balletto di fine secolo” per danzatore e strumenti antichi Globe
Théâtre (1990) – testimoniano un processo globalizzante di sintesi
fondato soprattutto su una concezione dinamica dello spazio. Perfettamente cosciente della forza suggestiva degli effetti di spazializzazione in musica – e più ancora nell’ambito del teatro musicale –
Battistelli inventa spazi musico–teatrali flessibili, estranei a ogni fissità metrica, pronti ad aderire ai molteplici cambiamenti delle trasformazioni materiali. Il modo spaziale diventa così teso e generatore di tensione come è quello del tempo musicale non metrico. Gli
spettacoli di teatro immaginario in Battistelli si allontanano definitivamente dalla semplice concezione del tempo–contenitore o dello
spazio–contenente. Nel suo “teatro della memoria” o racconto–finzione lo spazio–tempo diventa flessibile, elastico, “morbido come
un mollusco”, secondo l’espressione di Einstein, variabile secondo
il movimento e le densità delle materie in trasformazione.
L’“opera da camera” Keplers Traum (1989–90) su libretto del
compositore da Somnium o Nachträglisches Werk über die
Lunar–Astronomie (1609) di Giovanni Keplero, si inserisce perfettamente nella linea del “viaggio immaginario” o del “teatro–fantasia”.
Un po’ alla maniera di Jules Verne, Keplers Traum utilizza un
intreccio narrativo composto da Battistelli ispirandosi al magnifico
romanzo di fantascienza del XVII secolo Somnium di Keplero e a
elementi biografici della vita del celebre astronomo. 14 A questa
doppia narrazione frammentaria, sperimentata già in Jules Verne,
14 Rifiutata nel 1593 dagli accademici dell’Università di Tübingen a
causa delle sue affermazioni copernicane, G. Keplero (1571-1630) rielabora
la sua dissertazione sotto forma di romanzo fantastico dal titolo Somnium o
opera postuma sulla geografia lunare (1609). Al racconto apparentemente
fantastico di colui che osserva la terra dalla luna, Keplero aggiunge 223
note esplicative che decrivono i fenomeni celesti sempre secondo un modello implicitamente copernicano.
42
Battistelli aggiunge “lo sguardo dall’esterno”:15 le immagini della
terra, divenute possibili, anche in tempo reale, grazie allo sviluppo
della tecnologia moderna. Al sogno di Keplero si aggiunge quello
di Battistelli. Lo spettacolo musico–teatrale che manipola con facilità una moltitudine di mezzi (musica vocale–strumentale, testi,
comportamenti scenici, video e proiezioni mobili) annulla – come
nel sogno – ogni distanza temporale e spaziale per immergerci nel
sogno risvegliato dove ciascuno trova dei punti di appiglio per il
proprio immaginario. Keplers Traum riproduce coscientemente il
funzionamento del sogno diurno: il desiderio di viaggio immaginario, di apertura che annulla ogni forza centripeta strettamente razionalista, riunisce elementi disparati a dispetto di ogni cronologia storica per metterle in ordine in un nuovo insieme, fantasioso e reale
al tempo stesso. Nei confronti dei ricordi – di Keplero con la sua
ricerca scientifica, di sua madre Katharina e delle accuse di stregoneria, nei confronti del Demone–Keplero, nei confronti del mondo
reale dell’attuale aeronautica spaziale – lo spettacolo onirico di Battistelli ha un po’ lo stesso rapporto che hanno “quei palazzi barocchi di Roma nei confronti delle rovine dell’antichità: pietra da
taglio e colonne sono servite come materiale per costruire forme
moderne”.16
Gli spettacoli visionari del teatro musicale in Battistelli, modellando universi fantastici con riferimenti del passato, si propongono
di metterci nel cuore della realtà di oggi. Il sogno o l’ipotesi scientifica di Keplero, così come “la stregoneria” di sua madre Katharina o il racconto del Demone, si rivelano perfettamente contemporanei ai satelliti, ai radar e ai calcolatori. La simultaneità delle dimensioni temporali – del passato, del presente, del futuro – nei mondi
immaginari impone una concezione sferica del tempo musico–teatrale, del “tempo–globo”. Condensando riferimenti storici e integrando il reale decontestualizzato, il compositore – Magister ludi –
gioca con la presenza del passato, la presenza del presente e la presenza del futuro.17 Ma, contrariamente all’orientamento mistico di
15 “Comme un paysage”, enunciò E. Bloch in Experimentum mundi.
Ma un paesaggio “a n dimensioni” (Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille
plateaux, Ed. de Minuit, Paris, 1980), è più flessibile, mobile, scherzosa
con le curvature dello spazio sonoro-visivo dello spettacolo molteplice.
16 S. Freud a proposito del sogno diurno. Cfr. S. Freud, Die Traumdeutung (1900), in Gesammelte Werke, II-III, S. 496.
17 Questa “messa in presenza” fa pensare, certamente, alla filosofia del
tempo di Sant’Agostino (354-430): “Ci sono tre tempi, passato, presente,
futuro, ma – per essere precisi – si può forse dire: ci sono tre tempi, il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro. Questi tre
tempi sono nell’anima, jnon li vedo altrove. Il presente del passato è il ricor-
43
Sant’Agostino, contrariamente anche alla dimensione interiore, soggettiva dell’impiego del sogno nell’ottica freudiana, il procedimento
di Battistelli è fondamentalmente “tellurico”, “terrestre”, “hic et
nunc”: i suoi viaggi immaginari attraverso lo spazio e il tempo a n
dimensioni ci riportano sistematicamente al reale quotidiano di ciascuno. E se la visione sferica del tempo in Zimmermann,18 legata
strettamente alla sua tecnica compositiva pluralista con le sue citazioni, collages e montaggi, è stata considerata dallo stesso compositore come “conseguenza dell’estensione del pensiero seriale”,19 la
concezione globalizzante del tempo in Battistelli corrisponde naturalmente alle particolarità della nostra epoca: ciascuno di noi ha la
possibilità reale di essere in contatto diretto e simultaneo con epoche storiche, aree geografiche e strati culturali lontani e diversi.
Il “balletto di fine secolo” Globe theatre(1990), per un danzatore e strumenti antichi (flauti, tiorba, liuto, chitarra barocca, viola
da gamba e percussioni) fa pensare necessariamente al Globe Theatre di Shakespeare a Londra con i suoi riferimenti all’arte della
memoria.20 L’opera rinuncia completamente alla parola per modellare uno spazio musico–teatrale unicamente con i comportamenti
gestuali del danzatore e con le “immagini sonore” (Battistelli),
immagini deformate – si pensa agli orologi di Dalì – di musica del
Rinascimento o barocca. L’opera è ispirata all’inizio al teatro della
memoria di R. Fludd: 21 un teatro ermetico, con una costruzione
simbolica particolare e una distribuzione specifica per gli interpreti
che dà la possibilità all’ascoltatore di mettersi sempre nel punto
ideale, al centro mobile, per la lettura di questa “storia del mondo”.
Il danzatore–protagonista in Battistelli è “l’iniziato” (Battistelli) che,
senza parole, cerca di esternare la memorie e l’esperienza, la presenza del ricordo e la presenza dell’osservazione immediata. “È,
forse, Fludd? O Shakespeare? Dunque intellettuale, a suo modo
mago, alchimista o rosacroce, che prova a impegnarsi veramente
nella via della conoscenza” (Battistelli).22 Oppure lo stesso compodo, il presente del presente è la contemplazione (l’esperienza, l’intuizione) e
il presente del futuro è l’attesa”. Cfr. Aurelius Augustinus, 13 Bücher Bekenntnisse (Confessiones), Werke, Abt. 3, Band 1, Paderborn, 1964, S. 312.
18 Cfr. B.A. Zimmermann, Intervall und Zeit, Aufsätze und Schriften
zum Werk, a cura di Ch. Bitter, Schott, Mainz, 1974. Cfr. anche C.
Dahlhaus, “Kugelgestalt der Zeit, Zu B. A. Zimmermanns Musikphilosophie”, in Musik und Bildung N. 10 (1978), Schott, Mainz, S. 633.
19 Cfr. B.A. Zimmermann, Intervall und Zeit, S. 36.
20 Cfr. F. Yates, L’art de la mémoire, Gallimard, Paris, 1975.
21 Cfr. F. Yates, L’art de la mémoire, Gallimard, Paris, 1975.
22 G. Battistelli in Alte neue Musik, Westfälisches Musikfest 1990,
WDR, Köln, S. 35.
44
sitore, deciso di finirla con la narrazione unidimensionale per
appropriarsi dello spazio–tempo sferico attraverso figure modellate
in corso d’opera. I frammenti trasformati – le “immagini” deformate nel ricordo – di lavori di diversi compositori (K.F. Abel, R. de
Visée, S.L. Weiss, J. Dowland, F. Geminiani, M. Blavet, F.A. Philidor o A. Corelli), emergono continuamente sulla superficie del
tappeto sonoro – del “tessuto strumentale astratto”, dice Battistelli,
– la cui funzione è di mettere in evidenza la distanza che separa i
frammenti sonori del passato fra di loro e in rapporto al mondo
sonoro attuale. Concepito effettivamente come “teatro della memoria”, Globe theatre di Battistelli non cerca la ri–costituzione filologica di musiche del passato con la nostalgia inevitabile di partiture
“alla maniera di”; né il pastiche alla moda postmoderna neobarocca
che annulla ogni distanza dalle tecniche compositive di altri tempi.
La forma sferica dello spazio–tempo riunisce passato (citazioni di
frammenti, strumenti antichi), presente (evoluzione concreta gestuale–sonora) e futuro (linguaggio compositivo aperto) e permette di
annullare – almeno nell’ambito dell’estetica – il principio della finitezza. Nel momento in cui il tempo diventa continuità di
passato–presente–avvenire, la categoria del finito si trova necessariamente abolita. Nel momento in cui la direzione temporale diventa reversibile – l’oscillazione permanente nelle immagini sonore del
passato spezzettato e l’idioma musicale contemporaneo di Battistelli
ne è la dimostrazione udibile – non esiste infatti un punto finale.
La narrazione lineare teleologica cede il posto preponderante all’esteriorizzazione pluridimensionale attraverso le forme mobili delle
materie.
Commissione della WDR di Colonia nel quadro di un progetto
di “Musica visiva”, Begleitmusik zu einer Dichtspielszene (1994)
per 12 musicisti e 6 scene ad libitum è pensata come “nastro sonoro” preliminare allo spettacolo, o piuttosto come teatro sonoro
destinato a “accompagnare” la scena “poetico–ludica” del teatro
musicale. Il titolo fa riferimento alla celebre Begleitmusik zu einer
Lichtspielszene Op. 34 (1929–30) per orchestra di Schönberg, scritta su commissione di un editore musicale che aveva sollecitato
diversi compositori a “fare come se componessero per il cinema”.23
L’opera di Giorgio Battistelli cerca di sviluppare musicalmente,
senza utilizzare testo parlato o cantato, 6 temi, 6 “stazioni”. Naturalmente Battistelli scrive come se componesse per il teatro: musica–teatro. Un po’ alla maniera di Schönberg quando compose una
piccola sinfonia dodecafonica in tre movimenti che si susseguono
23
Cfr. R. Leibowitz, Schönberg, Solfèges, Seuil, Paris, p. 117.
45
senza interruzione – Drohende Gefahr, Angst, Katastrophe – Battistelli costruisce la sua Begleitmusik per 12 musicisti in 6 scene ad
libitum; 6 scene i cui titoli suggeriscono l’universo psicologico dell’azione e la cui realizzazione concreta è affidata interamente al
regista: 1. Dialogo fra un pensatore ed un poeta; 2. Ascolto del
mondo interiore; 3. Combattimento; 4. Colpi d’amore e colpi di
morte; 5. L’espressività delle lacrime; 6. Il linguaggio e i gesti del
silenzio. L’organico dell’orchestra di Battistelli comprende – oltre ai
consueti strumenti acustici (clarinetto, fagotto, corno, trombone,
tuba, archi) – una quantità considerevole di strumenti a percussione
fra i quali alcune macchine scenico–sonore come la macchina del
vento, la macchina della pioggia, la lastra metallica per il tuono,
l’arenaiuolo, la raganella, la sega da falegname ecc. Priva totalmente di testo – ad eccezione dei titoli delle scene – l’opera di Battistelli sollecita una scrittura drammaturgica volontariamente aperta
alle invenzioni teatrali più diverse. Contrariamente ai film muti
divenuti recentemente fonte d’ispirazione per una moltitudine di
“musiche di accompagnamento”, il “film sonoro” della Begleitmusik
di Battistelli ispira realizzazioni visive sempre aperte. È la sua
“musica–teatro” – veramente “immaginistica” – che sollecita le
invenzioni visive di scene poetiche sempre da reinventare.
I “globi–teatri” di Battistelli possono dunque perfettamente fare
a meno della parola che impone naturalmente l’enunciazione lineare. Pensiamo a Globe théâtre, a Begleitmusik, ma anche alla “parabola in musica” Teorema (1991–92) su testo di H.–W. Henze e G.
Battistelli dal romanzo e dal film di P.P. Pasolini. Idioma molteplice e polivalente della sensibilità e dell’intelligenza, la scrittura
musicale di Battistelli poggia prima di tutto sulla drammaturgia del
suono, sull’espressività delle strutture sonore–gestuali che, per
esprimere – e anche per raccontare storie cariche di senso e rivelare
una problematica complessa, filosofica o psicanalitica – bastano a
se stesse.24
Il romanzo di Pasolini sopprime del tutto il discorso diretto e
il dialogo: le sole battute pronunciate dai personaggi sono i testi dei
telegrammi che annunciano all’inizio l’arrivo e alla fine della prima
parte la partenza dell’ospite–straniero, questo personaggio misterioso che sconvolge in modo tragico la vita dell’agiata famiglia milanese. La “parabola musicale” di Battistelli rinuncia dunque alla
parola ma anche alla vocalità . Il racconto spezzato dell’incontro
con lo straniero e le conseguenze di questo incontro per ciascun
24 “Presenza spogliata di significato e che costituisce pertanto una rivelazione” scriveva Pasolini. Cfr. Teorema, Garzanti, Milano, 1968.
46
membro della famiglia borghese, si svolgono in musica gestuale:
sonora, cioè strumentale, attraverso i cantanti solisti e l’orchestra di
25 musicisti, e visiva, cioè corporea, attraverso il comportamento
scenico dei sei attori. Privati di voce cantata, i sei protagonisti sono
dotati di voce strumentale: violoncello per il padre Paolo, violino
per la madre Lucia, arpa per la figlia Odetta, clarinetto basso per il
figlio Pietro, sintetizzatore per la cameriera Emilia e due strumenti
extra–europei – gli strumenti iraniani a percussione daf e zarf – per
lo straniero.
Il personaggio centrale, il centro in cui convergono le aspirazioni segrete, non confessate di tutti i membri della famiglia, è l’ospite, lo straniero, l’assolutamente altro, l’Altrui.25 L’invitato “dall’aria straniera non solo a causa della sua statura ma anche del
fatto che non c’è niente di mediocre o di volgare in lui”
(Henze–Battistelli). “Egli è, insomma, di una condizione misteriosa.
La sua singolarità dipende, in fondo, dalla sua bellezza” (Pasolini).26 E nell’opera di Battistelli, proprio come in Pasolini, tutti i
membri della famiglia si rivelano equidistanti – come nella parabola
matematica – nei confronti del “centro”: lo Straniero, l’altro. Perfettamente “uguali per il loro amore segreto”27 e per i loro giochi di
seduzione all’inizio, perfettamente uguali per la forza autodistruttrice nel fallimento omicida alla fine. Teorema di Pasolini ma anche
di Battistelli dimostrano, con mezzi diversi, la stessa legge immutabile che regola “la grande famiglia che ignora tutto dell’amore”.28
Nella condizione di questa ignoranza fondamentale “ciò che conta è
ciò che è e ciò che è è ciò che appare. Questa apparenza è stranamente geometrica a dispetto della sua irregolarità. Ciascun punto si
trova esattamente a una certa distanza di un altro. Ancora bisogna
misurare questa distanza”.29
Sempre attratto dall’immagine, dall’immaginario, dall’“immaginistico”, Battistelli, si è spesso ispirato ai capolavori della settima
arte. Così Prova d’orchestra (1995), “6 scene musicali di fine secolo”, su libretto del compositore da Federico Fellini,30 è la seconda
opera scenica di Battistelli ispirata da un grande cineasta. Sta di
fatto che Prova d’orchestra (1978) di Fellini è una delle dimostra-
25 Cfr. E. Levinas, Totalité et infini, Essai sur l’extériorité, Kluwer
Academic, M. Nijhoff, 1971, Biblio Essais, 1990; Le temps et l’autre,
Quadrige, PUF, 1989.
26 P.P. Pasolini, Teorema.
27 P.P. Pasolini, Teorema.
28 Ibid.
29 Ibid.
30 Traduzione e versione ritmica francese di Sophie de Castel.
47
zioni più eclatanti del fatto che il maestro italiano – con Stanley
Kubrick, forse – è il più grande uomo di spettacolo del cinema
contemporaneo. Il “documentario lirico”31 di Fellini, destinato alla
televisione, diventa per il maestro di spettacolo musicale Battistelli
il punto di partenza per l’elaborazione “operistica” – nelle condizioni attuali e un po’ alla maniera di Fellini – “dell’angoscia, di tutta
la disperazione di un italiano d’oggi che vive nel suo paese”.32
L’opera di Battistelli amplifica l’aspetto etico essenziale per il
film, rimpiazzando coscientemente il regionalismo dialettale felliniano – quest’ultimo molto spiritoso e perspicace – con il cosmopolitismo dell’orchestra internazionale contemporanea. Il proposito di
Battistelli oltrepassa ampiamente le frontiere dei paesi per approdare ad una problematica attuale fondamentale: dell’orchestra, della
musica, dell’arte, della società.33 Oggetto culturale specifico, prodotto dell’Occidente, l’orchestra sinfonica diviene un simbolo carico
di significati: microcosmo del mondo occidentale, cosmopolita ma
chiuso; incapace di comunicare veramente con altre culture, esterne
alla sua tradizione rituale immobile; sottomesso alle pressioni esterne insontenibili e dilaniato da tensioni interne distruttrici. Alla problematica etica felliniana Battistelli aggiunge, scrivendo di nuovo i
dialoghi – ma sempre alla maniera di Fellini –, un livello supplementare essenziale per lui:34 il rapporto conflittuale nella musica
contemporanea portato nel cuore stesso della musica.35 Dopo tutto
la situazione della musica contemporanea all’interno del mondo dell’orchestra non è paragonabile a quella dell’orchestra nel mondo, o
a quella del mondo occidentale nel mondo? Le “6 scene musicali di
fine secolo” ritrovano il tono felliniano dell’interrogarsi sui problemi essenziali del giorno d’oggi.
31 F. Fellini, in “Répétition d’orchestre, Entretien avec F. Fellini”, di
M. Ciment, in Federico, Dossier Positif, Ed. Rivages, Paris, 1988, p. 113.
32 F. Fellini a proposito di Prova d’orchestra. Ibid., p. 113.
33 Ricordiamo che secondo la filosofia della musica-utopia di E. Bloch,
cara a Battistelli, la musica prefigura gli sconvolgimenti sociali. Cfr. E.
Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1959; Geist der
Utopie, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1964.
34 La molteplicità dei livelli è uno degli aspetti essenziali del realismo
di Fellini: così Intervista (1987) implica la sovrapposizione di tre livelli,
quello del resoconto, quello dei ricordi e quello di America di Kafka.
35 “[...] È il compositore che non ha scritto correttamente. / Con la
musica contemporanea, è sempre la stessa storia. / Ed ecco i compositori
d’avanguardia attuali, che sanno tutto di Marx, di Hegel, di Freud, di
Adorno, di Lacan [...] ma non sanno niente della tecnica degli strumenti! /
E poi ce ne sono troppi di questi compositori [...]”. Cfr. G. Battistelli,
Prova d’orchestra.
48
Contrariamente alla maggior parte delle opere sceniche di Battistelli che poggiano sulla molteplicità dei percorsi narrativi rappresentati, la drammaturgia di Prova d’orchestra cerca “la fusione di
narrazione e di frammenti della realtà” (Battistelli), di soggetto e
monologhi narrativi e di svolte imprevedibili affidate al caso. E se
le opere anteriori di Battistelli sperimentano soprattutto la composizione della molteplicità – teatro della memoria da esplorare –,
Prova d’orchestra è fondata su una struttura drammaturgica propriamente musicale che comunica la sua energia alla narrazione del
libretto. Il montaggio e la disposizione spazio–temporale di simboli
carichi di senso o di comportamenti emblematici apparentemente
disordinati poggiano su una drammaturgia di ordine sinfonico che
agisce in quanto forza dinamica generatrice di un’opera–totalità.
Erede della grande tradizione sinfonica del sistema tonale del classicismo, Battistelli inventa – nel contesto della scrittura operistica
attuale – le strategie seduttrici di un nuovo sinfonismo. Esse poggiano inevitabilmente sulla delimitazione dei campi semantici individualizzati, sul contrasto degli opposti e sui passaggi continui,
sulle interazioni e sulle fusioni nelle condizioni di un’“impurità” o
“androginia” musicale generalizzata. I rapporti a distanza di componenti similari, il gioco dell’apparizione–scomparsa, la precarietà dei
caratteri musicali, il nomadismo continuo del linguaggio musicale
sostenuto sempre dalla drammaturgia del suono che mira all’abolizione di ogni inerzia della percezione, sono fra i procedimenti che
individuano la strategia seduttrice del compositore: la sua arte di
fare opera contemporanea con i mezzi del sinfonismo reinventato.36
Sempre attratto dalla forza drammaturgica del grande sinfonismo, Battistelli sottomette spesso lo spettacolo musico–teatrale, e
più ancora dopo Prova, alle forze organizzatrici ispirate dalla tradizione sinfonica: si tratta di una costante nella ricerca compositiva di
Battistelli che comprende l’organizzazione di una moltitudine di
materiali, di stili e di riferimenti culturali in un’enunciazione coerente che agisce sempre sull’ascoltatore attraverso la forza della
“drammaturgia del suono” (Battistelli). Die Entdeckung der Langsamkeit ( La scoperta della lentezza) (1996), teatro musicale in cinque scene su libretto di Michael Klügl dal romanzo omonimo di
Sten Nadolny, è fra gli esempi più espliciti di una sinfonizzazione
dell’opera musico–teatrale per cantanti solisti, orchestra e cori sulla
scena e su nastro magnetico. I cinque quadri de La scoperta della
36 Ricordiamo che per il Fellini di Intervista, per esempio, ma anche di
Prova d’orchestra, l’intervista era l’arte di fare del cinema con altri mezzi.
Cfr. il suo Fellini par Fellini, Calmann-Lévy, Paris, 1984.
49
lentezza intitolati, nell’ordine, Preludio in due tempi, Studio, Ricercare, Perpetuum mobile e Molto lento, rimandano alle forme classiche che hanno dato prova, attraverso le varie epoche, dell’efficacia
della loro drammaturgia sonora.37 Queste forme stabili nella storia
rendono possibile e mettono in evidenza una sperimentazione estremamente inventiva del tempo, concetto filosofico fondamentale e,
contemporaneamente, argomento sempre capitale nel lavoro di Battistelli.
Il teatro di musica I Cenci (1997),38 ispirato alla tragedia di
Antonin Artaud,39 con testo di Battistelli e Nick Ward dalla versione inglese di David Perry, che si dà a Siena in versione francese, è
certamente – e questo non solo a causa della traduzione inglese del
testo e della prova straordinaria degli attori alla prima rappresentazione assoluta a Londra – l’opera più shakespeariana di Battistelli
prima di Riccardo III. Riprendendo la trama narrativa dell’inquietante tragedia in quattro atti e dieci quadri di Artaud che riscrive,
ricordandolo, da una parte la tragedia cinque atti The Cenci (1819)
di Shelley ispirata a un manoscritto redatto quattro giorni dopo il
supplizio della giovane Beatrice Cenci. La tragedia di Artaud Les
Cenci è stata recitata al Théâtre des Folies–Wagram a Parigi con la
sua regia e con lui stesso nella parte del protagonista, con la musica di Roger Désormière e le scene e i costumi di Blthus nel maggio 1935 (ha avuto diciassette rappresentazioni con una risonanza
non trascurabile). L’opera di Battistelli è una nuova riscrittura, condensata e adattata al molteplice teatro musicale, basata su protagonisti–attori e di un gruppo strumentale ma anche di immagini
proiettate e di elettronica dal vivo. Il teatro di musica di Battistelli
è incentrato attorno al sinistro personaggio del ricchissimo e perverso tiranno Francesco Cenci, divenuto per Artaud un personaggio
esemplare che preannuncia aspetti essenziali del suo futuro “teatro
della crudeltà”. Dopo le esperienze con la vocalità non operistica in
Aphrodita, Ascolto di Rembrandt, Frau Frankenstein, Battistelli
37 Ricordiamo che il ricorso alle forme della tradizione classica permette a Schönberg e a Berg di costruire ampie forme nel contesto atonale
(Cfr. Die Erwartung e Die Glückliche Hand di Schönberg, Wozzeck di
Berg).
38 Commisione dell’Almeida Opera, l’opera è stata rappresentata per la
prima volta l’11 luglio 1997 a Londra, con la direzione di David Parry e
con la regia di Nick Ward, con le immagini di Studio Azzurro e l’elettronica dal vivo del Centro Tempo Reale. Nel ruolo di Francesco Cenci, il
notevole attore shakespeariano Jan McDiarmid.
39 A. Artaud, Les Cenci, in Œuvres complètes, vol. IV, Gallimard,
Paris, 1978, pp. 147-210.
50
rinuncia qui totalmente alla voce cantata per riavvicinarsi precisamente alla concezione di Artaud del “teatro e il suo doppio”, del
“teatro della crudeltà” in quanto “linguaggio nello spazio, linguaggi
di suoni, di grida, di luci, di onomatopee […]”.40 Le scene molto
concise che si susseguono senza interruzione sono momenti sinfonici individualizzati carichi di tensione espressiva e contagiosa. Sono
delle “stazioni” – ritratti, incontri, situazioni – un po’ secondo il
modello espressionista,41 che creano un carattere, un personaggio,
un sentimento, un’atmosfera, portando inesorabilmente verso il tragico epilogo. “Scaturisce in questo palazzo qualcosa di cui il padre
Cenci è l’anima e l’esito”, scriveva Artaud nelle sue note.42 Tutte
le emissioni vocali – dal sussurro alla declamazione, dal parlato al
grido, dai suoni–rumori gutturali alle risa e ai pianti – partecipano,
a fianco delle parti strumentali molto flessibili, divenute oscillogrammi delle emozioni, a questo teatro di musica che rinuncia a
ogni vocalità operistica. Le scene sinfoniche di Battistelli creano
nella continuità – per mezzo dell’orchestra e della voce parlata –
queste atmosfere invadenti e inquietanti che fanno risuonare in ciascuno le corde oscure della psiche. L’opera può essere letta come
interpretazione o riscrittura della tragedia di Artaud e della sua
estetica del teatro della crudeltà, il cui solo esempio realizzato in
maniera veramente musicale, con la partecipazione dello stesso
Artaud, resta la trasmissione radiofonica proibita Pour en finir avec
le jugement de Dieu (1949).
Sperimentatore instancabile nell’ambito del teatro musicale,
Battistelli non trascura la sua versione di teatro per le orecchie, la
versione destinata alla radio. La sua “azione radiofonica” Giacomo
mio, salviamoci! (1997–98), per voce narrante,43 orchestra, strumenti solisti, coro e dispositivo video su un testo di Vittorio Sermonti,
composta in occasione del bicentenario della nascita di Giacomo
Leopardi (1798–1837), è costruita intorno al mito letterario e
soprattutto biografico dello scrittore. L’opera di Battistelli si articola
intorno a una “conferenza”, relativamente tradizionale, tenuta da un
professore di un “accademismo” un po’ dubbio. A partire e intorno
40 A. Artaud, “Le Théâtre de la cruauté (Premier manifeste)”, in
Œuvres complètes, vol. IV, p. 87.
41 Ricordiamo Die Erwartung e Die glückliche Hand di Schönberg, che
seguono l’esempio del dramma Il cammino verso Damasco di Strindberg,
ma anche di Passaggio di Berio-Sanguineti. Ma l’opera di Battistelli inventa la propria strategia drammaturgica ispirata da Shakespeare e Artaud.
42 A. Artaud, Les Cenci, Note riguardo ai personnaggi, Œuvres complètes, vol. IV, Gallimard, Paris, 1978, p. 269.
43 “Voce docente”, precisa il compositore: voce dotta, voce che insegna.
51
al filo conduttore della voce parlata, la musica di Battistelli tesse
una trama sonora estremamente ricca e flessibile: essa decompone,
dilata e contrae le parole, inventa la loro trasmutazione in figure
ritmiche variate, lega sezioni differenziate dove coabitano sonorità
soavi o drammatiche, sempre fortemente espressive, dell’orchestra
“tradizionale”, i suoni “artificiali” prodotti dal campionatore, i suoni
“concreti” e quotidiani prodotti dagli strumentisti–solisti e delle
voci tenute o ritmate di un coro invisibile. Il “teatro sinfonico dell’ascolto” dà l’impressione di un’anamorfosi musicale sognata della
vita e dell’opera di Leopardi che propone all’ascoltatore attento e
curioso una moltitudine di possibilità di entrare nell’universo unico
del disperato poeta–filosofo.
La fine degli anni 90 è segnata in Battistelli da un nuovo ritorno verso Pasolini. Il balletto in otto scene Il fiore delle Mille una
notte (1998–99) è già il terzo omaggio di Battistelli al cineasta e
scrittore Pier Paolo Pasolini. Dopo lo spettacolo musico–teatrale, la
“parabola in musica” Teorema (1992) per orchestra, sei attori e narratore, libero adattamento di Battistelli del film e del romanzo omonimi di Pasolini, dopo Teta veleta,44 Omaggio a Pasolini (1995)
per orchestra d’archi e percussioni, Battistelli ritrova – dopo Globe
theatre (1990), sempre in collaborazione con il coreografo Virgilio
Sieni45 – il genere del balletto: rivisto e corretto, certamente, nel
contesto della danza contemporanea, con dispositivo video e secondo la necessità imperiosa per Battistelli di una trasmutazione in
musica–gesti–immagini della sensualità pasoliniana in quanto
“dichiarazione di amore alla vita”.46 La celebre “trilogia della vita”
di Pasolini, costituita dai tre film Il Decamerone (1971), I racconti
di Canterbury (1972) e Le mille e una notte (1974), richiama il
diritto dell’uomo alla gioia e celebra il godimento e il mostrarsi dei
corpi in mezzo a una teatralizzazione della sessualità rappresentata
nella sua totale libertà. È per mezzo dell’orchestra – con strumenti
gravi (fiati e archi) molto più numerosi degli strumenti acuti e con
45 strumenti a percussione suonati da tre musicisti – che Battistelli
cerca di creare un gesto musicale differente ma tanto forte quanto
quello che viene presentato visivamente sulla scena. La drammaturgia spezzata dei frammentari racconti di Pasolini si trasforma nel
44 “Teta veleta” è il soprannome affettuoso dato da Pasolini alla sua
amica di sempre Laura Betti.
45 L’opera è stata rappresentata per la prima volta a Modena nel febbraio 1999 dalla compagnia di Virgilio Sieni con un dispositivo video di
Grazia Toderi.
46 Pier Paolo Pasolini. Materiale informativo distribuito al Festival di
Cannes, maggio 1974.
52
balletto di Battistelli in un mosaico di frammenti gestuali, in un
album o collage di immagini e di gesti – ripresi o ispirati dal film
– sostenuti dalla trascrizione sinfonica ricca e colorata dell’universo
immaginario e dell’approccio cinematografico pasoliniano.
Alla fine degli anni 90, sempre attratto dai viaggi degli
esploratori, Battistelli si volge naturalmente verso Impressions
d’Afrique (1999–2000) non è un’opera nel senso tradizionale del
termine, certamente, ma melodramma con testo parlato su un
libretto di Georges Lavaudant e Daniel Loayza, elaborato liberamente dai testi di Raymond Roussel (Impressions d’Afrique, Locus
solus, Comment j’ai écrit certains de mes livres), ma anche da
frammenti di testi di Blake, Dickens, Morgenstern, Rabelais, Saba,
Tasso. I nove protagonisti – Roussel, l’infermiera, il re Talou, il
suo primo ministro Rao e i naufraghi (ad eccezione dell’attrice
tragica Adinolfa, soprano, che canta le Stanze di Tasso e Racine)
– non sono cantanti d’opera ma attori che recitano il loro testo
integrandolo nella drammaturgia formale propriamente musicale. Il
compositore privilegia il testo parlato, non cantato, cosicché si
intendano molto distintamente le parole, la pronuncia corretta con
il suo ritmo specifico e con il suo colore fonico. “La chiarezza mi
assillava, con il gioco sul timbro della voce degli attori, così
importante quanto quello con i cantanti” (Battistelli).47 Un ruolo
considerevole è attribuito al coro di uomini: i componenti recitano
così individualmente sulla scena, cosa che rappresenta un gesto
compositivo completamente iconoclasta rispetto alla tradizione
dell’opera. Fortemente attratto dalla drammaturgia non narrativa
della serata di gala che ricorda la successione dei numeri del
circo, il compositore decide di dare la parola direttamente allo
scrittore: Roussel diventa una specie di conferenziere–protagonista
del “teatro in musica” che spiega agli ascoltatori le tappe del suo
cammino di scrittore di fiaschi ripetuti, facendo vivere intorno a
lui quella enorme macchina dei sogni o cassa di risonanza per i
sogni e la realtà confusi. Concepiti liberamente sulla base d’Impressions d’Afrique di Roussel, l’opera di Battistelli compone la
scena musico–teatrale ad immagine di uno spazio mentale molteplice in cui lo scrittore agisce in quanto interprete della sua opera:
rinchiuso nel suo universo immaginario, circondato dai suoi naufraghi e dai suoi africani inventati, partecipe delle loro gioie e
47 G. Battistelli, “Au pays de la Magie…” / Entretien de Fr. Mallet
avec G. Battistelli, Programma di Impressions d’Afrique, Opéra du Rhin,
Strasbourg, 2001, p. 11.
53
della loro disperazione. La partitura, molto densa, utilizza tutta la
tavolozza strumentale dell’orchestra, con diversi livelli e diversi
strati, senza cercare alcuna stilizzazione delle musiche africane o
etniche. La stranezza sonora deriva piuttosto dall’alchimia dei timbri nell’orchestra, dalla fusione dei rumori–suoni parlati e strumentali, così come dei suoni trasformati, campionati, con l’aiuto
del sintetizzatore e della spazializzazione. L’opera di Battistelli
segue la prima idea di Roussel: le sue Impressions d’Afrique non
hanno niente di folklorico ma nascono da un’immaginazione straripante, utilizzando con enorme fantasia creativa tutte le figure
dello stile dell’opera e del melodramma.
La ricerca compositiva di Battistelli dell’ultimo decennio è nettamente segnato dall’amplificazione dei processi del sinfonismo, fattori di coerenza e di intensa tensione musicale–drammaturgica. Non
si tratta, certo, unicamente di addensamento del tessuto orchestrale
– esplicito in Riccardo III, per esempio – ma prima di tutto e
soprattutto di strategie compositive fondate sui grandi contrasti e
sui gesti formali direzionali, sull’equilibrio di ampi elementi compositivi, sull’interazione a distanza e sulle simmetrie organizzatrici,
sulla teleologia narrativa propriamente musicale.
Le “visioni musicali” Auf den Marmorklippen (2001), dal
romanzo omonimo di Ernst Jünger con libretto di G. Van Straten e
del compositore, è la seconda opera di Battistelli ispirata da Jünger,
dopo Anarca, Hommage à E. Jünger (1988–89) per orchestra e percussionista–recitante che legge il testo di Jünger. Le nove scene
non sono concepite come un racconto rappresentato sulla scena ma
come una successione di spazi scenici molteplici – acustici e visivi
– o come una serie di poemi sinfonici che utilizzano i mezzi vocali, strumentali e visivi. Allo stesso tempo esse svolgono funzioni
precise nell’insieme dell’opera in quanto totalità sinfonica coerente.
La prima scena Il ricordo svolge la funzione di prologo. Le scene
II. Festa primaverile, III. Eremo, V. Belovar e VII. Il principe di
Sunmyra agiscono come esposizione dei diversi universi, luoghi e
personaggi. Le scene IV. L’invasione del Förster, VI. Köppelsbleek
e VIII. Lotta formano un immenso crescendo nella drammaturgia
“acustico–visiva” (Battistelli), conducendo inesorabilmente verso la
tragica conclusione. Infine l’ultima scena, la IX. La fuga a Alta
Plana, gioca il ruolo di Post scriptum o Coda di questo teatro
musicale della memoria che sposa la strategia formale del sinfonismo. Il racconto visionario di Jünger che descrive il deplorevole
declino di una grande civiltà e l’ascesa irresistibile di un mondo di
orrori senza limite, personificato dall’Oberföster, doppio di Hitler,
propone la distanziazione oggettivante in conformità ai precetti di
Jünger di “non partecipazione alla bassezza” (“Nichtbeteiligung am
54
Niedrigen”).48 Le “visioni musicali” molteplici di Battistelli, con la
loro azione diretta sulla sensibilità dello spettatore, superano necessariamente la distanza: esse non sono da osservare come paesaggi
lontani ma da vivere in maniera intensa sul proprio corpo, cosa che
spinge a rimetterle in questo e alla presa di posizione.
The Embalmer (L’imbalsamatore) (2001–2002), “monodramma
giocoso da camera” su testo di Renzo Rosso per attore e gruppo
strumentale con live electronics rinnova le ricerche dei monologhi
Aphrodita, Ascolto di Rembrandt, Frau Frankenstein, amplificando
“la risonanza” strumentale del testo con i mezzi dell’elettronica dal
vivo. La storia grottesca dell’imbalsamatore, Alexei Miskin, obbligato a sostituirsi al cadavere di Vladimir Ili_ nel celebre mausoleo
della Piazza Rossa, ricorda la densità dei monologhi degli atti unici
di Strindberg (ricordiamo, per esempio, il suo monologo estremamente conciso La più forte), ma anche tutta la tradizione classica
russa da Gogol’ a Šostakovič cimentandosi con il grottesco letterario o musicale (ricordiamo l’opera Il naso di Šostakovič o anche il
graffiante Dittatore di Chaplin). Tutte le inflessioni, tutti i
rumori–suoni della voce parlata sono integrati nel contesto strumentale fino alla massima intensità dell’espressione. Perché “paradossalmente – afferma Battistelli – io credo che un musicista di oggi
debba mettere in parallelo il pensiero di John Cage sul rumore (e
quindi sul silenzio) e quello di Šostakovič rivolto verso l’intensità
dell’espressione”.49
Ossessionato dal personaggio del tiranno (si pensi a Auf der
Marmorklippen o a L’imbalsamatore) e alla ricerca di un soggetto
di risonanza sociale nelle condizioni attuali, Battistelli trova nel
celebre romanzo di Gabriel Garcia Marquez la trama necessaria
per la sua opera omonima con libretto di G. Kuppel in sei scene
El otono del patriarca (2003). Il personaggio principale del tiranno non ha riferimenti politici precisi, è il simbolo di una condizione umana e sociale che non è necessariamente legata alla storia
dei paesi dell’America Latina. L’opera di Battistelli cerca così di
trasmettere il carattere fortemente simbolico, ermetico e soprattutto surrealista e grottesco – attraverso la presenza di “doppi”, del
soprano in orchestra, della voce dei ricordi, ecc. – del pensiero di
Garcia Marquez. “El otono del patriarca è la parabola della mia
tecnica di scrittura, il sigillo di un linguaggio che mi ha portato
48 S.H. Schwik, Nachwort in E. Jünger - Auf den Marmorklippen, Ullstein, Berlin, 1998, S. 144.
49 G. Battistelli, “Au pays de la Magie…”, in Impressions d’Afrique,
Programma dell’Opéra du Rhin, Strasbourg, 2001, p. 14.
55
Monumento al Papa Clemente VIII.
Statua di Beatrice Cenci scolpita da Harriet Hosmer (University of Missouri,
St. Louis).
56
ad adottare, anche in questo caso, i più diversi stili” (Battistelli). 50 L’opera può essere definita in qualche modo come psicodramma musicale complesso e mette in evidenza l’immensità delle
forze distruttrici che stanno dentro il tiranno ma che non sono del
tutto estranee ai lati oscuri della psiche di ciascuno. Le sei parti
formano delle “stazioni” musicali e sceniche, dai componenti formali individualizzati sottoposti alla corrente direzionale del pensiero sinfonico.
La ricerca di una sinfonizzazione dell’opera è ancora più esplicita in Richard III (2004), “dramma per musica” in due atti su
libretto di I. Burton dalla tragedia storica di Shakespeare. Sono
effettivamente la densità e la complessità estreme del tessuto sinfonico, così come la ricchezza delle parti vocali modellate secondo
gli intensi movimenti degli affetti, che fanno di questo “dramma
per musica” di Battistelli la sua opera più tragica, la più densa e la
più crudele, in conformità con la cupa tragedia di Shakespeare e
con la concezione di un teatro della crudeltà musicale ispirato ad
Artaud e realizzata con i molteplici mezzi di un compositore di
oggigiorno. E se il mostruoso tiranno Cenci è un ruolo parlato, il
personaggio di Riccardo III è un cantante, un baritono, la cui parte
utilizza tutto il ventaglio delle espressioni vocali per esprimere nei
minimi dettagli i movimenti dell’anima dell’esemplare criminale. La
scalata dei suoi orribili crimini esige precisamente il massimo
aumento della tensione che i mezzi della composizione sinfonica
rendono possibile così come una presenza scenica shakespeariana
dell’attore diventato anche cantante. La stessa denominazione
“dramma per musica” insiste sull’aspetto teatrale della musica: il
dramma è al servizio della musica. È la musica con il suo impatto
sinfonico, immensa cassa di risonanza, intorno e con testo che ci
sommerge per farci veramente sentire corporalmente la mostruosità
della forza distruttrice del male.
***
Il percorso delle opere per il teatro musicale di Battistelli –
dalla commedia dell’arte di Pulcinella al “dramma per musica”
shakespeariano Richard III – permette di constatare la reinvenzione
– ogni volta in maniera diversa – del nuovo genere del “teatro di
musica” integrando le nuove tecnologie (del live electronics, della
spazializzazione, dell’immagine). “Teatro acustico”, “musica immaginistica”, “romanzo di costumi antichi”, “monodramma”, “fantasia
50 G. Battistelli, El Otono del patriarca, foglio promozionale, BMG
Ricordi, Milano.
57
da camera”, “opera da camera”, “balletto di fine secolo”, “parabola
in musica”, “scene musicali”, “opera”, “dramma per musica”, i sottotitoli degli spettacoli musicali di Battistelli esplorano “a 360
gradi” tutte le possibilità di utilizzazione della voce e degli strumenti e tutte le possibilità della drammaturgia musicale-scenica,
andando dalla narratività relativamente convenzionale alla soppressione totale della teleleogia lineare, al progresso del “teatro-globo”.
Effettivamente per Battistelli la musica si definisce sempre in uno
spazio teatrale aperto adatto ad accogliere una moltitudine infinita
di materiali e di suggestioni disparati per inventare ogni volta un
nuovo utensile di comunicazione musico-teatrale piuttosto inedito
nella sua maniera di cortocircuitare le forme teatrali e musicali stabilite. Fedele alla sua profonda convinzione di una reale possibilità
di interazione di strategie teoricamente opposte – tradizionale/di
avanguardia, narrativa / non narrativa, sinfonica / teatrale, semplicità / complessità, purezza / impurità stilistica, ecc. Battistelli
inventa sempre di nuovo “viaggi straordinari” proponendo all’ascoltatore-spettatore numerose istanze di identificazione. Un po’ nella
linea di Henze, Berio e Ligeti,51 Battistelli difende l’impurità del
linguaggio e la molteplicità degli stili: “Sono affascinato dalla
impurità, non dalla purezza di uno stile. Perché credo che il linguaggio oggi sia qualcosa di impuro. Si ha bisogno di questa
sovrapposizione di segni, di questa sovrapposizione di contenuti,
che possono essere letti in modi differenti” (Battistelli).52
Ad un attento ascolto delle esperienze umane – dalla più obiettiva, esposta in piena luce nell’esercizio di un mestiere (Experimentum mundi, Prova d’orchestra) alla più soggettiva che si gioca nell’ossessivo e oscuro mondo della psiche (Frau Frankenstein, I
Cenci) o in relazione all’altro (Teorema, Richard III), le opere di
Battistelli ci trasportano nel reale dei viaggi straordinari nel suono –
immagine – testo – comportamento gestuale. I suoi “teatri della
memoria” in cui lo spazio musicale-scenico esprime il lavoro
dell’“orecchio in quanto organo della comprensione e dell’intelligenza” (Battistelli), 53 sollecitano generosamente – attraverso la loro
51 Ricordiamo che Henze difende da sempre, ispirandosi a Pablo Neruda, “la musica impura”; Ligeti preferisce “il gusto contaminato alla purezza
delle strutture. Quanto a Berio, la maggior parte delle sue opere sono la
dimostrazione della molteplicità stilistica sempre “impura”.
52 Citato da W. Gruhn. Cfr. W. Gruhn, “Wie aber ist es, wenn wir die
Stille messen?”, nel programma del Bremmer Theater Die Entdeckung der
Langsamkeit, Bremen, 1997, p. 15.
53 G. Battistelli, “Théâtre de la mémoire”, in Ascolto di Rembrandt,
XLIII Premio Italia, RAI, 1991.
58
distillazione sintetica e globalizzante di stili e riferimenti culturali –
tutte le nostre capacità di sensibilità e di intelletto e, perciò, si aprono a interpretazioni senza limite (ricordiamo Globe-Theatre, Begleitmusik). Amante da sempre di Shakespeare – anche per la sua capacità fenomenale di pensare all’attore e allo spettatore con le loro
interpretazioni divergenti – Battistelli cerca di costruire il suo ascoltatore modello,54 di cultura mista, “creola” (Battistelli). E se per lui
scrivere un’opera destinata alla scena è effettivamente un “affare di
cosmologia”,55 di costruzione di un mondo, la sua attitudine di compositore a porsi di fronte all’ascoltatore – il suo rapporto non simmetrico all’altro – è anche ricerca costruttrice. Perché comporre è
anche far vedere e capire al di là della parola e della voce cantata; è
costruire esperienze di trasformazione per noi partecipanti-spettatori;
inventare stratagemmi non per annetterci e sottometterci ma per sollecitare il nostro immaginario dentro di noi. Al suo spettatore
modello, invitato alla ricerca di una risposta individuale, secondo i
precetti di Fellini, Battistelli propone di vedere-capire una moltitudine di esperienze “come paesaggio” (E. Bloch): paesaggio paragonabile a quello della terra vista dalla luna (Keplers Traum), o a quello
della psiche nera presente in ciascuno (I Cenci, Richard III), o ancora a quello della vita sociale e della psicologia dell’orchestra viste
da Fellini e riviste da Battistelli. Tutto questo per permettere all’ascoltatore-modello di uscire dall’oscurità del suo presente, di rivelarsi a se stesso e di trovare la propria dimensione autentica. Perché le
musiche-teatri di Battistelli sono sempre a “mille piani”: i livelli si
incrociano, si embricano, si parassitano, si nutrono gli uni degli altri,
comunicando fra di loro con una serie di passerelle e facendo oscillare l’opera e lo spettatore da un’epoca all’altra, da un luogo a un
altro. Alla posizione regale del “Re in ascolto” e alla seria attitudine
della “tragedia dell’ascolto”56 la musica teatro di Battistelli oppone
uno stato d’animo giovanile e vitalistico, vivo e allegro, che accompagna l’ascolto positivo, curioso, esploratore dei “viaggi straordinari”. Invitandoci a decifrare l’universo dei suoi racconti-finzione
ancorati saldamente alla materialità e alla drammaturgia del suono,
Battistelli apre il nostro ascolto a “tutte le forme di polisemia, di
sopradeterminazioni, di sovrapposizioni”.57 Perché egli è incontesta-
54 Cfr. U. Eco, “Construire le lecteur”, in Apostille au Nom de la rose,
Grasset, Paris, 1985, p. 54-62.
