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P. D. Blacksmith Abisso B-loved Immagine di copertina: elaborazione grafica da © Stefan Körber - Fotolia / © FXquadro - Fotolia - © olly - Fotolia http://www.giunti.it © 2016 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia ISBN 9788809813922 Prima edizione digitale: gennaio 2016 Presentazione Il libro Abisso « – Tienimi stretta – lei sussurra, e Micha l’abbraccia prima con esitante delicatezza, poi a poco a poco con tutta la forza del suo amore. Quello passato, messo a tacere e soffocato, quello presente che lo brucia come in un incendio. La stringe con il suo amore eterno e prega, prega di poter cambiare i loro destini.» Dopo l’epica battaglia del Castello, in cui anguani e cermanni hanno sconfitto i naguish, Belinda si trova convalescente a casa del padre. Vive un’intensa storia d’amore con Detlev, ma non sa che il suo destino è già segnato e nessuno può fermare il processo inesorabile che lo riporterà alla sua natura originaria di anguano. Le Madri del Sangue, le mostruose anguane bianche custodi della stirpe sono venute a riprenderselo e con lui spariranno nelle profondità del lago. La sola cosa che salva Belinda dalla disperazione è il pensiero di ritrovare Detlev, di rivederlo un’ultima volta prima che la muta sia completa, prima che l’amore della sua vita la dimentichi per sempre. Ma la leggenda parla di una maledizione antica che colpisce le ragazze che s’innamorano delle creature d’acqua… e in questa ricerca il rischio per Belinda è di smarrire se stessa. Abisso, l’attesissimo sequel di B-loved, è un fantasy ad alta tensione che in un tumultuoso crescendo di colpi di scena tiene legato il lettore fino all’ultima pagina. 7 L’autore P. D. Blacksmith P. D. Blacksmith è lo pseudonimo di due autrici che vivono nelle Dolomiti. Abisso è il sequel di B-loved, pubblicato da Giunti nel 2014. Per altre notizie sull’autore: http://www.giunti.it/autori/p-d-blacksmith/ Dicono del libro: http://www.giunti.it/libri/narrativa/abisso/ Altri titoli in collana: http://www.giunti.it/editori/giunti/digitaldream/ 8 PROLOGO La freccia tra le dita è di quelle che usavano i suoi avi, in legno con la punta di ferro. Anche l’arco è antico e lui non ha mai teso quella corda. Troppo morbida, pensa. Perché non è un’arma vera, solo uno strumento da cerimonia. Incocca la freccia ma resta a guardare le sue mani come se non gli appartenessero. Gli occhi si perdono nella nebbia, che pare il respiro stesso del lago. Un’alba dolente scolorisce il cielo. Lungo le sponde, decine di cermanni imbracciano degli archi uguali al suo. E aspettano il suo segnale. – Adesso – dice il silvano anziano. – Non possiamo tardare. – Non ancora – mormora il giovane. La zattera di legno ondeggia accanto a lui. Sui tronchi fradici dell’umido della notte è adagiato il corpo, vestito solo dei suoi soliti jeans. Il torace chiaro spicca tra il nero groviglio dei rovi, disposti secondo la tradizione. Tra i viluppi spinosi si scorge il viso addormentato. Una mano si posa sulla spalla del giovane. È il momento. Lo stanno aspettando. Al centro del lago l’acqua inizia a ribollire. La chiamano la porta. Anche sua madre sta fissando quel punto, mentre sua sorella 9 non stacca gli occhi dalla figura addormentata nell’abbraccio dei rovi. Il giovane si sente stringere in una morsa fredda, la nostalgia acida che l’aveva accompagnato nelle ultime settimane gli torce lo stomaco. Sta per tendere la corda ma di nuovo esita, si ferma. In quel momento la sente. Corre lungo la discesa, fragile e disperata. È vicina ormai. Perché è lì? Lei non doveva sapere! L’ angoscia della ragazza è lacerante, il battito del suo cuore gli filtra in gola. Il giovane silvano espira. Ora, devi farlo ora. Scaglia quella dannata freccia prima che lei arrivi. Tutti i silvani hanno gli occhi rivolti a lui. Non manca