55 Ibid., p. 26.
56 Ricordiamo l’”azione musicale in due parti” Un Re in ascolto (197983) di L. Berio e Prometeo / Tragedia dell’ascolto di L. Nono.
57 Cfr. R. Barthes, “Ecoute”, in L’obvie et l’obtus, Seuil, Paris, 1982,
p. 229.
59
bilmente un visionario e un sognatore nella musica-teatro. Ci invita
a riconsiderare l’opera, il teatro musicale, la musica in generale, per
scoprirli ciascuna volta come una nuova terra, come una specie di
“Eldorado dell’immaginazione”,58 sollecitando ciascuno – interprete
o ascoltatore-spettatore – a fare qualcosa con la propria immaginazione, con la propria fantasia. La sua musica-teatro in ascolto dell’esperienza della vita ci trasporta generosamente nei viaggi straordinari
lontani nello spazio e del tempo, nei viaggi che esplorano la società
in cui viviamo, ma anche nei viaggi sconvolgenti “all’interno di noi
stessi”: una prova iniziatica per l’immaginazione dalla quale si ritorna sempre eroe del proprio immaginario.
Alla lettura ascolto della musica-teatro di Battistelli, l’ascoltatore, musicista o no, resta affascinato dalla ricchezza sempre vitalizzante dei suoi viaggi immaginari. Perché egli sa giocare magistralmente – come il Magister ludi di Experimentum mundi – con la
tradizione operistica, con i materiali divergenti, con i riferimenti
culturali, con gli universi stilistici di ogni natura. Con la gioia ludica e contagiosa del bambino curioso che si meraviglia sempre alla
scoperta di mondi nuovi. Con l’allegria intelligente e seduttrice del
grande artista che sa sempre stupirsi e stupire gli altri proponendo
generosamente un’esperienza estetica unica: “una sorta di creazione
totale dove all’uomo non resta che riprendere il suo posto fra il
sogno e gli avvenimenti”.59
(Traduzione dal francese di Guido Burchi)
58 G. Battistelli a propostito di Impressions d’Afrique di R. Roussel, in
Impressions d’Afrique, Programma dell’Opéra du Rhin, Strasbourg, 2001,
p.15.
59 A. Artaud, “Le théâtre de la cruauté (Premier manifeste) “, in
Œuvres complètes, vol. IV, p. 90.
60
Bozzetto di Jean-Pierre Vergier per il costume di Lucrétia.
61
“ICI ON ENTERRE LA PATERNITÉ”*
GEORGES LAVAUDANT
es Cenci, così come Artaud li ha lasciati scritti, non sono che
una traccia. Quella di un progetto che rimase in cartellone per
sole 17 rappresentazioni. Dell’opera stessa come Artaud l’aveva sognata proprio per il palcoscenico, con le scene di Balthus,
noi non possiamo farcene che una pallida idea. Quindi Giorgio Battistelli ha usato il testo di Artaud come ha voluto, cioè come un
materiale. La trama è semplificata; la parola, rarefatta. E la linea
generale appare tanto più nettamente: è quella di una marcia verso
il nulla che è anche quella di una corruzione – quella della crudeltà
per cui si usa la vita per estirpare le proprie radici.
Artaud aveva sottotitolato il suo dramma “il crepuscolo della
famiglia”. Il vecchio Cenci ha infatti scelto lo spazio famigliare
come teatro delle sue spaventose operazioni. A questo spazio, ciò
che si chiama la cerchia della famiglia, Cenci ha deciso di imprimere un doppio movimento di distruzione che è contraddittorio solo
in apparenza. Della cerchia famigliare Cenci fa un nodo, stretto con
tale intensità che esso diventa quasi un buco nero; mentre tutto in
lui impone una chiusura assoluta, lo apre da un altro lato a un
impensabile Difuori.
Cenci, in effetti, rinchiude la famiglia su di sé, la taglia fuori
dal resto del mondo in virtù dell’“autorità naturale di un padre”,
garantita dal potere di quell’altro Padre che è il Papa. Il pater familias si appoggia qui sulla legge per trattenere i suoi parenti nell’ambito di uno spazio sempre più stretto e per così dire strozzato,
attorno al quale egli si aggira come un predatore. Ma Cenci non è
un semplice sequestratore perverso che si accontenti di tenere le
sue vittime sotto chiave a sua disposizione mentre egli circola liberamente di fuori. Lui stesso è membro di questa famiglia di cui
prepara il crepuscolo; la gabbia in cui la tiene prigioniera è anzitutto la sua, si tiene rinchiuso con essa, o piuttosto contro di essa, del
tutto contro di essa. “Scaturisce in questo palazzo” annota Artaud
nei suoi appunti, “qualche cosa di cui il vecchio Cenci è l’anima e
l’esito” (IV, 269). Di fatto, la sola “uscita” che si offre all’evasione
passa attraverso questo centro che è Cenci stesso (“Forategli la
L
* Dal manoscritto de Les Cenci. A. Artaud, Oeuvres Complètes, T. IV,
Paris, Gallimard, 1978, p. 342.
62
testa”, dirà Béatrice agli assassini), il quale si comporta come un
demiurgo o un dio che riassorbirà in sé la propria creazione. Una
specie di Kronos, se si vuole, che divora la sua progenitura per non
cedere il posto a un successore, o più profondamente per sfuggire
al potere del tempo stesso e mantenere lo stato di innocenza anteriore non solo al crimine ma all’idea stessa di legalità (“Per me –
egli dice – non c’è più né avvenire né passato e dunque nessun
possibile pentimento”). È anche notevole che questo divorare la
famiglia non fa secondo Cenci che riprendere e amplificare l’essenza famigliare nella sua verità: “non ci possono essere rapporti
umani fra esseri che non sono nati se non per sostituirsi l’uno
all’altro e che ardono dalla voglia di divorarsi”. Sotto la copertura
della legge, ciò che regna dunque nella casa Cenci è la sospensione
di ogni legge che non sia quella del padrone, la quale spinge all’estremo la legge dell’odio della famiglia stessa. Legge che non si
esita d’altronde a identificare completamente con la volontà autonoma e sovrana del padre Cenci, poiché egli stesso le è sottomesso
come a un potere personale: “obbedisco alla mia legge che non mi
dà le vertigini; e tanto peggio per chi è afferrato e per chi precipita
nell’abisso che io sono divenuto”.
Quali sono dunque le motivazioni di Cenci? Esse sono oscure,
impenetrabili. Disumane. Qui non si tratta di psicologia. Cenci è un
mostro, cioè a dire, secondo l’antico senso latino della parola, un
prodigio, un essere in cui si ritrovano e si affrontano sotto forma
atroce e manifesta forze che restano di solito dissimulate. Si crede
una leggenda. Non è di un semplice fatto diverso che Cenci pretende essere l’autore; i suoi crimini portano più lontano (sempre che il
termine “crimine” sia ancora adatto, poiché il vecchio proclama:
“Io mi considero e sono una forza della natura. Per me non c’è né
vita né morte, né Dio né incesto, né pentimento né crimine”). Il
tessuto sociale è come una rete nella quale Cenci non vuole più
essere preso e che egli vuole metodicamente squarciare, maglia a
maglia, cominciando da quei legami che si possono definire “di
sangue”: una volta ancora “nessun rapporto umano è possibile”. O
se vogliamo, Cenci aspira all’assoluto. Detto in altri termini, a realizzare la condizione di ciò che non è legato a niente, di ciò che si
è staccato da questo nodo alienante che ogni relazione è. Artaud
stesso scriverà in Ci-gît, qualche anno più tardi: “Io, Antonin
Artaud, io sono mio figlio, mio padre, mia madre, e me stesso”
(citato da Jacques Derrida in “La parole soufflée”, L’Ecriture et la
différence, Parigi, Seuil, 1967, p.285; si noterà che Artaud, contrariamente a Cenci, non si dà della figlia).
Uno stato di natura, dunque. Quello di una forza libera e puramente per sé. È così logico che per realizzare questa natura, Cenci
63
se la prende con la famiglia come istituzione sociale. Ed è ancora
più interessante constatare che nello stesso tempo è il carattere
“naturale” dei legami famigliari che è ugualmente contestato. Poiché se Cenci è una “forza della natura” per la quale non esiste
incesto, bisogna allora comprendere che la “natura” così come egli
la intende è selvaggiamente – infinitamente – al di là della natura
“umana” così come la definisce in particolare il tabù dell’incesto e
che questa natura assoluta non può in effetti essere raggiunta e
affermata concretamente se non attraverso la via degli atti “contro
natura”.
La natura esacerbata, assolutamente al di fuori della legge e
del legame, di cui Cenci prepara la venuta ha così bisogno, come
un predatore della propria vittima, della natura nel senso in cui l’intende la società. Ne ha bisogno per distruggerla e conquistare così
la propria realtà. In mancanza di ciò, essa non sarebbe se non vana
pretesa, fanfaronata verbale – o “mito”, nel senso più debole del
termine. Oppure Cenci vuol essere un mito in senso forte: “io stesso, seguendo in questo la malevolenza generale, mi sono messo talvolta a considerare il mito che ero diventato. Io sono pronto a realizzare la mia leggenda”. Questo bisogno di una vittima o di un alimento è come l’ultimo filo che congiunge Cenci al mondo. Che
questo si rompa – ciò che avviene da quando “il peggio è accaduto” –, e il mostro, il suo destino alla fine compiuto, potrà sparire.
Ma importa che sia conservata la memoria di questo destino. Al
criminale leggendario, necessitano ugualmente dei testimoni, che
potranno attestare che ormai il suo mito ha preso bellamente corpo.
Anche il vecchio Cenci, prima di abusare della figlia, deve organizzare un banchetto per annunciare trionfalmente la morte dei suoi
figli. Celebrando questa morte in una sorta di Eucarestia blasfema,
Cenci sottolinea nello stesso tempo il suo orrore della famiglia
come istituzione puramente (cioè troppo) umana, cellula sociale
intrappolata in una rete di scambi (in particolare matrimoniali) e
lascia esplodere davanti ad un pubblico di padri la propria gioia di
non essere più carico di eredi suscettibili di allacciare (come si
dice) delle alleanze con altri lignaggi. Gioia tanto più raggiante in
quanto non è stato lui a farli scannare: questa pena gliela ha risparmiata un altro Padre ancora, Dio stesso, si è fatto suo complice ed
è sembrato dargli ragione. Ma al di là di questo orrore e di questa
gioia, è importante vedere che Cenci è il regista e l’interprete di
una scena che egli recita davanti ai testimoni che egli stesso si è
scelto e conformemente al programma che egli aveva annunciato:
“Ciò che distingue i misfatti della vita da quelli del teatro è che
nella vita si fa di più e si parla di meno, nel teatro si parla molto
per poi fare una piccola cosa. Ebbene, io ristabilirò l’equilibrio e lo
64
ristabilirò a detrimento della vita” (dunque, a beneficio del teatro
come sovra-vita o sovra-natura). Questa scena, che per sua necessità è come l’ultimo legame che egli intrattiene con la necessità, è
anche un gesto di rottura, poiché questi testimoni sono apertamente
sfidati, costretti al silenzio, poi cacciati. Ed è là che l’invito di
Cenci prende tutto il suo senso: i convitati non sono solo chiamati
ad essere testimoni della mostruosità del loro ospite, ma anche
della viltà del proprio silenzio, in quanto essi sono “tutti padri”;
detto altrimenti, essi sono presi a testimoni del fatto che non oseranno mai testimoniare.
Avendo così invitato, poi reinviato la società alla propria ipocrisia, Cenci può infine predisporsi ad uscire del tutto dalla condizione umana per una doppia trasgressione di cui egli è attore (l’incesto), poi preda passiva (il parricidio) e l’autore-materiale. Che
mondo è dunque quello in cui il Papa protegge un Cenci e in cui
“Dio” stesso previene le sue promesse dando corpo alle proprie
intenzioni? Senza dubbio quello che Artaud voleva lasciare intravvedere al suo pubblico: uno scatenarsi convulso di intensità entro
cui si allontanano e si dissolvono tutte le maschere dell’umano – il
grande Difuori, il grande Pericolo che è il regno della Crudeltà e
che non è a nostra immagine; un “mondo”, come lo definisce Béatrice andando al supplizio, che “ha sempre vissuto sotto il segno
dell’ingiustizia”. C’è da credere ad Artaud quando scrive “tutto ciò
che è nell’amore, nel crimine, nella guerra, o nella follia, bisogna
che il teatro ce lo renda, se vuole ritrovare la sua necessità. […] È
perché, di fronte a personaggi famosi, a crimini atroci, ad abnegazioni sovrumane, noi cercheremo di concentrare uno spettacolo che,
senza ricorrere alle immagini sfuocate dei vecchi Miti, si rivela
capace di estrarre le forze che si agitano in essi. In una parola, noi
crediamo che ci siano, in ciò che definiamo poesia, delle forze vive
e che l’immagine di un crimine presentato nelle vesti teatrali necessarie è per lo spirito qualche cosa di infinitamente più temibile di
quello stesso crimine compiuto” (“Le Théâtre et la cruauté”, in Le
Théâtre et son double, IV, 83).
Queste “forze vive” sono probabilmente ciò che ha spinto Battistelli a comporre la sua opera, concentrando la loro intensità nella
grana stessa delle voci, trattate qui in maniera così particolare. Poiché per un ultimo paradosso, la violenza e l’oscenità della favola
dei Cenci non è mai stata mostrata come tale da Artaud, per il
quale la scena non è che l’“immagine” di atti assenti e come censurati. Dopo tutto, anche visibili, essi non farebbero d’altronde che
prendere il posto delle “forze” irrappresentabili. È così attraverso la
parola e la musica, in esse, negli spazi interiori scavati da Battistelli, che tutto avanza e che le “forze” latenti fanno sentire il loro
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passaggio – deformanti, inquietanti, disumane, sconvolgenti i rapporti del vicino e del lontano, dell’immenso e dell’intimo. Ma queste “forze” il pubblico parigino del 1935 non poté o non volle captarle. In fondo, il padre Cenci, a causa del suo crimine, alla fine
non si sarà assicurato nessuna altra posterità diretta che quella di
sua figlia (ma cos’altro si sarebbe potuto augurare?). Béatrice – la
sua vittima, ma anche un po’, per un ultimo eccesso di orrore, la
sua simile. Come Edipo incestuoso e parricida, come Antigone
implacabile e degna figlia di suo padre, andando al supplizio nel
fiore della gioventù in un mondo che “arde, incerto tra il male e il
bene”. Béatrice che, facendo piantare un chiodo nel cranio del vecchio Cenci, contribuì alla sua opera portando a termine “il crepuscolo della famiglia” e che morì temendo “che la morte non mi
insegni che ho finito per rassomigliargli”.
(Traduzione dal francese di Guido Burchi)
Georges Lavaudant.
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La chiesa di San Pietro in Montorio nella cartina di Roma incisa da
Giuseppe Vasi del 1765.
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ARGOMENTO
A Roma nel settembre 1598, Francesco Cenci viene assassinato.
Dopo le indagini e la confessione di un complice, nel gennaio 1599
sono arrestati come mandanti la giovane figlia Beatrice, due fratelli
di lei e la seconda moglie del Cenci. Nonostante l’omicidio, gli
accusati riscuotevano la benevolenza dei cittadini, in quanto tutti i
romani conoscevano la malvagità e la crudele violenza dell’assassinato. I suoi familiari erano stati da lui vessati con ogni sorta di cattiverie (prigionia, fame, percosse, violenza carnale). Tutti erano
d’accordo che Francesco Cenci aveva avuto ciò che si meritava.
Dopo la cattura e lunghe torture, i colpevoli vengono processati e
condannati a morte dal Papa Clemente VIII. Il giorno 11 settembre
1599, nella Piazza di Ponte Sant’Angelo a Roma, l’esecuzione ebbe
luogo di fronte ad una folla enorme. Il supplizio fu dei più terribili.
Tuttavia il cadavere di Beatrice, ricoperto di rose bianche, fu trasportato in processione notturna nella Chiesa di San Pietro in Montorio sul Gianicolo e venne sepolto sotto l’altare con la testa posata
su un vassoio d’argento.
Guido Reni, Beatrice Cenci (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica in
Palazzo Barberini. Archivio Fotografico Soprintendenza Speciale Polo
Museale Romano).
Il Ponte Sant’Angelo.
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TESTO
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SCÈNE 1
Monologue de Cenci.
Cenci
Peuh... un meurtre n’est pas une affaire. Pour qui dispose de la vie
des âmes, qu’est-ce après tout que la perte d’un corps? “Donnez au
pape votre terre située au-delà du Pincio et il passe l’éponge sur
vos péchés”, me disent-ils. Peste! le tiers de mes possessions! pour
lui, et puis, la guerre!
Oui, je me vois fort bien faisant la guerre à la papauté. Ce pape est
trop ami des richesses. Et de nos jours il est trop facile pour un
puissant de la terre de couvrir ses crimes avec ses deniers. Pour
moi il n’y a plus ni avenir ni passé, et donc aucun repentir possible. Je ne m’occupe plus que de bien raffiner sur mes crimes. Un
beau chef-d’œuvre noir, c’est le seul héritage qu’il importe encore
de laisser. Je serais un enfant, en effet, si l’on ne pouvait croire
que je suis un vrai monstre; car tous les crimes que j’imagine, tu
sais que je peux les réaliser. Car moi, le vieux comte Cenci, encore
solide dans sa mince carcasse, il m’arrive plus d’une fois en rêve
de m’identifier avec le destin. C’est là l’explication de mes vices,
et de cette pente naturelle de haine où mes proches sont ceux qui
me gênent le plus. Je me crois, et je suis, une force de la nature.
Pour moi, il n’y a ni vie, ni mort, ni dieu, ni inceste, ni repentir, ni
crime. J’obéis à ma loi qui ne me donne pas le vertige; et tant pis
pour qui est happé et qui sombre dans le gouffre que je suis devenu. Je cherche et je fais le mal par destination et par principe. Je
ne saurais résister aux forces qui brûlent de se ruer en moi. Ce qui
distingue les forfaits de la vie de ceux du théâtre, c’est que dans la
vie on fait plus et on dit moins, et qu’au théâtre on parle beaucoup
pour faire une toute petite chose. Eh bien, moi, je rétablirai l’équilibre et je le rétablirai au détriment de la vie. J’élaguerai dans mon
abondante famille. Deux fils là-bas, une femme ici. Quant à ma
fille, oui, je l’élague aussi, mais par d’autres voies! Le mal après
tout ne va pas sans jouissance. Je torturerai l’âme en profitant du
corps, ce soir à minuit. Et quand ce sera fait autant qu’homme
vivant peut le faire, qu’on vienne accuser mon cabotinage et mon
goût du théâtre si on le peut. Je veux dire, si on l’ose. Air, je te
confie mes pensées.
SCÈNE 2
Béatrice et Orsino au clair de lune.
Béatrice
C’était ici, la même lune que ce soir dévalait les pentes du Pincio.
Vous vous souvenez du lieu où nous eûmes notre première conversation?
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SCENA PRIMA
Monologo di Cenci
Cenci
Puah… un omicidio non è una gran cosa. Per chi dispone della vita
delle anime, che cos’è dopo tutto la perdita di un corpo? “Date al
Papa il vostro terreno al di là del Pincio ed egli darà un colpo di
spugna sui vostri peccati”, mi dissero. Maledizione! Un terzo delle
mie proprietà! Per lui, e poi la guerra!
Sì, mi vedo benissimo a fare la guerra al papato. Questo Papa è
troppo amico delle ricchezze. E ai nostri giorni è troppo facile per
un potente della terra coprire i suoi crimini con il denaro. Per me
non c’è più né avvenire né passato e quindi nessun pentimento possibile. Non mi preoccupo d’altro se non di raffinare i miei crimini.
Un bel capolavoro nero, questa è la sola eredità che mi importa
ancora di lasciare. Sarei un bambino, infatti, se non si potesse credere che sono un vero mostro poiché; tutti i crimini che immagino,
tu sai che io posso realizzarli. Io, il vecchio Conte Cenci, ancora
saldo sulla mia esile carcassa, sogno più di una volta di identificarmi con il destino. Ecco la spiegazione dei miei vizi e di questa
inclinazione naturale all’odio in cui i miei parenti sono quelli che
più mi ostacolano. Io mi considero e sono una forza della natura.
Per me non c’è né vita, né morte, né Dio, né incesto, né pentimento, né crimine. Obbedisco alla mia legge che non mi dà le vertigini; e tanto peggio per chi è afferrato e per chi precipita nell’abisso
che io sono divenuto. Cerco e faccio il male per destino e per principio. Non saprei resistere alle forze che non vedono l’ora di scagliarsi dentro di me. Ciò che distingue i misfatti della vita da quelli
del teatro è che nella vita si fa di più e si parla di meno, nel teatro
si parla molto per poi fare una piccola cosa. Ebbene, io ristabilirò
l’equilibrio e lo ristabilirò a detrimento della vita. Sfronderò la mia
abbondante famiglia. Due figli laggiù, una moglie qui. Quanto a
mia figlia, sì, sfronderò anche lei, ma per altre vie. Il male dopo
tutto non è disgiunto dal godimento. Torturerò l’anima approfittando del corpo, questa sera a mezzanotte. E quando ciò sarà fatto
così come un uomo mortale lo può fare, che qualcuno mi venga ad
accusare del mio esibizionismo se gli riesce. Voglio dire, se l’osa.
Aria, ti confido i miei pensieri.
SCENA SECONDA
Béatrice e Orsino al chiaro di luna
Béatrice
È stato qui, la stessa luna che stasera scendeva per i pendii del Pincio. Vi ricordate del luogo dove noi avemmo la nostra prima conversazione?
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Orsino
Je me rappelle: vous disiez que vous m’aimiez alors.
Béatrice
Vous êtes prêtre, ne me parlez pas d’amour.
Orsino
Qu’importent mes vœux puisque je vous retrouve; il n’y pas d’église qui puisse lutter contre mon propre cœur.
Béatrice
Ce n’est pas l’église ni votre cœur qui nous séparent, Orsino, mais
le destin.
Orsino
Quel destin?
Béatrice
Mon père. Voilà mon mauvais destin.
Orsino
Votre père?
Béatrice
À cause de lui, je ne suis plus faite pour les amours humaines. Mes
amours ne valent que pour la mort.
Orsino
Je vais me battre, Béatrice.
Béatrice
Orsino, il y a quelque chose de plus qu’un homme qui va et vient
dans ces murailles de misère, et me force, moi, à rester. L’amour,
pour moi, n’a plus les vertus de la souffrance. Le devoir est mon
seul amour.
Orsino
L’air est infect ici. Confessez, confessez-vous; il faut un sacrement insigne pour exorciser toutes ces folies.
Béatrice
Il n’y a pas de sacrement pour lutter contre la cruauté qui m’oppresse. Il faut agir. Cette nuit, mon père donne une fête somptueuse, Orsino; il a reçu d’heureuses nouvelles de Salamanque de mes
frères qui sont là-bas; c’est par cette démonstration extérieure
d’amour qu’il se joue de sa haine secrète. Grands dieux, qu’un tel
père puisse être le mien! Tous mes parents les Cenci seront là,
avec toute la haute noblesse de Rome. Il nous a fait dire, à ma
73
Orsino
Me ne ricordo: dicevate che mi amavate allora.
Béatrice
Voi siete un sacerdote, non mi parlate di amore.
Orsino
Che importano i miei voti dal momento che vi ritrovo; non esiste
chiesa che possa lottare contro il mio cuore.
Béatrice
Non è né la chiesa né il vostro cuore che ci separano, Orsino, ma
il destino.
Orsino
Quale destino?
Béatrice
Mio padre. Ecco il mio malvagio destino.
Orsino
Vostro padre?
Béatrice
Per causa sua io non sono più fatta per gli amori umani. I miei
amori non valgono che per la morte.
Orsino
Io vado a battermi, Béatrice.
Béatrice
Orsino, c’è qualche cosa di più di un uomo che va e viene dalle
sue mura di miseria e mi costringe, me, a restare. L’amore, per me,
non ha più le virtù della sofferenza. Il dovere è il mio solo amore.
Orsino
L’aria è infetta qui. Confessate, confessatevi; è necessario un glorioso sacramento per esorcizzare tutte queste pazzie.
Béatrice
Non esiste sacramento per lottare contro la crudeltà che mi opprime. Bisogna agire. Questa notte mio padre dà una festa sontuosa,
Orsino; egli ha ricevuto buone notizie da Salamanca dai miei fratelli che sono laggiù; è con questa dimostrazione di amore esteriore
che si prende gioco del suo odio segreto. Grandi dei, che un tale
padre debba essere il mio! Tutti i miei parenti della famiglia Cenci
saranno là, con tutta la grande nobiltà di Roma. Ci ha fatto dire, a
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mère et à moi, de nous parer de nos plus beaux atours de fête.
Pauvre dame! Elle attend de là quelque heureux soulagement à ses
sombres pensées; moi, rien.
Orsino
Béatrice!
Béatrice
À souper, nous reparlerons de mon cœur, jusque-là, adieu.
SCÈNE 3
Cenci, Béatrice et Lucrétia. Le banquet.
Cenci
Mes chers amis, la solitude est mauvaise conseillère. Trop longtemps, j’ai vécu loin de vous. Plus d’un, je le sais, m’a cru mort;
et je dirai même s’est réjoui de ma mort, moi-même, suivant en
cela la malveillance générale, je me suis pris parfois à considérer le
mythe que j’étais devenu. Je suis prêt à réaliser ma légende. Voyez,
tâtez ces os et dites-moi s’ils sont faits pour vivre de silence et de
recueillement. Dieu m’a surabondamment exaucé. Tenez, Béatrice,
lisez ces lettres à votre mère. Et que l’on dise après cela que le ciel
n’est pas avec moi. (Béatrice hésite) Tiens, prends, et regarde ce
que j’ai fait pour tes frères. (L’œil provocant du vieux Cenci fait
lentement le tour de la salle) Eh bien quoi, vous refusez de comprendre: mes fils désobéissants et rebelles sont morts. Morts, dissipés, finis, vous entendez?
Béatrice
Ce n’est pas vrai. Ouvrez les yeux, petite mère. Menteur... On ne
brave pas impunément la justice de Dieu. (Lucrétia s’affale dans
les bras de Béatrice et on l’emporte)
Cenci
Le premier est mort emplâtré sous les décombres d’une église. Ah!
L’autre a péri de la main d’un jaloux; pendant que leur rival à tous
deux faisait l’amour avec leur belle. Venez donc me dire après cela
que la providence n’est pas avec moi. Je bois à la perdition de ma
famille. S’il y a un dieu, que la malédiction efficace d’un père les
arrache tous du trône de Dieu. (Béatrice revient)
Béatrice
Par grâce, ne vous en allez pas, nobles hôtes. Vous êtes pères. Ne
nous laissez pas avec cette bête sauvage, ou je ne pourrai plus voir
une tête blanche sans éprouver le désir de blasphémer la paternité.
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mia madre e a me, di adornarci per la festa con i nostri abiti più
sfarzosi. Povera donna! Essa attende di là qualche felice sollievo ai
suoi cupi pensieri; io, niente.
Orsino
Béatrice!
Béatrice
A cena riparleremo del mio cuore; fino ad allora addio.
SCENA TERZA
Cenci, Béatrice e Lucrétia. Il banchetto.
Cenci
Miei cari amici, la solitudine è una cattiva consigliera. Troppo a
lungo ho vissuto lontano da voi. Più di uno, lo so, mi ha creduto
morto; e dirò anche che si è rallegrato della mia morte; io stesso,
seguendo in questo la malevolenza generale, mi sono ritrovato talvolta a considerare il mito che ero diventato. Io sono pronto a realizzare la mia leggenda. Guardate, tastate queste ossa e ditemi se
sono fatte per vivere di silenzio e di raccoglimento. Dio mi ha esaudito in sovrabbondanza. Tenete, Béatrice, leggete queste lettere a
vostra madre. E che non si dica dopo che il cielo non è con me.
(Béatrice esita) Tieni, prendi, e guarda cosa ho fatto per i tuoi fratelli. (Lo sguardo provocante del vecchio Cenci fa lentamente il giro
della stanza) Ebbene, che fate, vi rifiutate di comprendere; i miei
figli disobbedienti e ribelli sono morti. Morti, distrutti, finiti, capite?
Béatrice
Non è vero. Aprite gli occhi, cara madre. Bugiardo... Non si sfida
impunemente la giustizia di Dio. (Lucrétia si lascia cadere fra le
braccia di Béatrice e viene portata via)
Cenci
Il primo è morto sfracellato sotto le macerie di una chiesa. Ah!
L’altro è perito per mano di un geloso, mentre il loro rivale faceva
l’amore con le loro belle. Venitemi ora a dire, dopo questo, che la
provvidenza non è con me. Io bevo alla perdizione della mia famiglia. Se c’è un dio, che la maledizione efficace di un padre li strappi tutti dal trono di Dio. (Béatrice ritorna)
Béatrice
Per gentilezza, non ve ne andate, nobili ospiti. Voi siete padri. Non ci
lasciate con questa bestia selvaggia, altrimenti non potrò più vedere
una testa canuta senza provare il desiderio di bestemmiare la paternità.
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Cenci
Elle dit vrai: vous êtes tous pères. C’est pourquoi je vous conseille
de songer aux vôtres, avant d’ouvrir la bouche sur ce qui vient de
se passer ici. Maintenant, dehors tout le monde, je veux rester seul
avec celle-ci.
SCÈNE 4
Béatrice et Cenci sont seuls.
Cenci (agité)
Béatrice.
Béatrice (émue)
Mon père. Retire-toi de moi homme impie. Je n’oublierai jamais
que tu fus mon père, mais disparais. À ce prix, je pourrai peut-être
te pardonner.
Cenci
Ton père a soif, Béatrice. Ne donneras-tu pas à boire à ton père?
(Béatrice lui remplit un grand verre de vin. Il touche ses cheveux.
Béatrice réagit violemment) Ah! Vipère, je connais un charme qui
te rendra douce et apprivoisée.
(Affolée, Béatrice s’en va) Laisse. Laisse; le charme opère. Désormais elle ne peut m’échapper.
SCÈNE 5
Béatrice et Lucrétia. Un lit.
Béatrice
C’est lui. J’entends son pas sur l’escalier. N’est-ce pas sa main sur
la porte? Depuis hier, je le sens partout. Oh! ce pas qui remplit les
murailles. Son pas. Aide-nous, mère. Je suis lasse enfin de lutter.
Sa face épouvantable s’éclaire. Je dois le haïr mais... son image
vivante est en moi comme un crime que je porterais. (Tout d’un
coup, elle se met à pleurer) J’aime mieux mourir que de lui céder.
Lucrétia
Lui céder?
Béatrice
La monstruosité qui mûrit en lui.
Lucrétia
Mais enfin qu’a-t-il pu oser?
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Cenci
Essa dice il vero: voi siete tutti padri. Per questo vi consiglio di
pensare bene ai vostri figli prima di aprire la bocca su ciò che sta
succedendo qui. Ora, fuori tutti; voglio restare solo con lei.
SCENA QUARTA
Béatrice e Cenci sono soli.
Cenci (agitato)
Béatrice.
Béatrice (turbata)
Padre mio. Allontanati da me uomo empio. Non dimenticherò mai
che tu sei stato mio padre, ma scompari. A questo prezzo forse
potrò perdonarti.
Cenci
Tuo padre ha sete, Béatrice. Non darai tu da bere a tuo padre?
(Béatrice gli riempie un grande bicchiere di vino. Egli le tocca i
capelli. Béatrice reagisce violentemente) Ah! Vipera, conosco un
incantesimo che ti renderà dolce e mansueta. (Sconvolta, Béatrice
se ne va) Lascia. Lascia pure che l’incantesimo operi. Ormai essa
non può più sfuggirmi.
SCENA QUINTA
Béatrice e Lucrétia. Un letto.
Béatrice
È lui. Sento i suoi passi sulla scala. Non è la sua mano sulla porta?
Da ieri, lo sento dappertutto. Oh! I suoi passi che riempiono le
mura. I suoi passi. Aiutaci, madre. Sono ormai stanca di lottare. La
sua faccia spaventosa appare. Io lo devo odiare ma… la sua immagine vivente è in me come un crimine che io debba portare. (D’un
tratto si mette a piangere) Preferisco morire che cedergli.
Lucrétia
Cedergli?
Béatrice
La mostruosità che matura in lui.
Lucrétia
Ma infine che cosa ha potuto osare?
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Béatrice
Est-il une chose qu’il ne puisse oser? Tout ce que j’ai supporté
n’est rien à côté de ce qu’il s’apprête à me faire. Et tu sais que je
n’ai pas protesté mais maintenant... maintenant... (Cenci entre. Il
aperçoit Béatrice)
Cenci (comme en prenant une décision)
Ah! ah! (Béatrice s’accroupit) Vous pouvez rester, Béatrice. La
nuit dernière, vous osiez me regarder en face. (Béatrice tente de
s’esquiver) Eh bien! (La prenant) Qu’est-ce-que vous attendez?
Lucrétia
Par grâce!
Cenci
Vous m’avez trop bien pénétré pour que je puisse encore avoir
honte de ce que je pense.
Lucrétia
Par grâce, mon cher époux, elle défaille. Non! ne la torturez pas.
Cenci
À ta place, la vieille. Ta vue me rappelle certaines amours sordides
qui ont gâché mes plus belles années. Je hais les femmes comme
vous. (Béatrice s’en va)
SCÈNE 6
Cenci et Lucrétia
Lucrétia
Vous souffrez?
Cenci
Oui, la famille, voilà où je suis blessé.
Lucrétia (Avec compassion)
Hélas! Chacune de vos paroles nouvelles est comme un coup que
vous nous portez.
Cenci
Et après! c’est la famille qui a tout vicié.
Lucrétia
Après? seule la famille t’aura permis de donner la mesure de ta
cruauté! sans la famille, qu’est-ce-que tu serais?
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Béatrice
C’è una cosa che egli non possa osare? Tutto ciò che io ho sopportato non è niente in confronto a ciò che si appresta a farmi. E tu
sai che io non ho protestato ma ora… ora (Entra Cenci. Scorge
Béatrice)
Cenci (come prendendo una decisione)
Ah! ah! (Béatrice si accovaccia) Voi potete restare, Béatrice. L’ultima notte avete osato guardarmi in faccia (Béatrice tenta di sfuggire) Eh, bene! (Prendendola) Cos’è che vi aspettate?
Lucrétia
Per misericordia!
Cenci
Voi avete penetrato troppo bene i miei pensieri perché io possa
ancora avere vergogna di ciò che penso.
Lucrétia
Per misericordia, mio caro sposo, essa viene meno. No! Non la torturate!
Cenci
Sta’ al tuo posto, vecchia. La tua vista mi ricorda certi sordidi
amori che hanno rovinato i miei anni più belli. Odio le donne come
voi. (Béatrice esce)
SCENA SESTA
Cenci e Lucrétia
Lucrétia
Soffrite?
Cenci
Sì, la famiglia, ecco dove mi fa male.
Lucrétia (con compassione)
Ahimè! Ogni vostra nuova parola è come un colpo che ci date.
Cenci
E con questo! È la famiglia che ha reso tutto viziato.
Lucrétia
E poi? Soltanto la famiglia ti avrà permesso di dare la misura della
tua crudeltà! Senza la famiglia, cosa saresti?
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Cenci
Pas de rapports humains possibles entre des êtres qui ne sont nés
que pour se substituer l’un à l’autre et qui brûlent de se dévorer.
Lucrétia
Mon dieu!
Cenci
Au diable ton dieu!
Lucrétia
Mais avec des paroles pareilles, il n’y a plus de société.
Cenci
La famille à qui je commande et que j’ai faite est ma seule société.
La tyrannie est la seule arme qui me reste pour lutter contre la
guerre que vous tramez.
Lucrétia
Il n’y a de guerre que dans ta tête, Cenci.
Cenci
Menteuse!
Lucrétia
J’étouffe.
Cenci
Ne vous en prenez qu’à vous-même de l’atmosphère que vous respirez. Seule votre imagination sacrilège a créé l’atmosphère dont
vous souffrez. (Lucrétia s’en va)
SCÈNE 7
Monologue de Cenci.
Cenci (calme et méditatif)
Et toi, et toi, et toi, nuit, toi qui grandis tout, entre là avec les
formes démesurées de tous les crimes qu’on imagine. Tu ne
peux me chasser de moi puisque l’acte que je porte est plus
grand que toi.
(Il suit Béatrice pour la violer, entre-temps Lucrétia est seule et se
regarde dans un miroir)
81
Cenci
Non ci possono essere rapporti umani fra esseri che non sono nati
se non per sostituirsi l’uno all’altro e che ardono dalla voglia di
divorarsi.
Lucrétia
Mio Dio!
Cenci
Al diavolo il tuo Dio!
Lucrétia
Ma con parole simili non esiste più la società.
Cenci
La famiglia che io comando e che io ho fatto è la mia sola società.
La tirannia è la sola arma che mi resta per lottare contro la guerra
che voi tramate.
Lucrétia
Non c’è guerra se non nella tua testa, Cenci.
Cenci
Bugiarda!
Lucrétia
Soffoco.
Cenci
Non prendetevela che con voi stessa per l’atmosfera che respirate.
Soltanto la vostra immaginazione sacrilega ha creato l’atmosfera di
cui soffrite. (Lucrétia esce)
SCENA SETTIMA
Monologo di Cenci.
Cenci (calmo et meditativo)
E tu, e tu, e tu, notte, tu che ingrandisci tutto, entra là con le forme
smisurate di tutti i crimini che si possano immaginare. Tu non mi
puoi cacciare da me stesso perché l’azione che compio è più grande di te.
(Egli segue Béatrice per violentarla, mentre Lucrétia resta sola e si
guarda in uno specchio)
82
SCÈNE 8
Lucrétia, le miroir, Béatrice.
Lucrétia
Tais-toi vieille femme! (Béatrice entre. Elle est bouleversée)
Béatrice
Aidez-moi... protégez-moi... quelque peu... Qu’il ne puisse plus
m’approcher...
Lucrétia
Qui?
Béatrice
Mon père!
Lucrétia
Qu’a-t-il fait?... J’ai peur de comprendre!
Béatrice
Il faut vous décider à comprendre que le pire est réalisé.
Lucrétia
Le pire?
Béatrice
Cenci, mon père, m’a polluée. Il m’a prise de force, poussée à
l’enfer, un tourbillon.
Lucrétia (se faisant le signe de la croix)
Mon Dieu! Mon Dieu! Mon Dieu!
Béatrice
Tout est atteint. Tout. Le corps est sale, mais c’est l’âme qui est
polluée. Il n’y a plus une parcelle de moi-même où je puisse me
réfugier. Mon seul crime, c’est d’être née. C’est là qu’éclate la
fatalité. (Elle se jette aux pieds de Lucrétia, comme Marie Madeleine au pied de la croix) Dis-moi, mère, toi qui le sais, si toutes les
familles sont pareilles... car alors je pourrai m’absoudre de l’injustice d’être née.
Lucrétia
Je t’en supplie, Béatrice, souffre: j’essaierai de te consoler. Mais
reviens à toi, je perds pied quand tu déraisonnes. Si tu ne peux rentrer en toi-même, je croirai que nous sommes tous possédés.
83
SCENA OTTAVA
Lucrétia, lo specchio, Béatrice.
Lucrétia
Taci vecchia donna! (Béatrice entra. È sconvolta)
Béatrice
Aiutatemi... proteggetemi... un po’... Che egli non possa più avvicinarsi a me...
Lucrétia
Chi?
Béatrice
Mio padre!
Lucrétia
Che ti ha fatto?... Ho paura di capire!
Béatrice
Dovete decidervi a capire che il peggio è accaduto.
Lucrétia
Il peggio?
Béatrice
Cenci, mio padre, mi ha macchiata. Mi ha preso con la forza, spinta all’inferno, un turbine.
Lucrétia (facendosi il segno della croce)
Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio!
Béatrice
Tutto è colpito. Tutto. Il corpo è sporco, ma è l’anima che è macchiata. Non c’è più una briciola di me stessa dove io mi possa rifugiare. Il mio solo crimine è di essere nata. È là che scatta la fatalità. (Si getta ai piedi di Lucrétia, come Maria Maddalena ai piedi
della croce) Dimmi, madre, tu che lo sai, se tutte le famiglie sono
simili… perché allora mi potrei assolvere dell’ingiustizia di essere
nata.
Lucrétia
Ti supplico, Béatrice, soffri: io proverò a consolarti. Ma ritorna in
te, io mi sento perduta quando tu sragioni. Se non puoi ritornare in
te, io crederò che noi siamo tutte possedute.
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Béatrice
D’étranges confusions de bien et de mal. Quand j’étais petite, il y a
un rêve qui toutes les nuits me revenait. Je suis nue dans une grande chambre et une bête, comme il y en a dans les rêves, n’arrête
pas de respirer. Je veux fuir, dissimulant ma nudité, une porte
s’ouvre... j’ai faim et soif... je ne suis pas seule. Avec la bête qui
respire à côté, combien de bêtes... affamées à mes pieds? Retrouver
la lumière; la lumière va me rassasier. Or la bête qui se colle à
moi me pourchasse de cave en cave. Et la sentant sur moi, je
constate que ma faim n’est pas seule obstinée. Et c’est quand je
sens que mes forces sont sur le point de m’abandonner que chaque
fois, je m’éveille d’un trait. Que ne puis-je croire que j’ai rêvé, et
qu’une porte où l’on va frapper en s’ouvrant viendra me redire
qu’il est temps de me réveiller.
Béatrice et Lucrétia
Laissez les assassins commettre leur crime secret.
SCÈNE 9
Cenci et Lucrétia.
Cenci
Où se cache-t-elle, dis? Où se cache-t-elle? Désir, fureur, amour, je
ne sais pas... mais je brûle. J’ai faim d’elle... Va me la chercher.
(Lucrétia entre avec le vin)
Lucrétia
Assez... assez... assez... de l’air. Assez. Je veux vivre. Nous ne
sommes pas nés pour être suppliciés. Assez...
Cenci
Et moi? Peux-tu me dire pourquoi je suis né?
Lucrétia
Repens-toi. Repens-toi.
(Lucrétia s’en va. Cenci boit un verre de vin)
Cenci
Me repentir? Le repentir est dans la main de dieu. C’est à lui à
regretter mon acte. Pourquoi m’a-t-il rendu père d’un être que tout
m’invite à désirer? Que ceux qui accusent mon crime accusent
d’abord la fatalité. Qui donc peut encore oser nous parler de liberté. Il y a en moi comme un démon désigné pour venger les
offenses d’un monde. Désormais, il n’est pas de destin qui m’empêche d’exécuter ce que j’ai rêvé.
(Cenci disparait dans l’ombre)
85
Béatrice
Strane confusioni di bene e di male. Quando ero piccola, c’era un
sogno che mi ritornava tutte le notti. Io sono nuda in una grande
camera e una bestia, come ce ne sono nei sogni, non smette di
respirare. Voglio fuggire, coprendo la mia nudità, una porta si
apre… ho fame e sete… non sono sola. Con la bestia che respira
accanto, quante bestie… affamate ai miei piedi? Ritrovare la luce;
la luce sta per saziarmi. Dunque, la bestia che si attacca a me mi
dà la caccia di sotterraneo in sotterraneo. E sentendola sopra di me,
mi accorgo che la mia fame non è la sola ad essere ostinata. Ed è
quando sento che le mie forze sono sul punto di abbandonarmi che
tutte le volte mi sveglio di colpo. Che io non possa credere di aver
sognato e che una porta dove si va a bussare aprendosi verrà a
ridirmi che è il momento di risvegliarmi.
Béatrice e Lucrétia
Lasciate che gli assassini commettano il loro crimine segreto.
SCENA NONA
Cenci e Lucrétia.
Cenci
Dove si nasconde, dimmelo? Dove si nasconde? Desiderio, furore,
amore, non lo so… ma io brucio. Ho fame di lei… Vammela a
cercare. (Lucrétia entra col vino)
Lucrétia
Basta... basta... basta... aria. Basta. Voglio vivere. Non siamo nati
per essere torturati. Basta…
Cenci
E io? Mi puoi dire perché sono nato?
Lucrétia
Pentiti. Pentiti.
(Lucrétia esce. Cenci beve un bicchiere di vino)
Cenci
Pentirmi? Il pentimento è la mano di Dio. Sta a lui dolersi della
mia azione. Perché mi ha fatto padre di un essere che tutto mi invita a desiderare? Coloro che accusano il mio crimine accusino prima
la fatalità. Chi dunque può ancora osare di parlarci di libertà. C’è
in me come un demone designato a vendicare le offese del mondo.
Ormai non c’è destino che mi impedisca di eseguire ciò che ho
sognato.
(Cenci scompare nell’ombra)
86
SCÈNE 10
Béatrice et Lucrétia.
Béatrice
Crois-tu qu’il dort?
Lucrétia
J’ai mis un narcotique dans son breuvage.
(Alors que Béatrice et Lucrétia retournent dans l’ombre, une incantation)
Vous prétendez donner la mort et vous avez peur d’un vieillard qui
rêve et discute avec ses remords. Allez, allez-y! creusez-lui la tête.
SCÈNE 11
Lucrétia et Béatrice, la prison.
Lucrétia
Écoute! la plainte éternelle. Le pape veut que nous confessions…
or, il est temps de songer à la pénitence...
Béatrice
Pénitence? j’accepte le crime, mais je nie la culpabilité. Laisse-moi
te dire qu’il n’est pas bon que le pape s’unisse avec les pères
contre les familles qu’ils ont créées. Mon âme est déformée par la
vie, je la renvoie à dieu, brûlant tout pour rallumer la création.
Lucrétia
Béatrice, que la mort te soit douce.
Béatrice
Je meurs et je n’ai pas choisi. Tomber dans la terre funèbre où l’on
crie sans cesse après soi. Le monde qui m’échappe ne me survivra
pas. Belle, je n’ai pas goûté à ma beauté.
Lucrétia
Riche, je n’ai que faire d’une abondance qui insulte à la pauvreté.
Béatrice
Mes yeux, sur quel affreux spectacle en mourant vous vous ouvrez.
Qui pourra m’assurer que, là-bas, je ne retrouverai pas mon père.
Seul mon père de... de... de... dedans… père… père… Père…
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SCENA DECIMA
Béatrice e Lucrétia.
Béatrice
Credi che dorma?
Lucrétia
Ho messo un narcotico nella sua bevanda.
(Mentre Béatrice e Lucrétia ritornano nell’ombra, l’incantesimo di
una voce dice:)
Voi pretendete di dare la morte e avete paura di un vegliardo che
sogna e discute con i suoi rimorsi. Andate, andate! Forategli la
testa.
SCENA UNDICESIMA
Lucrétia e Béatrice, la prigione.
Lucrétia
Ascolta! Il pianto eterno. Il Papa vuole che noi confessiamo… ora
è tempo di pensare al castigo...
Béatrice
Castigo? Accetto il crimine, ma nego la colpevolezza. Lascia che
io ti dica che non è bene che il Papa si unisca ai padri contro le
famiglie che essi hanno creato. La mia anima è stata deformata
dalla vita, la rinvio a Dio, infiammando tutto per riaccendere la
creazione.
Lucrétia
Béatrice, che la morte ti sia dolce.
Béatrice
Muoio e non ho scelto. Cadere nella terra funebre dove si grida
senza tregua contro se stessi. Il mondo che mi sfugge non mi
sopravviverà. Bella, io non ho gustato la mia bellezza.
Lucrétia
Ricca, io non so che farmene di un’abbondanza che insulta la
povertà.
Béatrice
Occhi miei, su quale orribile spettacolo morendo voi vi aprite. Chi
potrà assicurarmi che laggiù non ritroverò mio padre. Solo mio
padre di… di… di… di dentro… padre… padre … Padre…
Caravaggio, Giuditta e Oloferne (Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini).
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89
GIORGIO BATTISTELLI
Nasce ad Albano Laziale il 25 aprile 1953. Si diploma in composizione nel
1978 con Giancarlo Bizzi al Conservatorio A. Casella dell’Aquila, studiando
contemporaneamente storia della musica con Claudio Annibaldi e pianoforte
con Antonello Neri. Nel 1974 è tra i fondatori del Gruppo di Ricerca e
Sperimentazione Musicale “Edgar Varèse” e del Gruppo Strumentale “Beat
72” di Roma.
Nel 1975 frequenta a Colonia i seminari di composizione di Karlheinz
Stockhausen e Mauricio Kagel; nel 1978-79 segue a Parigi i corsi di tecnica
e interpretazione nel teatro musicale contemporaneo con Jean Pierre Drouet
e Gaston Sylvestre. Prime composizioni: Uno e trino per un percussionista
(1975); Comme un opéra fabuleux per un percussionista (1979); Il racconto
di Monsieur B per orchestra (1980).
Si afferma come uno dei più interessanti compositori della sua generazione.
Nel 1983 ottiene una borsa di studio presso gli studi radiofonici di BadenBaden. Nel 1985-86 risiede a Berlino su invito del Deutscher Akademischer Austauschdienst; nel 1986 inizia la sua collaborazione con Casa
Ricordi, attuale editrice delle sue partiture. Riceve il premio SIAE per la
musica (1990).
Fra i suoi lavori di teatro musicale segnaliamo: Experimentum mundi, opera
di musica immaginistica su testi tratti dall’Encyclopédie (1981), che ha
avuto ad oggi più di duecento rappresentazioni nel mondo; Aphrodite,
monodramma di costumi antichi (1983); Jules Verne, fantasia da camera in
forma di spettacolo su testi del compositore (1987); Le combat d’Hector et
d’Achille, représentation de corps et de mémoire per due musici oratori
(Strasburgo, Festival Musica 1989); Globe Theatre, Ballet zur Jahrtausendwende su coreografie di Virgilio Sieni (1990). Fra le opere strumentali:
Anarca per orchestra (1988-89).
Nel 1993 è chiamato da Hans Werner Henze quale suo successore alla
guida del Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, dove è direttore
artistico fino al 1996.
Si intensifica la sua produzione teatrale: Teorema, parabola in musica (libero adattamento da Pier Paolo Pasolini), prima rappresentazione assoluta al
Teatro Comunale di Firenze al 53° Maggio Musicale Fiorentino (1992);
Frau Frankenstein, monodramma del Prometeo moderno su testo proprio da
Mary Shelley (1993); Prova d’orchestra, sei scene musicali di fine secolo
su testo proprio liberamente tratto dal film di Federico Fellini (1994-95).
In campo vocale: Ascolto di Rembrandt su testo di Guido Ceronetti; Paz
Music su testi di Octavio Paz (1993-94). In ambito strumentale segnaliamo
Il y a un firmament per orchestra da camera (1991).
Dal 1996 al 2002 è Direttore Artistico dell’Orchestra della Toscana.
Ancora per il teatro musicale Battistelli compone: The Cenci, teatro di musica da Antonin Artaud (Londra, Almeida Opera; 1997); La scoperta della lentezza, teatro di musica in cinque scene dal romanzo di Sten Nadolny (Brema
1997); Giacomo mio, salviamoci! su testo di Vittorio Sermonti per voce
docente e orchestra (1998); Il fiore delle mille e una notte, balletto in otto
scene da Pier Paolo Pasolini (Modena 1999); e Impressions d’Afrique, teatro
di musica da Raymond Roussel (63° Maggio Musicale Fiorentino, 2000).
Mentre in campo strumentale segnaliamo: Orazi e Curiazi per due percussionistsi (Beijng Concert Hall 1996); Etüde per orchestra (Berlino 2000). Infine
Tre voci su testo di Giorgio van Straten (Sagra Musicale Umbra 1996), che
unisce voce recitante ed elettronica all’organico strumentale.
Tra i lavori più rappresentativi di questo periodo rientrano: Auf den Mar-
90
morklippen (2001), visioni musicali dal romanzo di Ernst Jünger, The
Embalmer (2002) su testo di Renzo Rosso, L’autunno del Patriarca composto nel 2004, Meandri (2004), composizione sinfonica commissionata dall’Orchestra Filarmonica del Teatro alla Scala, Riccardo III, opera tratta dalla
tragedia di Shakespeare, su libretto di Ian Burton.
Attualmente ricopre i seguenti incarichi: Direttore Artistico della Società
Aquilana dei Concerti (2000-2005), Direttore Artistico dell’Accademia Filarmonica Romana (dal 2005), Direttore della Biennale Musica di Venezia (dal
2004), Composer-in-residence dell’Opera di Anversa (dal 2005).
LUCA PFAFF
Luca Pfaff, direttore d’orchestra francese di origine svizzera, è nato a Lugano.
Dopo la maturità classica ha studiato pianoforte con Bruno Canino e composizione con Franco Donatoni al Conservatorio G. Verdi di Milano. Si è
diplomato in direzione d’orchestra con Hans Swarowsky a Vienna e all’Accademia di S. Cecilia di Roma con Franco Ferrara del quale ha seguito i
corsi di perfezionamento all’Accademia Musicale Chigiana di Siena.
Dirige regolarmente orchestre di grande prestigio quali le orchestre Nazionali
di Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, Argentina e Messico, le Filarmoniche
di Londra, Oslo, Bergen, Stoccolma, Helsinki, Rotterdam e Montecarlo, la
Tonhalle di Zurigo, la Monnaie di Bruxelles, la Gulbenkian di Lisbona, le
principali orchestre radiofoniche europee, l’Ensemble Intercontemporain, la
London Sinfonietta ed é ospite di numerosi festival internazionali.
Dal 1987 al 1996 è stato direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica del Reno
e dell’Opera di Strasburgo; contemporaneamente, dal 1990 al 1994 è stato
direttore dell’Ensemble Carme di Milano, con il quale ha svolto un’intensa
attività concertistica in Italia e all’estero. Dal 2001 é primo direttore ospite
dell’Opera di Anversa.
Luca Pfaff.
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Le sue affinità eccezionali ed il suo impegno per la diffusione della musica
del Novecento lo collocano tra le personalità di spicco del mondo musicale
internazionale (si cita ad esempio il film girato da Artè: “Luca Pfaff musicien éuropéen”). Ha diretto numerose prime assolute di compositori di
primo piano come Battistelli, Berio, Donatoni, Dusapin, Fedele, Huber,
Maderna, Rihm, Scelsi, Schnittke, Xenakis ecc. È stato consulente artistico
di vari festival.
Ha registrato numerosi CD che spaziano da Mozart a Donatoni, fra i quali
due dedicati a Bartók con l’Orchestra Nazionale della RAI che hanno
riscontrato un notevole successo nella stampa internazionale.
Recentemente ad Anversa ha diretto la prima assoluta di Riccardo III di G.
Battistelli (regia Robert Carsen), é stato in Giappone con l’Orchestra della
Toscana ed in Francia e Belgio con l’Orchestra Nazionale Spagnola e con
l’Orchestra Gulbenkian di Lisbona.
Ha tenuto dei Corsi di perfezionamento di direzione d’orchestra alle Università di Vienna e di Graz, al Conservatorio Superiore di Parigi, all’Accademia delle Belle Arti di Madrid ed a Lisbona.
ORCHESTRA DELLA TOSCANA
Si è formata a Firenze nel 1980 per iniziativa della Regione Toscana, della
Provincia e del Comune di Firenze. Nel 1983, durante la direzione artistica
di Luciano Berio, è diventata Istituzione Concertistica Orchestrale per riconoscimento del Ministero del Turismo e dello Spettacolo.
Attualmente la direzione artistica è affidata ad Aldo Bennici, uno dei padri
fondatori dell’ORT.
Composta da 45 musicisti, che si suddividono anche in agili formazioni
cameristiche, l’Orchestra realizza le prove e i concerti, distribuiti poi in
tutta la Toscana, nello storico Teatro Verdi, situato nel centro di Firenze.
Le esecuzioni fiorentine sono trasmesse su territorio nazionale da Radiorai
Tre.
Interprete duttile di un ampio repertorio che dalla musica barocca arriva
fino ai compositori contemporanei, l’Orchestra riserva ampio spazio a
Haydn, Mozart, tutto il Beethoven sinfonico, larga parte del barocco strumentale, con una particolare attenzione alla letteratura meno eseguita.
Accanto ai grandi capolavori sinfonico-corali si aggiungono i Lieder di
Mahler, le pagine corali di Brahms, parte del sinfonismo dell’Ottocento con
una posizione di privilegio per Rossini. Una precisa vocazione per il Novecento storico, insieme a una singolare sensibilità per la musica d’oggi,
caratterizzano la formazione toscana nel panorama musicale italiano.
Ospite delle più importanti società di concerti italiane, si è esibita con
grande successo al Teatro alla Scala di Milano, al Maggio Musicale Fiorentino, al Comunale di Bologna, al Carlo Felice di Genova, all’Auditorium “G. Agnelli” del Lingotto di Torino, all’Accademia di S. Cecilia di
Roma, alla Settimana Musicale Senese, al Ravenna Festival, al Rossini
Opera Festival e alla Biennale di Venezia.
Numerose le sue apparizioni all’estero a partire dal 1992: Germania, Giappone, Salisburgo, Cannes, Buenos Aires, San Paolo, Montevideo, Strasburgo, New York, Edimburgo, Madrid e Hong Kong, a Tokyo per la rassegna
“Italia-Giappone 2001-2002”.
Tra i prestigiosi musicisti che hanno collaborato con l’ORT citiamo: Salvatore Accardo, Martha Argerich, Rudolf Barshai, Bruno Bartoletti, Yuri
Bashmet, Luciano Berio, Frans Brüggen, Mario Brunello, Sylvain Cambreling, Myung-Whun Chung, Alicia De Larrocha, Gabriele Ferro, Eliot Fisk,
92
Rafael Frübeck de Burgos, Gianandrea Gavazzeni, Gianluigi Gelmetti,
Natalia Gutman, Daniel Harding, Eliahu Inbal, Ton Koopman, Gidon Kremer, Yo-Yo Ma, Gustav Kuhn, Alexander Lonquich, Andrea Lucchesini,
Peter Maag, Peter Maxwell Davies, Mischa Maisky, Sabine Meyer, Midori,
Shlomo Mintz, Viktoria Mullova, Roger Norrington, Esa Pekka Salonen,
Hansjoerg Schellenberger, Heinrich Schiff, Vladimir Spivakov, Uto Ughi,
Maxim Vengerov.
La discografia comprende musiche di Schubert e di Cherubini con Donato
Renzetti (Europa Musica), Pierino e il lupo e L’Histoire de Babar con
Paolo Poli e Alessandro Pinzauti (Caroman), Cavalleria rusticana con
Bruno Bartoletti (Foné), Il barbiere di Siviglia con Gianluigi Gelmetti
(EMI Classics), Omaggio a Mina e Orfeo cantando tolse di Adriano Guarnieri con Pietro Borgonovo (Ricordi) e lo Stabat Mater di Rossini con
Gianluigi Gelmetti (Agorà), Tancredi con Gianluigi Gelmetti (Foné), Holy
Sea con Butch Morris (Splasc-h), Richard Galliano e I Solisti dell’Ort
(Dreyfus), Le Congiurate di Schubert con Gérard Korsten per la regia di
Denis Krief, Concertone con Stefano Bollani (Blue Label).
Georges Lavaudant
Dopo venti anni di attività col Teatro di Grenoble, poi co-direttore del
Centre Dramatique National des Alpes (a partire dal 1976) e della Maison
de la Culture de Grenoble (nel 1981), Georges Lavaudant diventa co-direttore del TNP nel 1986.
La sua prima regia al TNP nel 1987 fu Le Régent de Jean-Christophe Bailly. Lavaudant proseguiva infatti il lavoro già iniziato dagli inizi degli anni
’70 a Grenoble: presentare autori classici alternandoli con autori contemporanei. Testi di Denis Roche (Louve basse), Pierre Bourgeade (Palazzo Mentale), Jean-Christophe Bailly (del quale ha diretto due altri lavori (Les
Cépheïdes e Pandora), Michel Deutsch (Féroé, la nuit...), Le Clézio
(Pawana) e, dopo alcuni anni, suoi propri lavori: Veracruz, Les Iris, Terra
Incognita, Ulysse/Matériaux, inframezzati con il teatro di Shakespeare, de
Musset, Cechov, Brecht, Labiche, Pirandello, Genet.
Le sue regie, realizzate principalmente a Grenoble fino al 1986, poi a Villeurbanne fino al 1996, sono state messe in scena anche alla Comédie
Française (Lorenzaccio, Le Balcon, Hamlet), all’Opéra di Parigi (Roméo et
Juliette di Gounod), all’Opéra di Lione (Il ratto dal serraglio di Mozart,
Malcolm di Gérard Maimone, Rodrigue et Chimène di Debussy) e, all’estero, in Messico (Le Balcon, Pawana), a Montevideo (Isidore Ducasse/Fragments), a Bhopal (Phèdre), a Hanoi (Woyzeck), a San Pietroburgo (Reflets).
Nel 1995 e 1996, ha realizzato Lumières (I) “Près des ruines” et Lumières
(II) “Sous les arbres”, spettacoli concepiti da Jean-Christophe Bailly,
Michel Deutsch, Jean-François Duroure e da lui stesso. Ha diretto sulle
scene la compagnia del Teatro Malij di San Pietroburgo nell’adattamento
russo di Lumières: Reflets présentata all’Odéon nel 1997. Lo stesso anno
ha curato la regia della prima rappresentazione assoluta di Prova d’orchestra di Giorgio Battistelli all’Opéra du Rhin.
Georges Lavaudant è direttore del Théâtre de l’Odéon dal 1996. Fra le sue
numerose regie in quel teatro, si ricordano Re Lear di Shakespeare, Aiace
e Filottete di Sofocle, Tamburi nella notte e Le nozze dei piccoli borghesi
di Brecht, l’Orestiade di Eschilo, La morte di Danton di Büchner, Il giardino dei ciliegi di Cechov.
93
L’ingresso del Teatro dei Rozzi e l’emblema dell’omonima Accademia.
94
Orchestra della Toscana
Viole
Stefano Zanobini *
Pier Paolo Ricci **
Alessandro Franconi
Joël Impérial
Trombone
Antonio Sicoli *
Violoncelli
Luca Provenzani *
Leandro Carino *
Christine Dechaux **
Stefano Battistini
Timpani
Morgan M.Tortelli *
Contrabbassi
Gianpietro Zampella *
Luigi Giannoni **
Campionatore e Maestro
collaboratore
Damiano Giorgi *
Flauto
Michele Marasco *
Clarinetti
Carlo Failli *
Marco Ortolani *
Rossana Rossignoli
Tromba
Donato De Sena *
Basso tuba
Riccardo Tarlini *
Percussioni
Domenico Cagnacci
Ispettore d’orchestra e
archivista
Alfredo Vignoli
* prime parti
** concertino
95
Jurij Temirkanov.
96
Lunedì 10 luglio
Piazza Jacopo della Quercia
ore 21,15
Jurij Temirkanov
direttore
Orchestra Filarmonica
di San Pietroburgo
NIKOLAJ ANDREEVIČ RIMSKIJ-KORSAKOV
Tikhvin, Novgorod 1844 – Ljubensk, Pietroburgo 1908
La grande Pasqua russa
ouverture op. 36
Suite da Il gallo d’oro
Il Re Dodon nel suo palazzo (Allegro)
Il Re Dodon sul campo di battaglia (Allegro maestoso)
Il Re Dodon e la Regina di Ščemakan (Andantino)
Festa di nozze e triste fine del Re Dodon (Allegro assai)
***
IGOR’ FËDOROVIČ STRAVINSKIJ
Oranienbaum, Pietroburgo 1882 – New York 1971
La sagra della Primavera
Prima parte, L’adorazione della terra
Introduzione – Gli auguri primaverili, danze degli adolescenti –
Gioco del rapimento – Ronde primaverili –
Giochi delle città rivali – Corteo del saggio –
Adorazione della terra (Il saggio) – Danza della terra
Seconda parte, Il sacrificio
Introduzione – Cerchi misteriosi degli adolescenti –
Glorificazione dell’eletta – Evocazione degli antenati –
Azione rituale degli antenati – Danza sacrale (L’eletta)
97
ITINERARI RUSSI,
DA RIMSKIJ-KORSAKOV A STRAVINSKIJ
FRANCESCO ERMINI POLACCI
l concerto di Yurij Temirkanov e dell’Orchestra Filarmonica di
S. Pietroburgo, che il carismatico maestro guida stabilmente dal
1988, ci conduce lungo un suggestivo percorso nella musica
russa fra Ottocento e Novecento, attraverso i nomi – per più versi
fra loro legati – di Nicolaj Rimskij-Korsakov ed Igor Stravinskij.
Assieme a Milij Balakirev, Aleksandr Borodin, César Cui e Modest
Musorgskij, Nicolaj Rimskij-Korsakov diede vita al cosiddetto
“Gruppo dei cinque”, sorta di cenacolo culturale i cui componenti
cercarono di definire un comune indirizzo estetico con la precisa
volontà di valorizzare e rinvigorire, con la musica e nella musica,
l’identità nazionale russa. Animati da un genuino orgoglio nazionalista, i Cinque suggellarono questo loro sodalizio artistico nel nome
di alcuni principi, primo fra tutti la rivalutazione del rigoglioso
patrimonio popolare russo, specie del canto contadino e liturgico,
considerato il vero ed unico fondamento della musica; di qui anche
la conseguente diffidenza contro la tradizione musicale d’occidente,
osteggiata tranne qualche rarissimo caso, e la ricerca di un realismo
espressivo che aveva il suo modello più genuino proprio nel folklore. Tuttavia, “l’invincibile banda” – come inizialmente il gruppo si
faceva chiamare – finì a poco a poco con lo smembrarsi, perché la
definizione organica di una musica dal carattere nazionale si mostrò
ideale più difficile da raggiungersi del previsto, e ciascuno dei suoi
componenti si trovò a percorrere strade assolutamente indipendenti
ed originali. Se Musorgskij si rivelò così uno dei maestri del realismo più drammatico e crudo, Rimskij-Korsakov si impose per una
sensibilità coloristica fra le più raffinate, per una capacità illustrativa sempre sorretta da una solidissima quanto sfaccettata abilità
nella strumentazione destinata a fare scuola. Vivacità pittorica e
colorito fiabesco Rimskij-Korsakov li dispensò a piene mani nella
ben nota partitura di Shéhérazade, suite sinfonica ispirata da un
racconto de Le mille e una notte: ma in quello stesso 1888, per l’esattezza fra il 25 Luglio ed il 20 Marzo, dalla sua penna nasceva
anche l’ouverture La grande Pasqua russa, un’altra pagina sinfonica di raro fascino, dalla comunicativa immediata e dal titolo particolarmente evocativo. La generosità della scrittura virtuosistica ed
un manto sonoro splendente sono qui al servizio di una sontuosa
I
Rimskij-Korsakov in un ritratto di V.A. Serov.
98
99
rappresentazione sinfonica che intende rievocare – come racconta lo
stesso Rimskij-Korsakov nella Cronaca della mia vita musicale –
“l’aspetto pagano e leggendario della festa, il passaggio dalla scura
e misteriosa sera del Sabato di Passione alla festosità sfrenata del
mattino della Domenica di Pasqua”. Reminiscenze fra severità ortodossa e gioiosità pagana, dunque, indistintamente riunite sotto l’egida del più autentico spirito russo; senza, appunto, distinguo fra le
immagini suggerite dal servizio liturgico pasquale e quelle dalla tradizione popolare, come lo stesso compositore dichiara nelle sue
pagine autobiografiche illustrando proprio La grande Pasqua russa:
“La danza del re Davide davanti all’arca non s’ispira forse ad un
sentimento uguale alla danza degli adoratori di idoli? E il carillon
della chiesa ortodossa non è forse una danza ecclesiastica?”. In
realtà, a guisa di vera e propria struttura portante Rimskij-Korsakov
dispose nella Grande Pasqua russa (dedicata, fra le altre cose, alla
memoria degli amici Musorgskij e Borodin) una consistente serie di
canti liturgici tratti dall’Obihod, una raccolta di inni della tradizione
ortodossa che era stata redatta per l’anniversario della chiesa russa.
Canti che lui stesso indica con precisione nelle sue pagine memorialistiche: sono lugubri e scarni, come nella prima parte dell’Ouverture, a cominciare da Dio resusciti, che risuona all’inizio in
tutta la sua grave lentezza sacrale; festosi ed esuberanti, come nella
seconda, quando ad esempio si fa strada il tema di Cristo è risorto,
destinato ad acquistare spessore sonoro ed una più definita, esultante fisionomia nella trionfale coda finale. Il tutto disposto a tracciare
la trama di un ordito strumentale assai variegato e concepito con
magistrale abilità, non di rado contrappuntato da soluzioni sonore
che accolgono il festoso squillare di trombe o che alludono chiaramente a maestosi, sacrali rintocchi di campane; pennellate efficaci
che, assieme ad una concezione narrativa assai trascinante nella sua
fluida compattezza, garantiscono ancora oggi il fascino della Grande Pasqua russa.
Orchestratore fantasioso ed abilissimo di suggestive pagine
sinfoniche, Rimskij-Korsakov fu anche prolifico compositore di
opere teatrali, per quanto questo suo aspetto sia a tutt’oggi, specie
in Italia, assai poco conosciuto. L’ultima, composta fra il 1906 ed il
1907, penultimo anno di vita di Rimskij-Korsakov, s’intitola La
favola del gallo d’oro e s’ispira all’omonima novella di Aleksandr
Puskin. La storia racconta dello zar Dodon che, preoccupato per le
minacce dei popoli vicini, riceve da un astrologo un gallo magico,
tutto d’oro, in grado di prevedere l’attacco dei nemici. Tranquilliz-
100
Bozzetto di N. Gončarov per Il gallo d’oro.
101
zato dalla presenza del miracoloso gallo, lo zar Dodon promette
all’astrologo che esaudirà ogni suo desiderio. Il gallo all’improvviso
inizia a cantare, annunciando l’imminente pericolo. Lo zar Dodon si
arma così di tutto punto, costretto a prepararsi per la battaglia; in
una tenda di un accampamento s’imbatte nella bellissima regina di
Ščemakan, che lo seduce coinvolgendolo in una sfrenata danza
orgiastica. Completamente ammaliato dalla regina di Ščemakan, lo
zar Dodon conduce la donna a palazzo per poterla sposare. Durante
la cerimonia ricompare però l’astrologo che rivendica il dono promesso dallo zar: egli vuole tutta per sé nientemeno che la nuova
regina. Furibondo, Dodon lo colpisce con lo scettro, uccidendolo. Il
gallo d’oro esce allora dalla reggia e becca ripetutamente Dodon
sulla testa, lasciandolo a terra morto.
Mettendo in ridicolo la figura dello zar, Il gallo d’oro portava
con sé il significato di una pungente satira politica, seppur travestita da fiaba, e nasceva non a caso all’indomani dei moti politici del
1905 ai quali lo stesso Rimskij-Korsakov aveva aderito dando
soprattutto appoggio alle sollevazioni degli studenti del Conservatorio di S. Pietroburgo. La fiaba in versi di Puskin, del 1834, era del
resto stata scritta per esprimere un giudizio negativo sugli zar di
quel tempo e ora riadattata a libretto dalle parole di Nikolaj Bel’skij
e con la musica di Rimskij-Korsakov rinnovava quelle critiche: nell’indolenza di Re Dodon, che pur di dormire sonni tranquilli affida
la sicurezza del suo regno ad un animale fantastico, era evidente
l’allusione allo zar Nicola II, che aveva appena visto il suo paese
subire una pesante sconfitta da parte del Giappone e venire di conseguenza sconvolto dai disordini della prima rivoluzione russa.
Prima ancora di essere rappresentato, Il gallo d’oro venne così bollato dalla censura, e Rimskij-Korsakov, accusato di collaborazionismo rivoluzionario, ne approntò anche una versione in francese per
farlo eseguire a Parigi. Ma non sarebbe mai riuscito a veder rappresentata la sua ultima opera, andata in scena a Mosca solo nel 1909,
un anno dopo la sua morte. Già nel 1907, Rimskij-Korsakov aveva
riunito due episodi orchestrali dell’opera (per l’esattezza il Preludio
all’Atto I e la Marcia Nuziale del III) per poterli far eseguire in
concerto; la Suite Sinfonica entrata poi nell’uso concertistico corrente venne invece curata da Aleksandr Glazunov e dal genero
Maksimilian Stejnberg nel 1913, seguendo le indicazioni lasciate
dallo stesso autore: la formano quattro episodi, che s’intitolano “Il
re Dodon nel suo palazzo” (Preludio), “Il re Dodon sul campo di
battaglia” (inizio Atto II), “Il re Dodon e la regina di Ščemakan”
(seconda parte Atto II), “Festa di nozze e triste fine del re Dodon”
102
(Introduzione, Marcia Nuziale, morte di Dodon e conclusione dell’Atto III). La forma puramente orchestrale della Suite mostra più
che mai il ricchissimo panorama di soluzioni timbriche e la fantasiosa capacità evocativa di Rimskij-Korsakov, a cominciare dal
primo episodio: ascoltiamo qui, fin dall’inizio, un breve, petulante
appello di due trombe, una sorta di fanfaretta che con le sue sonorità asprigne – rese tali dall’uso della sordina – investe di luce sarcastica la figura di Dodon e ne annuncerà più volte nella partitura
la presenza; mentre l’idea immediatamente successiva vede i due
oboi distendere una melodia sinuosa e tipicamente esotica, che
immerge il palazzo di Dodon in un clima tutto fiabesco, e che
lascia poi spazio al continuo baluginare timbrico di delicati dialoghi
ricamati fra legni ed archi. Un’atmosfera più sinistra accompagna
l’arrivo di Dodon nel campo di battaglia, dove la paura del nemico
è resa con un sospettoso strisciare degli archi, al quale fa poi da
contraltare una spavalda e ridondante marcetta che rende con ironia
l’avanzare di Dodon e del suo spaventato esercito. L’incontro di
Dodon con la Regina di Ščemakan, nel terzo episodio della Suite, si
propone invece con una sensuale, spiegata ed avvolgente cantabilità:
la Regina ammalia il re con il suo canto e la sua bellezza, trascinandolo, mentre il flauto svolge le sue ipnotiche spire, nell’eccitazione sonora di una danza ammiccante e dionisiaca. Ricompare
ancora l’acidula fanfaretta delle trombe in sordina nel quadro conclusivo della Suite, intercalata dagli episodi più inquieti e cupi dell’Introduzione al III Atto; ed è da qui che lentamente emerge la baldanzosa, bandistica ed ancora una volta sarcastica Marcia che
accompagna Dodon, la promessa sposa Regina di Ščemakan ed il
corteo di militari e dignitari: una parata ridicolizzata dall’accelerazione ritmica e dall’esagerata ridondanza sonora, e che concresce
accogliendo man mano ottoni e percussioni in gran copia ed accentuando la sua meccanicità marziale. Così fino ad un’improvvisa,
secca interruzione, che accompagna lo stramazzare al suolo di
Dodon colpito a morte dalle beccate del gallo d’oro; e sullo sfondo,
risuona il beffardo appello delle trombe, come un ultimo respiro.
Partitura ricca di verve e trasparenti sfumature, quella del Gallo
d’oro, meno sontuosamente rigogliosa di quanto ci si aspetterebbe
da Rimskij-Korsakov, ma nella quale le combinazioni timbriche
hanno la lucentezza di lustre tessere di un mosaico, le morbide
seduzioni orientaleggianti lasciano spesso il posto ad una scrittura
più graffiante e pungente, e l’orchestra è capace di sonorità che
hanno la consistenza dura del cristallo più puro. Il Rimskij-Korsakov fiabesco pare insomma spianare qui la strada alle asciuttezze
103
Stravinskij fotografato a Parigi.
104
geometriche e a certe spigolosità imbevute di sarcasmo tipiche del
Novecento russo.
Asprezze laminate e ritmi affilati come quelli che ritroviamo
nello stile di Igor Stravinskij, che di Rimskij-Korsakov fu l’allievo
degli ultimi anni e che dal maestro apprese i segreti più raffinati e
la tecnica più smaliziata dell’orchestrazione. Un gusto sonoro ben
assimilato e che del resto percorre gran parte delle sue prime partiture, da Fuoco d’artificio (1909) all’Uccello di fuoco (1910), ma
che per più versi risulta superato in una pagina come La Sagra
della Primavera, partitura coreografica nata per i celebri “Ballets
Russes” di Parigi: venne tenuta a battesimo il 28 Maggio del 1913,
al Théâtre des Champs-Élysées con la direzione del grande Pierre
Monteux e la coreografia di Vaslav Nijinskij, e quella data segnò
uno dei più clamorosi scandali della storia della musica. Le cronache raccontano che i fischi e le fragorose disapprovazioni del pubblico arrivarono persino a coprire le pur massicce sonorità dell’orchestra: La Sagra della Primavera fu un autentico, violentissimo
scossone per l’epoca, perché mai prima di allora si era udita una
simile aggressività sonora, una tale rocciosità timbrica, una tale violenza ritmica. “Musica che s’abbatte sull’ascoltatore, con la violenza
d’un cataclisma, come una forza scatenata della natura. La Sagra
della Primavera è l’esatto contrario di tante ‘Primavere’ sdolcinate
cui ci avevano abituato innumerevoli musicisti, pittori e letterati”,
scrive giustamente Roman Vlad. A questo suo rivoluzionario balletto Stravinskij aveva difatti attribuito selvagge pennellate monocrome
e dalla densità materica, non immemori del gusto fauve di Matisse e
Braque, dando forma in questo modo ad un’idea che – stando a
quanto racconta lui stesso all’amico Robert Craft, l’amico direttore
d’orchestra che è stato esecutore privilegiato di tanta sua musica –
gli si era presentata nella mente per la prima volta sotto forma di
sogno, agl’inizi del 1910, quando cioè stava completando l’Uccello
di fuoco: “Ebbi la visione di un rito pagano, solenne. I vecchi
saggi, seduti in cerchio, guardavano una fanciulla danzare fino allo
stremo: la stavano sacrificando per propiziare il dio della primavera”. Quadri della Russia pagana non a caso Stravinskij aveva sottotitolato questo suo sconvolgente lavoro articolato in due quadri
distinti (L’adorazione della terra e Il sacrificio), perché con esso
voleva appunto rendere la sanguinaria crudeltà con cui i russi pagani celebravano l’avvento della Primavera (sagra è da intendersi nel
senso di ‘consacrazione’), secondo un feroce rituale che culminava
nel sacrificio di una vergine eletta. Un’idea che il compositore poté
105
Stravinskij in un ritratto di Mario Fallani.
106
affinare grazie alla collaborazione con Nicolaj Roerich, pittore ma
soprattutto esperto studioso dei riti della Russia pagana (suoi la scenografia e i costumi della prima parigina della Sagra), e che dal
punto di vista più strettamente musicale trovò una rigogliosa fonte
d’ispirazione anche nel vastissimo patrimonio di canti e danze dell’antica tradizione russa, proprio secondo la lezione che il giovane
Stravinskij aveva a suo tempo appreso dal maestro Rimskij-Korsakov: derivazioni melodiche dal folklore che oggi – grazie a
pazienti e puntigliosi studi – suonano evidenti, anche se a suo
tempo mai vennero ammesse da Stravinskij, ma pure la ricreazione
di certe caratteristiche tipiche di quella tradizione musicale che il
compositore aveva nel sangue, come le continue e ravvicinatissime
mutazioni del ritmo che danno luogo a combinazioni sempre nuove
e tali da far tremare vene e polsi agli interpreti. Ma il ricorso al
folklore russo non è da intendersi qui piegato a mere finalità documentarie di natura etnomusicale: esso diventa parte della sostanza
espressiva musicale, e sprigiona la sua energia segreta perché da
Stravinskij aggiornato nella voce di un’orchestra semplicemente
colossale, plasmato dall’uso destabilizzante delle dissonanze, dal
selvaggio scatenamento tellurico di forze ritmiche e dallo sbalzo di
massicci blocchi timbrici. Ed è un motivo del folklore ad iniziare la
partitura della Sagra della Primavera (Prima Parte: L’adorazione
della terra), una melopea di ascendenza lituana – l’unica, fra l’altro, ad essere stata identificata nella sua derivazione popolare da
Stravinskij – che sorprendentemente risuona nel registro più acuto
di un solo fagotto: con il suo tono lamentoso e la sua tinta ancestrale, evoca tutto il mistero di un mondo preistorico, dando a sua
volta il via ad un’incalzante serie di danze rituali che pare affiorare
dagli irrequieti fremiti dei legni. Irrompe così la “Danza delle adolescenti”, sostenuta da un muscoloso ritmo battente, accenti bruschi
ed asimmetrici che innescano un fragoroso meccanismo motorio,
poi risucchiato e prosciugato dal frenetico “Gioco del rapimento”.
Hanno invece un andamento grave ed ossessivo le “Danze primaverili”, trascinate da un cupo disegno ostinato che presto fa largo alla
sbrigliata, burrascosa e crescente aggressività dei “Giochi delle tribù
rivali”, a sua volta preambolo alla processione del “Corteo del saggio”, intonata da quattro corni che si rinvigoriscono nel clangore di
tube e di una consistente batteria di percussioni. “La danza della
terra” conclude la Prima Parte della Sagra della Primavera con la
forza brutale e scomposta di un terrificante movimento tellurico,
convulsioni e scuotimenti a piena orchestra che affermano senza
pudori le più apocalittiche valenze del ritmo. Lunare e fredda si
107
avvia, viceversa, la Seconda Parte (Il sacrificio), dove le flebili
sonorità delle viole e le surreali alchimie dei legni accolgono il
lento profilarsi di un motivo bagnato di lirismo notturno, che poi
viene sviluppato con toni struggenti nell’episodio intitolato “Cerchi
mistici delle adolescenti”, a sua volta contrappuntato da spunti
melodici di chiaro stampo popolare sottoposti a sinistre trasfigurazioni timbriche. Un’atmosfera sospesa che viene letteralmente fagocitata dalle robuste e contorte perorazioni della “Glorificazione dell’eletta”, mentre violente strappate guidate da percussioni e ottoni
annunciano “L’evocazione degli avi” e l’“Azione rituale degli avi”
è condotta con ossessive figurazioni in ostinato, che costringono le
sonorità a continui conflitti dinamici. Nella “Danza Sacrificale”
conclusiva è il ritmo a trionfare in maniera definitiva, assumendo
uno spiccato valore musicalmente costruttivo, oltreché potentemente
espressivo: forza primigenia che si esalta nel suo stesso dionisiaco
ed ipnotico parossismo, principio vitale che si scatena con la furia
devastante di un’eruzione, meccanismo implacabile e brutale che
porta la giovane eletta a danzare fino alla morte, innanzi agli
impassibili sguardi dei vecchi saggi, perché quel sacrificio possa far
sbocciare una nuova, rigogliosa primavera. Nella Sagra della Primavera rivivono ancora la tradizione, il folklore della grande cultura russa, ma stavolta guardata dagli occhi moderni di Stravinskij
nei suoi aspetti più feroci e crudeli: un mondo arcaico e lontanissimo, dove l’umanità guarda all’immenso mistero della Natura; non
senza sbigottimento, non senza paura.
108
Vaslav Nijinskij.
109
JURIJ TEMIRKANOV
Direttore artistico e Direttore principale dal 1988 dell’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo, con la quale effettua regolarmente tournées internazionali e registrazioni discografiche, è Direttore principale dell’Orchestra
Sinfonica di Baltimora, Direttore ospite principale dell’Orchestra Sinfonica
della Radio Nazionale Danese e “Conductor Laureate” della Royal Philharmonic Orchestra di Londra.
Nato a Nal’čik, una città del Caucaso, ha iniziato gli studi musicali all’età
di nove anni. A tredici anni ha frequentato la Scuola per giovani talenti di
Leningrado, dove ha proseguito gli studi di violino e di viola. Ha quindi
completato lo studio di viola presso il Conservatorio di Leningrado, dove
peraltro si è diplomato in direzione d’orchestra nel 1965.
Dopo aver vinto il Concorso Nazionale Sovietico per Direttori d’orchestra
nel 1966, Temirkanov è stato invitato da Kiril Kondrašin ad effettuare una
tournée in Europa e negli Stati Uniti con David Ojstrakh e l’Orchestra
Filarmonica di Mosca.
Nel 1968 è stato nominato Direttore principale dell’Orchestra Sinfonica di
Leningrado e dal 1976 al 1988 è stato Direttore musicale del Teatro Kirov
(attualmente Teatro Marijnskij).
Temirkanov ha diretto le principali orchestre europee: le Orchestre Filarmoniche di Berlino, Vienna, Londra, la Dresden Staatskapelle, la London
Symphony, la Royal Concertgebouw, l’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia e quella del Teatro alla Scala.
Dopo il suo debutto nel 1977 con la Royal Philharmonic Orchestra, di cui
è stato dal 1992 al 1998 direttore principale, ha ricoperto tra l’altro la carica di Direttore ospite principale dall’Orchestra Filarmonica di Dresda dal
1992 al 1997.
Temirkanov frequenta regolarmente gli Stati Uniti, dove dirige le più prestigiose orchestre di New York, Filadelfia, Boston, Chicago, Cleveland,
San Francisco e Los Angeles.
La sua molteplice attività discografica include incisioni con l’Orchestra
Filarmonica di San Pietroburgo, l’Orchestra Filarmonica di New York,
l’Orchestra Sinfonica della Radio Nazionale Danese, la Royal Philharmonic
Orchestra; con quest’ultima ha registrato i Balletti di Stravinskij ed il ciclo
delle Sinfonie di Čajkovskij.
Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti si ricordano la Medaglia conferitagli
nel 2003 dal Presidente Vladimir Putin, il Premio “Abbiati” nel 2002 come
Miglior Direttore nonché il titolo di Direttore dell’Anno in Italia nel 2003.
Temirkanov ha tenuto un Corso di Direzione d’Orchestra all’Accademia
Musicale Chigiana negli anni 1995 e 1996.
ORCHESTRA FILARMONICA DI SAN PIETROBURGO
È la più antica orchestra della Russia. La sua istituzione ufficiale nel 1882
è stata preceduta da una serie di eventi determinanti per la storia della vita
musicale nella vecchia capitale dell’Impero russo. Quando Pietro il Grande
gettò le fondamenta della città di San Pietroburgo nel 1703, egli si ripropose di fare di questa capitale una città di stampo europeo. Fu così che i più
grandi compositori e musicisti italiani, ed in seguito tedeschi, vissero e
operarono nella capitale sulla Neva. Nel 1802 un gruppo dell’aristocrazia
russa amante della musica fondò la prima società filarmonica europea a
San Pietroburgo.
Il 19 ottobre 1917, durante la Rivoluzione d’ottobre, fu mutata in Orchestra
statale e dette il suo primo concerto pubblico nell’Unione Sovietica l’8
110
novembre. Un anno dopo fu inglobata nella nuova Filarmonica di Pietrogrado, che divenne la prima importante organizzazione musicale dell’USSR.
Nell’ottobre 1920 il Commissario per l’educazione Anatolij Lunačarskij
dichiarò l’Orchestra Filarmonica di Stato di Pietrogrado la sola istituzione
sinfonica della Repubblica.
Negli anni seguenti il repertorio dell’Orchestra, per volere dei suoi direttori
organizzativi Ossovskaja e Sollertinskij, si è sviluppato ed esteso da
Beethoven, a Mahler, a Bruckner.
Dal 1938 Mravinskij fu direttore musicale dell’Orchestra per cinquant’anni,
divenendo il più famoso interprete di Šostakovič, con cui era legato da
grande amicizia. L’Orchestra quindi frequentemente eseguiva prime assolute di Šostakovič, autore ancora oggi privilegiato nel repertorio dell’orchestra stessa.
Alla morte di Mravinskij nel 1988, Jurij Temirkanov fu nominato Direttore
musicale nonché Direttore principale dell’Orchestra.
L’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo è anche la prima orchestra
sovietica ad aver effettuato tournées fuori dal suo Paese. Dopo la guerra ha
suonato in oltre venticinque stati in Europa, Asia e America, diretta da
Stokowski, Munch, Cluytens, Markevitch, Kosef Krips, Kodály e Britten.
Attualmente, oltre alla regolare serie di concerti presso la rinomata sede
della Filarmonica di San Pietroburgo, l’Orchestra effettua tournées in Europa, Giappone, Stati Uniti, Sud America, Estremo Oriente, apparendo nei
maggiori festival quali Lucerna, Salisburgo, Edimburgo e BBS Proms.
Ha inciso con Jurij Temirkanov per la BMG Classics e per la Warner, con
Mariss Jansons per la EMI e con Vladimir Ashkenazy per la Decca.
111
Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo
Violini primi
Pavel Popov
Alexander Zolotarev
Jurij Ushchapovskij
Valentin Lukin
Sergeij Teterin
Alexeij M. Vasiljev
Natalia Sokolova
Olga Rybalchenko
Alexander Rikhter
Grigorij Sedukh
Renata Bakhrakh
Nikolaij Tkachenko
Tatiana Makarova
Mikhail Alexeev
Lija Melik-Muradyan
Violini secondi
Mikhail Estrin
Ruslan Kozlov
Arkadij Nayman
Arkadij Maleyn
Liudmila Odintsova
Zhanna Proskurova
Liubov Khatina
Anatolij Babitskij
Nikolaij Dygodyuk
Dmitrij Koryavko
Tamara Tomskaya
Olga Kotlyarevskaya
Konstantin Basok
Viole
Andrey Dogadin
Jurij Dmitriev
Vladimir Ivanov
Artur Kosinov
Jurij Anikeev
Alexeij Bogorad
Elena Panfilova
Dmitrij Kosolapov
Konstantin Bychkov
Roman Ivanov
Mikhail Anikeev
Alexeij Koptev
Violoncelli
Sergeij Slovachevskij
Nikolaij Girunyan
Valerij Naydenov
Sergeij Chernyadyev
Alexeij Miltikh
Taras Trepel
Iossif Levinzon
Victor Ivanov
Yaroslav Cherenkov
Kirill Arkhipov
Nikolaij Matveev
Alexander Kulibabin
Contrabbassi
Artem Chirkov
Alexander Shilo
Rostislav Iakovlev
Oleg Kirillov
Mikhail Glazachev
Nikolay Chausov
Nikolaij Syraij
Alexeij Chubachin
Arsenij Petrov
Flauti
Marina Vorozhtsova
Igor Kotov
Olga Viland
Olesya Tertychnaya
Maria Markul
Oboi
Ruslan Khokholkov
Artsiom Isayeu
Pavel Serebryakov
Vasilij Nikitin
Mikhail Dymskij
112
Clarinetti
Andreij Laukhin
Valentin Karlov
Denis Sukhov
Igor Gerasimov
Andreij Bolshiyanov
Vladislav Verkovich
Tromboni e tuba
Maxim Ignatyev
Dmitrij Andreev
Vitalij Gorlitskij
Denis Nesterov
Valentin Avvakumov
Alexander Tomashevskij
Fagotti
Oleg Talypin
Sergeij Bazhenov
Maxim Karpinskij
Alexeij Silyutin
Mikhail Gutkin
Percussioni
Sergeij Antoshkin
Valerij Znamenskij
Dmitrij Klemenok
Konstantin Solovyev
Ruben Ramazyan
Alexander Mikhaylov
Corni
Andreij Glukhov
Igor Karzov
Anatolij Surzhok
Anatolij Musarov
Alexandru Afanasiev
Vitalij Musarov
Oleg Skrotskij
Trombe
Igor Shrapov
Mikhail Romanov
Vyacheslav Dmitrov
Alexeij Belyaev
Mikhail Mikhailov
Arpa
Anna Makarova
Andres Izmaylov
Pianoforte, celesta
Maxim Pankov
113
Paul Lewis.
114
Martedì 11 luglio
Palazzo Pubblico, Sala del Mappamondo
ore 19
Premio internazionale
“Accademia Musicale Chigiana” 2006
(25ª edizione)
Paul Lewis
pianoforte
LUDWIG
VAN BEETHOVEN
Bonn 1770 - Vienna 1827
Sonata in sol maggiore op. 79
Presto alla tedesca
Andante
Vivace
Sonata in si bemolle maggiore op. 106
“für das Hammerklavier”
Allegro
Scherzo (Assai vivace, Presto)
Adagio sostenuto (Appassionato e con molto sentimento)
Largo, Allegro – Allegro risoluto (Fuga a tre voci con alcune licenze)
115
PREMIO INTERNAZIONALE
“ACCADEMIA MUSICALE CHIGIANA”
el Premio Internazionale “Accademia Musicale Chigiana” si
congiungono due forme di mecenatismo: quello antico, glorioso, di Guido Chigi, che ha fatto grande questa Accademia, e quello recente di un amico tedesco della musica, e di Siena.
Il primo, com’è noto a tutti, ha lasciato grande traccia di sé nelle
molteplici attività dell’Accademia, prima fra tutte quella volta alla
formazione di giovani musicisti; il secondo si esprime ogni anno
con una manifestazione che ha per protagonisti artisti da poco
affacciatisi alla ribalta internazionale e che permette a Siena di
ascoltarli in indimenticabili concerti.