nessuno, ci sono anche i rappresentanti di Oltralpe e i Maggiori al completo. Due cermanni sciolgono le corde che trattengono la chiatta. Le donne si scostano, la bambina lascia cadere un mazzetto di erica sulla zattera e poi nasconde il viso nel collo di sua sorella. I fiori cadono tra le spine, solo qualcuno sulla mano inerte. La zattera viene spinta in acqua e si avvia incerta, poi sulla scia di una corrente prende velocità e si allontana, come attratta magneticamente dal centro del lago. Il gelido vento del mattino sfiora la neve sugli abeti, che nella luce dell’alba paiono fantasmi di cristallo. Non c’è altro da fare, non può più aspettare. Suo fratello non si risveglierà, non tornerà a fare una delle sue battute sceme e non salterà in piedi come se niente fosse, come succede nei sogni. Suo fratello se ne sta andando via. Micha inghiotte lacrime e saliva. La zattera ondeggia entrando nella nebbia. 10 Con gli occhi spalancati e le labbra strette, cerca il viso di sua madre, sgualcito dal dolore. Lei annuisce, è pronta. Micha tende l’arco, puntandolo verso il cielo. 11 1 Circa un mese prima Cipolla. Sedano e carota. Dall’odore. L’ acciottolio di stoviglie e lo sfrigolare dell’olio provenivano dalla porta socchiusa della cucina. Nella sala, il sentore di appretto da stiro e di legno lucidato. La casa di mio padre mi avvolgeva familiare come un vecchio, caldo maglione e io continuavo a stupirmene. Appoggiata alla finestra, lasciavo che il sole invernale mi accarezzasse il viso. Chiusi gli occhi assaporando il calore attraverso il vetro. Il sole mi avrebbe guarita del tutto. Di tutto. – Vuoi uscire un po’? – Lorenzo comparve sulla porta della cucina, sembrava un occhialuto studente universitario un po’ sovrappeso. Ecco, a quello non mi ero ancora abituata. Da quando ero tornata a stare da lui, due settimane fa, aveva preso ferie e annullato tutti gli impegni. Pareva che il suo nuovo lavoro fosse diventato fare la spesa e occuparsi di me. E il mio: rimettermi in sesto. – Forse più tardi. – Rassegnata aggiunsi: – È l’ora del brindisi? – Lorenzo aveva in una mano un bicchiere di spremuta d’arancia e nell’altra un flacone di pastiglie. Li appoggiò sul tavolino e si sedette sul divano con il giornale. 12 – Da bere finché le vitamine sono vive. – E allora a che servono quelle vitamine morte? – Accennai al flacone. – Sono minerali, – girò una pagina – ordini dall’alto. – I dottori hanno delle fisse, – mi cacciai in bocca due pastiglie inghiottendole con un sorso di spremuta – mai dare corda alle loro ossessioni, possono degenerare. – Le costole incrinate non sono un’opinione. E sei ancora sottopeso. – Lo dice il dottore? – No. La signora Luisa. – Capisco. – Sta cucinando dalle sette di stamattina. – Ghignò sotto i baffi. Mi lasciai cadere sulla poltrona e studiai il suo viso di sottecchi. Ogni volta che leggeva il giornale avevo la sensazione che cercasse qualcosa fra le notizie, un particolare, un dettaglio. Forse era assurdo, ma mi pareva che la storia della mia caduta da una parete ghiacciata non l’avesse convinto del tutto. Nonostante fossero trascorse già due settimane, i quotidiani davano ancora ampio spazio alla devastazione del castello di Toblino causata, dicevano, dall’esplosione di bombole di gas e bidoni di vernici che dovevano servire per la ristrutturazione e che il nuovo proprietario, perito nell’incidente, aveva incautamente stipato lì dentro. Di altri morti non si era parlato mai. Gli anguani avevano ripulito tutto. Ma chi avrebbe potuto mettere in relazione l’incendio del castello con una figlia acciaccata? Non mio padre. Non era da lui supporre che esistessero cose al di fuori della sua comprensione. La nostra nuova convivenza, la prima da quando ero nata a 13 dire il vero, era basata su un invisibile ricominciamo da zero. E sulla mia inattesa docilità, dovuta più che altro