Fondato nel 1982, grazie appunto all’interessamento di Rolf
Becker e ai buoni uffici dell’allora direttore amministrativo dell’Accademia Domenico Sanna, il Premio – cui è stato concesso il patrocinio del Presidente della Repubblica – è destinato istituzionalmente
a giovani, ma già affermati concertisti di pianoforte e violino scelti
da una giuria composta da rappresentanti di spicco del giornalismo
musicale internazionale: Joachim Kaiser (Süddeutsche Zeitung,
Monaco di Baviera), Walter Dobner (Die Presse, Vienna), David
Stevens (International Herald Tribune, New York), Giuseppe Rossi
(La Nazione, Firenze), oltre al Direttore artistico dell’Accademia
Chigiana e al docente chigiano della disciplina interessata.
Il Premio consiste, oltre che in una cospicua somma di denaro,
in una scultura in argento opera di Fritz König, un grande artista
contemporaneo a cui si deve anche il celebre monumento ideato per
il World Trade Center di New York.
Questo è il venticinquesimo anno che il Premio viene assegnato e tra i vincitori si incontrano alcuni dei più grandi nomi del concertismo internazionale: i violinisti Gidon Kremer (1982), Shlomo
Mintz (1984), Anne-Sophie Mutter (1986), Viktoria Mullova (1988),
Frank Peter Zimmermann (1990), Gil Shaham (1992), Maxim Vengerov (1995), Julian Rachlin (2000), Hilary Hahn (2002), Sara
Chang (2005) e i pianisti Peter Serkin (1983), Krystian Zimerman
(1985), Andras Schiff (1987), Andrej Gavrilov (1989), Evgeny Kissin (1991), Andrea Lucchesini (1994), Lilya Zilberstein (1998), Leif
Ove Andsnes (2001), Arcadi Volodos (2003), oltre al direttore d’orchestra Esa-Pekka Salonen (1993), al Quartetto Hagen (1996) ed il
Quartetto Artemis (2004), alla violista Tabea Zimmermann (1997),
al violoncellista Matt Haimowitz (1999). Nomi che entreranno nella
storia già fitta di illustre presenze dell’Accademia Chigiana.
N
116
Beethoven giovanetto in una silhouette.
117
BEETHOVEN
SONATA IN SOL MAGG. OP. 79
GUIDO BURCHI
itenuta da molti studiosi beethoveniani fino a non molto
tempo fa un’opera “secondaria”, la Sonata in sol maggiore
op. 79 fu scritta nel 1809, contemporaneamente alla “sorella” op. 78, e pubblicata l’anno dopo senza dedica. In realtà Beethoven stesso la qualificò come “Sonatina” o “Sonata facile” e tale
appare in realtà per dimensioni e per una certa semplicità e stilizzazione dell’invenzione musicale. Essa sembra scorrere via senza quelle increspature drammatiche così caratteristiche di quell’autore, specialmente in quel periodo, e senza grandi processi di elaborazione
dei temi che vi risultano sempre limpidi e gradevoli.
L’impronta data dallo scattante Presto iniziale “alla tedesca”
rimane viva attraverso tutta la pagina; quel primo tema tornito e,
come suggerisce il titolo stesso, dalle movenze di danza popolare
(una sorta di allemanda), tuttavia non alieno da qualche brillantezza
“di bravura” (c’è chi ha parlato di certi stilemi alla Domenico Scarlatti), affascina anche per qualche spunto “pastorale”, o per meglio
dire “paesano”, percorso anche da lievi venature di sfumata ironia
(si ascoltino quelle acciaccature che risuonano, quasi ammiccanti
sorrisi, verso la fine del movimento).
L’Andante centrale, libero da ogni pesantezza terrena, sembra
stare sospeso in una notte senza tempo (“notturno” lo definisce Giovanni Carli Ballola) ed è esposto con un’espressività contenuta e
quasi rarefatta, accentuata anche dal modo semplificato al massimo
in cui la mano sinistra accompagna il tema della destra, che nella
parte centrale si apre brevemente in un canto più disteso.
Il breve Finale (Vivace) si ricollega all’inizio della Sonata
riportando l’atmosfera a quella garbata e quasi divertita semplicità.
L’apprezzamento che i nostri tempi dimostrano alla Sonata op.
79 non fu condiviso in epoche in cui Beethoven era visto quasi
esclusivamente come il “titano della musica”, la pagina risultando
quasi indegna del compositore (pressoché tutti gli studi sul musicista di Bonn fino ad una certa epoca dedicano a questa sonata soltanto poche righe distratte e quasi di sufficienza).
R
118
Lo studio di Beethoven a Vienna.
119
BEETHOVEN
SONATA IN SI BEMOLLE MAGGIORE OP. 106
“FÜR DAS HAMMERKLAVIER”
GIOVANNI CARLI BALLOLA
ra il novembre del 1817 e il marzo del 1819, contemporaneamente alla elaborazione del primo tempo e dello Scherzo
della Nona Sinfonia e del Kyrie della Missa Solemnis, nasceva una nuova sonata per pianoforte: la più estesa e imponente tra
quelle beethoveniane e tra le più grandiose creazioni strumentali
della storia della musica. Elaborata attraverso una quantità straordinariamente grande di appunti, la Sonata in si bemolle maggiore op.
106 è il corrispettivo pianistico della Nona Sinfonia, ma ciò limitatamente alle proporzioni inusitate; giacché la tensione sperimentale
che in essa si esplica supera di gran lunga quella dell’analogo sinfonico, dal quale differiscono anche i procedimenti compositivi adottati, che, per molti aspetti, fanno della Sonata un caso limite in tutta
l’opera beethoveniana.
Nulla di più errato del voler giudicare il primo tempo dell’op.
106 come un ritorno di Beethoven al titanismo eroico degli anni
della Quinta Sinfonia e dell’Egmont. L’iniziale sequela di accordi di
si bemolle maggiore che, su una lunga pedalizzazione espressamente
annotata, squassa da cima a fondo la tastiera, non può propriamente
dirsi un tema “eroico”, piuttosto una di quelle masse d’urto sonore,
dove il timbro assume la violenza e l’indeterminatezza di una forza
cosmica che il grande artefice abbia catturato e si appresti a forgiare
sulla propria incudine. Da essa ha origine il sistema strutturale su cui
è basata l’intera composizione, ossia quei rapporti tra gl’intervalli di
terza che, come ha dimostrato Charles Rosen, nell’op. 106 hanno la
prevalenza sul tradizionale giro delle quinte con una sistematicità che
non ha eguali in nessun’altra composizione del Maestro.
E da essa, come dalla massa materica della quinta vuota che
apre la Nona Sinfonia, scaturisce altresì l’Idea, sotto forma della
pacata risposta a tre voci reali che conclude l’organismo tematico di
base. Espressionismo di masse d’urto foniche, e un’aspra e fitta
trama polifonica simile alle maglie di una guaina metallica caratterizzano questo formidabile torso sonatistico in cui ogni elemento
strutturale si riorganizza secondo nuove relazioni interne e finalità
globali. Lo Scherzo, in un inusitato ritmo binario, sembrerebbe
riportare il discorso su terreni meno accidentati, se nel fluttuante
Trio in si bemolle minore non si verificasse una magica sospensione
T
120
dei valori timbrici, armonici e melodici in un clima di allucinata
fissità sonora; e se nel breve, misterioso Presto che fa da ponte tra
il Trio e la ripresa, non riapparisse quell’eversiva carica gestuale ed
espressionistica (la raffica di una precipitosa cadenza e lo schianto
di un tremolo di settima diminuita) racchiusa in ogni piega della
composizione e pronta a scatenarsi a tempo e luogo.
Si arriva così all’Adagio e sostenuto, sterminato poema dove si
libera in un pathos severo e trascendente quanto d’inespresso si
dibatteva nell’Allegro. Esso c’introduce nella nuova dimensione
beethoveniana della variazione integrale immessa nel sistema sonatistico: pullulare inesauribile di eventi sonori nel perpetuo trasfigurarsi una originaria immagine musicale, quasi un diamante dalle
mille sfaccettature che giri su se stesso mostrando ogni volta un
aspetto diverso. Alla magica spirale dell’Adagio segue un Largo
che è forse il più sconvolgente esempio di quell’ansia di far parlare
la materia sonora, ora interrogandola in toni supplichevoli, ora rabbiosamente torturandola, così tipica dell’ultimo Beethoven.
Qualcosa d’inaudito è prossimo a scaturire da quel tumultuoso,
scomposto monologo recitato sulla tastiera: ed è la “Fuga a tre voci
con alcune licenze”, formidabile mastio posto a coronamento della
grandiosa fortezza sonora. Dopo la conclusione della Sonata op.
102 n. 2 per pianoforte e violoncello e insieme con le polifonie
della Missa Solemnis, la Fuga nell’op. 106 rappresenta quanto di
più avventuroso e insieme di più rigorosamente determinato
Beethoven abbia tentato nel campo del contrappunto, superando in
questo perfino quell’altro colosso polifonico costituito dalla Grande
Fuga op. 133 per quartetto d’archi.
Essa consta di sei grandi episodi concatenati, nei quali si esplicano tutti gli artifici della polifonia applicati alla fuga. La prima
parte è la gigantesca esposizione introdotta dal soggetto che in
realtà è piuttosto un organismo tematico nel quale si possono
distinguere due elementi costitutivi: il lungo trillo, protervamente
scandito sulla sensibile dopo un salto di decima dalla dominante di
si bemolle; e la serpigna ed angolosa figurazione in semicrome che
segue. Sempre procedendo di terza in terza, attraverso un breve
“divertimento” in sol bemolle maggiore si passa alla seconda parte
dove il tema, nella tonalità di mi bemolle minore, riappare trasformato in valori raddoppiati. Un nuovo “divertimento” in la bemolle
maggiore, che si avvale ampiamente di materiali ricavati dal primo,
porta al terzo episodio, un canone in si minore dove il tema (tornato ai valori originari) fa le sue entrate successive per modo retrogrado, iniziando cioè, dall’ultima nota per finire con la prima: artificio di alto virtuosismo contrappuntistico, caro ai fiamminghi e
riportato in auge nel nostro secolo dalla tecnica seriale, ma del
qualo lo stesso Bach aveva fatto un uso alquanto sobrio.
121
L’ultimo pianoforte di Beethoven. Dono del fabbricante viennese Konrad
Graf (Bonn, Beethoven-Haus).
122
Nuovo “divertimento” basato sull’imitazione di frammenti
tematici, e quindi la quarta parte, in sol maggiore - mi bemolle
maggiore, nella quale le entrate tematiche avvengono per moto contrario. La quinta e sesta parte formano sostanzialmente un blocco
unitario, caratterizzato dall’intervento di nuovo materiale tematico,
il quale fa la sua comparsa in un episodio di 30 battute, in re maggiore, chiamato da Busoni “Novazione”: “una fughetta nella fuga,
quasi come un teatro nel teatro, dove si rappresenti un piccolo
dramma indipendente che ad un certo punto interferisce e si salda
col dramma principale”. Dopo questa oasi di calmo lirismo, siamo
gettati di nuovo tra i marosi più convulsi: ritorna il soggetto principale nella tonalità di base, prima in contrappunto doppio con quello
della precedente fughetta, poi, nello “stretto”, in lotta con se stesso
per moto contrario. La fuga vera e propria ha termine 20 battute
prima del libero epilogo, con una specie di allucinata cadenza dove
brandelli del tema si accavallano selvaggiamente sul rullio di un
lunghissimo pedale di trilli.
“Gl’immani sforzi di Beethoven per dominare la fuga furono
la lotta di un grande dinamico e suscitatore di commozioni […] in
questo modo di trattare la fuga si può notare quasi un odio e un
disiderio di violentarla”, leggiamo nel Doktor Faustus di Thomas
Mann, e sono parole che ci portano assai vicino alla sola soluzione
oggi plausibile di un problema critico - quale significato dare alla
Fuga conclusiva dell’op. 106 - attorno al quale si arrovellarono
generazioni di commentatori. Beethoven, sembra dirci Mann, drammatizzò la fuga, immettendo nel suo sistema morfologico dei rapporti di forze che costituivano l’irriducibile eredità del suo linguaggio musicale, segnato nell’intimo dalla forma-sonata. Da ciò l’immensa tensione drammatica di questa musica, il suo lancinante e
irrisolto conflitto interno, ma anche la sua visionaria, provocatoria
arditezza che si concreta in un repertorio di eventi sonori che esorbitarono dalle normali capacità ricettive del secolo, proiettandosi
con violenza in un futuro, quello delle avanguardie musicali del
Novecento, pronto a farne la propria eredità e il proprio segnacolo
ideale.
123
PAUL LEWIS
Considerato ormai come uno dei migliori artisti della sua generazione, si esibisce nei più importanti centri musicali e festival del mondo. La sua acclamatissima serie delle Sonate per pianoforte di Schubert, portata in numerose
sale del Regno Unito, gli ha fatto ottenere nel 2003 il South Bank Show
Classical Music Award e il Royal Philharmonic Society’s Instrumentalist of
the Year Award, oltre al titolo di Giovane Musicista Britannico del 2003. Ha
frequentato la Chetham’s School of Music e la Guildhall School of Music &
Drama con Ryszard Bakst e Joan Havill. È stato poi allievo di Alfred Brendel. Dopo i successi al World Piano Competition del 1984 e al Tunbridge
Wells International Young Artists Competition, ha partecipato al nuovo programma New Generation della BBC nel 1999 e nel 2000-2002 ha insegnato
pianoforte alla Royal Academy of Music di Londra. È stato inoltre scelto
dalla Wigmore Hall, insieme al Leopold String Trio, per la prestigiosa serie
Rising Stars della European Concert Halls Organisation nel 2001-2002. Paul
Lewis ha suonato nelle più prestigiose sale da concerto e festival britannici,
ma ha un forte legame affettivo con la Wigmore Hall di Londra, dove nelle
ultime quattro stagioni si è esibito non meno di 18 volte. Viene invitato inoltre in Europa, Australia e Stati Uniti e recentemente ha suonato per la prima
volta ad Adelaide, Amsterdam, Brisbane, Bruxelles, Canberra, Dallas, Firenze, Francoforte, Ginevra, Lucerna, Lyon, Madrid, Melbourne, Milano, Münster, New York, Parigi, Seattle, Sydney, Vancouver, Vevey, Vienna e Zurigo.
È ospite regolare dei BBC Proms, Festival Internazionale di Edimburgo,
Schubertiade Festival a Schwarzenberg, la Roque d’Anthéron in Francia e
dei Festival di Musica da Camera di Risor e Vancouver. Come camerista, ha
collaborato con prestigiosi artisti, tra cui Yo-Yo Ma, Michael Collins, Ernst
Kovacic, Haffner Wind Ensemble, Katherine Gowers. Ha suonato con importanti formazioni orchestrali e direttori quali Mark Elder, Ivor Bolton, Richard
Hickox, Emmanuel Krivine, Vassily Sinaisky e Gerard Schwarz. A parte la
serie delle Sonate di Schubert, altri eventi importanti delle ultime stagioni
comprendono un particolare allestimento della Die Schöne Müllerin di Schubert all’Opera di Francoforte, una lunga tournée in Australia con concerti,
recital e musica da camera, concerti al Musikverein di Vienna con la Hallé
Orchestra diretta da Mark Elder e un concerto BBC Prom con Paul Daniel e
la Bournemouth Symphony Orchestra. La stagione 2003/2004 lo ha visto
impegnato in varie città europee, tra cui Amsterdam, Budapest, Toulouse,
Bruxelles, Madrid, Barcellona e Londra, con la Philharmonia e Dohnanyi,
Wiener Symphoniker e Sawallisch, Hallé Orchestra e Swensen, City of London Sinfonia e Hickox e con la CBSO, un allestimento teatrale della Winterreise di Schubert a Francoforte e recital in Irlanda e Nord America. Paul
Lewis sarà impegnato nell’integrale delle Sonate per pianoforte di Beethoven
durante le stagioni 2005/2006 e 2006/2007 in importanti sale da concerto
europee e inglesi, tra cui la Wigmore Hall.
La sua prima registrazione per Harmonia Mundi (Sonate per pianoforte D.
784 e D. 958 di Schubert) ha incontrato l’entusiastico consenso sia della critica che del pubblico e ha vinto il Diapason d’Or Choc de l’Année 2002. Un
secondo CD con le Sonate per pianoforte D. 959 e D. 960 di Schubert è
stato pubblicato nel 2003 e ha vinto l’Edison Award per il 2004. Ha inciso i
Quartetti per pianoforte di Mozart insieme al Leopold String Trio per la
Hyperion Records. Nel 2004 Harmonia Mundi ha pubblicato un CD con la
sua registrazione di musiche di Liszt, tra cui la Sonata in si minore. Inoltre
proseguirà nell’incisione delle Sonate di Beethoven in contemporanea con i
cicli concertistici.
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Una caricatura di Ludwig van Beethoven.
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Antonio Vivaldi.
126
Mercoledì 12 luglio
Chiesa di Sant’Agostino
ore 20,30
ANTONIO VIVALDI
Venezia 1678 – Vienna 1741
L’Atenaide
Dramma per musica in tre atti su libretto di
Apostolo Zeno
(in forma di concerto)
Edizione Fondazione Cini - Venezia
Andrea Marcon
direttore
Orchestra Barocca di Venezia
Personaggi e interpreti
Atenaide
Varane
Pulcheria
Marziano
Teodosio
Probo
Leontino
Ruth Rosique Lopez soprano
Romina Basso mezzosoprano
Laura Rizzetto mezzosoprano
Franziska Gottwald mezzosoprano
Cristina Baggio soprano
Bartolo Musil baritono
Mark Tucker tenore
L’opera è trasmessa in diretta dalla RAI - Radio3
127
L’ATENAIDE DI ANTONIO VIVALDI
OSSIA GLI AFFETTI… GELOSI
FRÉDÉRIC DELAMÉA
iena occupa un posto di rilievo nella storia del teatro musicale di Vivaldi. È infatti in questa città, dove il Teatro Grande
aveva ospitato nell’estate del 1718 lo Scanderbeg del Prete
Rosso, che fu redatto nel mese di settembre 1939 l’atto di rinascita
dell’opera vivaldiana. Un atto adornato dalla firma prestigiosa di
Alfredo Casella, direttore artistico della “Settimana Vivaldi” organizzata dall’Accademia Chigiana, nel corso della quale la rappresentazione de L’Olimpiade al Teatro dell’Accademia dei Rozzi,
dopo una scelta di arie tratte da Ercole sul Termodonte, mettono
fine a quasi due secoli di oblio dei “drammi per musica” del Veneziano. L’esumazione di tesori lirici sotterrati essenzialmente nella
Biblioteca Nazionale di Torino da allora è sempre proseguita: Siena
ne aveva dato il segnale.
S
Sessantasette anni dopo quel memorabile avvenimento, la rappresentazione de L’Atenaide di Vivaldi a Siena sotto l’egida della
stessa Accademia consolida questo legame storico e permette di
assicurare finalmente la rivelazione di una delle più belle opere
della maturità del teatro vivaldiano.
Lo steccato del successo
Il 29 dicembre 1728 L’Atenaide fu rappresentata per la prima
volta sul palcoscenico del “Teatro di Via della Pergola” a Firenze.
Con questa nuova opera Vivaldi fu invitato per la terza volta nella
sua carriera sul prestigioso palcoscenico amministrato dall’Accademia degli Immobili. Al tempo della sua prima venuta nel 1718, egli
aveva avuto l’onore di inaugurare il nuovo teatro restaurato con
grandi spese sotto la direzione dell’architetto Pier Antonio Ticciati
e del pittore Giuseppe Tonelli. Invitato di nuovo alla Pergola nel
corso della stagione di Carnevale del 1727, vi aveva presentato la
sua Ipermestra il cui successo fu tale che l’abate Conti poté scrivere, in una lettera alla Contessa di Caylus datata 23 febbario 1727:
“Vivaldi ha fatto 3 opere in meno di 5 mesi, 2 per Venezia e la 3a
per Firenze. Quest’ultima ha rimesso in sesto il teatro toscano e ha
fatto guadagnare all’impresario molto denaro”. Una sola stagione di
Il Teatro della Pergola di Firenze nel 1678.
128
129
Carnevale era dunque trascorsa fra questo successo e il nuovo incarico a Vivaldi. Il Marchese degli Albizzi, il famoso impresario della
Pergola, non si era naturalmente dimenticato delle conseguenze
spettacolari per le sue finanze del precedente passaggio del compositore e prevedeva senza alcun dubbio di rinnovare l’operazione con
L’Atenaide. Questo interesse combaciava con quello di Vivaldi il
quale, di nuovo in urto con i teatri di Venezia, non poteva che trovare un vantaggioso tornaconto in questa nuova commissione. Ma
la storia, capricciosa, non doveva ripetersi.
Vivaldi aveva lasciato nel 1727 una Pergola la cui programmazione cominciava lentamente a piegarsi sotto la spinta della moda
napoletana. Due anni più tardi, egli ritrovò infatti una platea totalmente conquistata dal “gusto nuovo”. La programmazione dell’Albizzi nel corso delle stagioni di Carnevale e dell’estate 1728 aveva
in effetti aperto definitivamente il principale palcoscenico toscano
ai compositori e agli interpreti del Sud, con le rappresentazioni successive dell’Ermelinda di Leonardo Vinci e dell’Arianna e Teseo di
Niccolò Porpora. L’opera di Vinci, composta sull’inossidabile
libretto La fede tradita e vendicata di Silvani, era stata importata
da Napoli dove la sua prima rappresentazione nell’autunno 1726
aveva visto brillare i celebri castrati Berenstadt e Scalzi. Albizzi,
desideroso di ripetere il successo allora incontrato dall’opera, aveva
a sua volta scritturato Berenstadt nello stesso ruolo accanto al non
meno famoso Castore Antonio detto “Castori”. La scelta di Arianna
e Teseo di Porpora per la stagione dell’estate seguente confermava
il nuovo orientamento dell’Albizzi, dato che per attribuire maggiore
fasto a questa ripresa della versione originale veneziana, l’impresario aveva riunito una notevole compagnia di canto dominata da
Farinelli e dall’illustre “Cavaliere” Nicolò Grimaldi.
Invitando così Vivaldi subito dopo due dei suoi principali
rivali, Albizzi sembra avere voluto riprodurre a Firenze il fenomeno di emulazione creatrice che aveva caratterizzato a Venezia le
stagioni 1726-1727, quando le vivaldiane Dorilla in Tempe,
Orlando e Farnace avevano fieramente tenuto testa alle opere
napoletane del San Giovanni Grisostomo. Difatti, accanto ai veneziani, Albizzi programmò ancora una volta Vinci proponendo il
suo Catone in Utica come “opera seconda” del Carnevale, mentre
Vivaldi era stato incaricato di comporre l’“opera prima”. L’abile
gestione dell’Albizzi doveva portare i suoi frutti. Sotto il suo
impulso il pubblico infatti affluiva alla Pergola e le sere di spettacolo la folla nei dintorni del teatro era così numerosa che in quello stesso anno 1729 bisognò progettare la realizzazione di un
130
dispositivo di sicurezza al fine di proteggere i pedoni dal via vai
continuo delle carrozze e delle portantine. Dato che Via della Pergola non aveva un vero e proprio marciapiede, le serate d’opera
davano spesso luogo a tremendi incidenti. Gli Accademici colsero
dunque l’occasione dei lavori di ripavimentazione decisi dalle
autorità della città per far installare sulla strada uno “steccato
amovibile” di legno da fissarsi le sere di rappresentazione su di
uno zoccolo di pietra preparato a tale scopo sul pavimento della
via, assicurando così la sicurezza dei pedoni. Questo steccato, che
si estendeva da Via Sant’Egidio fino all’ingresso della Pergola,
nei giorni in cui non c’era spettacolo veniva riposto nei magazzini
delle scene ed era un vero e proprio accessorio di un teatro il cui
prologo si recitava ormai per la strada.
Dramma bizantino
Benché la voluminosa corrispondenza dell’Albizzi sia sfortunatamente silenziosa sulle condizioni di ingaggio di Vivaldi alla Pergola nel 1729, non è meno certo che a lui spettava la pura “scrittura”, senza il controllo diretto dell’organizzazione della stagione, e
che la scelta del libretto non competeva al compositore invitato. La
decisione di proporre al pubblico L’Atenaide di Zeno non era d’altronde molto in linea con i gusti letterari di Vivaldi, che aveva
sempre dimostrato un’aperta reticenza nei confronti delle opere del
suo prestigioso compatriota. In compenso Albizzi aveva avuto spesso l’occasione di dimostrare la sua fedeltà alla poesia drammatica
di Zeno, poesia di riferimento fino alla metà degli anni 1720, e
dunque fu probabilmente lui che propose a Vivaldi di mettere in
musica questo libretto dalla strana carriera. Nel 1729 L’Atenaide si
avvicinava al suo ventesimo compleanno e non aveva avuto fino ad
allora che un’unica messa in musica. Zeno aveva in effetti finito la
sua stesura nel corso dell’estate 1710 in vista di una rappresentazione alla corte di Carlo III di Spagna a Barcellona; tuttavia essa fu
annullata, senza dubbio per la partenza di Carlo III per Vienna
dove la morte di suo fratello l’aveva chiamato sul trono imperiale.
Sembra dunque che la prima rappresentazione dell’opera non sia
avvenuta che nel 1714 a Vienna, in una messa in musica collettiva
realizzata da Andrea Fiore (primo atto), Antonio Caldara (secondo
atto) e Francesco Gasparini (terzo atto). All’indomani di queste rappresentazioni, mentre Zeno rimaneva uno dei poeti più in voga,
nessun altro compositore pensò di nuovo di dedicarsi a questa Atenaide, stranamente trasformata nella Bella addormentata nel bosco
del “dramma per musica”.
131
Il frontespizio del libretto de L’Atenaide.
132
Giovan Gastone de’ Medici, Granduca di Toscana.
133
Eppure questo libretto storico non aveva niente da invidiare ai
suoi cugini Flavio Anicio Olibrio o Faramondo il cui successo non
veniva smentito. La storia di Zeno, direttamente ispirata dalla storia
di Atenaide, Imperatrice d’Oriente convertita al cristianesimo sotto
il nome di Eudoxia, metteva in scena un famoso episodio del regno
di Teodosio II (401-450), nipote di Teodosio I. Celebre per aver
convocato il Concilio di Efeso e come ispiratore del Codice teodosiano, Teodosio II lo fu anche per la sua debolezza nei confronti di
sua moglie e di sua sorella Pulcheria, opposte l’una contro l’altra
da una rivalità mortale. Il libretto di Zeno, depurato nella forma ma
complicato nella sostanza, ricama su questa trama storica raccontando, con un misto di quella grazia e di quella rigidezza caratteristiche della lingua del “Poeta Cesareo”, la storia di questo “ménage”
politico a tre del quale le passioni intrecciate dei personaggi vengono ad accrescere la complessità.
“La Turcotta” e “Il Balino”
Montesquieu, in viaggio in Italia, fu uno dei prestigiosi spettatori di questa Atenaide al momento della sua prima rappresentazione. Fra il 29 dicembre 1728 e il 2 gennaio 1729, dopo avere assistito a una delle prime rappresentazioni, egli confidò nel suo diario
di viaggio di “avere preso molto gusto a queste opere italiane”.
Fedele alla sua attitudine per l’osservazione del funzionamento
delle istituzioni, il magistrato francese eluse tuttavia ogni considerazione artistica concentrando le sue osservazioni sul modo di gestire
il teatro da parte degli Accademici di Firenze: “L’opera a Firenze egli scrive a proposito - costa molto poco. Ci sono dei gentiluomini
della città che si associano per farne una. Siccome essi hanno del
denaro, che pagano bene, essi ottengono tutto a miglior mercato
rispetto a quei miserabili impresari”. Pur privandoci così di una
preziosa testimonianza sulla prima dell’Atenaide, Montesquieu nondimeno mette in evidenza attraverso questa annotazione la singolarità dell’importanza di Vivaldi: a Venezia e nei diversi teatri dove
egli accentrava le funzioni di compositore e di impresario egli era
in effetti un uomo libero di agire in tutti i campi, ma sottoposto a
continui tracolli finanziari, responsabile personalmente di progetti in
cui egli impegnava il proprio denaro; a Firenze in compenso il suo
ruolo di compositore invitato gli faceva guadagnare in tranquillità
finanziaria ciò che perdeva in autonomia - la generosa borsa degli
Accademici metteva a sua disposizione dei mezzi incomparabili - in
particolare per la scrittura dei cantanti. Infatti, in mancanza di una
compagnia sapientemente messa insieme secondo i suoi gusti, egli
134
Locandina della prima Settimana Musicale Senese.
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dovette beneficiare per L’Atenaide di una notevole scelta di grandi
voci selezionate e retribuite dagli Accademici.
Nel primo rango di questi cantanti, nel ruolo della protagonista, figura il celebre soprano fiorentino Maria Giustina Turcotti che
Montesquieu evocò nel suo diario paragonandola alla grande Faustina Bordoni: “Cantò la Turcotta […] – scrisse il viaggiatore francese
dopo aver visto L’Atenaide – . È, si dice, la seconda attrice d’Italia,
la Faustina è la prima”. Un grosso complimento per una cantante
che, undici anni dopo il suo debutto a Siena, era allora in piena
apoteosi. Invitata di volta in volta a Venezia, Bologna, Milano,
Genova, Livorno e Palermo, essa arrivò ad essere consacrata a
Napoli nel corso dell’anno 1727, cantando in due riprese il ruolo di
“prima donna” al San Bartolomeo ne La caduta de’ decemviri di
Leonardo Vinci e nel Gerone tiranno di Siracusa di Johann Adolf
Hasse, i due maestri più famosi dell’opera napoletana. È una Turcotta in pieno possesso dei suoi mezzi vocali e scenici che Vivaldi
doveva infatti far cantare dieci anni prima che il suo eccessivo peso
la privasse di una parte degli elogi che le erano stati fino ad allora
riservati: nel 1738, dopo averla sentita in un concerto privato a
Bologna, il Principe Carlo Alberto di Baviera loderà ancora la sua
“voce molto bella” ma rimpiangerà “che la grassezza eccessiva le
impedisca di cantare sulle scene”. Due anni più tardi fu Albizzi
che, citandola sempre fra le più grandi cantanti dell’epoca, non
potrà impedirsi di rimpiangere che essa fosse diventata “un mostro
di grassezza”. La stella maschile della compagnia era senza dubbio
il tenore bolognese Annibale Pio Fabri, interprete del ruolo del filosofo ateniese Leontino, padre di Atenaide. Il cantante, considerato il
più grande tenore dei suoi tempi, era allora all’apice della sua gloria. Adulato dai compositori napoletani, da Leo a Porpora passando
per Sarro, Vinci e Feo, vezzeggiato da tutti i teatri italiani, a
cominciare da quelli di Roma e di Napoli e naturalmente di Venezia da dove veniva dopo aver cantato nell’Arianna e Teseo di Porpora, colui che i suoi contemporanei soprannominavano “Balino”,
doveva quello stesso anno riunirsi alla compagnia di Händel a Londra per partecipare alle prime rappresentazioni di Lotario, Ezio e
Poro al King’s Theatre. Con L’Atenaide Vivaldi e Fabri collaboravano per la quinta volta nella loro carriera. Fu del resto Vivaldi,
grande scopritore di voci, che aveva per primo notato Balino all’inizio della sua carriera e che gli aveva offerto la sua prima scrittura
su un palcoscenico veneziano in Arsilda regina di Ponto rappresentata al Sant’Angelo nel 1716 nel corso della stagione d’autunno.
Immediatamente scritturato dai più grandi teatri d’Italia, Fabri
136
aveva nondimeno proseguito la sua collaborazione con Vivaldi cantando successivamente ne L’incoronazione di Dario nel corso del
Carnevale del 1717, Armida al campo d’Egitto nella Primavera del
1718 e La Silvia durante l’estate del 1721. In seguito i contatti fra i
due uomini si erano tuttavia allentati e fu solo grazie a Ipermestra
e a L’Atenaide, i due incarichi ricevuti dalla Pergola nel 1727 e nel
1729, che Vivaldi poté di nuovo, ma per l’ultima volta, far cantare
il suo vecchio pupillo.
Accanto a questi due astri reclutati dall’Albizzi, Vivaldi era
riuscito a fare ammettere nella compagnia la sua fedele allieva
Anna Girò. La più famosa delle cantanti scritturate dal Prete Rosso,
sia per l’onnipresenza nelle sue opere, sia per lo scalpore suscitato
dai loro stretti rapporti, aveva già acquisito una solida reputazione.
Apparsa per la prima volta sulle scene liriche nel 1723 all’età di 13
anni, era stata rivelata al pubblico veneziano l’anno seguente. Fin
dai suoi primi ruoli, essa aveva confermato doti eccezionali di attrice, portando Vivaldi a comporre per lei alcune delle più grandi
scene drammatiche della sua opera teatrale. Con il ruolo di Pulcheria, la virile sorella di Teodosio, essa assunse un ruolo fatto su
misura per il suo gusto per l’azione teatrale unanimemente riconosciutole dai suoi contemporanei.
Oltre a queste tre celebrità, Vivaldi aveva a disposizione anche
due cantanti di minore notorietà ma di grande talento. Nel ruolo
dell’Imperatore Teodosio, il giovane castrato soprano milanese Gaetano Valletta proseguiva una carriera già ricca di scritture prestigiose: dopo aver debuttato tre anni prima al Teatro Capranica di Roma
come protagonista della Statira di Tomaso Albinoni e de Il trionfo
di Camilla di Leonardo Leo, questo giovane protetto dall’Imperatore d’Austria, membro della Cappella Imperiale di Milano, era stato
a sua volta appoggiato dai compositori napoletani. Porpora l’aveva
infatti fatto cantare nel suo Siroe re di Persia dato a Roma nel
1727, prima che Hasse lo scritturasse a Napoli accanto a Carestini
nei suoi Gerone e Attalo rè di Bitinia. Anche se Valletta non
divenne mai un fedele di Vivaldi, doveva tuttavia ritrovarlo a
Venezia sei anni dopo L’Atenaide fiorentina per interpretare il ruolo
di Roberto nella prima rappresentazione di Griselda. Nel ruolo del
rivale amoroso di Teodosio, il Principe di Persia Varano, c’era una
cantante “en travesti” che fu scelta nella persona di Elisabetta
Moro, rinomato contralto veneziano che aveva cominciato la sua
carriera sette anni prima a Verona. Essa, già abituata ai ruoli
maschili, aveva già cantato per Vivaldi a Venezia nel corso del
137
Carnevale del 1726 e sarebbe stata di nuovo da lui scritturata nel
corso degli anni seguenti, in particolare per cantare il ruolo di Fulvio nel Catone in Utica nel 1737.
Altri due cantanti completavano la compagnia: nel ruolo di
Marziano, capitano degli eserciti di Bisanzio, il contralto fiorentino
Anna Maria Faini confermava la breve parentesi seria di una carriera interamente dedicata al teatro comico, mentre nel ruolo di Probo,
confidente e servitore dell’Imperatore Teodosio, Gaetano Baroni,
anch’esso fiorentino, sembra aver fatto la sua prima apparizione
pubblica in un teatro d’opera.
Maturità vivaldiana
Vivaldi dovette comporre per questa compagnia una partitura
che rifletteva clamorosamente la profonda evoluzione stilistica iniziata dal suo ritorno a Venezia nel 1726. Questa evoluzione, che
aveva raggiunto con l’Orlando furioso del 1727 un equilibrio mirabile, lo aveva portato a fondere progressivamente in un linguaggio
unico la vecchia tradizione veneziana, le sue stesse innovazioni nell’ambito dell’orchestrazione e della conduzione della voce e l’idioma galante reso popolare dai compositori della nuova generazione.
Dopo un decennio di prove audaci e di esperienze disparate, Vivaldi aveva risolutamente raggiunto il periodo della maturità. Nel
mezzo di una programmazione dominata dalle opere napoletane,
L’Atenaide, benché conservi il taglio tradizionale di un dramma per
musica in tre atti e assicuri all’“aria con da capo” una supremazia
assoluta, afferma infatti una profonda originalità stilistica unita a
una formidabile ricchezza musicale.
Questa grandissima ricchezza musicale si manifesta innanzitutto
in un numero elevato di arie ammirevoli. Molte di esse, prese in prestito dai recenti Farnace e Orlando furioso, riflettono il successo
riscosso al momento della prima rappresentazione da queste arie
debordanti di vitalità ritmica e di linfa melodica messe al servizio di
una sottile esplorazione dei sentimenti umani: appassionato eroismo
con “Nel profondo cieco orrore” di Varano presa in prestito da “Nel
profondo cieco mondo” del paladino Orlando; esplosione di esultanza
amorosa con “Tanto lieto ho il core in petto” modellata sul “Troppo
è fiero il Nume arciero” dello stesso eroe; furore bellicoso di Teodosio in “M’accende amor” attinta dall’energica “Alza in quegl’occhi”
della maga Alcina; riservata confessione di Pulcheria nella sua crepuscolare “Te solo penso ed amo” adattata da “Forse o cara” della
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Alfredo Casella in una fotografia dedicata al Conte Chigi.
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Regina Tamiri in Farnace; tempesta emotiva della stessa con la
ripresa di “Sorge l’irato nembo” di Orlando. Ciascun adattamento,
che adatta il testo poetico di Zeno alla prosodia del modello, testimonia la volontà del compositore di esibire le sue più belle pagine
davanti al pubblico fiorentino, esplorando da vicino anche i nodi del
dramma e la psicologia dei suoi protagonisti.
Ma accanto a queste assennate riprese, Vivaldi fece ugualmente posto alle novità con una successione di arie composte apposta
per l’occasione, in particolare per il ruolo della protagonista. Infatti
la patetica “Infausta reggia addio”, dall’orchestrazione depurata, e
“In bosco romito”, affascinante affresco psicologico in fa minore
basato su un opprimente ritmo sincopato, dipingono il crollo morale
dell’eroina. La medesima ricchezza creativa per il ruolo di Pulcheria, arricchito nella chiusura del primo atto della abbagliante
“Quanto posso a me” dalla sontuosa melodia, una delle più inebrianti del teatro vivaldiano, incastonata in uno scrigno strumentale
degno dei più bei concerti della maturità del compositore. Novità
ancora con il grande monologo di Atenaide al terzo atto che si
dispiega al momento in cui l’Imperatrice, perseguitata da Varane,
abbandonata da Pulcheria e condannata all’esilio da Teodosio, si
risolve a lasciare Bisanzio per finire i suoi giorni come una semplice pastorella in un bosco solitario o su una piaggia desolata (“In
bosco romito / In povero lito”). La pagina scritta qui da Vivaldi,
stupefacente scena che fonde in una successione di tempi e di metri
contrastanti recitativo secco, recitativo accompagnato, arioso e aria
per comporre una vera e propria “Follia di Atenaide”, costituisce
incontestabilmente uno dei vertici della sua opera lirica.
Un sonetto per la Girò
Tuttavia, malgrado l’eccellenza della sua compagnia e lo
splendore della sua musica, L’Atenaide sembra essere stata accolta
male da Firenze. Il 5 febbraio 1729 il Marchese Ferdinando Bartolommei scriveva difatti da Vienna all’impresario Albizzi per consolarlo del “cattivo incontro che aveva avuto quella (opera) dell’Atenaide che si rappresentava”. Due settimane prima, il 22 gennaio
1729, quando i preparativi per la seconda opera della stagione
erano completati, Camillo Pola, un altro corrispondente dell’Albizzi,
gli scrive da Venezia, ricordando il fiasco di Atenaide e augurandogli che il Catone in Utica di Vinci compensi i “danni” subiti dall’impresario a causa della prima opera. Gli auguri di Pola furono
d’altronde esauditi, dato che meno di un mese più tardi, il 18 febbraio 1729, egli poteva scrivere di nuovo all’Albizzi per dirgli:
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“Sarete ben presto alla fine delle vostre fatiche, ed ho piacere che
il Catone posto da voi in scena riesca, e vorrei che potesse rimetervi dalli discapiti sofferti nell’Atenaide”.
Il fiasco fu completo o esso riguardava in particolare la Girò,
della quale le male lingue e gli spiriti ben pensanti si erano fatti un
bersaglio privilegiato? È certo però che sei anni più tardi, quando
Albizzi commissionò malgrado tutto una nuova opera a Vivaldi, gli
dovette confidare che gli Accademici non erano molto favorevoli
all’idea di scritturare la cantante, precisamente a causa della prestazione offerta ne L’Atenaide. Albizzi infatti scriveva a Vivaldi il 16
aprile 1735: “Subito proposi la signora Anina per prima donna: oh
quante mai opposizioni mi furno fatte, che ella non era nel rango di
quelle che vediamo qua e che non incontrò l’ultima volta che ci
stiede”.
Nondimeno, verso la fine della stagione del 1729, quando
Anna Girò era rientrata a Venezia, Albizzi si era informato presso
le sue conoscenze veneziane delle reazioni della cantante riguardo
al suo soggiorno a Firenze ed essa aveva fatto sapere “che si chiami molto contenta del trattamento e regali ricevuti costì, e si protesta essere stata da tutti generosamente favorita”. In effetti l’opinione del pubblico della Pergola nei confronti della cantante fu forse
un po’ meno netta di quella espressa dagli Accademici sei anni
dopo. L’interpretazione della Girò in Atenaide fornì peraltro l’occasione per un sonetto, distribuito in teatro, per lodare “il singolare
merito” della cantante e più in particolare “la meravigliosa” maniera in cui ella cantò l’aria di Pulcheria “L’occhio nero, il ciglio altero”:1 “Non così par, che tra le fronde il vento / Né così l’Usignol
d’amor favelle / Qual tocca ogni alma il tuo soave accento / Che
1
Un’aria inizialmente composta da Vivaldi per il soprano Lucrezia Baldini, interprete del ruolo di Zaffira in Rosilena ed Oronte, opera rappresentata a Venezia nel corso del Carnevale precedente. “L’occhio nero, il ciglio
altero” non figura però nel libretto a stampa di Atenaide e fu dunque inserita nell’opera nel corso delle rappresentazioni, probabilmente per rimpiazzare un’altra aria di Pulcheria (senza dubbio la sua “aria di amore” nel
terzo atto “Te solo penso ed amo”, a meno che l’inserimento non sia stato
destinato a rimpiazzare l’“aria di tempesta” di Pulcheria del secondo atto
“Sorge l’irato nembo”, aria di bravura che superava certamente le capacità
della cantante). Inoltre non sarebbe meno plausibile pensare che questo
cambiamento, aggiungendosi ai quattro altri menzionati alla fine del libretto
(due per Leontino e due per Marziano), potrebbero aver espresso la volontà
del compositore di rimaneggiare la sua opera nel corso delle rappresentazioni in seguito alla cattiva accoglienza da parte del pubblico.
141
Busto marmoreo di Teodosio II (Parigi, Museo del Louvre).
142
ha mille incanti, e gentilezze ancelle”, scriveva l’anonimo autore di
questo omaggio dal lirismo generoso. L’origine di questo testo è
del tutto sconosciuta: esso traduceva l’entusiasmo personale di un
ammiratore, il calcolo orchestrato di un protettore, l’adulazione
interessata degli organizzatori oppure esprimeva l’emozione sincera
di uno spettatore commosso dalla cantante? Nel mondo delle false
apparenze che caratterizzava già la scena lirica, è certamente difficile pronunziarsi. Ma l’esistenza di questo sonetto, associata alla
testimonianza di Montesquieu che, lontano dal rievocare un fiasco,
ricorda in termini favorevoli l’opera e la sua compagnia, insinua il
dubbio sulle eco viennesi e veneziane che riferiscono del fiasco de
L’Atenaide. Fiasco o cabala? La questione merita in tutti i casi di
essere posta. In effetti molti fattori convergono a Firenze in quel
Carnevale del 1729 per rendere plausibile la seconda ipotesi. L’ostilità del patriziato nei confronti di Vivaldi dentro e fuori Venezia? Il
folgorante successo della moda napoletana con il corteo di anatemi
che accompagna sempre i nuovi trionfi? O, più semplicemente, l’irrimediabile scissione fra il mondo teatrale incarnato da Vivaldi ed
un pubblico definitivamente rivolto verso altri orizzonti artistici?
Questa d’altra parte è la spiegazione che fu suggerita dallo stesso
Albizzi se si crede all’affermazione fatta a malincuore da Ferdinando Bartolommei nella sua lettera del 5 febbraio 1729: “Ma, come
dite ottimamente, il nostro paese non è in oggi proprio per simili
feste e divertimenti”. Manifestamente Albizzi metteva dunque le
aspre critiche ottenute da L’Atenaide più in conto all’aria dei tempi
che non a quella dell’opera: “Sono persuaso – scriveva d’altronde
Bartolommei alla fine di questa lettera – che ciò sempre più vi faccia perdere il gusto di continuare nell’ingerenza dell’opera di cotesto teatro”. Vana predizione dato che Albizzi avrebbe continuato ad
amministrare la Pergola ancora per molti anni ed a invitarvi di
nuovo Vivaldi per il Carnevale del 1736 con la sua Ginevra.
Il secondo respiro di Atenaide
Sia che avesse dovuto sopportare una cabala o un fiasco,
Vivaldi non si trattenne molto a lungo a Firenze dopo le rappresentazioni de L’Atenaide. Nel mese di gennaio egli era di ritorno a
Venezia ed è poco probabile che si sia recato di nuovo alla Pergola
il 1° marzo 1729 quando, una volta che fu finito il Carnevale, gli
Accademici dettero in gran pompa un ballo nella platea del teatro,
primo ballo pubblico della storia dell’Accademia. Nella sala “riccamente illuminata” alla veneziana e sul proscenio, dove una scena di
“Gabinetto Reale” accoglieva tre grandi tavoli da gioco (due per la
143
Antonio Vivaldi in una caricatura.
144
“bassetta” e uno per il gioco del trentuno), troppi nemici, gelosi o
invidiosi aspettavano il compositore. Per Vivaldi L’Atenaide, ossia
gli affetti generosi aveva fatto troppo rima con L’Atenaide, ossia
gli affetti gelosi per fargli conservare il gusto delle mondanità. Con
o senza “bassetta” i suoi giochi fiorentini erano già fatti.
Al di là di Firenze, un avvenire si apriva tuttavia davanti alle
bellezze della sua ultima opera. La partitura conservata a Torino,
un’ampia revisione della versione originale, testimonia infatti che
L’Atenaide fu rivista da Vivaldi all’inizio degli anni Trenta del Settecento in previsione di una nuova produzione. In questa unica versione che ci è stata conservata dell’opera, Teodosio mantiene senza
alcun cambiamento le sue cinque arie della versione originale e soltanto il suo terzetto con Leontino e Atenaide nell’atto terzo (n. 18)
“Sento che per l’affetto” scompare. Tranne che per la perdita di questo stesso terzetto, il ruolo di Atenaide rimane in egual modo praticamente immutato, conservando le sue cinque arie della versione originale, così come la sua grande scena dell’atto terzo. L’Imperatrice eredita tuttavia un’aria supplementare al terzo atto (n. 19), “Sì son tua
padre amoroso”, e un’aria alternativa in chiusura dell’atto secondo,
“Sovrana sul trono”. Da parte sua Pulcheria conserva quattro delle
sue arie ma perde l’“aria di baule” di Anna Girò dell’atto primo (n.
4), “Non trova in me riposo”, in favore di una nuova aria, più ambiziosa, “Là sul margine del rio”, possibile indizio dell’assenza dell’Annina nella compagnia di questa ripresa. Varano conserva da parte
sua l’integralità delle sue cinque arie e arricchisce il suo ruolo della
superba cavatina “Reggia amica” in apertura della scena dell’atto
primo (n. 8), pagina palpitante dallo strano tema dissonante che
richiama l’inizio del concerto “L’Inverno”. Probo infine vede il suo
ruolo rinforzato dall’aggiunta di una terza aria, la formidabile “Alme
perfide” piazzata all’inizio del terzo atto.
I personaggi di Leontino e di Marziano furono molto ritoccati
nella revisione della partitura originale. Il ruolo di Leontino, tagliato su misura per l’eccezionale Fabri, fu in realtà ricondotto ad un
formato più convenzionale e senza dubbio semplificato nel suo contenuto musicale per adattarsi ai mezzi di un cantante meno fuori
del comune. Ricondotto a un ruolo di tre arie, al posto delle cinque
più il terzetto della versione originale, il nuovo Leontino non conserva della versione fiorentina che “Se cieco affetto” e perde il
gruppo delle altre arie cantate da Fabri. Due nuove arie, senza dubbio meno difficili delle precedenti, “Ti stringo in quest’amplesso”
all’apertura dell’opera e “Non s’accende” al n. 10 dell’atto primo,
vengono a sostituirle. Per quanto riguarda Marziano, la revisione
145
del suo ruolo doveva essere l’occasione di inserire nella partitura
due capolavori assoluti. Nel secondo atto “Misero è quel nocchier”,
presa in prestito dalla Dorilla in Tempe del 1726, è rimpiazzata
dalla mirabile “Bel piacer di fido core”, orchestrata per archi e due
flauti a becco. Un’aria dalla delicata costruzione orchestrale che
alterna vaporose sezioni “di bassetto” a sortite solistiche degli strumenti a fiato e a possenti unisoni drammatici. Quanto alla commovente “Cor mio che prigion sei”, essa permette a Marziano di cantare un’aria supplementare nel terzo atto. Con la sua dolorosa melodia, ondulante su un delicato accompagnamento degli archi pizzicati, quest’aria offre all’opera uno dei suoi nuovi vertici espressivi.
Nessuna testimonianza di una rappresentazione di questa nuova
versione de L’Atenaide ci è giunta. In mancanza del libretto, non
potrebbe d’altronde escludersi che l’opera così rivista da Vivaldi sia
stata concepita in prospettiva di una ripresa che non fu poi effettivamente realizzata. Il periodo durante il quale avvenne questa revisione permette nondimeno di formulare diverse ipotesi riguardo ai
progetti del compositore che potrebbero essere collegati all’occasione di uno dei suoi viaggi nell’Europa centrale nel 1729-30. L’idea
che Vivaldi abbia potuto esportare a Vienna la sua Atenaide in
occasione di una delle sue tre visite nella capitale imperiale, appare
particolarmente seducente. La sua presentazione all’Imperatore
Carlo VI, antico protettore di Zeno e primo dedicatario del libretto
dell’opera nel 1710 e nel 1714, potrebbe in effetti aver costituito
per Vivaldi un abile mezzo per sensibilizzare il monarca verso il
suo talento di compositore d’opera, nel momento in cui si contava
che egli potesse produrre le sue opere nella capitale austriaca.
Un’altra pista è offerta dai legami che univano all’epoca Vivaldi
alla Corte di Sassonia. L’interesse degli ambienti artistici di Dresda
per l’opera vivaldiana risaliva in effetti all’inizio degli anni 1730,
quando l’ascesa di Pisendel alla direzione dell’orchestra della Corte
dette un nuovo slancio alla moda vivaldiana in Sassonia.
Vivaldi, che moltiplicava allora la sua attività teatrale fuori di
Venezia, sembra peraltro che stesse a quell’epoca progettando di far
rappresentare una sua opera completa a Dresda. Una raccolta di
ventiquattro arie e un terzetto conservate nella Biblioteca di Stato
della città testimonia questo progetto, le cui modalità e tempi
rimangono tuttavia misteriosi. Queste pagine, forse vendute da
Vivaldi a un impresario locale in vista della preparazione di un
“pasticcio”, provengono dalle opere più recenti del compositore e in
particolare da L’Atenaide, della quale sei arie figurano nella raccolta, accanto a pagine provenienti da Farnace (Pavia 1731 e Mantova
146
1732), La fede tradita e vendicata (Venezia 1726), La fida ninfa
(Verona 1732) e Semiramide (Mantova 1732). Non è dunque
impossibile che nella stessa occasione Vivaldi abbia contato di
poter fare rappresentare a Dresda la nuova versione completa della
sua opera fiorentina.
In quello stesso periodo molte arie de L’Atenaide viaggiavano
attraverso l’Europa nelle riprese anonime de La Silvia di Vivaldi
avvenute fra il 1730 e il 1732 a Venezia e a Breslavia. Fra Vienna,
Dresda e la Slesia, l’opera fiorentina di Vivaldi poteva finalmente,
una volta venuto il suo turno e secondo i giusti corsi e ricorsi delle
cose, “rimetersi dalli discapiti sofferti”.
(Traduzione dal francese di Guido Burchi)
Una moneta coniata sotto l’Impero di Teodosio II.
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TRAMA DELL’OPERA
Atto I
In un dialogo pieno di tenero affetto, Leontino saluta la figlia Atenaide che si accinge a sposare Teodosio e a diventare imperatrice.
Le porge dei consigli per il suo bene e per quello dello Stato rievocando le passate vicende relative a Varane, Principe di Persia, e
all’amore che un tempo ha legato i due giovani.
Mentre Atenaide, rimasta sola, si propone di essere fedele a Teodosio, Pulcheria, sorella dell’Imperatore, la saluta festosamente e le
annuncia che per la cerimonia di nozze giungerà anche Varane. A
questa notizia, da cui Atenaide rimane turbata, Marziano, Generale
di Teodosio, rivela che il Principe persiano ama Pulcheria e spera
di rendere pubblico il legame con lei in questa occasione. Marziano, che a sua volta ama segretamente Pulcheria, la esorta a non
accettare la proposta di Varane e a rimanere con i suoi saggi consigli vicina a Teodosio. Pulcheria, che è innamorata di lui, si rivela e
gli chiede di evitarle le nozze con Varane. Nel frattempo anche
Probo, Prefetto del Pretorio, confessa a Pulcheria il proprio amore
per lei; non ricambiato, egli rivela allora a Teodosio l’amore di
Marziano per la sorella. I due decidono di allontanare Marziano
nella speranza che Pulcheria possa unirsi con Varane, onde evitare,
al contempo, di inimicarsi un temibile avversario politico. Teodosio
canta il proprio amore per Atenaide. Probo rassicura il sopraggiunto
Varane che lo aiuterà a far sua Atenaide, ma Leontino contrasta
questa unione e Varane medita vendetta. Questi si reca allora da
Teodosio per chiedere la mano di Pulcheria; l’Imperatore accondiscende e decide di allontanare Marziano inviandolo in battaglia.
Atto II
Teodosio rivela a Varane il proprio amore per la promessa Atenaide che si nasconde sotto il nome di Eudossa. Quando il Principe
persiano viene presentato alla futura sposa, il turbamento dei due è
tale che Teodosio ne chiede il motivo e Atenaide è costretta a rivelare il passato amore con Varane e a svelare la sua duplice identità.
Teodosio, sdegnato, interrompe i preparativi per le nozze e si confida con Pulcheria la quale gli consiglia di lasciare Atenaide a Varane. Teodosio vuole invece allontanare il rivale e concedere ad Atenaide la possibilità di riscattarsi. Marziano canta il proprio amore
per Pulcheria prima di partire per la battaglia e Leontino porge le
proprie scuse a Teodosio per aver taciuto sulla reale identità della
figlia. In un acceso confronto con Teodosio, Varane rivendica la
148
propria amata. I due contendenti concordano nel lasciare che sia
Atenaide a decidere. Teodosio affida a Probo l’anello che Atenaide
dovrà consegnare al prescelto. Vano è il tentativo di Varane di ottenere il perdono e l’amore di Atenaide. Leontino esorta la figlia a
fuggire da Bisanzio poichè la contesa tra i due rivali potrebbe scatenare guerre e distruzioni: salda nella sua fedeltà all’Imperatore,
Atenaide rifiuta.
Atto III
Probo, in preda alla gelosia, tradisce la volontà di Atenaide, che in
realtà aveva prescelto Teodosio, consegnando l’anello all’ormai rassegnato Varane. Teodosio, addolorato, viene consolato da Pulcheria
che gli suggerisce di partire per non dover sopportare la vista dei
due amanti e gli promette che vendicherà il torto subito. Pulcheria
scatena la propria ira sulla sorpresa Atenaide e la invita ad andarsene. Anche Teodosio, ferito nell’orgoglio, scaccia Atenaide che non
comprende il suo risentimento e se ne lamenta proclamandosi innocente. Nel frattempo Marziano, ritardando rischiosamente la sua
partenza per i combattimenti, saluta Pulcheria che lo esorta a partire. Probo mente a Varane e gli riferisce che, venendo meno agli
accordi presi, l’Imperatore tiene prigioniera Atenaide; lo stesso
Probo si offre di riprenderla. Marziano, che è rimasto nascosto,
ascolta i progetti amorosi di Varane. Questi è interrotto dall’arrivo
di Leontino e Atenaide la quale non capisce l’ingiusto comportamento di Teodosio e, convinta dal padre, lascia malinconicamente
la reggia seguita in segreto da Varane. Teodosio, accortosi della
fuga, ordina che i due siano riportati a Palazzo. Ma Leontino,
sopraggiunto, rivela che Varane ha rapito Atenaide minacciandolo
con le armi. Teodosio, adirato con Leontino, vuole inseguire personalmente i due fuggitivi ma Probo si offre di andare al suo posto.
Teodosio e Pulcheria, grazie alle rivelazioni di Leontino, si rendono
conto finalmente dell’inganno di Probo. L’Imperatore, in preda
all’ira, convoca i suoi fedeli nell’Ippodromo mentre Pulcheria,
rimasta sola, rivolge a Marziano il suo pensiero d’amore. Giunge
Marziano che, di fronte a Teodosio e i suoi fedeli, smaschera definitivamente Probo che si dichiara colpevole. Improvvisamente appare Atenaide che, accolta dalle amorose parole di Leontino e di Teodosio, afferma di essere stata liberata da Marziano. Questi narra di
avere affrontato vittoriosamente Varane e Probo: il primo è riuscito
a fuggire mentre il secondo è stato preso prigioniero. Mentre Teodosio accondiscende all’unione di Pulcheria con Marziano, ritorna
improvvisamente Varane che addossa tutte le colpe a Probo e chiede perdono all’Imperatore. In un tripudio finale Teodosio concede il
perdono e afferma il trionfo dell’innocenza e del valore.
149
LIBRETTO
150
ARGOMENTO
Eudossa figliuola di Leonzio, o Leontino Filosofo Ateniese, si era
rifugiata in Costantinopoli per sottrarsi dall’Amor di Varane Principe della Persia, e figliuolo del Re Isdegarde, quell’istesso, che il
Padre di Teodosio il Giovane in morendo, nominò Tutore de’ suoi
figliuoli. Ella prima si chiamò Atenaide, ma dipoi essendo stata
battezzata da Attico Patriarca di Costantinopoli, aveva preso il
nome di Eudossa. Avendola quivi veduta esso Teodosio, se ne
invaghì, e mosso non tanto dalla bellezza del corpo, quanto dalla
eccellenza dell’ingegno di lei, la quale era dottissima, essendo stata
allevata dal Padre nelle Scienze, la prese per moglie, anche di consenso di Pulcheria sua Sorella, la quale potea molto sull’animo dell’Imperatore Suo fratello. Parlano di questo fatto gl’Istorici Greci
Zonata, Teofano, ed altri.
Ha servito all’intreccio del Drama il fingere, che Varane si portasse
a Costantinopoli, seguendo la Sua Atenaide con intenzione di sposarla, ancorché in Atene avesse ricusato di farlo, ed ivi insistesse,
deposta l’alterigia del suo fasto, per ottenerla, non ostante, che la
trovasse già destinata a Teodosio, il quale meditava di darli la
Sorella Pulcheria amata da Marziano Generale dell’Imperio. Il rimanente di ciò, che si finge, come la segreta corrispondenza di Pulcheria a Marziano, gli amori di Probo per la medesima, le sue
gelosie, ed il suo tradimento, s’intendono facilmente nella tessitura
del Drama intitolato Atenaide.
La Scena si rappresenta nella Regia di Bizanzio, ora Costantinopoli.
Attori
TEODOSIO II Imperatore Amante di Atenaide
ATENAIDE sotto nome di Eudossa figlia di Leontino
PULCHERIA Sorella di Teodosio
VARANE Figlio d’Isdegarde Re de’ Persi Amante di Atenaide
LEONTINO Filosofo Padre di Atenaide
MARZIANO Generale di Teodosio Amante di Pulcheria
PROBO Prefetto del Pretorio Amante di Pulcheria
MUTAZIONI DI SCENE
Atto Primo
Loggiato corrispondente al Palazzo Imperiale.
Cortile Imperiale.
Atto Secondo
Salone Magnifico.
Gabinetto Imperiale.
Atto Terzo
Cortile corrispondente al Giardino.
Galleria.
Ippodromo.
151
ATTO I
SCENA PRIMA
Loggiato corrispondente al Palazzo Imperiale.
Atenaide, sotto nome di Eudossa, e Leontino
Atenaide
Fausta per me risplende
Di quello dì la chiara luce, o Padre,
Se da te mi principia.
Leontino
Questi, in cui posso ancora
Favellarti da Padre ultimi instanti;
Spendansi meglio. In breve
La turba adulatrice
Vassalla e serva a te d’intorno accolta
S’affollerà. Attenta Eudossa ascolta.
Atenaide
Attendo i tuoi consigli, anzi li bramo.
Leontino
Qual fosti e qual fra poco
Sarai, ti si rammenti.
Atene è la tua Patria: ivi sortisti
Col nome d’Atenaide illustri fasce;
Ma non però reali.
Io ti fui Padre,…
Atenaide
E guida
A gli arcani mi fosti alti recessi,
Ove umano pensier rado s’innalza.
Leontino
La tua propizia stella esaminai;
D’allor previdi il trono
Ch’empier dovevi; in essa
Vidi il tuo Fato, assai più chiaro il vidi
Nel tuo bel volto e nella tua grand’alma.
Atenaide
Dono del Cielo e tuo.
152
Leontino
Beltà e virtude in te crescean con gli anni.
Quando del Re de’ Persi il figlio erede…
Atenaide
Varane il so (fatal memoria)…
Leontino
A noi
Ospite giunse, vago
D’erudir negli studi
La regal mente.
Egli ad un punto istesso
E ti vide e ti amò.
Atenaide
Col tuo consenso
Anch’io (stelle) l’amai.
Leontino
Piacquemi un fuoco
Che potea farti illustre e già mirarti
A me parea sul perso trono assisa.
Atenaide
Nostra fuga improvvisa
Sol vi si oppose.
Leontino
Ah, figlia,
Vidi uscir da quel fuoco
Anzi nebbia che luce;
E l’impuro vapor sparger potea
Macchie eterne al mio sangue e alla tua fama.
Teco al rischio mi tolgo,
Fuggo in Bisanzio, ascondo
Il nome d’Atenaide in quel d’Eudossa,
T’offro a Pulcheria, ella al Fratello. A lei
Piace la tua virtude,
A Cesare il tuo volto.
Proposto appena e stabilito il nodo,
Che ti fa Augusta, il tuo destin già è fermo,
Già paghi i voti miei.
Col favor di Pulcheria
Sposa a Teodosio e Imperatrice or sei.
153
Atenaide
Ma Imperatrice e sposa
Lieta non son; mi turba
L’instabil sorte.
Leontino
A questa
Ferma i vertiginosi impeti ciechi
Saggia virtù. M’odi e nell’alma imprimi
Quanto un Padre consiglia.
Atenaide
Parli, parli Leontino, Eudossa è figlia.
Leontino
T’ama Cesare, è ver, teco divide
L’autorità sovrana;
Ma può il tempo e può l’uso
Nel giovane Monarca i nodi antichi,
Se non sciorre, allentar. Tu sempre fida
Soffri e taci: ama in lui,
Sino la sua incostanza; e quando ancora
Tu lo veda avvampar d’altra beltade,
Non l’irritar con importune accuse.
Una moglie gelosa
Più molesta divien; la sofferenza
Sol fa arrossir l’infedeltà d’un core,
E gelosia mai non racquista amore.
Atenaide
A Teodosio piacer sia di quest’alma
Sol voto, unico bene.
Leontino
In Pulcheria rispetta
La tua benefattrice e la tua Augusta.
Atenaide
Grato dover non parte
Da un nobil cor.
Leontino
Ne sien tua cura i gravi
Pubblici affari. A tuo poter sostieni
Giustizia e merto. A tutti
154
Non dar facile orecchio.
Ti accarezza sovente
La man che più t’insidia. I casi avversi
Non ti trovino vile,
Né superba i felici. Anche dal trono
Al nulla, onde sortisti, il guardo abbassa;
Fa’ che il ben de’ Vassalli
Sia di Teodosio il vero bene; a lui
La pace, il giusto e la pietà consiglia,
E ancor dopo il possesso,
Degna del grado tuo renditi, o figlia.
Atenaide
Questi, o Signor…
Leontino
Di genitor, che t’ama,
Sono gli ultimi accenti.
Tu in avvenir mia Augusta,
Io sarò tuo vassallo, e l’esser Padre
Non farà ch’io ti nieghi il mio rispetto.
Atenaide
Come? Nemmen dal soglio
Scorderò il mio dover.
Leontino
No, no, codesto
Dover più non pretendo,
Mia figlia, addio.
Atenaide
Padre, e Signor…
Leontino
Ti lascio,
Ma ti lascio con pena; ah soffri, o cara,
Nell’estremo congedo il pianto mio,
E benché singhiozzando
Prendi l’ultimo amplesso; Eudossa addio.
Ti stringo in quest’amplesso,
O di me stesso parte miglior,
Benché ti ceda al trono
Non t’abbandono senza dolor.
155
SCENA II
Atenaide, poi Pulcheria, e poi Marziano con Guardie
Atenaide
Lasciami, o di Varane
Immagine odiosa. Assai già tolto
M’hai di pace, di gloria e d’innocenza.
De’ paterni consigli
Questo sia il primo frutto: amar Teodosio,
Ma solo amarlo, e sempre.
Applaudami la Grecia e ’l fier Varane
Comprenda che, se indegna
Del diadema de’ Cesari non sono,
Potea con egual merto
Salir moglie e Regina anche al suo trono…
Pulcheria
Augusta sposa…
Atenaide
Eccelsa Principessa…
Pulcheria
Questo è ’l lieto tuo dì, Bisanzio applaude
Di Teodosio all’amor, d’Eudossa al merto:
Oggi il cesareo serto
Passerà su ’l tuo crine. Appena basta
Al concorso de’ popoli giulivi
La reggia intera; e ad onorar tue nozze.
Oggi a noi vien (sia caso, o sia consiglio)
Di Persia il Prence e d’Isdegarde il figlio.
Atenaide
(Che sento? Oh Dio!) Varane,
Varane oggi in Bisanzio!
Pulcheria
Appunto. Aver non ponno
I tuoi sponsali spettator più illustre.
Atenaide
(Oh Cieli!)
Marziano
Ah Principessa,
Egli a noi vien non spettator, ma sposo.
156
Pulcheria
Sposo di chi?
Atenaide
(Tutto è palese.)
Marziano
Assolvi
Dall’annunzio funesto un cor fedele.
Pulcheria
No, no, libero parla. Il Perso erede
Che vuol, che spera?
Marziano
Il tuo imeneo richiede.
Pulcheria
Il mio?
Marziano
Pubblico intorno
Ne corre il grido: Cesare v’applaude,
Ne gode ogni alma.
Pulcheria
E Marziano ancora?
Marziano
Marziano è Vassallo (Il duol m’accora.)
Atenaide
(Son morta.)
Pulcheria
Amica, onde il pallor...
Atenaide
Perdona.
Il nodo che ti toglie al greco Impero
In te toglie ad Eudossa
Il sostegno più forte.
Pulcheria
T’ama il german. Di che temer potrai?
157
Atenaide
Tutto non vedi il mio destin, né il sai.
Della rubella
Mia iniqua stella
Tutta non vedi la crudeltà.
Né tutta miri
La ria procella
Che in ciechi giri
Sopra il mio capo
Fremendo va.
SCENA III
Pulcheria e Marziano
Pulcheria
Marzian sì pensoso? Il Ciel mi chiama
Al diadema di Persia.
Ne gode ogn’alma, Cesare v’applaude,
E tu sol ne sospiri?
Marziano
Ah Principessa,
Perderti troppo costa,
Non dirò a me, che poco
Caler ti dee d’un misero Vassallo,
A Teodosio dirò, dirò all’Impero,
Tua prima cura e tuo maggior pensiero.
Pulcheria
Col rifiuto del figlio
Ad Isdegarde sarò ingrata! In fronte
Sdegnerò una corona
Che fa servir di Teodosio al sangue
Quella parte di mondo ov’ei non regna?
Parla, o Duce, consigliami, ma solo
Sia del consiglio tuo norma ed oggetto,
Pubblico zelo e non privato affetto.
Marziano
Il tuo cor, non il mio, vorrei, che guida
Al tuo talamo fosse,
E fosse la ragion del tuo rifiuto.
Pulcheria
Gli imenei di chi regna
Amor non fa: gli stringe
Ragion di Stato.
158
Marziano
E questa,
Questa s’oppone ai tuoi; sol col tuo senno
Si regge Augusto; e sol col tuo l’Impero.
Se tu parti ei vacilla e se pur brami
Sposo al tuo letto, ei non si scelga altronde
Che tra i sudditi tuoi. Regna con esso,
Ma nella Grecia; e sia
Anche in grado di sposo un tuo Vassallo.
Pulcheria
Marzian sul tuo labbro
È tutto zel ciò che favella?
Marziano
Oh Dio!
Pulcheria
Non t’arrossir.
Marziano
Ti basti
Che sia reo il mio silenzio.
Lascia penar con innocenza il core
E interpreta per zelo anche l’amore.
Pulcheria
Questa al tuo zel si renda
Non vil mercé. Vattene, o Duce. Adopra
L’arte, il poter, perché si rompa il laccio
Che mi stringe ad altrui. Tuo ne sia il merto;
Io ne godrò. A Varane
Toglimi, te ne prego e tel comando.
SCENA IV
Probo e detti
Probo
E se il tuo non ti basta, ecco il mio brando.
Pulcheria
Tanto un suddito ardisce!
E tanto con Pulcheria
159
Dell’amor di Teodosio
Così t’abusi? Probo, anche i favori
Offendono non chiesti;
E tal son’io che posso a voler mio
Rifiutarli e gradirli.
Probo
Il mio zelo…
Pulcheria
Anche il zelo
Colpa divien quando è soverchio. Attenda
D’esser richiesto e in faccia
Al suo Sovran, sia più modesto e taccia.
Pulcheria
Là sul margine del rio
Più di un fior vorria goder
Il favor della fresc’onda;
Ma talor su quella sponda
Gode un solo il gran piacer.
Così amor, tu già m’intendi,
Con modestia taci e attendi
Il sovrano mio voler.
SCENA V
Marziano e Probo
Probo
Marziano, tu solo
Al nodo di Varane
Rendi avversa Pulcheria.
Marziano
Sa consigliarsi Augusta
Col proprio core.
Probo
E tu la rendi ingrata
Al merto altrui.
Marziano
Parlan nostre opre ed ella
Ne vede il prezzo e ne distingue il merto.
160
Probo
Ma non sa giudicarlo.
Marziano
Probo, con più rispetto
Parli un suddito labbro. I torti suoi
Sono miei torti.
Probo
Hai molto
Per lei di zelo.
Marziano
Il grado suo mel chiede.
Probo
Più tosto il suo sembiante.
Marziano
La mia fede.
Probo
Eh, saresti
Meno fedel se meno fosti amante.
Marziano
Probo queste rispetto
Soglie reali.
Probo
In ogni luogo ha Probo
Con che farsi temer.
Marziano
Piacemi, e altrove
Dal tuo valor ne attenderò le prove.
Al valore che prode ti preggi
Vuo’ veder se l’ardire pareggi,
Ma già parmi non sia che viltà.
Sempre uniti già sono in un core
Folle audacia, codardo timore,
L’insolente cor vile sen sta.
161
SCENA VI
Probo, poi Teodosio con seguito
Probo
Va’ pur, la sofferenza
Vendicherà i miei torti; in te conosco
Il nemico e il rival: tu sol m’involi
Gli affetti di Pulcheria;
Ma se non può l’ingrata
Esser conquista mia,
Tua né meno ella sia: l’abbia altro amante,
L’abbia Varane. Al mio deluso amore
Servirà di conforto il suo dolore.
Teodosio
Mio fedel, mi dà pena
Che Pulcheria a quel nodo,
Per cui l’innalzo a dominar ne i Persi,
Cieca resista. Ad imeneo più illustre
Non può sceglierla il Cielo;
Quel rifiuto, che ingrati
Ci rende ad Isdegarde,
Provocarne può l’ire,
E nemico sì forte e sì guerriero
Può costar sangue e pianto al greco impero.
Probo
(Sorte mi arride) Il tuo timor istesso,
Cesare, è comune bene.
Né la germana Augusta
V’oppone il suo voler, l’altrui si oppone.
Parla coll’altrui labbro,
Con l’altrui cor risolve.
Teodosio
E da qual core
Sedotto è ’l suo?
Probo
Da quello
D’un audace vassallo
Che alle sue nozze insidioso aspira.
Teodosio
Alma v’è sì orgogliosa?
Qual sia? L’addita. In petto
162
Già m’arde una giust’ira e stringo in mano
Le pene più temute.
Probo
Egli è… (pèra il rivale).
Teodosio
Chi?
Probo
Marziano.
Teodosio
E Marzian sarà punito. Un duro
Esiglio a questa reggia
Lo torrà, finché unita
Veda Pulcheria al Principe di Persia.
Probo
Signor, tutto ei possiede
Col militar comando anco l’affetto.
Teodosio
Cauto oprerò; simulerò l’offesa,
Parrà favore anche la pena; e un braccio
Sì necessario e prode,
Non perderò, né irriterò. Tu intanto
Vanne incontro a Varane.
Probo
A me ben noto
Nella sua Corte, ove l’onor sostenni
Di tuo ministro.
Teodosio
A lui
Offri quanto dar può Cesare e ’l trono,
Ché amico a lui, grato a Isdegarde io sono.
Arderà le sue facelle,
Ed amor, con doppio laccio
Le tue gioie accrescerà.
Lieto dì con più bel raggio
Mai non sorse al greco Impero
E ogni cor serve in omaggio
Alla tua felicità.
163
SCENA VII
Teodosio
Teodosio
Tutt’amor, tutta gioia
L’alma mi brilla in petto! Amata Eudossa,
M’è oggetto più giocondo
L’impero del tuo cor che quel del Mondo.
Trovo negli occhi tuoi
Tutto il contento mio,
Tutto il mio bene.
E fuor di te, che sei
Meta de’ pensier miei,
Beni non ha il desio,
Voti la spene.
SCENA VIII
Varane con seguito, e Probo
Varane
Reggia amica a te vicino
Più mi balza il core in petto.
Ma non so del mio destino
Se per fama o per sospetto.
Probo
Principe illustre a sua gran sorte ascrive,
Cesare il mio sovrano,
Che del tuo regio aspetto
L’alte sue nozze ad onorar tu venga.
Varane
E nel tuo incontro io formo
Fortunati presagi a quel destino
Che qui mi tragge, o amico.
Probo
E qual’altro destino a noi ti dona
Che l’antica amistà
Del tuo col nostro Impero? (Egli si tenti.)
Varane
Ah Probo, a voi non amistà, non altra
Politica ragion qui mi fu guida;
Sol mi fu guida amore,
Amor per me fatal.
164
Probo
(Povero cuore.)
Varane
La beltà ch’io sospiro
Vive tra voi, tal me ne giunse il grido.
Pietà Probo, se mi ami
Reggi tu i passi miei;
Senza colei per cui vo errando intorno,
M’è odioso ogni respiro, infausto il giorno.
Probo
Signor, del tuo bel fuoco
Ti precorre la luce. Il so, gran fregio
Di quella reggia è la beltà, che adori.
Varane
Me fortunato.
Probo
Ella tua fia, t’impegno
Quanto a Cesare appresso
Ho di poter.
Varane
Mio caro. (lo abbraccia)
Probo
(Per pena del rival perdo me stesso.)
SCENA IX
Leontino, e detti.
Leontino
Che miro, o Dei! Quegli è Varane.
Varane
Ah Probo,
Quegli è Leontino?
Probo
Il saggio
D’Atene, è desso.
165
Varane
Oh tanto invano, o tanto
Sospirato Leontino.
Leontino
(Più non v’è scampo.) Al grande
Successor della Persia…
Varane
Eh lascia questi
Titoli a me funesti.
Dimmi Varane, amico, figlio, o s’altri
Nomi d’amor può suggerirti il labbro.
Leontino
L’alto tuo grado…
Varane
Probo,
Qui grave affar seco mi chiede alquanto.
Riedi a Teodosio. Ei sappia
Che il mio piacer nella sua reggia io spero,
E fa’ ch’egli ti dia l’augusto assenso.
Probo
Nel mio zelo confida. (parte)
(Piangi amor mio, ma il mio rival non rida.)
SCENA X
Varane e Leontino
Varane
Leontino, ove è Atenaide?
Leontino
Atenaide sol’è dov’è Leontino,
Ma più non la vedrai. Credilo a un Padre.
Varane
Chi può torla ai miei lumi,
Chi negarla al mio amor? Chi tanto puote?
Leontino
Tu stesso, e la tua gloria.
166
Varane
La gloria mia?
Leontino
Non ti lusingo, o Prence;
Fuggila per tuo onor, per suo la fuggi.
Varane
Il suo fato, il mio amor, vuol ch’io la cerchi
Leontino
L’amor tuo s’avvilisce: ei cerchi oggetti
Degni più del tuo fasto.
Varane
Tutto il mio fasto è l’adorarla. Ah cessa
Di più temer: vengo a recarle un core
Innocente e più puro.
Vengo ad offrirle un trono
Eguale a sua virtù. Con minor prezzo
Non riparo il suo torto,
Non l’error mio; torto ed error che tanto
A me costò di pentimento e pianto.
Leontino
Eh mediti altre nozze
Della Persia l’erede.
Varane
Quello vo’ d’Atenaide.
Leontino
Di Augusta gl’imenei gli applausi avranno
Della Persia e del Padre.
Varane
Ma non quel del mio cor. Voglio Atenaide.
Leontino
Vedi la regal vergine…
Varane
A miei lumi
Tutto è oggetto d’orror, se lei non veggio.
Mia delizia, mio bene,
Deh non soffrir ch’io te ne preghi indarno.
167
Lascia ch’io dir ti possa
Benefattore e Padre.
Vedilo, io tutta abbasso
La mia grandezza all’umiltà del prego.
Concedimi Atenaide.
Leontino
Non è più tempo. Allora
Ch’io potea ricusasti:
Or che tu vuoi non posso.
La sorte d’Atenaide
Al paterno voler più non soggiace;
Decretato è di lei: soffrilo in pace.
(in atto di partire)
Varane
Fermati e meglio vedi
Qual’io mi sia. Varane
Soffrir non può d’aver pregato indarno.
Chiesi Atenaide ed Atenaide io voglio;
Ché s’ancor pensi, audace,
Torla con nuova fuga agli occhi miei,
Parte non sia sì solitaria e strana
Dove non giunga il mio furor. Cercarti
Saprà la mia vendetta
Oltre il mar più profondo,
Oltre ogni lido, oltre il confin del Mondo.
Leontino
Nella reggia di Cesare Leontino
Non sa temer. Torno a ridirlo. Invano
A me chiedi Atenaide: il suo destino
Più da me non dipende; e se ancor fede
Tu nieghi a’ detti miei,
Vanne a Pulcheria e sol la chiedi a lei.
Mai s’accende di sdegno il mio core,
Non pavento minaccia e furor.
Disperato se vedi il tuo amore,
Puoi cangiarne la fiamma e l’ardor.
SCENA XI
Varane, Teodosio, Pulcheria, Marziano, Probo e loro seguito
Varane
A Cesare si vada: ei mi conceda
Di Atenaide il possesso,
168
Onde nel punto istesso
Sia felice il suo amor, sia lieto il mio.
Teodosio
Principe amico, ogni momento è pena
Che a noi tarda il piacer dell’abbracciarti.
Questa reggia, e tua reggia,
Pulcheria ed io tutto dobbiamo al figlio
Di quel gran re che un tempo
Fu a noi tutore e Padre.
Pulcheria
Empie il tuo nome
Le voci della fama,
E Bisanzio vedrà con lieto ciglio
Di cento eroi te invitto erede e figlio.
Varane
Augusto, Principessa,
Ben fu presago il cor che solo in questo
Felicissimo cielo
Sarian paghi i miei voti.
Questo misero cor lunghi sostenne
Fieri naufragi; ei qui ne spera il porto.
E se sovrano assenso
Oggi mi si concede,
Si vedrà in sì bel giorno
Ad un talamo solo arder due tede.
Marziano
(Misero me.)
Probo
(Pena il rival.)
Teodosio
Ne attesto
Principe il ciel, la real fede impegno;
Quanto da me dipende
Per tuo ben, per tua pace
Tutto otterrai. Di’, chiedi.
Varane
Generosa Pulcheria…
Marziano
(Ahimè!)
169
Varane
Manca alla mia
Piena felicità solo il tuo voto;
Pende da te della beltà che adoro
L’alto destin.
Pulcheria
Può sperar tutto il grande
Eroe dell’Asia.
Teodosio
Ed ottener può tutto;
Chieda egli pur.
Varane
Si compia
Prima il tuo nodo. Io qui t’indugio un bene
Che fa troppo penar colla dimora.
Teodosio
A tuo piacer questa è tua reggia; prendi
Ivi riposo, ivi le leggi imponi.
Regna Varane ove è Teodosio. Probo
Ne adempia i cenni.
Varane
Io parto
Pieno insieme di gioia e di rossore.
(Dal suo contento e quasi oppresso il core.)
Tanto lieto ho il core in petto
Che al goder dell’alma mia
Già la fredda gelosia
Più velen sparger non sa.
Tal l’amore si consola
Che da me già tutto invola
Quel dolore
Che nel ciel destò pietà.
SCENA XII
Teodosio, Pulcheria e Marziano
Teodosio
Sei vicina, o germana, a porti in fronte
La corona di Persia.
170
Pulcheria
Onor ch’io non ambisco.
Teodosio
All’imeneo felice
Echeggiano in applauso e mari e lidi.
Pulcheria
Fama è spesso bugiarda
E s’applaude sovente a un’ombra vana.
Teodosio
Tutto arride al tuo nodo.
Pulcheria
Il più vi manca.
Teodosio
Che mai?
Pulcheria
Vi manca di Pulcheria il voto.
Teodosio
Vuoi forse rifiutar sposo sì illustre?
Pulcheria
Richiesta ancor non sono.
Teodosio
E se lo fossi?
Pulcheria
Maturar ben si deve il grand’assenso,
Dov’è inutile e tardo il pentimento.
Teodosio
E se augusto ten prega?
Pulcheria
Augusto è mio germano.
Marziano
Ed ei non stende
Fin sopra il cor l’autorità del grado.
171
Teodosio
Può comandar ciò che all’Impero ei vede
Giovevole ed onesto.
Marziano
Perdonami Signor, giova all’Impero
Che talor tu consigli i dubbi affari
Col senno di Pulcheria.
Teodosio
Duce, chi nacque all’armi
Mal sa in pace trattar nozze ed accordi.
L’alma guerriera volentieri assente
A consigliar ciò che cagion feconda
Esser può di sospetti e di litigi.
Ma se tale in te avvampa
Sete di guerra e di trofei, va’, espugna
Il bulgaro rubello.
Pria che il giorno tramonti
Ti veggia il campo e a nuove palme il guida;
Cesare a te la sua vendetta affida.
Marziano
Ubbidirò. Dall’armi tue sconfitta
La provincia rubella
Il solo non sarà de’ miei perigli
E il primo non sarà de’ tuoi trionfi.
Farò morder il giogo
Al popolo fellon: correr di sangue
Farò, s’ei sia protervo, e strade e fiumi;
Andrò, vedrò, ubbidirò il tuo cenno;
Soddisfatto vedrò l’altrui livore,
Tornerò d’altri lauri
Cinto le tempie e domi
I miei nemici e i tui;
Avremo ambo vittoria,
Tu dell’audacia, io dell’invidia altrui.
Di nuovi allori adorno
A te farò ritorno
E a pie’ del soglio avvinta
La fellonia trarrò.
Poi dell’invidia oppressa
Su la ruina istessa
Maggior risorgerò.
172
SCENA XII
Teodosio e Pulcheria
Pulcheria
Signor, saggio consiglio
Non è irritar braccio sì prode. A lui
Tutta dell’armi nostre
Affidata è la cura.
Teodosio
Utile m’è nel campo,
Ma nella reggia a me fa guerra il Duce
Più d’ogni altra spietata.
Pulcheria
In che t’offende?
Teodosio
Del mio favor s’abusa e del suo grado.
Pulcheria
Ma qual’error?
Teodosio
Pulcheria, in certi rei
Dissimular le colpe
Convien per non punirle.
Marzian vada al campo e tosto vada.
Pulcheria
Dunque, sua pena è ’l tuo comando?
Teodosio
Ei vada,
E dal suo core esiga,
O vicino, o lontano,
Del comando il rispetto e non l’arcano.
Qual la sua colpa sia
Ricercane il tuo cor
E toglimi il rossor
Dell’alta offesa.
Guarda, saria viltà
Se dalla maestà
Fosse difesa.
173
SCENA XIV
Pulcheria
Pulcheria
Purtroppo il so: la tua sciagura, o Duce,
È il tuo amore innocente.
Pietà ne sento; ohimè guardati, o core,
Sembianze di pietà prende anche amore.
Quanto posso a me fo schermo
E da piaghe e da ritorte.
Ma ho timor che contro amor
Sia riparo troppo infermo
L’esser grande e l’esser forte.
ATTO II
SCENA I
Salone magnifico.
Teodosio, Varane, Probo e loro seguito
Teodosio
Va’, Probo, e fa’ che Augusta
Più sollecito il passo a noi rivolga.
Probo
Impaziente è amore. (parte)
Teodosio
E tu questi perdona
D’innamorato seno impeti e voti,
Principe amico.
Varane
Ah, provo anch’io qual pena
Sia la speme e l’indugio in chi ben’ama.
Teodosio
Tra poco il mio diletto
Qui compirsi vedrai; vedrai la degna
Cagion dell’ardor mio, vedrai del volto
Le amabili sembianze,
La modestia del guardo,
L’onesto portamento, e allor dirai
Che, se pari al suo bello è il mio piacere,
Non v’è cor più felice
Né più amante del mio.
174
Varane
(Atenaide, mio bene,
Così dirò nel tuo possesso anch’io.)
SCENA II
Atenaide, Probo e detti
Varane
O Dei! La mia Atenaide
Veggo in Eudossa?
Atenaide
Ahimè, Varane?
Teodosio
(a Varane) Questa,
Principe, è la mia Eudossa; e questi, o sposa,
È il Principe Varane. (ad Atenaide)
Atenaide
(Che mai dirò?)
Varane
(Son io ben desto? I sensi
Traveggon forse!) Eudossa, Eudossa è questa?
Probo
Scelta all’augusto trono.
Teodosio
E scelta al nostro
Marital letto, Imperatrice e sposa.
Varane
Ma come?... Ah Probo… E sarà ver?... Son morto…
Teodosio
Quale stupor? Troppo sorprende i cori
La beltà di quel volto;
E tu, cara, i belli occhi
Alza dal suolo ove gli tieni assisi;
E in aver sì gran Prence
Spettator di tue nozze,
Non arrossir; stendi la destra; ei stesso
Seguirà al Tempio i nostri passi. Andiamo.
175
Varane
Che? Seguirvi Varane? Questi lumi
Saranno il testimon d’un imeneo?
No… Prima… Ah giusti Dei,
Con qual fulmine orrendo
Prendeste ad atterrar la mia costanza?
Teodosio
Che ascolto? A quai trasporti
Si dà in preda il tuo labbro?
Qual turbamento è il tuo?
Tu impallidisci? E tu pur anche Eudossa;
Perché? Parla; onde mai? Svela l’arcano.
Atenaide
Sire… (mi manca il cor.)
Varane
Parli Varane,
Parli Varane. È vero.
Non son più di me stesso;
Le pene e i turbamenti
Nascono in me da quel fatale oggetto…
Oh Dio… misero core… è forza, o Sire,
Ch’io ceda al mio dolore;
Sento che nell’indugio
La mia stessa ragion divien furore.
Nel profondo cieco orrore
Mi precipita il mio fato,
Già spietato a questo cor.
Vincerà fiero il rigore
Disperato il mio furor.
SCENA III
Atenaide, Teodosio e Probo
Teodosio
Probo intender vorrei,
Ma il mio stesso desir fa il mio spavento.
Probo
Tutti sì strano evento
M’occupa i sensi.
176
Teodosio
Rompi
Eudossa il tuo silenzio e ’l vero esponi.
Agli occhi tuoi noto è Varane?
Atenaide
È noto.
Teodosio
Ed a quei di Varane è nota Eudossa?
Atenaide
Eudossa è ignota a lui, non Atenaide.
Teodosio
D’Atenaide non chiedo,
Chiedo di te.
Atenaide
Per me rispondo, o Sire,
Quando per Atenaide a te rispondo.
Teodosio
Spiegati (non intendo e mi confondo.)
Probo
(Oscuri enimmi.)
Atenaide
Allora
Che in Atene io vivea, non era Eudossa.
Tal mi nomai da che in Bisanzio giunsi.
Teodosio
E in Atene vivesti?...
Atenaide
Col nome d’Atenaide.
Teodosio
E là ti vidde?...
Atenaide
Il Principe Varane,
Offertomi dal caso e non dal core.
177
Teodosio
Segui: ei t’amò?
Atenaide
Finse d’amarmi almeno.
Teodosio
Arbitro fu del mio
Il paterno voler.
Teodosio
Ne arrise il Padre
Ad un amor che ti facea Regina?
Atenaide
Non so. So ch’ei repente
Alla Patria mi tolse ed a Varane.
Teodosio
Per qual destin?
Atenaide
Le sue ragioni ha ’l Padre.
Teodosio
Né saperle poss’io?
Atenaide
Si temé forse
Il giovane feroce e più ’l suo amore.
Giovò la fuga; e in queste
Mura si elesse un più sicuro asilo.
Qui di nome e di culto
Cangiai; mi vide Augusta e qui a te piacque…
Teodosio
Basta così: basta, o fatal… qual dirti
Se Atenaide o se Eudossa
Deggia non so. Nomi del pari infausti:
Nomi spietati. Un mortal ghiaccio, un freddo
Sudor mi scioglie. Partiti; io solo deggio
Restar co’ miei pensieri.
Quando sia tempo intenderai tua sorte.
178
Atenaide
La men crudel per me saria la morte.
Son colpevole a’ tuoi lumi,
Ma innocente è ’l mesto cor.
Giusti Numi, il vostro sguardo
Ben lo vede
Pien di fede e di dolor.
SCENA IV
Teodosio e Probo
Teodosio
Pulcheria a noi. Probo, tu vanne al Tempio
E sospendi le pompe
Al festoso apparato;
E si congedi il popolo e ’l senato.
Probo
Gode scherzar su i nostri casi il fato. (parte)
SCENA V
Teodosio
Teodosio
Smanie gelose, tormentosi affetti,
Tutto in preda vi lascio
Il petto d’un Monarca.
Ho in Varane un rival. Me’l tace Eudossa,
Ma l’infedel l’amava.
Perfida ingrata! Ancora
Non sai qual sia lo sdegno
D’un Cesare geloso,
D’un amator tradito.
Farò, iniqua, farò che tu non sia
Né del rival né mia,
E che il tuo nome e la futura etade,
Quando invidia dovea, svegli pietade.
SCENA VI
Teodosio e Pulcheria
Teodosio
Vieni, ah vieni in aita
D’un Principe infelice.
Son tradito, o Pulcheria.
179
Pulcheria
Lo so. Tutta da Probo
Intesi la cagion delle tue pene.
Teodosio
Chi mai detto l’avria? Colei che adoro
Traea l’impura face
Perfino all’Ara; ed a recar venìa
La spergiura sua fede in faccia ai Numi!
Pulcheria
Se Eudossa è rea, dov’è innocenza in terra?
Teodosio
Per te sola, o germana,
Misero son. Tu mi lodasti Eudossa
E l’amai nel tuo labbro
Pria che negli occhi suoi.
Deh! Perché a te credei? Perché lei vidi?
Oh fede! Oh vista! Oh amore! O cieli infidi!
Pulcheria
Giustissime querele,
Vi fo ragion. Ma, Sire,
Il tuo cuor ne trionfi e quella ingrata
Sprezzatrice beltà sia disprezzata.
Teodosio
Qual consiglio a me dai?
Pulcheria
Quel ch’è più giusto.
Teodosio
Ma non quel ch’è più caro.
Pulcheria
Scenda l’indegna dal tuo soglio.
Teodosio
Oh Dio!
Per vederla salir quel di Varane?
Pulcheria
Dal tuo core l’esiglia.
180
Teodosio
Perché ella passi al mio rival in seno?
Pulcheria
Più non spiri quest’aure.
Vada colà dove né meno il nome
Te ne giunga all’udito.
Corro, o german. Vo’ che per sempre Eudossa
S’allontani da te né più ti veggia.
Teodosio
Più non mi veggia? Ah! Ferma.
So l’error suo: la sua perfidia ho nota,
Ma il non vederla più mi saria morte.
Pulcheria
Ma che far pensi?
Teodosio
Anzi che cada il giorno
Esca dalla mia reggia
Il superbo rival. Parta…
Pulcheria
Varane?
Teodosio
Sì! La sua vista ira e dolor m’accende.
Olà, senza dimora
Se li rechi il mio cenno ed ubbidisca.
Pulcheria
Ah Teodosio! Ah fratel, per cieco affetto
Dove ten vai? Recar tu oltraggi ed onte
E recarli in Bisanzio
A Principe sì amico e sì possente?
Teodosio
Così dunque a Teodosio
Mancherà ogni conforto, ogni vendetta?
Pulcheria
Forse un tuo inganno è ’l tuo sospetto. È cieco
L’amante ch’è geloso.
D’ogni idea si fa un rischio,
D’ogni ombra un mostro. Ancora
Il cor d’Eudossa esaminar conviene.
181
Teodosio
Facciasi. Ecco già corro
Per sentiero migliore,
Ciò che far deggia ha stabilito il core.
Vorresti, il so, vorresti amor tiranno
Dopo la libertà tormi la gloria.
Ma la cauta ragion vede il tuo inganno;
E già fa disperar la tua vittoria.
SCENA VII
Pulcheria, poi Marziano con Guardie
Pulcheria
Libera son dall’odioso nodo
Che politica cieca
Stringer volea. Qui viene il Duce. Affetti
Cauti vegliate alla difesa.
Marziano
In onta
Di quel destin che misero mi rende
Col tormi a questa reggia,
Ove resta di me la miglior parte,
L’addio ne prendo almeno
Con qualche pace e un gran piacer vien meco.
Pulcheria
Duce, qual sia?
Marziano
Quel di veder che il fuoco
Ond’arde il fier Varane
Sen vola ad altra sfera.
Pulcheria
M’ami così? T’è grato
Ch’io perda una corona?
Marziano
Anzi l’acquisti,
Se la tua ti conservi. Hai qui vassalli
Che non men de’ tuoi cenni
Adorano, o Pulcheria,
Mi sia lecito dirlo, i tuoi belli occhi.
182
Pulcheria
Se tanto, o Duce, un cor vassallo osasse…
Marziano
V’è chi osa tanto, o Principessa. Ei fece
Quanto puoté per non amarti. Oppose
Ragion virtù, dover: tutto fu indarno.
Reo lo vuole il tuo bel, reo la tua stella.
Pulcheria
Duce, non più! Qualunque ei sia gl’imponi
O ch’ei corregga il temerario affetto,
O ch’ei lo chiuda in seno;
Cauto così che non ne scoppi intorno
La più lieve favilla.
E buon per lui che ignoto
M’è l’esser suo, né a te ben tutta io credo
La colpa tua. (Se più l’ascolto io cedo.)
Marziano
Poiché il misero deve
Per te morir, non cura
Se il tuo sdegno l’uccida o il suo dolore.
Vedi…
Pulcheria
No, Marzian, saper non voglio
Né la colpa, né il reo. Sin che me ’l taci,
Egli forse m’è caro, e degno è forse
Del mio favor. Tu lieto
Vanne all’armi, ai trionfi.
Ivi a core ti sia
E la tua vita e la memoria mia.
Sorge l’irato nembo
E la fatal tempesta
Con sussurrar dell’onde
Ed agita e confonde
E il cielo e ’l mar.
Ma sai che in un baleno
Fugge la nube infesta
E il placido sereno
In cielo appar.
183
SCENA VIII
Marziano
Marziano
Tu parti e intanto io resto
Tra la vita e la morte,
Dubbioso di mia sorte.
Timido labbro, è tua la colpa. Io t’amo.
Dir non sapesti ed ella
O non t’intese appieno,
O se n’infinse almeno.
Vanne e, pria che partir, dille che l’ami.
E fa’ che all’amor mio
Ella dolce risponda e t’amo anch’io.
Bel piacer di fido core
Poter dir al caro oggetto:
Per te parto, per te moro.
Bel piacer d’amante core
Poter dir al caro oggetto:
Per te parto, per te moro.
Ma diletto assai maggiore
È l’udir ch’egli risponda:
Anch’io t’amo, anch’io t’adoro.
SCENA IX
Teodosio e Leontino
Teodosio
Conveniva non tacerlo.
Leontino
Mio fu l’error.
Teodosio
Teco n’è rea la figlia.
Leontino
M’ubbidì il suo silenzio.
Teodosio
Si cercò d’ingannarmi.
Leontino
Anzi di risparmiarti un gran sospetto.
184
Teodosio
Or più crudele egli mi rode in seno.
Leontino
Non val consiglio ove dispone il fato.
Teodosio
Del vostro fallo è mia pena.
Leontino
Credi
Innocente la figlia e sei felice.
Teodosio
Più avveduto mi rende il primo inganno.
Venga e quest’alma il testimonio sia.
Leontino
Ma sdegno non ti turbi, o gelosia.
Se cieco affetto
Ti latra in petto,
Ogni consiglio diventa error.
Ed è periglio
Della ragione
Il turbamento
Che affligge il cor.
SCENA X
Teodosio e Varane
Teodosio
Quietatevi, o pensieri…
Varane
No, no convien ch’io veggia.
Invan mi si resiste.
Teodosio
Che sia? Quest’è Varane.
Varane
Agitato e confuso
Cesare a te ritorno.
Nel mio furor nulla conosco e temo.
Eudossa è l’amor mio. Se in lei tu pensi
185
Trovar la tua consorte,
Cerca ancor la mia morte.
Se ben nella tua reggia
E se ben tutte intorno
Vegliano al fianco tuo l’arme vassalle,
Vittima non m’avrai facile e sola.
Vender a non vil costo
Saprò la vita e l’oppressore istesso
Dalle ruine mie resterà oppresso.
Teodosio
Prence le tue minacce
Mi fan pietà più che spavento; e s’io
Del cor seguir volessi
Gl’impeti primi, apprenderia, Varane,
Come si parli a Cesare in Bisanzio.
Di’ qual’oltraggio hai del mio amor? Corono
Quella ch’è tuo rifiuto.
Sposa non la volesti, io la fo Augusta.
Perché sdegni ch’io sia
Possessor di quel bene
Che a te tolse alterezza e frenesia?
Varane
Ah! Signor, già condanno
Quel superbo pensier. Seguo il tuo esempio.
Degna stimo Atenaide
Del tuo Impero, del mio, di quel del mondo.
Teodosio
Ma che pretendi?
Varane
Oh Dio!
Vorrei ciò che ’l mio amore
Far per te non saprà. Vorrei… Ma Sire
Quel che spero non so, né quel che parlo.
Pesi il tuo cor se stesso e veggia quanto
A prò d’un infelice
Possa aver di virtù, possa esser grande.
Ecco vinto il mio fasto; ecco abbattuta
La mia vana fierezza.
Imploro tua boutade,
Ah! Basti all’odio tuo vederti avante
Il figlio d’Isdegarde supplicante.
186
Teodosio
Mi toccano i tuoi mali,
Più che i trasporti tuoi. Sentir amo Eudossa;
Ma l’amo con virtù. Vo’ che l’amore
Mi acquisti la sua fede e non la forza.
Vo’ lasciarla tra noi
In libertà di scelta.
Sì vo’ dalla sua bocca udire il nostro
Oracolo fatal. Se l’hai propizio
Godrò della tua sorte,
Né un cor t’invidierò che tuo esser volle.
Ma se per me decide, i nostri amori
Più non turbar. Lascia che meco in trono
Regni la tua Atenaide e non geloso
Mira la sua grandezza e ’l mio riposo.
Varane
Al tuo voler m’inchino,
E dalla bella attendo
O felice o funesto il mio destino.
SCENA XI
Atenaide, Probo e detti
Teodosio
Nelle tue nozze Eudossa
Io riponea tutto il mio ben. Ma poco
Apprezzo la tua destra
Se mi manca il tuo core.
Questo tra me e Varane
Decida in libertà. Scelga tra noi
Il più caro amator, non il più degno.
Atenaide
E che? Pensi ch’io possa?…
Teodosio
No, no, seco ti lascio. A lui sincero
Parli il tuo cor. Qualunque
Il voler ne sarà, giuro per questo
Che il crin mi cinge imperial diadema,
Ne osserverò la legge.
Probo.
187
Probo
Cesare.
Teodosio
Prendi
Quest’aurea gemma; a quello
La recherai che dall’amor d’Eudossa
Sarà eletto in consorte.
Probo
Ubbidirò.
Varane
(Speme risorgi.)
Teodosio
Addio.
Benché sforzo sì grande
Vita e felicità possa costarmi,
Potrò bella Atenaide
Udir la tua sentenza e non lagnarmi.
Al tribunal d’amore
Esamina il tuo core
E scegli quel fra noi
Che più ti piace.
Decidi in libertà
La tua felicità,
La nostra pace.
SCENA XII
Atenaide, Varane e Probo
Probo
(In disparte qui attendo.)
Atenaide
(Mi rinfranchi virtù.)
Varane
(M’aiti amore.)
Il misero Varane, o tanto indarno
Sospirata Atenaide,
Avrà pur il piacer di favellarti.
188
Atenaide
Parli egli pur. Così comanda Augusto.
Varane
Intendo. Col suo core
Ti disponi ad udirmi;
Col tuo non già, che troppo
Egli arde a’ danni miei d’odio funesto.
Atenaide
Deggio ubbidir: quanto far posso è questo.
Varane
E per me nulla puoi? Non anche sazia
Sei dell’aspre mie pene?
A un solo error tanto supplicio? Oh Dei!
Per te che non soffersi?
Qual mar, qual lido non tentai? Fin dove
De’ sospir miei sull’ale
Volar non feci d’Atenaide il nome?
Cor non fu ch’ai miei pianti
Negasse i suoi. S’è impietosito il cielo
Col guidarmi in Bisanzio.
Un sol giorno, un sol punto
Mi ti togliea per sempre. A tempo ancora
Sono i miei voti. Ancora
Posso offrirti pentito e nozze e trono.
Atenaide, mio ben, pietà, perdono.
Atenaide
Principe, anche in Bisanzio
Vieni a turbare la mia quiete? I mali
Nel mio cielo natio per te sofferti
Non ti bastano ancora?
Varane
Eccomi a ripararli
Col pentimento mio.
Atenaide
Tardo me ’l rechi.
E inutilmente il rechi.
Data è già la mia fede;
E di Cesare io son.
189
Varane
Sei di Varane
Se ben rifletti a i primi
Giurati affetti.
Atenaide
A quei rifletto, a quelli
Che tu stesso tradisti,
A quei ch’ora mi fanno augusta e sposa.
Varane
È ver, mirarti in fronte
Il diadema dei Cesari è un gran fregio;
Ma qui in grado d’Augusta
Sarai serva a Pulcheria. In Persia io ’l primo
Sarò de’ tuoi Vassalli,
Ed a’ sudditi miei
Saranno i tuoi belli occhi e leggi e Dei.
Atenaide
Principe, è tempo al fine
Che in più liberi sensi il cor ti mostri.
Tutte le offerte tue, le tue lusinghe
Non faranno ch’Eudossa
A Cesare sia ingrata;
E del tuo amor mi stimeresti indegna
Se tua potesse farmi un tradimento?
Tempo fu che contento
Volea farti il mio cor. Forse non senza
Lagrime io ti perdei.
Forse ad esser d’altrui l’alma disposi
Con violenza e forse…
Ma che? Troppo già dissi.
Di Cesare ora son. Data è la fede,
Se non la destra. Esser di lui sol voglio.
Quando alla tua corona
Nuovi Imperi aggiungessi e nuovi Mondi
E quando ancor per legge
Di rio destin andare dovesse Augusto
Infelice, ramingo e fuggitivo,
Non cangerai desio, né cor, né fede;
E mi saria più dolce
Con lui misera errar, con lui meschina,
Ch’esser lieta con te, con te Regina.
190
Varane
E ben facciasi. All’aspra,
Dura sentenza il mio sangue soscriva.
Vanne al talamo augusto
Sul cadavere mio.
Atenaide
Tanto non chieggio,
Prence, da te. Soffri il tuo fato. Vivi
A più degna beltà, vivi a Pulcheria.
Questo al tuo amor, sol questo
Favor dimando: ama Pulcheria e vivi.
Probo, tu quella gemma
Rendi…
Varane
Ferma Atenaide.
Su gli occhi miei felice
Non sia il rival. Lascia ch’io volga altrove
E le lagrime e l’ire.
Trema per lui. Morire
Posso ben disperato
Ma non solo, non vil, né invendicato.
Il mio amore
Diventa furore,
Rabbia spiro e vendetta dal sen.
Non trabocchi
Più pianto dagli occhi,
Ma sia spruzzo di fiamma nel core
E su’l labbro si cangi in velen.
SCENA XIII
Atenaide e Probo
Probo
Temo e compiango il suo dolor.
Atenaide
Mi fanno
Senso le sue querele,
Ma così oprar degg’io.
Ei così dee soffrir. Probo, tu intanto
Reca con quella gemma
Al mio Signore e tuo la certa prova
Di quella fe’ con cui l’amo e l’adoro.
191
Probo
Eseguirò. (Nel core
Sento d’amico Prence il fier martoro.)
Vado a recar contenti
A chi sospira e pena
Per tua gentil beltà.
In mezzo a suoi tormenti
Ei darà fede appena
A quel piacer che in petto
Amor gli sveglierà.
SCENA XIV
Atenaide, poi Leontino
Atenaide
Vinta è già la procella. Eccomi in porto.
Né del primo terror mi resta in seno
Il minor turbamento.
Il mio franco riposo
Vien da virtù…
Leontino
Ma la virtude, o figlia,
Nuova fuga c’impone.
Atenaide
Fuggir? Perché?
Leontino
La fiamma
Da gli occhi tuoi ne’ due monarchi accesa
A scoppiare è vicina in guerra atroce.
Atenaide
Cesare io scelsi e al suo giudicio deve
Acchetarsi Varane.
Leontino
Non lo sperar. Fede che torni in danno
Non serbano i potenti e men gli amanti;
Se resti, avrai di che lagnarti. Andiamo.
Atenaide
Perdonami Signor. Sposa d’Augusto
Sarò fra poco. Egli m’adora…
192
Leontino
Eh figlia,
Sono gli amori in corte
Di debol tempra.
Ove le torni in grado
Politica gli scioglie.
Più giova al greco Impero il perso amico
Ch’Eudossa Imperatrice.
Atenaide
Mi fe’ troppo infelice
La prima fuga e pur l’impose onore.
Or l’impone il timor, né mancar posso
Alla fe’ che giurai.
Eccelso trono, fedel consorte,
Sono un dono che la sorte
Così facile non dà.
Se lo perdo è una sciagura,
Ma se’l lascio è mia viltà.
ATTO III
SCENA I
Cortile corrispondente al giardino
Probo
Probo
Che mi dite, o pensieri?
Tradire il mio Signor? Con quale speme?
Per qual mercé? V’intendo:
S’Eudossa è di Teodosio,
Pulcheria (oh Dio!) sia di Varane (Oh cieli!)
Con qual furor mi si risveglia in seno
La gelosa mia tema?
Salvasi a me la bella.
Lungi è il rival. Con un inganno istesso
Servo a me, servo a lei, servo all’amico.
Ma Teodosio è ’l mio Re…Che fo?...
Alme perfide insegnatemi
A peccar con più riposo.
Avvelena ogni piacere
Un rimorso tormentoso.
193
SCENA II
Varane con Guardie
Varane
Ove mi tragga il passo, ove il pensiero,
Non so, non veggio. Ah Probo,
Crudele amico, anco il tuo aspetto accresce
Le pene mie. Sì più l’irrita. Esponi
Con qual cor, con qual fronte il mio rivale
Ricevé il lieto avviso e il fatal dono.
Di’: su le mie sciagure
Quale insulto? Nulla tacer. Non cerco
Che oggetti d’ira, di dolor, di morte.
Probo
(Ecco il tempo) Signore,
Meno misero sei di quel che pensi.
Varane
È ver. Sì grandi sono
I mali miei, che appieno
Né concepirli, né sentirli io posso.
Probo
Ravvisa in quella gemma…
Varane
Eh! Toglimi dagli occhi
L’infausta pietra, onde segnar le stelle
L’ultimo de’ miei giorni.
Probo
Anzi il più lieto.
Varane
Ho perduta Atenaide.
Probo
Ella è tua sposa.
Eccone il testimon, Probo te ’l reca.
Varane
Come? Atenaide? E sarà vero?
194
Probo
Appena
Da lei movesti il piede,
Che vinta da pietà, spinta da amore,
Vanne, Probo, mi disse,
Vanne sull’orme sue; digli che paga
Son del suo pentimento.
Va’, reca a lui…
Varane
Probo, non più; l’estremo
Piacer mi opprime e in rendermi la vita
Quasi quasi m’uccide.
Io t’abbraccio, o dolce amico,
Io ti bacio, o caro dono.
Probo
Viene Augusto. (Ahi! Che feci?)
SCENA III
Teodosio con seguito, Pulcheria e detti
Teodosio
No, Pulcheria. Ecco Probo, ecco Varane,
Non m’ingannai.
Pulcheria
Del torto
Meglio ti rassicura.
Teodosio
Me ’l disse il cor. Certa è la mia sventura.
Varane
Signor, quanto più lieto a te verrei
Se il mio piacer costarti
Non dovesse sospiri.
Ma tolga il ciel ch’io di mia sorte abusi
E mi ti mostri ingrato.
Se non era il tuo cor sì generoso,
Or il mio non saria sì fortunato.
Teodosio
Prence, qualunque sia
La tua sorte e la mia, da me prescritte
195
Ne fur le leggi e a quelle
Istesse leggi io servirò d’esempio.
Pulcheria
(Egli è tradito. O perfida Atenaide!)
Teodosio
Probo, adunque egli è ver? Mi rende Eudossa
Questa mercé, paga così l’ingrata
Le mie beneficenze e la mia fede?
Nel tuo dolor ben veggio
La pietà ch’hai di me; veggio il tuo zelo.
Ma te ne assolvo, parla;
Udir voglio da te, da te che fosti
Testimon di quell’anima spergiura,
Tutto il suo error, tutta la mia sciagura.
Probo
Signor, che dir poss’io? Quell’aurea gemma
Sfavilla in mano al Principe de’ Persi
Di troppa luce; ed ella
Più di quel che potrei parla al tuo core.
Teodosio
O gemma! O vita! O infedeltà! O dolore!
Pulcheria
Sugli occhi del rival frena il tuo pianto.
Varane
Ora è tempo in cui dia
La tua virtù l’ultime prove.
Teodosio
Prence,
Ti basti esser felice; a te non chieggio
Né pietà, né conforto.
Del mio fato crudel l’ultimo vanto
Questo saria l’esser da te compianto.
Varane
Parto ché so qual sia
Pena spietata e ria
La vista d’un rival lieto e contento.
Ed io crudel sarei
Se oggetto di diletto
Facessi agli occhi miei del tuo tormento.
196
SCENA IV
Teodosio, Pulcheria e Probo
Teodosio
Qual discolpa, o germana,
Rechi per l’infedel? Che puoi tu dirmi?
Pulcheria
Ch’ella indegna è di te, ch’io son delusa,
Che tu tradito sei.
Teodosio
E ’l più misero aggiungi, e ’l più dolente.
Ma Teodosio non son, non sono Augusto
Se pentir non ti fo di tua incostanza,
Iniquissima Donna.
Probo
In Bisanzio non devi
Più tollerarla; ella ne parta e tosto,
Parta col suo Varane.
Teodosio
Sì, parta l’empia.
Pulcheria
Ella a noi volge il passo.
Teodosio
Ma prima l’ira mia
Le rinfacci le colpe.
Probo
Ah no! Vederla
Dopo sì grand’eccesso
È un tormentar, è un avvilir se stesso.
Teodosio
Invan qui voglio…
Pulcheria
Parti; a me la cura
Lascia di tua vendetta.
197
Teodosio
Anch’io saprò…
Probo
Se resti,
Il tuo grado n’è offeso.
Pulcheria
E la costanza tua n’è più commossa.
Teodosio
(Quanto mi costa il non veder più Eudossa.)
SCENA V
Pulcheria, poi Atenaide
Pulcheria
Mira come sicura,
Come lieta sen viene.
Chi non diria ch’ella è innocente?
Atenaide
Augusta,
Vero amor, pura fede
Ad ogni altro consiglio
In quest’alma prevalse.
Pulcheria
(Ancor sen vanta?)
Atenaide
Fra Teodosio e Varane
Scelsi qual più dovea. Mai sì tranquilla
Non mi sentii: tutti del primo affetto
Sono spenti i rimorsi
E del mio ben contenta e del mio Fato
Appena mi sovvien d’aver già amato.
Pulcheria
(Odi l’alma proterva, odi qual parla?)
Atenaide
Qual silenzio? Qual torbido? Eh più lieta
Applaudi alla mia scelta;
198
A quella onde tu stessa
Sei ultima parte.
Pulcheria
(Più non resisto!) Io che v’applauda? Io
Avrò nella tua colpa? Ed osi ancora
Presentarla al mio sguardo?
Farne pompa al mio sdegno?
Atenaide
In che son rea?
Pulcheria
Lieve eccesso all’ingrato
Sembra l’ingratitudine, all’infido
La poca fe’; ma iniqua
Ne ha più senso Pulcheria
Di quel che pensi. Da quest’ora indegna
Del mio amor ti dichiaro,
Del mio favor, della memoria mia.
Ne arrossisco di quanto
E per te feci e per te far dovea.
Atenaide
Almen…
Pulcheria
Taci, non deggio
Né rimirarti più, né più ascoltarti.
Atenaide
Se errai…
Pulcheria
Se errasti? Meco
T’infingi ancor? Perfida, taci e parti.
Più non vuo’ mirar quel volto,
Più ascoltar non vuo’ quel labbro,
Lusinghiero e traditor.
Labbro e volto
In cui sta accolto,
Il più iniquo e scellerato,
Il più ingrato ed empio cor.
199
SCENA VI
Atenaide, poi Teodosio con seguito
Atenaide
Meco Augusta così? Così Pulcheria?
Quella che già m’amò sposa a Teodosio,
Or ne ha dispetto ed ira?
Intendo. Or che Varane è un mio rifiuto,
Ella ne teme il nodo e al suo piacere
Sagrificar vorrebbe
E l’amore di Teodosio e ’l mio dovere.
Teodosio
Torno anche a tempo.
Atenaide
Augusto
Nel tuo volto a cercar venia l’intero
Mio riposo e ’l mio bene.
Vedrò negli occhi tuoi…
Teodosio
Miragli Eudossa,
Fissavi il lieto sguardo;
Ché se lo sdegno mio, se la mia pena
Può farti e più tranquilla e più felice,
Hai ragion di mirargli e di goderne.
Atenaide
Qual favellar!
Teodosio
Miragli, sì, ma poi
Che ne avrai fatto speglio,
Che ne avrai fatto pompa agli occhi tuoi,
Tremane ingrata e vile.
Miravi un cor poc’anzi
Tutto beneficenza e ne arrossisci,
Poc’anzi tutto amore e ne paventa.
Atenaide
(Innocente Atenaide, in che peccasti?)
Teodosio
Ma non pensar che sul mio cor ti resti
Altra ragion che d’odio e di vendetta.
200
Già ti esilio da lui
E qual da lui, da questa
Reggia, da questo Impero io ti do bando,
E ti do bando eterno.
Atenaide
Io non più tua?
Teodosio
Quella pace a te resti
Che tu mi lasci. Ove trovar tu speri
E grandezze e diletti, amori e fasti
Ti seguano sventure, affanni e pianti:
Né a te sovvenga mai che per rimorso
Il nome di Teodosio,
Né a me sovvenga mai quello di Eudossa
Che per sentirne orrore.
Atenaide
Ma Signor…
Teodosio
Vanne tosto
Ad infettar co’ tuoi sospiri altr’aure,
Femmina menzognera, ingannatrice.
Vattene e, qual mi fai, vivi infelice.
SCENA VII
Atenaide
Atenaide
Ferma, Teodosio, ascolta!
L’innocenza a te parla
Per bocca mia, tu sei tradito; ascolta!
Tu partisti e spargo a’ venti
Prieghi, lagrime e lamenti.
Qual demone, qual furia oggi a’ miei danni
Si è scatenata? Augusta
M’abborrisce e mi sfugge;
Mi persegue Varane;
Mi discaccia Teodosio.
Io ti do bando? E ti do bando eterno?
Sì, sì, vuol la mia morte e Cielo e Inferno.
201
Vanne tosto, fuggi, vola
Disleal lungi da me?
Fuggirò,
Volerò,
Disprezzata,
Disperata.
Innocente amor mio, povera fe’.
Quant’era meglio, o Padre,
Che più avessi creduto al tuo consiglio,
Che men creduto avessi alla mia speme.
Eccomi, andiam, fuggiamo
Quest’empio ciel, queste fatali arene.
In bosco romito,
In povero lito,
Qual vil pastorella
I giorni trarrò.
E in semplice stato
Al crudo mio fato,
All’empia mia stella
Men d’ira farò.
SCENA VIII
Galleria
Notte
Marziano, poi Pulcheria con seguito
Marziano
Cor mio che prigion sei
In sen della beltà,
Pria di partir vorrei
Saper s’ella ti miri
Con occhio di pietà.
So ben che lieto stai
Né curi libertà,
Ma dimmi almen semmai
Gradisce i tuoi sospiri
Chi sospirar ti fa,
Chi sospirar mi fa.
Pulcheria
Partite. Alle mie stanze
Già s’apre l’uscio.
E qual riposo io spero?
Cesare sì tradito;
202
Eudossa sì infedele;
Marzian sì lontano.
Marziano
Eccolo a’ piedi tuoi, s’egli è tua pena.
Pulcheria
Che miro? Ah! Che vicino or sei mia colpa.
Che fai? Che cerchi? È questo
Il guerriero tuo campo?
Qui raccogli i trionfi?
Qui Teodosio t’invia?
Marziano
Senza darti un addio, senza ottenerlo,
Potea da te partir?
Pulcheria
T’accieca un troppo,
Sì, conviene ch’io ’l dica, un troppo amore.
Se qui alcun ci sorprende,
Se in questo punto? O cieli!
Di te che sarà mai?
Che mai di me? Qual’ira
Ne avrà Teodosio? Io qual vergogna ed onta?
Deh! Parti e la tua vita
Risparmia e l’onor mio.
Marziano
Parto, o mia Augusta; almeno dimmi addio.
Pulcheria
Addio. Parti. Ah! Non posso
Dirlo e non sospirar. Crudel sospiro,
Più di quel ch’io volea fors’ei ti disse.
Marziano
E che disse al mio cor?
Pulcheria
Va’. Ti concedo
Dirlo, qual brami.
Marziano
Anche sospir d’amore?
203
Pulcheria
Parti. Già sai perché sospiri un core.
SCENA IX
Marziano, poi Varane e Probo
Marziano
(Vien gente. Io qui m’ascondo.)
Probo
L’ora è opportuna.
Varane
Probo,
Esser io deggio un rapitor indegno?
Probo
Chi si ritoglie il suo nulla rapisce.
Varane
Violerò le sacre
Leggi ospitali?
Probo
Il primo
A violarle egli è Teodosio. In onta
De’ patti e giuramenti ei tenea a forza
Colà chiusa Atenaide, ora tua sposa.
Varane
Ritenermi Atenaide?
E ritenerla a forza?
O Cesare spergiuro!
Son vinti i miei rimorsi.
Vanne. Affretta i momenti;
Prenditi i miei: sono anch’io teco.
Probo
Tutte
Le occulte vie, d’onde entrar possi in quelle
Chiuse stanze ho palesi.
A me de’ miei custodi
Bastano l’armi.
Intanto
Tu qui rimanti e questo
Varco ben custodisci e qui m’attendi.
204
Varane
Il riposo e la vita
Dovrò, amico, al tuo braccio, al tuo consiglio.
Probo
(Una colpa imperfetta è ’l mio periglio.)
SCENA X
Varane e Marziano in disparte
Varane
Fausto abbia il fin la ben ardita impresa.
Marziano
(Udii. Solo non posso scioglier le trame.)
Varane
In breve
Sarò tuo, sarai mia, cara Atenaide.
Marziano
(Non vo’ che alcun qui mi sorprenda.)
Varane
Al seno
Parmi sposo abbracciarti.
Festeggiatemi intorno, o lieti amori.
Marziano
(Ma schernir saprò altrove i traditori.)
Varane
Lieto va l’agricoltore
Già vicino al dolce frutto
Per cui tanto sospirò.
Così il premio al mio dolore
Fortunato anch’io godrò.
SCENA XI
Leontino, Atenaide e Varane in disparte
Varane
S’apre l’uscio. In disparte
Trarsi convien. State voi pronti al cenno.
205
Leontino
(ad Atenaide)
La sciagura previdi
E, se al consiglio mio davi più fede,
Non saresti in tal pena.
Varane
(Questi è Leontino.)
Atenaide
Padre,
Chi temuta in Teodosio
Avria tanta ingiustizia?
Varane
(La mia Atenaide è questa,
E del rival si lagna e ’l chiama ingiusto.)
Leontino
Tutto è in silenzio. Al male
Il rimedio anche tardo è pur rimedio.
Alla fuga, alla fuga.
Atenaide
Infauste mura,
Nel crudo affanno mio
Senza un sospir dirvi non posso addio.
Infausta reggia addio:
Ti lascio la mia pace
E vado a sospirar.
Possa goder beato,
Benché spietato e rio,
Il tuo Signor cui piace
Farmi così penar.
Varane
Qui sorprenderla è rischio.
Taciti andiam sull’orme sue; mia cara,
Per esser mia dall’ire
Di Teodosio t’involi,
Ma ti siegua il tuo sposo e ti consoli.
(parte)
206
SCENA XII
Probo con guardie, poi Teodosio con Pulcheria
Probo
Qual disastro? Di Eudossa
Tutte invano le stanze
Corsi e cercai. Qui neppur trovo il Prence.
Che mai sarà? Così dell’opra il frutto
Nel più bel fior si perde?
Ahimè! Vien con Pulcheria
Il mio Signor tradito. O tema! O speme!
Teodosio
E sarà ver? L’infida
Poté fuggir?
Pulcheria
Fuggì col Padre. Or ora
Da una sua schiava a me fedel l’intesi.
Probo
(Che ascolto mai?)
Teodosio
Cotanto
Ardì nella mia reggia?
Sulle mie luci? Olà, custodi, Probo,
Che si chiuda ogni varco;
Che si cerchi Leontino;
Che mi si torni Eudossa.
Dov’è Varane? O Dio! Pulcheria? Io moro.
Probo
Per l’infedel ti affliggi?
Teodosio
Ah! Ch’io l’adoro.
Probo
Cesare…
Teodosio
Immantinente
Alla fuga d’Eudossa e di Leontino
Argine si frapponga.
207
SCENA XIII
Leontino e detti
Leontino
Ah! Teodosio, ah! Signor…
Teodosio
Perfido: audace?
Leontino
Qua! Tuo son’io; ma l’innocente figlia
A te si salvi, a me si salvi. Armato
Me l’ha tolta Varane.
Teodosio, Pulcheria, Probo
Varane?
Leontino
Ed a gran passi
La trae fuor di Bisanzio…
Teodosio
Anima vil, tutto è tua trama. In mano
Tu la desti a Varane;
Ma non pensar che invendicata sia
La sua fuga, il tuo error, l’offesa mia.
Leontino
Deh! Non s’indugi. Eudossa
Salvisi tosto e poi
Tutta in me cada a tuo piacer la pena.
Pulcheria
Vada ella pur…
Teodosio
No, no, Pulcheria. Io stesso
Sull’orme sue m’accingo.
Seguitemi o miei fidi. Andiamo.
Probo
Eh Sire,
Il tuo grado no ’l chiede, il tuo decoro.
Resta. Io vi andrò. Qui rivedrai fra poco
Libera Eudossa e prigionier Varane.
208
Teodosio
Sì caro, sì fedel, vattene e rendi
A Cesare il riposo.
Probo
Vado. Non hai di che temer tu possa.
(Bell’inganno che salva
A me la vita ed a Varane Eudossa.) (parte)
SCENA XIV
Teodosio, Pulcheria e Leontino
Pulcheria
Si confonde il pensier. Sposo ad Eudossa
Esser dovea Varane. (a Teodosio)
Egli ne avea l’amor, ne avea la fede.
A che rapirla? A che fuggirne occulto?
Teodosio
Temea forse in Teodosio
Lo spergiuro la forza? Ah! Ch’io potea
Perder Eudossa e l’alma,
Ma non tradir la fede e non l’onore
E serbava ragion del mio dolore.
Leontino
Un solo inganno, un solo
Tutti ci fece miseri.
Pulcheria
Un inganno
D’Eudossa, è vero.
Teodosio
E tu ne fosti a parte.
Leontino
Il vostro cor si disinganni e in lei
L’innocenza si assolva.
Sì: mia figlia è innocente.
Pulcheria
Ella, che in seno
Chiudea non casta fiamma? E che ripiena
209
Dell’amor di Varane
Passava al letto augusto? Ella innocente?
Leontino
Se mai…
Teodosio
Da me sì amata,
Così beneficiata
Tradirmi? Abbandonarmi? A chi poc’anzi
Amò il suo disonor, l’infamia sua,
Pospormi sì vilmente?
E nel giorno pospormi
Ch’esser dovea mia sposa
E regnar sul mio trono? Ella innocente?
Leontino
Tregua, Signor; tregua Pulcheria all’ire.
La sua innocenza udite.
Posto quel core in libertà di scelta
Per te, per te decise. Ella non vide
Nell’amor di Varane
Che un oggetto d’orror. Per qual destino
Non so, fosti ingannato.
Bando le desti. Ella conobbe il torto.
Se ne dolse: ubbidì: la notte attese;
Meco fuggì! Non lunge
Rapilla il Prence. Ad implorarne aita
Frettoloso qui accorsi.
Eccovi il ver. S’io mento,
Piombi su la mia testa
La pena più terribile e funesta.
Pulcheria
Ma l’aurea gemma è di Varane. A lui
Probo la diede pur?
Leontino
Probo la diede?
Ah! Per qual nuovo inganno
Siam più infelici. Probo è traditore
A Pulcheria, ad Eudossa e al suo Signore.
Teodosio
Traditor Probo? Ed io poc’anzi a lui
Fidai me stesso?
210
Leontino
Ei passa
Con Varane secrete intelligenze,
Né peraltro il seguì che per tradirti.
Teodosio
Sia traditore, o no, convien seguirlo.
Chi ha cor fedel in seno
Prenda l’armi e sia meco.
Dien le trombe guerriere
Fuga al riposo. E popoli e soldati
Nell’ippodromo armati
Si raccolgano tosto.
Seguami ancor Leontino. Oggi conviene
Morir da forti o racquistar Eudossa
Ed in sì ingiusta impresa
Perder la vita o vendicar l’offesa.
M’accende amor l’ire guerriere in petto,
E per beltà fedel vado a pugnar.
Ma, se il rival non giungo, ahi, che dispetto!
O, se infedel lei trovo, ahi, che penar!
SCENA XV
Pulcheria sola
Pulcheria
Oh Marzian qui fosse. Oh! Del tuo zelo
Opra fosse e trionfo
Il racquisto di Eudossa.
Quanto Augusto per te, quanto Pulcheria
Per te saria contenta; e la tua fede
Qual merto ne otterrebbe e qual mercede.
Solo penso ed amo te,
Sol sospiro e bramo te;
Sospirando e amando ma
Cara ho la gloria tua quanto il tuo amore.
Te solo penso ed amo,
Te sol sospiro e bramo;
Ma sospirando e amando
Oggetto del mio affetto
Altro piacer non è che
La virtude, la fe’ del tuo gran core.
211
SCENA XVI
Ippodromo
Teodosio con seguito e poi Leontino
Teodosio
Duci, soldati, popoli, tradito
Son da un Principe amico,
Da un indegno Vassallo:
Da Varane e da Probo. Al vostro braccio
Chiedo le usate prove;
Chiedo la loro pena al vostro zelo.
Andiamo amici, avrem propizio il cielo.
SCENA XVII
Marziano, Probo e detti
Marziano
Signor, l’invitto brando
Serba a maggiori e più lodate imprese.
Teodosio
Marziano?
Marziano
A’ tuoi lumi
Non reo, quantunque in onta
Al sovrano divieto, io mi presento.
A quest’ora già i passi
Contro il Bulgaro iniquo avrei rivolto,
Ma gli arrestò di questo (accennando Probo)
Perfido cor la fellonia malvagia.
Leontino
Sì, Probo è il traditor.
Teodosio
Suddito iniquo,
Esempio di perfidia, anima infame,
Perché tradirmi? Di’.
Perché? Perché così nella più cara
Parte di me tradirmi?
Perché d’ogni vivente
Il più misero farmi, il più dolente?
212
Probo
Son reo, son empio, traditor, iniquo,
Degno di mille pene,
Di mille morti. Eudossa
È fedele, è innocente.
Ingannato è Varane e tratto ad arte
Nella perfidia mia. Più dir non posso
Se non chieder la morte.
Teodosio
E morte avrai.
(Parte Probo accompagnato da’ Littori)
SCENA XVIII
Teodosio, Marziano e Leontino
Teodosio
Marzian, Leontino, amico, Padre,
Che mi giova innocente
La mia Eudossa trovar quando perduta,
E perdutala forse, oh Dio! Per sempre?
Vittima di Varane, ogni momento
Più da me l’allontana. E che s’indugia?
Colà si corra. Andiamo amici, andiamo.
O la mia Eudossa, o la mia morte io bramo.
Leontino
Il mio dolor nel suo dolor si perde.
Marziano
Eh fermati: ogni traccia è tarda o vana.
Teodosio
Oh Dio! Dunque a morir.
SCENA XIX
Atenaide e suddetti
Atenaide
Perché morir, cor mio?
Teodosio e Leontino
Eudossa?
213
Teodosio
Sposa…
Leontino
Figlia…
Atenaide
Sì, son tua Padre amoroso,
Sì son tua mio dolce sposo.
Sì, ti stringo,
Sì, ti abbraccio.
Teodosio
Sento che per l’affetto
Quest’alma nel mio petto
Non sa’ più che bramar.
Atenaide
Dal grand’affanno, o Dio,
Oh sposo, oh Padre mio,
mi trovo a respirar.
Leontino
Sento che per l’affetto
Un dì sì fortunato
Non fu, né mai sarà.
Teodosio
O mia speranza bella.
Leontino
O mio conforto e calma.
Atenaide
Nel sen contenta ho l’alma
Più tema il cor non ha.
Teodosio
Ma chi del fier Varane
Ti liberò del violento amore?
Atenaide
Il tuo Duce fedel.
Teodosio
Che? Marziano
De’ benefici suoi tacque il più grande?
214
Marziano
Oprai ciò ch’io dovea. Fuor di Bisanzio
In Varane m’incontro; odo le strida
Della rapita Eudossa.
Col fior de’ miei l’assalgo
Cinto da’ suoi seguaci. Ardito e forte
Sostien la pugna. Arriva
Nel più fier della mischia
Probo e fellone a lui soccorre. In questa
Vinto alfin, ne’ miei ceppi
Probo riman. Racquisto Eudossa. Al Prence
Si permette la fuga
Perché in lui si rispetta il regal Padre.
Torno a te vincitor: ti rendo Eudossa.
Teodosio
E con Eudossa a me rendesti il core.
O cara!
Leontino
O figlia!
Atenaide
O sposo, o genitore!
SCENA XX
Pulcheria e detti
Pulcheria
Di tante gioie a parte
Esser potrà Pulcheria?
E da te generosa
Il perdono otterrà d’un’ira ingiusta?
Atenaide
Sovrana mia, benefattrice Augusta.
Teodosio
A Marzian, per cui cotanto bene
Oggi si è dato in sorte,
Nulla dirai Germana?
Pulcheria
L’alma grande si appaga
Del bene oprar, né chiede
Contenta di se stessa altra mercede.
215
Teodosio
Parla così l’eroe, ma non l’amante.
Egli degno è di te.
Pulcheria
Né tal lo niego.
Or li basti così. Verrà anche un giorno
Ch’egli vedrà più certa
La mia riconoscenza.
Marziano
Basta alla mia costanza
Anche la sola gloria
Di poterti adorar senza speranza.
Teodosio
Al tempio, Eudossa, al tempio;
Né più si differisca il nostro bene.
SCENA ULTIMA
Varane e detti
Varane
Varane anche le vostre
Pubbliche gioie a coronar sen viene.
Teodosio
Qual vista?
Varane
Non ti turbi
Cesare il mio ritorno.
Per l’acquisto d’Eudossa,
Quel forte amor che mi consuma et arde
Tutto tentar potea fuor che rapirla;
E rapirla già tua. M’ingannò Probo,
E col darmi la gemma
E col dirmi che, a forza e contro i patti,
La ritenevi in tuo poter. La sorte
A te rese giustizia,
Ma, se mi toglie Eudossa,
Non mi tolga il tuo cor la tua amistade.
Vagliami questa a risarcire in parte
La gran perdita mia.
216
Teodosio
Tutto s’oblii. Vuoi l’amistà d’Augusto?
Al figlio d’Isdegarde ella si dia.
Coro
Bel goder quando si gode
Con la pace e con l’amor.
L’odio ingiusto e l’empia frode
Son trofeo dell’innocenza,
Son trionfo del valor.
FINE
Resti delle mura di Bisanzio.
217
ANDREA MARCON
Considerato come uno dei principali specialisti ed interpreti della musica
antica italiana, Andrea Marcon è nato a Treviso nel 1963. Dopo il diploma
in Organo e Clavicembalo proseguiva gli studi a Basilea dove otteneva il
diploma in Musica Antica (con Hauptfach organo e cembalo con Jean
Claude Zehnder). Alla sua crescita musicale contribuivano inoltre Luigi
Ferdinando Tagliavini, Hans van Nieuwkoop, Ton Koopman, Jesper Christensen e Harald Vogel.
Andrea Marcon nel 1985 si laureava al Concorso Internazionale di Bruges,
nel 1986 vinceva il primo premio al Concorso Organistico “Paul Hofhaimer” di Innsbruck e nel 1991 il primo premio al Concorso Clavicembalistico di Bologna.
Svolge un’intensa attività concertistica nei più prestigiosi festival e centri
musicali europei in veste di organista, clavicembalista e direttore. Ha registrato inoltre per diverse reti televisive, radiofoniche e case discografiche
ottenendo importati riconoscimenti quali il “Premio Internazionale del
Disco - Vivaldi per la Musica Antica Italiana” della Fondazione Cini di
Venezia, il “Diapason d’Or” francese e per quattro volte il “Preis der Deutschen Schallplatten Kritik”.
Nel 1997 ha fondato l’Orchestra Barocca di Venezia con cui ha iniziato
un’intensa attività concertistica nelle più prestigiose sale in Europa, Stati
Uniti e Giappone (Royal Albert Hall Londra, Konzerthaus Berlino, Concertgebouw Amsterdam, Théâtre du Chatelet Parigi, Konzerthaus Vienna,
Tonhalle Zurigo, Kyoi Hall Tokyo, Alice Tully Hall-Lincoln Center New
York) dirigendo fra l’altro importanti opere barocche quali L’Orione di
Cavalli, Siroe di Händel, L’Olimpiade di Cimarosa, Il trionfo della Poesia
e della Musica e La morte di Adone di B. Marcello, Il vespro di Natale di
Monteverdi, Andromeda liberata di Vivaldi. Ha inoltre diretto l’orchestra
da camera di Ginevra, la W.D.R. di Colonia, l’orchestra sinfonica di Granada e l’orchestra del Teatro dell’Opera di Francoforte (con la produzione
dell’Ariodante di Händel nel 2004 e 2005).
Nel 1999 ha firmato con l’Orchestra Barocca di Venezia, in collaborazione
con il violinista Giuliano Carmignola, un contratto in esclusiva con la casa
discografica Sony Classical. I sei CD prodotti, dedicati ad opere sconosciute di Vivaldi, Locatelli, alle Sonate per violino e cembalo obbligato di J.S.
Bach, hanno riscosso uno straordinario successo internazionale. Dal 2004
registra in esclusiva per Deutsche Grammophon Gesellschaft.
Dedicando parte della sua attività all’insegnamento, Andrea Marcon ha
inoltre tenuto seminari e corsi di perfezionamento in tutta Europa e per le
Accademie Superiori di Musica di Tolosa, Helsinki, Amburgo, Lubecca,
Amsterdam, Malmoe, Karlsruhe, Copenhagen, per il Royal College of
Organists di Londra e per le Università di Goteborg e Birmingham. È stato
inoltre invitato a far parte della giuria dei concorsi internazionali di Norimberga, Tolosa, Amsterdam/Alkmaar, Bruges, Tokyo, Amburgo (NDR).
Dal 1997 è titolare di una cattedra di clavicembalo e organo storico presso
l’Accademia di Musica di Basilea (Schola Cantorum Basiliensis) che
richiama studenti da tutto il mondo.
ORCHESTRA BAROCCA DI VENEZIA
Dall’incontro tra Andrea Marcon e l’Accademia di San Rocco è sorto nel
1997 il progetto Orchestra Barocca di Venezia.
L’orchestra dispone di musicisti attivi ormai da anni nel campo della musica antica ed è specializzata nell’esecuzione su strumenti originali. Il suo
218
Andrea Marcon.
Orchestra Barocca di Venezia.
219
organico può variare, a seconda del repertorio, dalle parti reali fino a raggiungere le dimensioni dell’orchestra classica. Nell’attività dell’orchestra
viene dato ampio spazio al repertorio italiano del ’700, in particolare alla
scuola veneta, e alla riscoperta del patrimonio operistico barocco.
Significative le produzioni di opere inedite quali Orione di Cavalli e Olimpiade di Cimarosa, di un CD dedicato ad A. Marcello, la ricostruzione del
Vespro di Natale e del Vespro di Pentecoste di Claudio Monteverdi, l’esecuzione della serenata La morte di Adone e dell’oratorio Il trionfo della
Poesia e della Musica di B. Marcello e la prima rappresentazione italiana
del Siroe di Händel.
Sempre diretta da Andrea Marcon l’Orchestra ha tenuto concerti in tutta
Europa, negli Stati Uniti e in Giappone in alcune tra le più prestigiose sedi
concertistiche quali la Royal Albert Hall di Londra (Proms), Théâtre du
Chatelet di Parigi, Konzerthaus di Berlino, Concertgebouw di Amsterdam,
Carnegie Hall di New York, Musikverein di Vienna, Lincoln Center di
New York, Kioy Hall di Tokyo, Filarmonica di Varsavia, Opera di Lione,
Konzerthaus di Vienna, International Music Festival di Istanbul, Hercules
Saal di Monaco di Baviera, Alte Oper di Francoforte, Philharmonie di
Colonia, spesso registrati dalle più importanti reti televisive e radiofoniche
europee, statunitensi e nipponiche (BBC1-TV, NHK-TV, Raidue, BBC3,
ORF, Radio France, RadioTre).
Nel 1999 l’Orchestra ha firmato un contratto discografico in esclusiva per
l’etichetta Sony Classical: con il violinista Giuliano Carmignola sono stati
registrati concerti dall’op. III di Locatelli e tre CD che contengono, oltre
alle Quattro Stagioni di Vivaldi, l’incisione in prima mondiale di quindici
Concerti per violino dell’autore veneziano. Queste produzioni hanno ottenuto i riconoscimenti più prestigiosi della stampa specializzata (tre Diapason
d’Or, Gramophone, Choc de l’Année de le Monde de la Musique 2001,
Echo Preis 2002, Diapason d’Or 2003). Con il mezzosoprano austriaco
Angelika Kirchschlager è stato inoltre prodotto un CD dedicato a J.S.
Bach.
Dal 2004 l’Orchestra incide per Deutsche Grammophon e sono già stati
pubblicati alcuni CD: Concerti per violino di Vivaldi e Locatelli con il violinista Giuliano Carmignola, 4 Mottetti di Vivaldi con il soprano Simone
Kermes, un CD interamente dedicato alle Sinfonie per archi di Vivaldi, e
l’incisione in prima mondiale della serenata Andromeda liberata di Vivaldi.
Nel 2004 l’Orchestra è stata impegnata nella ripresa del Siroe di Händel in
forma di concerto a Parigi, Metz e Amburgo e, in forma scenica e con la
regia di Jorge Lavelli, a New York (Brooklyn Academy of Arts). Nel febbraio del 2005 ha effettuato una tournée in Canada e negli Stati Uniti
assieme al duo pianistico Katia e Marielle Labèque e ha suonato in Francia, Austria, Germania, Spagna, Stati Uniti e Giappone.
L’Orchestra Barocca di Venezia si avvale della collaborazione della Fondazione Cassamarca – Treviso.
RUTH ROSIQUE LOPEZ
Nata a Barcellona, studia canto al Real Conservatorio Joaquin Rodrigo di
Cadice con Pilar Saez. Si perfeziona al Conservatorio di Guadalajara (con
Angeles Chamorro e Manuel Burgueras) ed al Conservatorio Superiore di
Musica di Valencia con Ana Luisa Chova. Ha iniziato la sua attività partecipando a diversi festival: Arte Sacra di Madrid, il Mozart Festival di La
Coruña, La Caixa di Barcelona, San Sebastian e la Escuela Superior di
Madrid ed il Festival di Musica Contemporanea di Valencia. Nel 2004
220
Ruth Rosique Lopez.
Romina Basso.
221
appare nell’Andromeda liberata di Vivaldi insieme alla Venice Baroque
Orchestra sotto la direzione di Andrea Marcon a Boston e New York. Ha
interpretato Die Zauberlflöte di Mozart, Moses und Aaron e Pierrot Lunaire di Schönberg, Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi,
The Rape of Lucretia di Britten, Il turco in Italia di Rossini e i Requiem
di Mozart e di Fauré.
ROMINA BASSO
Nata a Gorizia, si è diplomata in Canto col massimo dei voti presso il
Conservatorio “B. Marcello” di Venezia e laureata con lode in Lettere
Moderne - Discipline dello Spettacolo all’Università di Trieste.
Perfezionatasi con docenti quali Claudio Strudthoff, Rockwell Blake, Regina Resnick, Biancamaria Casoni, Elio Battaglia, Claudio Desideri, si è specializzata nel repertorio operistico barocco e rossiniano svolgendo altresì
un’intensa attività concertistica in duo col pianoforte e quale interprete del
repertorio oratoriale.
Coltiva l’arte del Lied romantico e della musica vocale da camera; si dedica allo studio del repertorio della propria regione operando a livello musicologico per la salvaguardia e rivalutazione di importanti fondi musicali del
Novecento; ha pubblicato il volume Augusto Cesare Seghizzi. Il catalogo
delle opere (Gorizia, 2001); è in fase di pubblicazione il catalogo del
Fondo Domini-Bauzon (Biblioteca Statale Isontina, Gorizia); ha collaborato
all’incisione dei CD Cecilia Seghizzi Campolieti, Musica da Camera; Friedrich Nietzsche, Lieder per la rivista filosofica Civiltà Musicale; Musica in
Friuli per l’etichetta Bongiovanni e Sacre meditazioni; ha realizzato il
DVD dell’opera Zanetto prodotto da Kikko Classic; è stata registrata dalla
RAI, dalla BBC 3, dalla ABC Classic australiana, dalla ORF 1 austriaca.
Vincitrice di vari concorsi (Rogger, Toti dal Monte, Placido Domingo’s
Operalia e As.Li.Co., Seghizzi, Palma d’Oro, Città di Conegliano e Modena Musica), collabora con prestigiosi ensemble strumentali (Il Quartettone,
La Cappella Reyal de Catalunya e Le concert de Nations di Barcellona,
Chorus Musicus di Colonia, Concerto Italiano, Cosarara, Ricercar Consort
di Bruxelles, The Age of Enlightment Orchestra di Londra, Bayerisches
Rundfunk di Monaco) in tournées internazionali.
Tra gli impegni più rilevanti: Missa Incoronationis, Vesperae solemnes de
confessore e Requiem di Mozart; Gloria, Beatus Vir e Stabat Mater di
Vivaldi; Te Deum e Messe de Minuit pour Noël di M.A. Charpentier; Cantate di J.S. Bach; Orfeo e Madrigali guerrieri et amorosi di Monteverdi a
Torino; Petite Messe solennelle di Rossini in Spagna diretta da Christoph
Spering; Stabat Mater di Pergolesi a Trieste; La vergine dei dolori di A.
Scarlatti a Vienna.
Diretta, tra gli altri, dai Maestri Peter Maag, Jordi Savall, Rinaldo Alessandrini, Marcello Viotti, Daniele Gatti, Tiziano Severini, Alain Guingal,
Wolfgang Bozic, Philippe Pierlot e Vladimir Jurowski, ha cantato nei maggiori teatri di tradizione italiani e in Australia (Melbourne International
Arts Festival), Inghilterra (Glyndebourne Festival Opera), Germania (Filarmonie di Monaco), Belgio (La Monnaie) e Giappone (Otsu e Tokyo) ruoli
da protagonista in Orfeo, Il Ritorno di Ulisse in Patria, Tancredi, Le
Comte Ory, Cenerentola, Italiana in Algeri, Ginevra di Scozia, Die Fledermaus, Die Zigeunerbaron, Barbablù, La Belle Hélène, Les Dialogues des
Carmelites, Faust, Rigoletto, Madama Butterfly, Manon Lescaut e Die Zauberflöte.
222
LAURA RIZZETTO
Diplomata in pianoforte presso il Conservatorio G. Tartini di Trieste sotto
la guida di Maria Puxeddu, inizia lo studio del canto con la madre e in
seguito con il soprano Rosetta Crosatti, docente di canto presso il Conservatorio G. Verdi di Milano, diplomandosi a pieni voti nel Luglio 2001.
Dal 1999 al 2002 ha partecipato in qualità di giovane artista ai concerti del
Festival Internazionale di Musica da Camera di Portogruaro eseguendo svariate partiture del repertorio cameristico e non sotto la direzione di A. Specchi, F. Mondelci, V. Mariozzi, C. Desderi, M. Trombetta e Leone Magiera.
Determinante per la formazione artistica è la collaborazione assidua con la
prima tromba dell’Opera di Roma Mauro Maur, con il quale partecipa
periodicamente ad importanti manifestazioni (nazionali ed internazionali)
eseguendo brani tratti da repertori che spaziano dal barocco alle musiche
da film di E. Morricone e N. Rota.
Dal 2000 è ospite della rassegna “En attendent Rossini” del R.O.F. (Rossini Opera Festival), in occasione della quale ha debuttato nei ruoli di Sesto
ne La clemenza di Tito di W.A. Mozart (accompagnata dall’ensemble dell’Arcimboldo – corni di bassetto e fortepiano) e di Rosina ne Il barbiere di
Siviglia di Rossini. Recentemente ha debuttato i ruoli di Dorabella in Così
fan tutte e Cherubino ne Le nozze di Figaro sotto la direzione di L.
Magiera, riscuotendo ottimo consenso di pubblico e critica.
Ha al suo attivo numerosi concerti (repertorio sacro) in Italia e all’estero
(nella Cattedrale di S. Stefano a Vienna ha tenuto un recital dedicato a
Vivaldi, eseguendo lo Stabat Mater e brani tratti dalla Juditha
Triumphans). Prossimamente debutterà nel ruolo di Nice nell’opera Eurilla
e Alcindo di A. Vivaldi. Dal 2002 studia con S. Lowe.
FRANZISKA GOTTWALD
Vincitrice del Concorso Internazionale Bach di Lipsia nel 2002, è nata a
Marburg. Ha cominciato lo studio del canto a 16 anni con Eugen Rabine
ed ha proseguito nei Conservatori di Saarbrücken, Hannover e Weimar.
Invitata a cantare ad Hannover e Weimar, dal 1998 al 2002 è diventata
parte della compagnia stabile, cantando i ruoli di Hänsel, Cherubino e Frau
Reich. È stata ospite dei Teatri di Braunschweig e Bielefeld e ha cantato
nel Don Chisciotte della Mancia di Hans Zender alla Komische Oper di
Berlino.
Dal 2001 Franziska Gottwald ha una solida carriera internazionale ed ha
cantato con Ton Koopman e la sua Amsterdam Barique Orchestra. Diretta
da Reinhard Goebel ha cantato in Come ti piace di Veracini, nella Messa
in si minore di J.S. Bach e nella Arianna a Nasso di Haydn con l’ensemble Musica Antiqua Köln.
Si è esibita al Concertgebouw di Amsterdam, a Monaco, Berlino, Atene,
Vienna, Napoli, Milano, Bilbao, Parigi e in numerosi festivals internazionali. Diretta da Fabio Luisi ha impersonato Manja ne La Contessina Mariza
al Gewandhaus di Lipsia, è stata la Messaggera e la Speranza in Orfeo di
Monteverdi diretto da Peter Neumann a La Folle Journée di Nantes ed ha
cantato nel Requiem di Verdi nella Cattedrale di Lubiana.
Inoltre ha cantato in una versione orchestrata da Umberto Benedetti Michelangeli di Prose liriche di Claude Debussy diretta da Pascal Rophé a Udine
e all’inizio del 2004 ha fatto una tournée nel Sud Est asiatico con brani di
Brahms e Schumann.
È possibile ascoltare Franziska Gottwald in numerose registrazioni e in cd
come contralto nelle registrazioni delle Cantate di Bach e nella recentemen-
223
Laura Rizzetto.
Franziska Gottwald.
224
Cristina Baggio.
Bartolo Musil.
225
te riscoperta Matthäuspassion di C.P.E. Bach diretta da Ton Koopman. Ha
inciso anche La passione di Nostro Gesù Cristo di Antonio Salieri diretta
da Christoph Spering.
CRISTINA BAGGIO
Dopo una laurea in Psicopedagogia col massimo dei voti e la lode, si
diploma in Canto e in Musica Vocale da Camera con 10 e lode. Segue
corsi di perfezionamento in Italia e negli USA (Renata Scotto, Leone
Magiera, Lella Cuberli, Ruth Falcon, Bill Schuman).
I numerosi concorsi internazionali di cui risulta vincitrice (54° Concorso
per giovani Cantanti Lirici d’Europa “As.Li.Co.”, XXXII° Concorso Internazionale “Toti Dal Monte”, XVII° Concorso Internazionale “Iris Adami
Corradetti” – Premio Boito, IX° Concorso Internazionale per Cantanti Lirici “Del Monaco”, Concorso Internazionale “Martinelli-Pertile”) la avviano
alla carriera professionale.
Invitata da teatri italiani ed esteri (San Carlo di Napoli, Fenice di Venezia,
Regio di Parma, Teatro dell’Opera di Roma, Teatri di Brescia, Cremona,
Reggio Emilia, Filarmonico di Verona, teatro di Philadelphia-USA) debutta
in Bohème di Puccini, Nozze di Figaro di Mozart, Orfeo ed Euridice di
Gluck, Idomeneo di Mozart, Don Giovanni di Mozart, Principe P. di N.
Rota, Faust di Gounod, Bastien und Bastienne di Mozart, Campanello di
Donizetti, Matrimonio segreto di Cimarosa, Marin Faliero di Donizetti,
Cenerentola di Rossini, Il mondo della luna di Galuppi, Incanto di Natale
di Furlani, Serva scaltra di Hasse.
Ha collaborato con i direttori J. Tate, G. Noseda, G. Gelmetti, O. Dantone,
J. Webb, P. Morandi, M. Guttler, C. Macatsoris e registi come P. Pizzi, D.
Abbado, J.L. Marthinoty.
Attiva la sua partecipazione anche nel campo della musica sacra e cameristica che l’ha vista collaborare con l’Accademia Filarmonica Romana, il
Teatro Rossini di Pesaro, l’Accademia Farnese di Reggio Emilia, la Terza
Prattica, l’Orchestra del Regio di Parma, l’Orchestra Nazionale della RAI,
la Chamber Orchestra di Philadelphia.
BARTOLO MUSIL
Ha cominciato la sua carriera di musicista giovanissimo. Ha studiato Composizione all’Università di Vienna, Salisburgo e Detmold e Canto con Walter Berry e Thomas Quasthoff. Contemporaneamente ha seguito lezioni private e masterclasses di Edith Mathis, Cornelia Kallisch, Kurt Widmer, Jessica Cash, Rudolph Piernay e altri.
Musil ha ricevuto numerosi premi e borse di studio e recentemente anche
il Primo Premio al Concorso Internazionale della Melodia francese di
Toulouse.
Il repertorio di Bartolo Musil va dal Rinascimento e primo Barocco fino
all’opera contemporanea sperimentale.
In concerto ha cantato in molte sale importanti come il Musikverein (dove
ha eseguito i Madrigali di Monteverdi nella Sala Grande) e la Konzerthaus
di Vienna, la Filarmonica di Berlino (Messia e La Creazione di Haydn),
l’Holland Belcanto Festival, il Festival di Musica Antica di Innsbruck, e ha
tenuto concerti per le Jeunesses Musicales, per il Carinthischer Sommer
Festival e alla Stephaniensaal di Graz e nelle Cattedrali di Berlino e Vienna.
Nell’opera ha avuto grande successo nell’Orfeo di Monteverdi al Festival
Antikenfestspiele Trier e al Festival di Berlino nel ruolo principale dell’opera barocca La fede ne’ tradimenti di Attilio Ariosti, riscoperta di recente.
226
È stato anche invitato dall’Holland Belcanto Festival in ruoli principali di
opere di Donizetti, Mozart e Righini e dal Festival di Schwetzingen per il
Macbeth di Salvatore Sciarrino (direttore: Achim Freyer), dalla Neue Oper
Wien per Le Balcon di Eötvös e per una tournée con la Wiener Akademie
e con Martin Haselbock.
Ha cantato con la Wiener Klangforum, l’Ensemble Kontrapunkte, l’Orchestra Sinfonica di Mosca, la SWR-Orchester, l’Orpheus, e con registi come
Pet Halmen e Achim Freyer.
Recital, radio e registrazioni discografiche completano le sue attività.
Quest’anno i progetti di Bartolo Musil includono fra l’altro un cd di arie
barocche per l’etichetta Dongiovanni e una serie di concerti di Lieder.
Oltre alle sue attività di insegnante, direttore di coro e pianista, Bartolo
Musil è anche un cabarettista di successo con il suo duo illie&bart.
Come compositore ha ricevuto commissioni dal Musikverein e dalla Konzerthaus di Vienna, dal Festival Carinthischer Sommer e dalle Jeunesses
Musicales.
MARK TUCKER
Grande interprete del repertorio classico e barocco, Mark Tucker ha cantato
e registrato con molti importanti direttori quali Gardiner, Harnoncourt e
Jacobs. Di origine anglo-veneziana e bilingue, nutre un particolare interesse
per il repertorio italiano.
Mark Tucker.
227
Punti salienti della sua carriera sono stati Orfeo di Monteverdi nel ruolo
del titolo alla Queen Elizabeth Hall di Londra con il New London Consort
diretto da Philip Pickett con la regia di Jonathan Miller; i Vespri di Monteverdi al Festival di Salisburgo diretti da Nikolaus Harnoncourt e nella
Basilica di San Marco a Venezia diretti da John Eliot Gardiner; e la prima
mondiale di Vek Moy di Schedrin con Vladimir Ashkenazy al pianoforte e
la Kölner Philharmonie.
Tucker ha anche recentemente registrato Andromeda liberata di Vivaldi
con l’Orchestra Barocca di Venezia diretta da Andrea Marcon per la Deutsche Grammophon.
Si segnala inoltre L’Orfeo alla Cité de la Musique di Parigi con il New
London Consort; La Creazione di Haydn con l’Orquestra Simfonica de
Barcelona diretta da Ernest Martínez Izquierdo; il Messiah di Händel con
la New York Philharmonic e il Pulcinella di Stravinskij con la BBC National Orchestra of Wales, entrambi sotto la direzione di Hickox.
I suoi impegni operistici recenti lo hanno visto nel ruolo di Hyllos (Hercules) a Postdam; nel ruolo del titolo di Platée a Lisbona, come Eurimaco (Il
ritorno di Ulisse in Patria) con la Boston Baroque; Nerone (L’incoronazione di Poppea) per la Opera olandese; Danceny nella prima mondiale di Les
Liaisons Dangereuses di Piet Swerts per la Opera delle Fiandre; Gomatz
(Zaide) a La Monnaie di Bruxelles e per l’Opera du Rhin; Lysander
(Sogno di una notte di mezza estate) a Torino; The Novice (Billy Budd)
per il Royal Opera, Covent Garden a Londra; e Marzio (Mitridate) diretto
da Christophe Rousset al Théâtre du Chatelet a Parigi.
All’estero Mark Tucker ha cantato di Elgar Dream of Gerontius con l’
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Vladimir
Ashkenazy, con cui è stato anche in tournée con la European Union Youth
Orchestra con il War Requiem di Britten; la Messa in do di Beethoven con
La Fenice di Venezia, direttore Gardiner; il St. Nicolas di Britten con la
Zurich Chamber Orchestra (registrato per Claves Records); e la Messa in si
minore di Bach con l’Orchestra Sinfonica della Radio Danese e Blomstedt.
Tra le cose più importanti in Inghilterra ricordiamo di Britten il Nocturne
all’Aldeburgh Music Festival sotto la direzione di Charles Hazlewood; il
Faust and Helen di Lili Boulanger con la BBC Philharmonic; A Child of
our Time con la BBC Symphony e inoltre recitals alla Purcell Room di
Londra e con la London Symphony Orchestra L’enfant et les sortilèges
diretto da Andre Previn.
La discografia di Mark Tucker comprende Boaz (nella Ruth di Lennox
Berkley) con la City of London Sinfonia diretta da Hickox per la Chandos;
A Midsummer Night’s Dream diretta da Sir Colin Davis per la Philips e
L’incoronazione di Poppea con Gardiner per la DG.
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229
Mozart ritratto nel 1789 da Dorothea Stock.
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Giovedì 13 luglio
Chiesa di Sant’Agostino
ore 21,15
Giuliano Carmignola
violinista e direttore
Orchestra da Camera
di Mantova
WOLFGANG AMADEUS MOZART
Salisburgo 1756 - Vienna 1791
Concerto in re maggiore K. 211 per violino e orchestra
Allegro moderato
Andante
Rondeau (Allegro)
Concerto in si bemolle maggiore K. 207
per violino e orchestra
Allegro moderato
Adagio
Presto
***
Concerto in re maggiore K. 218 per violino e orchestra
Allegro
Andante cantabile
Rondeau (Andante grazioso)
231
Venerdì 14 luglio
Chiesa di Sant’Agostino
ore 21,15
Salvatore Accardo
violinista e direttore
Orchestra da Camera Italiana
WOLFGANG AMADEUS MOZART
Salisburgo 1756 - Vienna 1791
Concerto in sol maggiore K. 216 per violino e orchestra
Allegro
Adagio
Rondeau (Allegro, Andante, Allegro)
Concertone in do maggiore K. 190
per due violini e orchestra
Allegro spiritoso
Andantino grazioso
Tempo di Menuetto (Vivace)
***
Concerto in la maggiore K. 219 per violino e orchestra
Allegro aperto
Adagio
Rondeau (Tempo di Minuetto)
232
Giuliano Carmignola.
233
MOZART VIOLINISTA
GIOVANNI CARLI BALLOLA
nsolita e singolare, in tanto diluviare di iniziative sollecitate dal
250° anniversario della nascita di Mozart, quella della 63a Settimana Musicale Senese che prevede l’esecuzione integrale dei
concerti per violino del grande Celebrato. Se risaputa è la precoce
vocazione mozartiana per gli strumenti a tastiera, che porterà il prodigioso clavicembalista degli anni dell’infanzia e il celebrato pianista della maturità a un’attività concertistica durata l’intera esistenza,
meno noto è l’impegno del diciannovenne Konzertmeister come
violinista-compositore al servizio del principe-arcivescovo di Salisburgo. Un’arte appresa dal padre Leopold, esimio virtuoso e trattatista di uno strumento che nel secondo 700 già godeva di una storia, di una letteratura, di un prestigio risalenti per la massima parte
agli italiani – da Corelli a Geminiani, da Vivaldi a Tartini, per non
citare che i nomi più insigni, che lo avevano illustrato con le tecniche e le musiche.
Brevissima – per l’esattezza, dal 14 aprile al 20 dicembre 1775
– sarà la parabola professionale di Mozart violinista, ma fulgida di
capolavori. Essa è preceduta nel 1774 dal Concertone in do maggiore K. 186E, curiosa composizione ove ai due violini solisti si
affiancano con importanza di poco inferiore un oboe e un violoncello e che per tale insolito organico è assai raramente eseguita.
Provvista di viole divise e resa baldanzosa da una coppia di trombe, l’orchestra dispiega, a partire dall’introduzione fino alle riprese
dei “tutti” tra gl’interventi dei “soli”, il suo repertorio di esuberanze
mutuate dai maestri della scuola di Mannheim; quanto ai tre protagonisti (giacché il violoncello trova qualcosa da dire soprattutto nel
secondo e terzo movimento), il loro dialogo procede tra inflessioni
non molto dissimili da quelle notate nei “concertini” delle serenate
salisburghesi, e un gioco di simmetriche imitazioni, non del tutto
immemore del concerto grosso. Col suo “Andantino grazioso” pieno
di lusinghe galanti e con quegli effetti orchestrali sopra menzionati
e tanto in voga a Parigi, il Concertone (anche dietro consiglio di
papà Leopold) quattro anni dopo prenderà inutilmente la via per la
capitale francese tra le carte di Wolfgang Amadè: malinconica aria
da baule inutilizzata.
L’attività di Mozart come compositore di concerti violinistici
propriamente detti ha inizio col Concerto in si bemolle maggiore
I
234
Salvatore Accardo.
235
K. 207 e con quello in re maggiore K. 211, ancora debitori di una
produzione coeva, quella di Tartini, Pugnani, Borghi, Nardini, cui il
concertista-compositore alle prime armi non poteva non rifarsi. Lo
schema formale adottato, che comporta quattro interventi dei “tutti”,
compresa l’introduzione, intervallati da tre escursioni solistiche,
appare assai più rigido e arcaicizzante di quanto non sarà soltanto
fra qualche mese; altrettanto si dica di quel ricorrere all’antiquato
bassetto dei soli violini (talora affiancati dalle viole) come sostegno
dello strumento solista, procedimento che in seguito vedremo gradatamente ridursi, quando non sparire affatto. Ogni ricchezza emotiva
sembra rifugiarsi nei movimenti di mezzo, con esiti che se nel K.
207 sentiamo ancora intrisi di un certo languore boccheriniano, nel
fervore lirico del movimento centrale del K. 211 già ci trasportano
ben al di sopra dei pur nobili modelli seguiti: è la temperie inventiva che domina la successiva, perfetta triade concertistica che conclude la breve ma prodigiosa esperienza di Mozart violinista.
Capolavori omologati da strette affinità stilistiche e dal vertiginoso progresso che in essi si verifica all’interno di quel sistema di
rapporti tra esposizione orchestrale ed esposizione solistica, in cui
consiste la peculiare grandezza del concerto mozartiano nella sua
accezione generale: il tutto sotto le apparenze di una disinvolta
amabilità mondana che attutisce anche gli spigoli più aspri della
sperimentazione. Già nel Concerto in sol maggiore K. 216, datato
al 12 settembre, l’introduzione orchestrale del primo tempo si svolge in una plasticità melodica e timbrica (quella gaia fanfara di oboi
e corni sul mormorare dei violini) e in una freschezza e aggressività inventiva finora sconosciute e che confluiranno nei futuri concerti per pianoforte, doppiando i fondali della greve prolissità
mannheimer.
Col suo modesto apparato virtuosistico (un tratto che accomuna tutti i concerti per violino, i quali gradatamente acquistano in
essenzialità e profondità espressiva quanto rinunciano in effusiva
brillantezza) lo strumento solista qui segue ancora abbastanza fedelmente le proposte dell’orchestra, accettando nel corso dello sviluppo di dialogare col primo oboe e di avventurarsi in un breve, emozionante “recitativo” dal quale, sull’elegante ponte predisposto dagli
oboi, planare nell’“aria” virtuale della ripresa. Questa coniugazione
in termini drammatici della comunicazione espressiva tocca il culmine nella meravigliosa “cavatina” dell’“Adagio”, dove (come già
in parecchi movimenti lenti delle precedenti sinfonie) la coppia
degli oboi viene sostituita da quella dei flauti e dove, con un emozionante coup de théâtre, l’accompagnamento in terzine interviene
dopo che la prima semifrase della melodia ha spiccato il volo nel
silenzio di tutta l’orchestra. Il gusto, tutto francese, per la sorpresa,
236
237
Il frontespizio del metodo per violino di Leopold Mozart.
238
mutuato dalle musiche d’intrattenimento, si riaffaccia nei finali di
tutti e tre i concerti: nel K. 216, in un galeotto tempo di gavotta in
sol minore con tanto di “alternativo” in maggiore destinato a sfociare nell’ultimo ritornello della sezione principale in tempo ternario. Definitivo ed eclatante colpo di scena, anch’esso comune ai tre
concerti, il congedo in sordina, sul filo della sommessa clausola dei
fiati.
La struttura concisa e lo slancio appassionato del K. 216 si
stemperano alquanto nel Concerto in re maggiore K. 218 (14 giugno) in quella che potremmo definire come idealizzazione della
galanteria internazionale, sublimazione e insieme personalizzazione
profonda di materiali tematici e moduli espressivi d’uso corrente.
La sensibilità timbrica del diciannovenne Konzertmeister rifulge
quasi ad ogni battuta, suscitando dal consueto, modesto apparato
orchestrale e dalle limitate evoluzioni dello strumento solista effetti
sconosciuti alla musica europea dello stesso genere. Nella riesposizione solistica del primo movimento, il secondo episodio sonatistico
viene introdotto dal violino sostenuto dapprima dalla viole, poi dai
violini primi e sempre all’ottava inferiore. Tale procedimento, tendente a non separare mai lo strumento solista dal sensuale amplesso
dei colori orchestrali, raggiunge l’acme nell’“Andante cantabile”: la
ripresa del motivo avviene sul brunito registro grave del solista che
s’insinua in rapporto rispettivo di ottava inferiore e di terza superiore tra violini “primi” e “secondi” dell’orchestra, ottenendo uno stupefacente effetto timbrico di pura lega brahmsiana. Anche i francesismi si accentuano, nel “Rondeau”, con il civettuolo pedale sulla
quarta corda della musette che vi fa da intermezzo, mentre il dialogo tra “solo” e orchestra, anche in virtù dell’anticipazione di un
passo dell’aria di Despina “Una donna a quindici anni” da Così fan
tutte, assume l’arguzia e la prontezza di lingua della grande opera
buffa.
Il Concerto in la maggiore K. 219, del 20 dicembre, conclude
la triade dei capolavori con la più audace esplorazione strutturale
finora mai realizzata circa i rapporti tra solista e orchestra, tale da
costituire il precedente più determinante per la definizione strutturale dei grandi concerti per pianoforte degli anni a venire. Non altro
che una notevole trovata di gusto teatrale era, nel primo tempo del
K. 216, il summenzionato recitativo che portava alla ripresa del
violino. Nel primo tempo del K. 219, “Allegro aperto”, dopo la
regolamentare esposizione dei “tutti”, l’“Adagio” che introduce il
solista sulla fascia serpeggiante di biscrome dei violini offre materiali tematici affatto diversi da quelli appena proposti dell’esposizione orchestrale, con i quali ingegnosamente quanto spontaneamente
si integrano per semplice sovrapposizione, quasi fossero germogliati
239
– come in effetti sono – da un’organica idea generatrice. Si tratta,
in sostanza, dello stesso procedimento “a doppio binario” che
Beethoven adotterà nel Finale della Sinfonia “Eroica” sovrapponendo un nuovo motivo a quello precedente investito, per ciò stesso,
delle funzioni di basso.
Per questo concerto Mozart dovette comporre un secondo
“Adagio” (K. 261), in sostituzione di quello originario che il violinista di Corte Antonio Brunetti, al dire di Leopold, aveva trovato
“troppo studiato”, garbato eufemismo che sta per troppo complicato
e artificioso. Comprensibile la reazione del buon Brunetti, aduso
alla produzione violinistica di tipo corrente, di fronte a una pagina
che col suo grandioso arco melodico, procedente in modo accidentato tra diminuzioni e sincopi, e l’allucinata sezione mediana intensamente modulante e culminante in un raro, splendidissimo sol diesis minore, sembrava fatta apposta per turbare coscienze tranquille.
Nel movimento conclusivo, la tonalità di la nel modo minore induce Mozart a scatenamenti demoniaci qui mimetizzati, come poi nel
finale della celebre sonata pianistica, da incursioni nell’esotismo
turchesco. Questa volta saranno alcuni frammenti provenienti dal
balletto Le gelosie del serraglio K. 135a, composto a Milano nel
1772 per l’opera seria Lucio Silla e del quale non ci rimangono che
cospicui abbozzi, a venire riutilizzati come intermezzo “caratteristico” incuneato a metà di un Rondeau in Tempo di Minuetto, a contrastarne l’amabile politesse.
240
Mozart bambino a Parigi ritratto col padre e la sorella da Carmontelle.
241
GIULIANO CARMIGNOLA
La carriera di Giuliano Carmignola, dedicata in parti eguali al violino
barocco e a quello moderno, è incominciata con la vittoria ai Premi Città
di Vittorio Veneto nel 1971 e al Concorso Paganini a Genova nel 1973.
Da allora ha suonato con tutte le più importanti Orchestre europee e con
direttori quali Claudio Abbado, Gianandrea Gavazzeni, Eliahu Inbal, Peter
Maag e Giuseppe Sinopoli. Ha suonato molto come solista dei Virtuosi di
Roma, tra l’altro a Londra alla Royal Albert Hall, alla Scala a Milano, al
Musikverein a Vienna, alla Filarmonica di Berlino, alla Sala Čajkovskij di
Mosca. Ha suonato la prima esecuzione italiana del Concerto di Dutilleux
ed ha un repertorio molto vasto che comprende opere del periodo classico
e romantico, ma anche opere barocche e del ventesimo secolo.
Dopo aver pubblicato numerosi CD per la Sony Classical, dal 2003 incide
in esclusiva per la Deutsche Grammophon.
Nato a Treviso, Giuliano Carmignola ha cominciato gli studi musicali con
il padre e si è diplomato al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia,
dove ha studiato con Luigi Ferro. Ha seguito corsi di specializzazione con
Nathan Milstein e Franco Gulli all’Accademia Chigiana di Siena e con
Henryk Szeryng al Conservatorio di Ginevra. Ha insegnato per dieci anni
al Conservatorio di Venezia ed è stato primo violino dell’Orchestra del
Teatro La Fenice dal 1978 al 1985. Attualmente insegna alla Musikhochschule di Zurigo. Prende regolarmente parte ai Festival di Musica Barocca
in tutta Europa, e in particolare a Bruges, Lucerna, Vienna, Bruxelles, Salisburgo e Barcellona. È anche apprezzato interprete di numerosi recitals in
collaborazione con i pianisti Bruno Canino,Yasuyo Yano, Andrea Lucchesini, con il violoncellista Mario Brunello, con i violisti Bruno Giuranna e
Danilo Rossi.
Per il repertorio barocco suona un intatto violino italiano del diciassettesimo secolo, mentre per il repertorio di epoca successiva usa un violino Pietro Guarneri del 1733.
Dal 2000 tiene uno dei Corsi di Violino dell’Accademia Musicale Chigiana.
SALVATORE ACCARDO
Esordisce all’età di tredici anni eseguendo in pubblico i Capricci di Paganini. A quindici anni vince il primo premio al Concorso di Ginevra e, due
anni dopo, nel 1958 è primo vincitore del Concorso Paganini di Genova.
Il suo vastissimo repertorio spazia dalla musica barocca a quella contemporanea. Compositori quali Sciarrino, Donatoni, Piston, Piazzolla, Xenakis gli
hanno dedicato loro opere.
Suona regolarmente con le maggiori Orchestre e i più importanti Direttori,
affiancando all’attività di solista quella di direttore d’orchestra. In questa
veste ha lavorato con le più importanti Orchestre europee ed americane; ha
inoltre effettuato delle incisioni con la Philharmonia di Londra.
La passione per la musica da camera e l’interesse per i giovani lo hanno
portato alla creazione del Quartetto Accardo nel ’92 e alla istituzione dei
Corsi di perfezionamento per strumenti ad arco della Fondazione Walter
Stauffer di Cremona nel 1986 insieme a Giuranna, Filippini e Petracchi.
Nel 1971 ha dato vita al Festival “Le Settimane Musicali Internazionali” di
Napoli e a quello di Cremona.
Nel 1987 ha debuttato con grande successo come direttore d’opera nella
nuova produzione de L’occasione fa il ladro di Rossini per il Rossini
Opera Festival di Pesaro con la regia di Ponnelle. Nel corso degli ultimi
anni ha diretto all’Opera di Roma, a Montecarlo e a Lille Il Flaminio di
Pergolesi con la regia di De Simone e una nuova produzione di Così fan
242
tutte alle Settimane Musicali Internazionali di Napoli con la regia di Giacomo Battiato. Nel 1992, in occasione dei 200 anni della nascita di Rossini,
ha diretto a Pesaro e a Roma la prima moderna della Messa di Gloria
nella revisione critica curata dalla Fondazione Rossini di Pesaro, incisa dal
vivo dalla Ricordi/Fonit Cetra, riproposta nel 1995 a Vienna con i Wiener
Symphoniker.
Oltre alle incisioni dei Capricci e dei Concerti per violino di Paganini per
la DGG e alle numerose registrazioni per la Philips, Accardo ha inciso per
ASV, Dynamic, EMI, Sony Classical, Collins Classic e Fonè.
Ha ricevuto numerosi premi fra cui il Premio Abbiati della critica italiana;
nel 1982 il Presidente della Repubblica Pertini lo ha nominato Cavaliere di
Gran Croce. Inoltre, in occasione della tournée effettuata in Estremo Oriente nel novembre 1996, il Conservatorio di Pechino lo ha nominato “Most
Honorable Professor”.
Alla fine del ’96 ha ridato vita all’Orchestra da Camera Italiana, formata
dai migliori allievi dei corsi di perfezionamento dell’Accademia Walter
Stauffer di Cremona.
Nel 2001 gli è stato conferito il premio “Una vita per la Musica”.
Salvatore Accardo è ben conosciuto a Siena dove si è esibito numerose
volte e dove ha tenuto e tiene la cattedra di violino presso l’Accademia
Musicale Chigiana (della quale peraltro fu allievo) dal 1973 al 1980 e di
nuovo a partire dal 2003.
Possiede due violini Stradivari, lo Hart ex Francescatti 1727 e l’Uccello di
Fuoco ex Saint-Exupéry 1718.
ORCHESTRA DA CAMERA DI MANTOVA
Dal debutto, avvenuto nel 1981 nella splendida cornice del Teatro Bibiena
di Mantova, un gioiello di architettura e luogo ideale per la musica cameristica, l’Orchestra da Camera di Mantova si è imposta all’attenzione generale per quelle che ancora oggi sono le sue qualificanti caratteristiche: brillantezza tecnica, assidua ricerca della qualità sonora, particolare sensibilità
ai problemi stilistici.
Nel corso dell’ormai ventennale vita artistica, l’Orchestra da Camera di
Mantova ha collaborato con direttori e solisti di fama internazionale (Salvatore Accardo, Gidon Kremer, Shlomo Mintz, Mischa Maisky, Giuliano Carmignola, Bruno Canino, Uto Ughi, Michele Campanella, Katia e Marielle
Labèque, Maria Tipo, Alexander Lonquich, Mario Brunello, Andrea Lucchesini, gli indimenticabili Severino Gazzelloni e Astor Piazzola, tra gli
altri), svolgendo un’attività che l’ha vista protagonista di innumerevoli concerti in Italia e all’estero.
Negli ultimi anni, l’Orchestra da Camera di Mantova si è esibita nei teatri
e nelle sale da concerto di molti paesi europei, di Usa, Messico, Sudamerica e Asia. Nel 1996 ha effettuato una tournée in Nord Europa unitamente
al violinista Uto Ughi su invito della Farnesina, per rappresentare l’Italia
nelle manifestazioni culturali che si sono svolte in occasione del semestre
di presidenza Italiana al Consiglio d’Europa.
Tra il 2002 e il 2004 l’Orchestra con il suo direttore principale, Umberto
Benedetti Michelangeli, e affiancata da alcuni tra i più rinomati solisti italiani, ha dato vita al “Progetto Beethoven”, rivisitazione dell’integrale dei
capolavori orchestrali del genio di Bonn. La lettura innovativa, che trae
spunto dalle più recenti e avvertite acquisizioni storico-critiche, e la rinnovata espressività che ne scaturisce sono valse all’intero progetto l’accoglienza più calda e convinta da parte di pubblico e critica.
Nella stagione 2003/2004 l’orchestra ha intrapreso un nuovo progetto dedicato ai Concerti per pianoforte di Mozart, con il pianista Alexander Lon-
243
L’Orchestra da Camera di Mantova.
L’Orchestra da Camera Italiana.
244
quich nella veste di direttore e solista. Il ciclo mozartiano ha debuttato nel
maggio 2004 al Parco della Musica di Roma e, dalla stagione 2004/2005,
viene proposto nell’ambito di vari cartelloni concertistici italiani.
Dal 2004, inoltre, ha preso avvio un ciclo incentrato sulla produzione sacra
di Mozart, che vede l’Orchestra da Camera di Mantova impegnata, sino al
2007, nell’Abbazia di Chiaravalle a Milano e in diverse altre città italiane.
L’Orchestra da Camera di Mantova è una delle poche orchestre italiane che
si presenta spesso in pubblico senza direttore; in questi casi Carlo Fabiano,
direttore artistico del complesso, svolge insieme i ruoli di primo violino e
maestro concertatore, ripristinando la settecentesca figura del Konzertmeister.
L’Orchestra ha effettuato registrazioni televisive e radiofoniche per la RAI,
la Bayrischer Rundfunk e la Rsti.
Da oltre dieci anni a questa parte, è impegnata nel rilancio delle attività
musicali nella propria città, dove realizza una stagione concertistica,
“Tempo d’Orchestra”, che ospita regolarmente i principali solisti della
scena internazionale, prestigiosi gruppi cameristici, importanti orchestre italiane ed estere.
All’Orchestra da Camera di Mantova - nelle figure di Carlo Fabiano, suo
fondatore, direttore artistico e primo violino, e di Umberto Benedetti Michelangeli, suo direttore principale - è stato assegnato nel 1997, dalla critica
musicale italiana, il Premio “Franco Abbiati”, “per la sensibilità stilistica e
la metodica ricerca sulla sonorità che ripropone un momento di incontro
esecutivo alto tra tradizione strumentale italiana e repertorio classico”.
ORCHESTRA DA CAMERA ITALIANA (O.C.I.)
Nata ufficialmente nel novembre 1996, è il risultato di un progetto maturato da Salvatore Accardo nei lunghi anni di esperienza didattica all’Accademia Stauffer di Cremona. Accardo a Cremona insegna insieme agli amici e
colleghi Bruno Giuranna, Rocco Filippini e Franco Petracchi che con lui
hanno fondato questa Accademia, proprio nella patria dei grandi liutai, per
offrire la possibilità di perfezionarsi ai giovani strumentisti ad arco che
escono dai Conservatori italiani, nei quali spesso le loro qualità non hanno
trovato un adeguato sviluppo.
Nel’97 l’O.C.I. ha effettuato la sua prima tournée di concerti durata un
mese, che l’ha vista presente nelle più prestigiose istituzioni musicali italiane ed estere, ed ha tenuto il concerto nell’Aula del Senato per celebrare il
50° Anniversario della firma della Costituzione Italiana.
Nel 1998 la Banca Popolare di Milano diventa il Partner Ufficiale dell’Orchestra.
Accanto agli sponsor ufficiali, operano gli “Amici dell’O.C.I.” che, fin
dalla nascita dell’Orchestra, hanno dato il loro generoso contributo sia economico sia operoso. Gli “Amici dell’O.C.I.” continuano anno dopo anno a
confermare la loro fiducia e il loro indispensabile sostegno, incrementandosi nel numero. Ad oggi ammontano a più di cento.
Sempre nel ’98 l’O.C.I. ha fatto il suo debutto in Germania nell’ambito del
Festival dello Schleswig-Holstein riscuotendo un enorme successo, ha effettuato due tournées con concerti anche in Spagna e Portogallo e nel mese di
dicembre ha ripetuto l’importante appuntamento del Concerto nell’Aula del
Senato.
Nel ’99 è stata effettuata la prima tournée in America del Sud (Argentina,
Brasile, Cile, Uruguay) in occasione della quale l’Associazione dei Critici
Musicali dell’Argentina ha conferito all’Orchestra da Camera Italiana il
Premio come “Migliore Complesso da Camera Straniero” del 1999.
Nello stesso anno ha realizzato una lunga tournée in Oriente, che ha toccato le principali capitali asiatiche (Pechino, Shanghai, Tokyo, Hong Kong,
245
Taegu, Hanoi), ed ha quindi ripetuto l’appuntamento in Senato con il Concerto che quest’anno è stato dedicato a Carlo Maria Giulini.
Nel 2000, oltre a una lunga tournée in Italia, l’O.C.I. ha suonato per la
prima volta a Parigi presso il Teatro dei Champs-Elysées, riscuotendo un
enorme successo ed ha quindi debuttato a New York, al Lincoln Center,
presso la Avery Fisher Hall nella serie “Great Performers”. Anche per l’anno 2000 il Senato della Repubblica ha ripetuto l’invito ad effettuare il
“Concerto di Natale”.
Nel 2001 l’O.C.I ha effettuato una tournée in Germania, ha partecipato ai
festival di Ankara e di Tirana, ed ha tenuto un concerto di beneficenza a
Genova per la Comunità di Sant’Egidio.
L’O.C.I. ha già all’attivo due CD per la Warner Fonit “Il violino virtuoso
in Italia” e “Capolavori per violino e archi” e l’Integrale dei Concerti per
violino e orchestra di Paganini per la Emi Classics. Due importanti progetti
sono stati realizzati con Foné: la registrazione del Concerto per la Costituzione - che in particolare contiene l’Inno nazionale italiano per violino e
archi di Tamponi - e l’incisione dell’integrale delle opere per violino di
Astor Piazzolla con la revisione violinistica di Salvatore Accardo e Francesco Fiore, in tre sacd.
Il repertorio dell’O.C.I. spazia da Bach ai contemporanei, cui si prevede di
commissionare ogni anno un’opera.
246
Orchestra da Camera di Mantova
Violini primi
Carlo Fabiano
Filippo Lama
Luca Braga
Cesare Carretta
Roberto Righetti
Judith Huber
Giacomo Invernizzi
Violini secondi
Pierantonio Cazzulani
Eugjen Gargjola
Chiara Spagnolo
Giacomo Tesini
Lucio Casti
Tania Mazzetti
Viole
Monica Vatrini
Klaus Manfrini
Maria Antonietta Micheli
Luca Manfredi
Violoncelli
Stefano Guarino
Andrea Pecelli
Livia Rotondi
Francesco Ciech
Contrabbassi
Paolo Borsarelli
Massimiliano Rizzoli
Oboi
Massimiliano Salmi
Roberto Grossi
Corni
Andrea Leasi
Dimer Maccaferri
247
Orchestra da Camera Italiana
Violini primi
Laura Gorna
Aldo Matassa
Roberto Noferini
Francesco Peverini
Francesco Tagliavini
Fatlinda Thaci
Contrabbassi
Ermanno Calzolari
Vincenzo Loconte
Violini secondi
Carlo Bettarini
Lisa Mae Green
Andrea Gregorio Mascetti
Martina Molin
Daniela Godio
Lucia Ronchini
Oboi
Katia Curcio
Andrea Gallo
Viole
Claudio Andriani
Margherita Fina
Sara Silvestri
Alfredo Zamarra
Trombe
Nello Salza
Matteo Battistoni
Violoncelli
Claudio Argentino Pasceri
Carlo Pezzati
Cecilia Radic
Marcella Schiavelli
Flauti
Maria Grieco
Carlo Enrico Macalli
Corni
Stefano Aprile
Alessio Bernardi
Ispettore d’Orchestra
Eugenio Falanga
Mozart al fortepiano in un’incisione ottocentesca.
248
249
Gianluigi Gelmetti.
250
Sabato 15 luglio
Cattedrale
ore 21,15
Gianluigi Gelmetti
direttore
Anna Rita Taliento soprano
Laura Polverelli mezzosoprano
Juan Francisco Gatell tenore
Alessandro Guerzoni basso
Orchestra della Toscana
Coro da Camera di Praga
Pavel Vanek
maestro del coro
Concerto offerto alla cittadinanza
dalla Banca Monte dei Paschi di Siena
251
WOLFGANG AMADEUS MOZART
Salisburgo 1756 - Vienna 1791
Requiem in re min. K. 626
per soli, coro e orchestra
Requiem e Kyrie (Soprano e coro)
Dies irae (Coro)
Tuba mirum (Quartetto dei soli)
Rex tremendae (Coro)
Recordare (Quartetto dei soli)
Confutatis (Coro)
Lachrymosa (Coro)
Domine Jesu (Quartetto dei soli e coro)
Hostias e Quam olim (Coro)
Sanctus e Osanna (Coro)
Benedictus e Osanna (Quartetto dei soli)
Agnus Dei, Lux aeterna e Cum Sanctis tuis
(Soprano e coro)
252
Mozart in un ritratto di Barbara Krafft.
253
IL REQUIEM DI MOZART
GIOVANNI CARLI BALLOLA
rattare dell’incompiuto Requiem in re minore equivale ad
inoltrarsi nella foresta che il mito ha da tempo fatto sorgere
attorno a questa sorta di Santo Graal della religio mozartiana, avvolto dalle nebbie in cui il suo fascino di opera ultima, per di
più falciata a mezzo e ricomposta da mani anche troppo devote, ha
contribuito a circonfonderlo in un’aura fatalmente “romantica”.
Sfrondati dal superfluo e dal romanzesco, gli avvenimenti relativi a
tale opera sono assai semplici. Nel luglio del 1791 il commissionario di un certo conte Franz von Walsegg zu Stuppach, un nobile di
provincia e buon dilettante di musica, si presentò a Mozart per sollecitargli l’adempimento di una committenza risalente con ogni probabilità all’aprile precedente, e rimasta sepolta sotto l’accavallarsi
della composizione della Zauberflöte e della Clemenza di Tito.
Si trattava di una messa di Requiem per la quale al compositore era lasciata ampia discrezionalità di scelte artistiche (s’intende,
nella misura in cui essa fosse attuabile nell’ambito rigoroso e tradizionalistico del genere sacro), con la sola condizione che egli desistesse dal ricercare l’identità del committente. L’interesse, anzi,
l’entusiasmo (sul quale tutte le fonti biografiche concordano) scaturito da una committenza che rappresentava per Mozart un inedito
cimento creativo, collimava con quella congiuntura di circostanze
che in quei mesi estremi della sua esistenza terrena lo rendeva nuovamente attratto dal genere chiesastico. Sappiamo infatti che la sua
domanda per succedere all’anziano e infermo Leopold Hofmann
come Kapellmeister di Santo Stefano aveva proprio in quei giorni
avuto esito positivo; di conseguenza, un nuovo Mozart sacro sarebbe virtualmente potuto sorgere all’orizzonte della civiltà musicale
viennese. Non è da escludere che il Maestro abbia potuto stendere
le prime battute della Messa fin da quella seconda metà del luglio,
frammezzo alla composizione del Tito. Il grosso del lavoro, un centinaio di pagine di partitura abbozzata in particella (ossia, con le
parti vocali e quella del basso al completo, e con il rimanente
accennato nei punti fondamentali) venne comunque svolto tra la
seconda decade di ottobre e la fine di novembre, quando il musici-
T
254
sta cadde mortalmente ammalato. Che cosa era rimasto sul suo
tavolo di lavoro, quando Mozart spirò, 55 minuti dopo la mezzanotte del 5 dicembre 1791? L’Ordinarium e il Proprium della Missa
pro defunctis constano, nell’ordine, di un Introitus “Requiem aeternam”, del Kyrie, di un Graduale e di un Tractus (che Mozart decise di non musicare) della Sequentia “Dies irae”, dell’Offertorium
“Domine Jesu Christe”, del Sanctus-Benedictus, dell’Agnus Dei e
della Communio “Lux aeterna”.
La partitura, s’è detto, assommava a 99 pagine di musica, di
cui soltanto quella dell’Introitus nello stato di assoluta completezza.
Il Kyrie, e la Sequentia (interrotta all’ottava battuta del “Lacrimosa”) e l’Offertorium si presentavano come particelle, non differendo, in questo, dalla prassi consueta seguita da Mozart e da altri
compositori coevi nella prima stesura delle loro opere vocali e strumentali. Del tutto mancanti Sanctus, Agnus e Communio. Ebbe inizio a questo punto, coordinata dalla vedova Constanze, l’operazione
intesa a far credere al committente che il Requiem in realtà fosse
stato già composto fino all’ultima battuta. In tal modo ella avrebbe
potuto riscuotere il resto dell’onorario pattuito, ciò che effettivamente avvenne alla consegna di un manoscritto completato e integrato da mani altrui. Erano quelle di tre giovani musicisti dell’entourage mozartiano: Joseph Eybler, Franz Jakob Freystädtler e
Franz Xaver Süssmayr, il quale si fece carico del grosso del lavoro,
componendo in proprio la conclusione del “Lacrimosa”, il Sanctus
e l’Agnus Dei (forse su appunti di Mozart, come sosterrà Constanze
in termini ipotetici).
Grazie a questi valenti artigiani, che in piena consapevolezza
accettarono di annullare il proprio talento per mantenere in vita la
fiamma periclitante del genio, l’opus summum viri summi, come si
compiacerà di chiamarlo Johann Adam Hiller, entrerà nella storia,
contendendo al Don Giovanni il primato nell’affabulazione mitica
che presto circonfonderà due momenti capitali dell’esperienza artistica del musicista. In tale veste, destinata a passare nella tradizione
esecutiva (prima che in tempi recenti subentrassero con varia fortuna altri tentativi di ricostruzione più o meno filologica del testo), il
Requiem verrà eseguito nella cantoria dell’abbazia di Wiener Neustadt il 14 dicembre 1793, giorno anniversario della scomparsa
della contessa Walsegg, alla cui memoria l’opera era destinata.
Dirigeva il conte committente, che, come era solito fare, anche in
quella occasione avrà cercato di spacciare la musica come farina
del proprio sacco. Ma questa esecuzione privata in realtà era stata
255
Piero Vannucci detto il Perugino: Crocifissione.
(Siena, Chiesa di Sant’Agostino)
256
preceduta a Vienna, Monaco e Praga da altre pubbliche, promosse
dal barone van Swieten; e il mito del Requiem mozartiano volava
già alto nei cieli dell’imminente Romantik, fomentato dal coacervo
dei particolari biografici romanzeschi e patetici che presto gli si
avvilupperanno attorno come edera sulle muraglie di una grande e
misteriosa rovina.
Rispetto alla Messa di Gloria, con le sue preponderanti esposizioni dogmatiche e dossologiche, quella di Requiem, con il suo
insistente richiamo a una pietas che è innata ai primordi stessi di
un’umanità emancipata dalla condizione brutale e che si esprime
nelle potenti immagini della Sequentia e dell’Offertorium, ha offerto
agli artisti che l’hanno avvicinata nel tempo uno scenario incomparabilmente più umanizzato e drammatizzato. Non è casuale che tutti
i maggiori compositori di Requiem - da Mozart a Verdi, attraverso
Cherubini e Berlioz - siano stati sommi drammaturghi e/o affrescatori sonori. Il rapporto tra Dio e l’uomo vi è necessariamente inteso
dalla terra al cielo, in una tensione dialettica non di rado attraversata da convulsi trasalimenti soggettivi: ciò che spiega come la Missa
pro defunctis abbia trovato nell’età aperta da Mozart e conclusa da
Verdi la sua piena estrinsecazione storica e il suo culmine come
espressione musicale.
I presupposti stilistici della Messa mozartiana (o, per meglio
dire, di quanto di essa ci rimane in termini testuali di indiscussa
autenticità) non vanno ricercati esclusivamente nel passato dell’esperienza chiesastica del musicista. L’origine dello spettrale “coro
di morti”, costituito dalle coppie dei corni di bassetto e dei fagotti,
che apre e caratterizza l’Introito (come s’è detto, la sola parte della
Messa interamente compiuta dall’autore) è infatti da individuare
altrove. In quelle “armonie” del cerimoniale massonico, precedentemente gratificate da Mozart in pagine insigni; ma anche nell’apparato di fiati che in misura sempre maggiore e in termini di inventiva timbrica sempre più penetrante abbiamo visto prendere parte alla
dinamica discorsiva dei grandi concerti per pianoforte e orchestra.
Se, fino alla ventesima misura, era il musicista moderno a
porsi in primo piano mediante un repertorio di stilemi culminante
con la declamazione drammatica di cui, dopo l’esordio contrappuntistico, il coro perviene nell’”Et lux perpetua luceat eis”; nel successivo “Te decet hymnus” egli si mimetizza tra i densi velami
della Storia e della Tradizione. Gli soccorrono Bach, affiorante nel
disegno dei primi violini e del primo fagotto (poi ripreso per moto
contrario dai secondi), e la monodia tropica del salmo “In exitu
257
Israël de Aegypto” nel tonus peregrinus, utilizzata come cantus firmus sulle parole “Te decet hymnus in Sion et tibi reddetur votum
in Jerusalem”, contro il contrappunto florido degli strumenti. Alla
poliedricità dell’Introitus, vero e prezioso manifesto, nella sua unicità, del nuovo linguaggio sacro mozartiano, si oppone con studiato
contrasto la compatta omogeneità del “Kyrie”: una doppia fuga
corale basata anch’essa su materiali tematici radicati nell’anonimato
grandioso di una tradizione secolare. La Sequentia risulta suddivisa
in sei episodi fortemente caratterizzati e contrastanti: qui, come
anche nelle parti restanti del Requiem che Mozart chiaramente ideò
ma non poté ultimare, ecumenismo stilistico e individualismo drammatico entrano in quello stesso contrasto dialettico accolto e sublimato dal Beethoven della Missa Solemnis e della Nona Sinfonia.
Autografo dell’ultima pagina dell’Hostias.
258
REQUIEM
Introitus
Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Te decet hymnus, Deus, in Sion,
et tibi redetur votum in Jerusalem
Exaudi Orationem meam.
Ad te omnis caro veniat.
Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Kyrie
Kyrie eleison.
Christe eleison.
Kyrie eleison.
Sequentia
Dies irae, dies illa
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sibylla.
Quantus tremor est futurus,
quando judex est venturus
cuncta stricte discussurus.
Tuba mirum spargens sonum
per sepulchra regionum
coget omnes ante tronum.
Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura
judicanti responsura.
Liber scriptus proferetur
in quo totum continetur,
unde mundus judicetur.
Judex ergo cum sedebit
quidquid latet apparebit,
nil inultum remanebit.
Quid sum miser tunc dicturus,
quem patronum rogaturus
cum vix justus sit sicurus?
Rex tremendae majestatis
qui salvandos salvas gratis
259
REQUIEM
L’eterno riposo dona loro, Signore,
E splenda ad essi la luce perpetua.
In Sion, Signore, ti si addice la lode,
In Gerusalemme a te si compia il voto.
Ascolta la mia preghiera,
Poiché giunge a te ogni vivente.
L’eterno riposo dona loro, Signore,
E splenda ad essi la luce perpetua.
Signore, pietà.
Cristo, pietà.
Signore, pietà
Giorno d’ira sarà quel giorno,
Quando il mondo diventerà cenere,
Come annunziarono Davide e la Sibilla.
Quale spavento ci sarà all’apparire
Del Giudice, che su tutto
Farà un esame severo!
L’alto squillo di tromba passerà ovunque
Sulle tombe e raccoglierà
Tutti dinanzi al trono.
Natura e morte, con stupore,
Vedranno gli uomini risorgere
Per rendere conto al Giudice.
Allora sarà aperto il libro
Sul quale tutto è segnato,
Per il giudizio del mondo.
Davanti al Giudice, assiso in trono,
Apparirà ogni segreto,
Niente rimarrà impunito.
Nella mia miseria, che dirò?
Che avvocato inviterò,
Se il giusto è appena sicuro?
O Re di terribile maestà,
Che salvi chi vuoi, per tuo dono:
260
salva me, fons pietatis
Recordare, Jesu pie,
quod sum causa tuae vitae,
ne me perdas illa die.
Quaerens me sedisti lassus,
redemisti crucem passus;
tantus labor non sit cassus.
Juste judex ultionis,
donum fac remissionis
ante diem rationis.
Ingemisco tamquam reus,
culpa rebet vultus meus,
supplicanti parce, Deus.
Qui Mariam abolvisti
at latronem exaudisti,
mihi quoque spem dedisti.
Preces meae non sunt dignae,
sed tu bonus fac benigne,
ne perenni cremer igne.
Inter oves locum praesta
et ab hoedis me sequestra,
statuens in parte dextra.
Confutatis maledictis,
flammis acribus addictis,
voca me cum benedictis.
Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis,
gere curam mei finis.
Lachrymosa dies illa
qua resurget ex favilla
judicandus homo reus;
huic ergo parce Deus.
Pie Jesu, Domine,
dona eis requiem.
Offertorium
Domine Jesu Christe, rex gloriae,
Libera animas omnium fidelium defunctorum
de poenis inferni
et de profundo lacu.
Libera eas de ore leonis,
ne absorbeat eas tartarus,
261
Salvami, o sorgente d’amore!
O Gesù amoroso, ricorda che per me
Tu sei venuto,
Non lasciarmi perire in quel giorno.
Per cercarmi ti sei affaticato;
Per salvarmi hai sofferto la croce;
Non sia inutile tale sofferenza!
O Giudice, giusto per punire,
Concedimi il perdono
Prima del giorno del giudizio.
Come un colpevole, io tremo,
E il rossore è sul mio volto:
O Dio, perdona chi ti supplica!
Tu, che hai perdonato Maria
Ed esaudito il ladrone,
A me pure hai dato speranza.
Le mie suppliche non sono degne:
Ma tu, buono, concedi benigno
Che io non bruci nel fuoco eterno.
Mettimi fra gli agnelli,
E, separandomi dai capri,
Ponimi alla tua destra.
Mentre saranno confusi i maledetti
E condannati al fuoco divorante,
Tu chiamami insieme ai benedetti.
Ti supplico umilmente prostrato,
Con il cuore spezzato, come polvere,
Prendi a cuore il mio destino.
Giorno di pianto sarà quel giorno,
Quando dalle ceneri risorgerà
Il peccatore per ascoltare la sentenza.
O Dio, concedigli il perdono!
O pietoso Signore Gesù,
dona loro il riposo.
Signore Gesù Cristo, Re della gloria!
Libera tutti i fedeli defunti
dalle pene dell’inferno
e dell’abisso.
Salvali dalla bocca del leone;
che non li afferri l’inferno
262
ne cadant in obscurum;
sed signifer sanctus Michael
representet eas in lucem sanctam,
quam olim Abrahae promisisti
et semini ejus.
Hostias et preces tibi, Domine,
laudis offerimus,
tu suscipe pro animabus illis,
quarum hodie memoriam facimus:
fac eas, Domine, de morte
transire ad vitam,
quam olim Abrahae promisisti
et semini ejus.
Sanctus et Benedictus
Sanctus, sanctus, sanctus,
Dominus Deus Sabaoth,
pleni sunt coeli et terra gloria Tua,
hosanna in excelsis.
Benedictus qui venit in nomine Domine,
hosanna in excelsis.
Agnus Dei
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi,
dona eis requiem.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi,
dona eis requiem sempiternam.
Lux aeterna
Lux aeterna luceat eis, Domine,
cum sanctis tuis in aeternum,
quia pius es.
Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Cum sanctis tuis in aeternum,
quia pius es.
263
e non scompaiano nel buio.
L’arcangelo San Michele
li conduca alla santa luce
che tu un giorno hai promesso
ad Abramo e alla sua discendenza.
Noi ti offriamo, Signore,
sacrifici e preghiere di lode.
Accettali per l’anima di quelli
di cui oggi facciamo memoria.
Fa’ che passino, Signore,
dalla morte alla vita
che tu un giorno hai promesso
ad Abramo e alla sua discendenza.
Santo, santo, santo
il Signore Dio dell’Universo,
i cieli e la terra sono pieni della Tua gloria,
Osanna nell’alto dei cieli.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore,
Osanna nell’alto dei cieli.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo,
dona loro il riposo.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo,
dona loro l’eterno riposo
Splenda ad essi la luce perpetua
insieme ai tuoi santi
in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
L’eterno riposo dona loro, Signore
e splenda ad essi la luce perpetua.
Insieme ai tuoi santi
in eterno, Signore, perché tu sei buono.
264
L’Orchestra della Toscana.
Il Coro da Camera di Praga.
265
GIANLUIGI GELMETTI
Ex-chigianista, è stato allievo di Sergiu Celibidache, di Franco Ferrara e
Hans Swarowsky. Il debutto con i Berliner Philharmoniker ha segnato l’inizio della sua carriera internazionale che oggi lo vede regolarmente invitato
nei maggiori festival e ospite delle orchestre più prestigiose: particolarmente intenso e significativo è stato il suo rapporto con i Münchner Philharmoniker durante il periodo di Sergiu Celibidache.
Per dieci anni è stato Direttore dell’ Orchestra della Radio di Stoccarda
con la quale ha eseguito fra l’altro l’integrale sinfonico-corale di Beethoven, Brahms, Mahler e gran parte della produzione mozartiana.
Grande rilievo hanno avuto le sue presenze in Francia, Germania, Inghilterra, in America, Australia, in Giappone, Svizzera e Italia (Scala e Opera di
Roma). Molteplici sono stati i suoi impegni italiani con Iris di Mascagni e
La Fiamma di Respighi all’Opera di Roma, con il Guglielmo Tell al Rossini Opera Festival, Festival dove é considerato il decano, avendo diretto il
maggior numero di produzioni, ultima tra queste il Tancredi con l’Orchestra della Toscana nell’edizione del 1999. Nello stesso anno è stato insignito del Rossini d’Oro. Con la Royal Opera House di Londra Gelmetti ha un
rapporto costante: vi ha già diretto La Rondine di Puccini e l’Otello di
Rossini. Vi tornerà nelle prossime stagioni ancora con La Rondine e con la
Turandot.
La prestigiosa rivista tedesca Operwelt lo ha premiato come migliore direttore dell’anno per la sua interpretazione delle Nozze di Figaro di Mozart.
La critica giapponese ha designato la sua Sinfonia n.9 di Beethoven come
la migliore dell’anno.
La vasta produzione discografica per EMI soprattutto, ma anche per Sony,
Ricordi, Fonit, Teldec e Agorà, è rivelatrice dell’estensione e della complessità del suo repertorio. In campo lirico ricordiamo la prima incisione
mondiale delle Danaïdes di Salieri, Il barbiere di Siviglia, La gazza ladra
e Maometto II di Rossini (Prix de la Critique), La rondine e La bohème di
Puccini e, tra i laser-video, gli atti unici di Rossini, oltre a Tancredi e Il
ratto dal serraglio di Mozart.
Sinfonie di Mozart e molta musica del Novecento tra cui Stravinskij, Berg
(Diapason d’Or), Webern, Varèse e Rota.
Recenti sono le registrazioni di Guglielmo Tell, Iris, La fiamma, della
Sinfonia n.6 di Bruckner e dello Stabat Mater di Rossini e, in DVD, la
Grande di Schubert.
Per commemorare i dieci anni della morte di Franco Ferrara, Gelmetti ha
ripreso, dopo un lunghissimo silenzio, l’attività compositiva con In Paradisum Deducant Te Angeli, che è stato eseguito per la prima volta dall’Orchestra e dal Coro del Teatro dell’Opera di Roma e in seguito a Londra,
Monaco, Francoforte, Budapest, Sydney e Stoccarda.
Con i Münchner Philharmoniker ha diretto la prima esecuzione di Algos
per grande orchestra e nel 1999 Prasanta Atma, commissionato in memoria
di Sergiu Celibidache. Il 29 settembre 2000 è stata eseguita a Bologna, in
prima mondiale, la sua Cantata della vita, per soli, coro, violoncello solista
e orchestra, commissionatagli dal Teatro Comunale. Ha ricevuto numerose
onorificenze, tra cui quella di “Chevalier de l’ordre des Arts et Lettres” in
Francia e di “Grande Ufficiale della Repubblica Italiana”.
Attualmente è Direttore musicale del Teatro dell’Opera di Roma e Direttore Principale e Artistico della Sidney Symphony Orchestra.
È docente di Direzione d’orchestra all’Accademia Musicale Chigiana dal
1997.
266
ORCHESTRA DELLA TOSCANA
Si è formata a Firenze nel 1980 per iniziativa della Regione Toscana, della
Provincia e del Comune di Firenze. Nel 1983, durante la direzione artistica
di Luciano Berio, è diventata Istituzione Concertistica Orchestrale per riconoscimento del Ministero del Turismo e dello Spettacolo.
Attualmente la direzione artistica è affidata ad Aldo Bennici, uno dei padri
fondatori dell’ORT.
Composta da 45 musicisti, che si suddividono anche in agili formazioni
cameristiche, l’Orchestra realizza le prove e i concerti, distribuiti poi in
tutta la Toscana, nello storico Teatro Verdi, situato nel centro di Firenze.
Le esecuzioni fiorentine sono trasmesse su territorio nazionale da Radiorai
Tre.
Interprete duttile di un ampio repertorio che dalla musica barocca arriva
fino ai compositori contemporanei, l’Orchestra riserva ampio spazio a
Haydn, Mozart, tutto il Beethoven sinfonico, larga parte del barocco strumentale, con una particolare attenzione alla letteratura meno eseguita.
Accanto ai grandi capolavori sinfonico-corali si aggiungono i Lieder di
Mahler, le pagine corali di Brahms, parte del sinfonismo dell’Ottocento con
una posizione di privilegio per Rossini. Una precisa vocazione per il Novecento storico, insieme a una singolare sensibilità per la musica d’oggi,
caratterizzano la formazione toscana nel panorama musicale italiano.
Ospite delle più importanti società di concerti italiane, si è esibita con
grande successo al Teatro alla Scala di Milano, al Maggio Musicale Fiorentino, al Comunale di Bologna, al Carlo Felice di Genova, all’Auditorium “G. Agnelli” del Lingotto di Torino, all’Accademia di S. Cecilia di
Roma, alla Settimana Musicale Senese, al Ravenna Festival, al Rossini
Opera Festival e alla Biennale di Venezia.
Numerose le sue apparizioni all’estero a partire dal 1992: Germania, Giappone, Salisburgo, Cannes, Buenos Aires, San Paolo, Montevideo, Strasburgo, New York, Edimburgo, Madrid e Hong Kong, a Tokyo per la rassegna
“Italia-Giappone 2001-2002”.
Tra i prestigiosi musicisti che hanno collaborato con l’ORT citiamo: Salvatore Accardo, Martha Argerich, Rudolf Barshai, Bruno Bartoletti, Yurij
Bashmet, Luciano Berio, Frans Brüggen, Mario Brunello, Sylvain Cambreling, Myung-Whun Chung, Alicia De Larrocha, Gabriele Ferro, Eliot Fisk,
Rafael Frübeck de Burgos, Gianandrea Gavazzeni, Gianluigi Gelmetti,
Natalia Gutman, Daniel Harding, Eliahu Inbal, Ton Koopman, Gidon Kremer, Yo-Yo Ma, Gustav Kuhn, Alexander Lonquich, Andrea Lucchesini,
Peter Maag, Peter Maxwell Davies, Mischa Maisky, Sabine Meyer, Midori,
Shlomo Mintz, Viktoria Mullova, Roger Norrington, Esa Pekka Salonen,
Hansjoerg Schellenberger, Heinrich Schiff, Vladimir Spivakov, Uto Ughi,
Maxim Vengerov.
La discografia comprende musiche di Schubert e di Cherubini con Donato
Renzetti (Europa Musica), Pierino e il lupo e L’Histoire de Babar con
Paolo Poli e Alessandro Pinzauti (Caroman), Cavalleria rusticana con
Bruno Bartoletti (Foné), Il barbiere di Siviglia con Gianluigi Gelmetti
(EMI Classics), Omaggio a Mina e Orfeo cantando tolse di Adriano Guarnieri con Pietro Borgonovo (Ricordi) e lo Stabat Mater di Rossini con
Gianluigi Gelmetti (Agorà), Tancredi con Gianluigi Gelmetti (Foné), Holy
Sea con Butch Morris (Splasc-h), Richard Galliano e I Solisti dell’Ort
(Dreyfus), Le Congiurate di Schubert con Gérard Korsten per la regia di
Denis Krief, Concertone con Stefano Bollani (Blue Label).
267
CORO DA CAMERA DI PRAGA
Fondato nel 1990, dopo la “rivoluzione di velluto” in Cecoslovacchia, è
composto dalle migliori voci del celebre Coro Filarmonico di Praga e ha
saputo affermarsi come uno dei migliori cori da camera europei. È stato
ospite di numerosi festival (Amburgo, Stoccarda, Praga, Linz, Autwerp,
Berlino, Lipsia, Zurigo, Brescia e Bergamo, ecc); nell’estate del 1993 ha
collaborato alla produzione del Maometto II al Rossini Opera Festival di
Pesaro. È stato ospite all’esposizione mondiale di Siviglia e dei teatri di
Firenze, Genova, Ginevra ed i suoi concerti sono stati trasmessi dalla BBC,
dall’ORF e dalla Radio Bavarese. Significativa è la sua permanente collaborazione con la Filarmonica Ceca. Nel ‘97 ha cantato alla presenza di Sua
Santità Giovanni Paolo II nel solenne atto commemorativo di Papa Paolo
VI nel centenario della sua nascita. Il Coro da Camera di Praga ha all’attivo incisioni per diverse case discografiche (Orfeo, ECM, Ricordi), apparizioni televisive, collaborazioni con l’Orchestra da Camera di Praga, la
Filarmonica di Amburgo, l’Orchestra da Camera di Stoccarda, i Virtuosi di
Praga, l’Orchestra Regionale Toscana, nonché con direttori d’orchestra
quali Neumann, Albrecht, Eschenbach, Blomstedt, Gelmetti, Norrington,
Honeck, Parrott, Lu Jia, Brüggen ed i direttori di coro Rilling, Ericson,
Bornius, Gonnenwein, Gandolf. Ha effettuato tournées in tutti gli stati
europei, in Australia e in Giappone.
PAVEL VANEK
Nato nel 1957 a Domazlice, ha terminato gli studi di pianoforte nel 1979
al Conservatorio di Pilsen. Fra il 1982 ed il 1984 ha collaborato con il
Teatro dell’Opera di Pilsen.
Dal 1986 al 1991 ha studiato direzione di coro presso l’Accademia di
Musica di Praga.
Dal 1985 è stato secondo maestro di coro del Coro Maschile di Praga e
nel 1989 è divenuto Assistente del Coro del Teatro Nazionale di Praga,
dove dal 1992 ha assunto l’incarico di secondo maestro di coro, collaborando con i più importanti cori della Repubblica Ceca (Filarmonica di
Praga, Coro da Camera di Praga, Radio della Radio Ceca).
Dal 2000 è Direttore principale del Coro del Teatro Nazionale, dove ha
preso parte ad una trentina di prime rappresentazioni (Rigoletto, Pagliacci,
Tosca, Carmen, Don Giovanni, Il flauto magico, ecc.).
ANNA RITA TALIENTO
Vincitrice di numerosi concorsi nazionali ed internazionali, tra cui il “Belvedere” di Vienna, dove, nel 1993, ha ottenuto il primo premio assoluto,
ha intrapreso giovanissima la carriera internazionale.
Dopo il debutto al Festival dei Due Mondi di Spoleto e al Teatro Comunale di Bologna, con Riccardo Chailly, nel Trittico di Puccini, nel 1993 incide a Vienna per la DECCA il Capriccio di R. Strauss (Cantante Italiana)
con i Wiener Philharmoniker.
Nel 1994 canta all’Accademia di Santa Cecilia a Roma il Requiem di
Dvoràk, al Rossini Opera Festival di Pesaro L’inganno felice e al Teatro
Regio di Torino l’Orfeo e Euridice di Gluck.
Dal 1995 è ospite dei più prestigiosi teatri in Italia e nel mondo; Covent Garden di Londra, Comunale di Bologna, Comunale e Maggio Musicale di
Firenze, Rossini Opera Festival, Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Regio di Torino, Arena di Verona, San Carlo di Napoli, Opera di Roma, La
Monnaie di Bruxelles, Alte Oper di Francoforte, Royal Albert Hall di Londra.
268
Anna Rita Taliento.
Laura Polverelli.
269
Ha collaborato con i più importanti direttori nel panorama internazionale
come Gianluigi Gelmetti, Riccardo Chailly, Daniel Oren, Daniele Gatti,
Bruno Campanella, Claudio Abbado, Alain Lombard, Myung-Whun Chung.
Il suo ampio repertorio comprende titoli tra cui Mosè in Egitto e Semiramide di Rossini; Carmen di Bizet; Gianni Schicchi e Suor Angelica di Puccini; La clemenza di Tito, Don Giovanni, Le nozze di Figaro e Così fan tutte
di Mozart; Faust di Gounod; Don Pasquale di Donizetti; La bohème di
Puccini; Dido and Aeneas di Purcell.
Intensa è l’attività concertistica; di particolare interesse è infatti il vasto ed
eclettico repertorio che spazia dalla musica barocca agli autori contemporanei. Ha tra l’altro eseguito i Vier letzte Lieder di R. Strauss; la Petite
Messe Solemnelle e lo Stabat Mater di Rossini; la Messa in do min. di
Mozart; il Messiah di Händel; il Gloria di Vivaldi; l’Oratorio di Natale e
le Cantate di Bach; musiche di Dalla piccola, Pizzetti e Corghi, i Folk
Songs di Berio; i Carmina Burana di Orff, la Sinfonia n. 9 di Beethoven.
È stata ospite dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, dove ha
interpretato tra gli altri il Requiem di Mozart, il Magnificat di Bach e il Te
Deum di Charpentier.
È stata ospite del Teatro dell’Opera di Roma in occasione dell’inaugurazione 2004 con l’inedita di Respighi Marie Victoire, con la regia di Hugo De
Ana, e 2005 con Semiramide di Rossini, con la regia di Pierluigi Pizzi,
dirette dal M° Gianluigi Gelmetti; con Don Giovanni di Mozart per l’inaugurazione 2006, regia di Franco Zeffirelli e direzione di Hubert Soudant.
Tra i suoi impegni più recenti si segnalano Così fan tutte, regia e direzione
di Gianluigi Gelmetti, Le nozze di Figaro, regia di Gigi Proietti e direzione
di G. Gelmetti, Il viaggio a Reims di Rossini con la regia di Luca Ronconi
e la direzione di Carlo Rizzi e La leggenda di Sakùntala di Alfano con la
regia e la direzione di G. Gelmetti.
LAURA POLVERELLI
Vincitrice di Concorsi nazionali ed internazionali, è ospite di importanti
istituzioni musicali italiane ed estere tra cui: Accademia Chigiana di Siena,
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Bayerische Staatsoper, Festival de
Beaune, Festival de St. Denis, Festival di Innsbruck, Festival di Orange,
Festival Mozart della Coruña, Festival di Glyndebourne, Maggio Musicale
Fiorentino, Opéra de Lyon, Opéra de Montecarlo, Opéra Municipal di Lausanne, Rossini Opera Festival, Scala di Milano, Staatsoper di Amburgo,
Teatro Carlo Felice di Genova, Teatro Comunale di Bologna, Teatro
Comunale di Ferrara, Teatro La Fenice, Teatro Réal di Madrid, Teatro
Regio di Torino, Teatro San Carlo, Théâtre des Champs Elysées, Théâtre
Royal de la Monnaie, Vlaamse Opera di Anversa.
Ha collaborato con musicisti quali Claudio Abbado, Rinaldo Alessandrini,
Gary Bertini, Fabio Biondi, Riccardo Chailly, Ottavio Dantone, Colin
Davis, Gianluigi Gelmetti, Jesus Lopez-Cobos, René Jacobs, Jean-Claude
Malgoire, Andrea Marcon, Zubin Mehta, Riccardo Muti, Carlo Rizzi, Christophe Rousset, Jeffrey Tate.
Il suo repertorio comprende ruoli rossiniani e mozartiani: Rosina nel Barbiere di Siviglia, Angelina ne La Cenerentola, Isabella nell’Italiana in
Algeri, Isolier ne Le Comte Ory , La petite messe solennelle e Stabat
Mater; Dorabella, Annio e Sesto, Cherubino, Zerlina, Idamante.
Al Teatro alla Scala è stata Puck nell’Oberon di Weber e Fenena nel
Nabucco con Riccardo Muti, Ascanio nei Troyens di Berlioz con Colin
Davis, Zaida nel Turco in Italia con Riccardo Chailly. Ospite regolare del
270
Rossini Opera Festival di Pesaro dove ha cantato Isabella di Corghi, Isaura
nel Tancredi, e Madame La Rose ne La Gazzetta.
Apprezzata anche nel repertorio barocco: Argia di Cesti con Renè Jacobs
al Festival di Innsbruck e a Parigi, Cornelia e Sesto nel Giulio Cesare di
Händel, Goffredo nel Rinaldo, Proserpina e Musica nell’Orfeo di Monteverdi, Amore e Valletto nell’Inconorazione di Poppea, Irene nel Tamerlano
di Händel, Licida ne L’Olimpiade di Pergolesi.
La sua intensa attività concertistica comprende: Stabat Mater di Pergolesi,
il Nisi Dominus e Gloria di Vivaldi, la Matthäus-Passion e la Messa in si
minore di Johann Sebastian Bach, la Messa in do minore K. 427 di
Mozart, La Passione di Gesù Cristo di Caldara, Villancicos di Boccherini,
L’Enfance du Christ di Berlioz.
Tra gli impegni recenti si segnalano: al Teatro Regio di Torino e all’Opera
di Montecarlo, Dorabella nel Così fan tutte, al Teatro dell’Opera di Roma
e alla Fenice, Rosina nel Barbiere di Siviglia, alla Bayerische Staatsoper di
Monaco Sesto nel Giulio Cesare di Händel, a Montpellier e al Théâtre du
Châtelet, Emone nell’Antigona di Traetta con Christophe Rousset al Centro
Servizi Culturali di Trento, Idamante nell’Idomeneo, al Teatro delle Muse
di Ancona, L’Enfant et les Sortilèges al Teatro Nacional de São Carlos di
Lisbona, La Donna del Lago al Teatro La Fenice, Pia de’ Tolomei, di cui
esiste un dvd.
Inoltre grande successo ha riscosso in America interpretando il ruolo di
Rosina nel Barbiere di Siviglia di Rossini a Philadelphia, ruolo che con
rinnovato successo ha riproposto all’Opera di Roma sotto la direzione di
Gianluigi Gelmetti.
Nell’anno mozartiano in corso, numerose le sue interpretazioni mozartiane,
a Stresa sotto la direzione di Noseda, a Roma, sotto la direzione di Gelmetti.
Apprezzata interprete anche di altri autori, e quindi segnaliamo le sue
recentissime interpretazioni a Bari ne L’Enfant et les Sortilèges e a Trieste
nel Don Quichotte.
Dopo Napoli dove ha interpretato Dorabella nel Così fan tutte di Mozart, è
ritornata nella natìa toscana per una serie di esecuzioni dello Stabat Mater
di Pergolesi e per Falstaff di Verdi al Teatro Comunale di Firenze sotto la
direzione di Zubin Mehta.
JUAN FRANCISCO GATELL
Juan Francisco Gatell Abre, tenore ispano-argentino, nasce a La Plata
(Argentina) nel 1978. All’età di nove anni inizia gli studi musicali presso il
Conservatorio G. Gilardi della sua città. Nel 2000 si trasferisce in Spagna,
dove continua l’approfondimento ed il perfezionamento dei suoi studi musicali presso il Conservatorio Arturo Soria di Madrid. Partecipa a diversi
corsi di formazione, tra i quali, quelli di tecnica vocale e di interpretazione
tenuti dalla Sig.ra Teresa Berganza a Santander (Spagna) e dal Sig. Bruno
de Simone a Pisa. Attualmente è allievo del Maestro Luciano Roberti.
La sua esperienza si è consolidata anche attraverso la partecipazione come
corista presso il Teatro del Liceu di Barcellona, quello della Radiotelevisione Spagnola, e presso il Coro del Maggio Musicale Fiorentino.
Dal 2004 si esibisce come solista in alcuni fra i più importanti teatri italiani.
Come risultato della segnalazione fatta nell’ambito del VIII Ciclo de Jòvenes Cantantes de la Asociaciòn de Amigos de la Opera de Madrid ha
tenuto un recital presso l’Auditorio dell’Escuela Superior de Canto de
Madrid. Nel 2004 ha ottenuto il Premio Caruso 2004 (concorso Le voci
271
Juan Francisco Gatell.
Alessandro Guerzoni.
272
nuove dalla lirica dall’Associazione Museo Enrico Caruso) in un concerto
tenutosi Domenica 19 Settembre 2004 presso la Sala Grande del Teatro
Dal Verme di Milano. Ha partecipato inoltre al concerto tenutosi a Villa
Caruso (Lastra a Signa) in occasione dell’assegnazione del Premio Caruso
2004 al Baritono Leo Nucci.
Nel maggio 2004 debutta in un ruolo secondario al Maggio Musicale Fiorentino nell’Idomeneo di Mozart ed in seguito partecipa nel Viaggio a
Reims di Rossini come Don Luigino.
Nel dicembre 2004 canta per Città Lirica Opera Studio il ruolo di Acis
nella pastorale di Händel Acis and Galatea nei teatri di Pisa, Livorno e
Chieti. Nell’Aprile 2005 interpreta Ernesto nel Don Pasquale di Donizetti
nel teatro Pacini di Pescia e Rinuccio nel Gianni Schicchi di Puccini nei
teatri Manzoni di Pistoia e dei Rassicurati di Montecarlo come vincitore
del 7° concorso Città di Pistoia.
Nella stagione 2005 del Maggio Musicale Fiorentino canta l’Innocente nel
Boris Godunov di Mussorgsky e recentemente ha cantato i ruoli del Conte
di Almaviva nel Barbiere di Siviglia di Rossini diretto da Gelmetti, e Don
Ottavio nel Don Giovanni di Mozart, sotto la direzione di Soudant e la
regia di Zeffirelli, al Teatro dell’Opera di Roma.
Ha vinto il Primo Premio assoluto del 57° Concorso ASLICO, come Don
Ottavio nel Don Giovanni di Mozart.
ALESSANDRO GUERZONI
Nato a Pescara, debutta nel 1993 al Teatro La Fenice di Venezia nella
Bohème diretta da M. Viotti.
Interpreta in seguito numerosi ruoli operistici, fra i quali Plutone nell’Orfeo
di Monteverdi al Teatro Real di Madrid (dir. J. Savall, regia di G. Deflo) e
a Torino, il ruolo da protagonista nell’Ercole amante di Cavalli a Ravenna,
Sprecher in Die Zauberflöte (regia di W. Herzog) a Catania, il Conte
Rodolfo nella Sonnambula a Torino, Barone nella Traviata a Firenze (dir.
Zubin Mehta) e al Teatro Regio di Parma (dir. R. Palumbo), Pristaw in
Boris Godonov (dir. S. Bychkov) al Maggio Musicale Fiorentino, Frère
Laurent in Roméo et Juliette di Gounod al Teatro Regio di Torino, Plake
in Sly di Wolf-Ferrari a fianco di Josè Carreras (oggetto di un’incisione
discografica), Sir Giorgio nei Puritani di Bellini al Gran Teatre del Liceu
di Barcellona, il Re ne L’amour des trois Oranges di Prokof’ev, Il frate
nel Don Carlo a Köln, Roucher in Andrea Chénier, Gremin in Evgenji
Onegin a Sassari e Les contes d’Hoffmann al Teatro Regio di Parma.
Fra le interpretazioni più rilevanti si ricordano Don Giovanni (Masetto e
commendatore; dir. C. Abbado e, nella ripresa, Daniel Harding) ad Aix-enProvence, Stoccolma, Lione, Milano, Bruxelles e Tokyo ed in altre produzioni alla Scottish Opera, Edimburgo e Köln, Bohème (Colline) al Téatre
de La Monnaie di Bruxelles (dir. A. Pappano), al Teatro San Carlo di
Napoli, ad Edimburgo, Glasgow, Lussemburgo e al Festival Pucciniano di
Torre del Lago (regia di Scaparro e scene di Folon), Rigoletto (Sparafucile)
al Teatro Regio di Parma, ad Edimburgo, Glasgow e a Sassari, nonché Die
Zauberflöte (Sarastro) a Köln.
Attivo anche sul versante concertistico, è stato ospite di prestigiosi istituzioni e festival internazionali, tra i quali, il Teatro Filarmonico di Verona,
Ferrara Musica, Mozarteum di Salisburgo e il Théatre Royal de La Monnaie di Bruxelles. Il suo repertorio spazia da Monteverdi a Mozart con
opere quali Requiem, Vesperae, Krönungsmesse, Thamos, König in
Agypten. Di rilievo le interpretazioni del Requiem all’Accademia di Santa
273
Cecilia in Roma (dir. M.W. Chung) e a Bruxelles (dir. A. Pappano), della
Messa di Gloria di Puccini (dir. A. Pappano), dello Stabat Mater di Rossini, de La Creazione di Haydn e dei Liederabend dedicati a Brahms.
Nella stagione 2004/05 ha riscosso unanimi consensi al Rossini Opera
Festival interpretando Il trionfo delle Belle (Aliprando). Fra gli altri successi si ricordano Attila (Papa Leone) al Teatro dell’Opera di Roma, Oedipus
Rex e Semiramide), Boris Godunov (Capitano) al Maggio Musicale, Carmen (Zuniga) al Teatro Lirico di Cagliari.
La stagione 2005/06 si è aperta con le interpretazioni di Don Giovanni
(Commendatore) al Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles con relativa
tournée in Giappone, La Bohème (Colline) al Teatro Municipale di Salerno
e ancora Don Giovanni (Commendatore) al Teatro dell’Opera di Roma. È
reduce, inoltre, dai successi ne Il Barbiere di Siviglia (Don Basilio) al Teatro Lirico di Cagliari e in Sacuntala (Durvasas) al Teatro dell’Opera di
Roma per la regia e la direzione d’orchestra di G. Gelmetti.
Coro da Camera di Praga
Soprani
Monika Beranová
Anna Bínerová
Sylvie Lastovková
Dagmar Masková
Jarmila Miháliková
Nadia Novotná
Vera Pribylová
Lucie Sádková
Bronislava Tomanová
Dana Uherková
Olga Velická
Pavla Zobalová
Mezzosoprani
Marie Benáková
Dana Dubová
Zuzana Hanzlová
Tatiána Kopalová
Martina Straková
Veronika Tichá
Ivana Vlasáková
Eva Zbytovská
Tenori
Vladimír Dolejsí
Roman Gottlieb
Jan Honck
Libor Kasík
Ales Mihálik
Tomás Mikulecky
Vladimír Nacházel
Radek Prügl
Pavel Vejnar
Bassi
Jan Bíner
Kamil Helikovsky
Jan Holub
Vladimír Kozusník
Pavel Novák
David Nykl
Petr Sejpal
Jaroslav Sefrna
Vladimír Vihan
274
Orchestra della Toscana
Violini primi
Andrea Tacchi *
Duccio Ceccanti *
Paolo Gaiani **
Patrizia Bettotti
Marcello D’Angelo
Alessandro Giani
Cosetta Michelagnoli
Boriana Nakeva
Susanna Pasquariello
Contrabbassi
Gianpietro Zampella *
Luigi Giannoni **
Lorenzo Baroni
Francesco Ferroni
Marcello Maccari
Violini secondi
Chiara Morandi *
Giorgio Ballini *
Francesco Di Cuonzo **
Gabriella Colombo
Marian Elleman
Chiara Foletto
Daniele Iannaccone
Andrea Nanni
Marco Pistelli
Fagotti
Paolo Carlini *
Umberto Codeca’ *
Viole
Stefano Zanobini *
Riccardo Masi *
Joël Impérial **
Caterina Cioli
Alessandro Franconi
Hildegard Kuen
Pier Paolo Ricci
Violoncelli
Luca Provenzani *
Giovanni Lippi *
Christine Dechaux **
Stefano Battistini
Leandro Carino
Marilena Cutruzzula’
Françoise Pérez
Corni di bassetto
Carlo Failli *
Marco Ortolani *
Trombe
Donato De Sena*
Emanuele Casieri *
Tromboni
Antonio Sicoli *
Fabiano Fiorenzani
Fabio Costa
Timpani
Morgan M.Tortelli *
Organo
Francesco Dilaghi *
Ispettore d’orchestra e
archivista
Alfredo Vignoli
* prime parti
** concertino
275
75a ESTATE MUSICALE CHIGIANA
63a SETTIMANA MUSICALE SENESE
Artisti
Salvatore Accardo violinista e direttore
Joquin Achucarro pianoforte
Allievi Chigiani archi
Gilles Arbona attore
Cristina Baggio soprano
Astrid Bas attrice
Jurij Bashmet viola
Romina Basso mezzosoprano
Boris Belkin violino
Michele Campanella pianoforte
Giuliano Carmignola violinista e direttore
Myung-Whun Chung direttore
Coro da Camera di Praga
Festival Orchestra di Sofia
Patrick Gallois flauto
Juan Francisco Gatell tenore
Gianluigi Gelmetti direttore
David Geringas violoncello
Bruno Giuranna viola
Franziska Gottwald mezzosoprano
Alessandro Guerzoni basso
Stepan Jakoviã violino
Dany Kogan attrice
George Lavaudant regista
Paul Lewis pianoforte
Sergej Lomovskij violino
Ruth Rosique Lopez soprano
Nina Maãaradze viola
Andrea Marcon direttore
Antonio Meneses violoncello
Mikhail Muntjan pianoforte
Bartolo Musil baritono
Alexej Naidenov violoncello
Alipi Naydenov direttore
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Orchestra della Toscana
276
Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo
Orchestra Barocca di Venezia
Orchestra da Camera di Mantova
Orchestra da Camera Italiana
Antony Pay clarinetto
Luca Pfaff direttore
Maurizio Pollini pianoforte
Laura Polverelli mezzosoprano
Quartetto Prometeo archi
Laura Rizzetto mezzosoprano
Christophe Rousset clavicembalo
Tatjana Schatz pianoforte
Anna Rita Taliento soprano
Jurij Temirkanov direttore
Mark Tucker tenore
Pavel Vanek maestro del coro
Jean-Pierre Vergier costumista
Folco Vichi pianoforte
André Wilms attore
277
75a ESTATE MUSICALE CHIGIANA
63a SETTIMANA MUSICALE SENESE
Autori e brani musicali
J.S. Bach
Ouvertüre nach französicher Art BWV 831 in si min.
Battistelli
Les Cenci, teatro musicale da Antonin Artaud, adattamento del testo
di Giorgio Battistelli (prima esecuzione italiana)
Beethoven
Sonata in sol magg. op. 79
Sonata in si bem. magg. op. 106 “für das Hammerklavier”
Bernstein
Sonata per clarinetto e pianoforte
Brahms
Otto Klavierstücke op. 76
Sonata in fa min. op. 120 n. 1 per clarinetto e pianoforte
Serenata n. 2 in la magg. op. 16
Trio in la min. op. 114 per viola, violoncello e pianoforte
Trio in mi bem. magg. op. 40 per violino, viola e pianoforte
Quintetto in si min. op. 115 per viola e archi
Sestetto in sol magg. op. 36 per archi
Sestetto in si bem. magg. op. 18 per archi
Cage
Sonata per clarinetto solo
âajkovskij
Souvenir de Florence op. 70 per sestetto d’archi
F. Couperin
VIII Ordre (extrait du Second Livre de Pièces de clavecin en si
mineur)
L. Couperin
Pavane in fa diesis min.
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Debussy
Première Rhapsodie per clarinetto e pianoforte
De Falla
Il cappello a tre punte, seconda suite
Delgado
Langará per clarinetto solo
Liszt
Danza sacra e duetto finale dall’opera Aida di Giuseppe Verdi
Malipiero
Vivaldiana per orchestra
Mozart
Concertoin si bem. magg. K. 207 per violino e orchestra
Concerto in re magg. K. 211 per violino e orchestra
Concerto in re magg. K. 218 per violino e orchestra
Concerto in sol magg. K. 216 per violino e orchestra
Concerto in la magg. K. 219 per violino e orchestra
Concertone in do magg. K. 190 per due violini e orchestra
Requiem K. 626 per soli, coro e orchestra
Quartetto in do magg. K. 285b per flauto e archi
Quartetto in in sol magg. K. 285a per flauto e archi
Quartetto in re magg. K. 285 per flauto e archi
Quartetto in la magg. K. 298 per flauto e archi
Fantasia in do min. K. 475
Sonata in do min. K. 457
Adagio in si min. K. 540
Sonata in re magg. K. 576
Musorgskij
Quadri di un’esposizione per pianoforte
Ravel
La Valse per orchestra
Ma mère l’Oye, suite per orchestra
Rimskij-Korsakov
La grande Pasqua russa, ouverture op. 36 per orchestra
Suite da Il gallo d’oro per orchestra
279
Saint-Saëns
Sonata per clarinetto e pianoforte
Schönberg
Verklärte Nacht per sestetto d’archi
Schubert
Sonata in la min. D. 821 “Arpeggione” per violoncello e pianoforte
Schumann
Fantasiestücke op. 73 per clarinetto e pianoforte
Concerto in la min. op. 54 per pianoforte e orchestra
Senderovas
David’s Song per violoncello e quartetto d’archi, dedicato a David
Geringas (prima esecuzione italiana)
·ostakoviã
Sinfonia n. 5 in re min. op. 47
Scherzo in fa diesis min. op. 1
Concerto n. 1 in la min. op. 77 per violino e orchestra
Adagio dal balletto Chiaro fiume
Sonata in re min. op. 40 per violoncello e pianoforte
Stravinskij
La sagra della Primavera
Tre Pezzi op. 73 per clarinetto solo
Antonio Vivaldi
L’Atenaide, dramma per musica in tre atti su libretto di Apostolo
Zeno
Vladigerov
Canzone dalla Suite bulgara op. 21 per orchestra
280
Pubblicazione della Fondazione
Accademia Musicale Chigiana – Siena
A cura di
Guido Burchi
Grafica
Marusca Pradelli Rossi
Stampa
Tipografia Senese, Siena, 2006