al fatto che non avevo un altro posto dove andare. Con due lunghe sorsate terminai il bicchiere di spremuta. Il rumore di piatti si fece più acuto e Lorenzo ripiegò il giornale, ma non accennò ad alzarsi. Seguii il suo sguardo che vagò fino al tavolino vicino alla finestra. Tra le foto della mamma la cornice vuota era ancora là, chissà perché non l’aveva tolta. Quando avevo confessato di averla presa io, Lorenzo aveva risposto solo che l’aveva capito. E dopo un momento aveva aggiunto che era una bella foto. Lui non sapeva. Avval, il più pericoloso dei naguish, l’aveva uccisa simulando un suicidio, come per Panco e molti altri. Per capriccio o casualità. Ma Lorenzo non era con noi, non l’aveva difesa da quel mostro, perché ci aveva abbandonate quasi dieci anni prima. Questo non potevo dimenticarlo. E non dimenticavo nemmeno la mia infanzia in collegio, la mia adolescenza sbandata. Non dico che fosse stata colpa sua, solo che non era stato capace di evitarlo. Non aveva protetto neanche me. Dietro le lenti, i suoi occhi azzurri mi guardarono malinconici. – Viola era un’atleta bravissima, da ragazza. – Certo pensava alla foto mancante, mia mamma dodicenne alle Olimpiadi. – Come te. Lei: flessuosa e impeccabile campionessa di ginnastica artistica. Io: abile soprattutto nello spaccarmi lo spaccabile negli sport di strada. Lei era anche molto bella, se era per quello. Scannerizzai la 14 fisionomia di mio padre. Forse avevo il suo naso okay, ma grazie al cielo il suo lascito genetico era tutto lì. E adesso cosa cercava, un’assoluzione? – Credo sia pronto – bofonchiai alzandomi. Dopo il banchetto stile antichi Galli che la signora Luisa ci obbligò a consumare, Lorenzo si era chiuso nello studio per lavorare. La casa era silenziosamente intenta alla digestione. Mi stiracchiai pigramente. Ogni giorno a quell’ora, la Monster s’intrufolava con un ronfare sommesso nel cortile di casa, e un istante dopo Detlev bussava piano alla porta. E ogni giorno io lo aspettavo. Assaporavo la mia sete di lui, che la certezza di incontrarlo non mitigava ma, al contrario, rendeva più bruciante. Non accadeva nulla di speciale, a volte parlavamo, a volte appoggiavo la testa sulle sue gambe, assaporando i raggi del sole sbilenco che penetravano dalla vetrata, mi lasciavo accarezzare ad occhi chiusi. Ma ognuna di quelle ore era come una boccia di cristallo che racchiudeva un mondo fiabesco, dove lui e io scivolavamo abbracciati, come sulla nostra luna di ghiaccio. Motore in avvicinamento. Aprii la porta e Detlev si fiondò a stringermi tra le braccia. – Ehi, piano… non vorrai che mio padre senta il mio grido di dolore! – Lo abbracciai ridendo. – Potrei imbavagliarti e sequestrarti in camera tua… – Mi mordicchiò l’orecchio, e io mi allontanai di scatto per l’effetto che mi fece. Da quando le mie ferite erano guarite, la melodia dolce e selvaggia del nostro legame risuonava in ogni fibra del mio corpo. 15 E il confine tra fare la cosa giusta e fare la cosa più naturale si assottigliava. L’ amore era stato inevitabile per noi, ma il passo successivo sarebbe stato una scelta. Volevo dimostrare ai silvani che non era stata nostra intenzione sfidare il Patto, era successo e basta. Volevo sistemare le cose. Ma era come bruciare al rallentatore. Bevevo il suo respiro, non potevo farne a meno. E lui, lui mi voleva sempre di più. – Detlev… – Lo so. – Un sospiro e riprese il controllo. Mi alzò il mento e mi baciò le labbra. Naturalmente, Lorenzo scelse quell’istante per apparire. – Oh, sei tu Detlev – disse con tono da padre moderno, ma la curva delle sopracciglia da genitore cavernicolo. – Buon pomeriggio, signor Olivi. – Detlev mi sciolse dall’abbraccio senza fretta. Sbirciai quel ragazzo vestito di nero, che stringeva la mano a mio padre. Un giovane adulto vibrante di vita e desiderio, spalle ampie e sorriso ferino, con quegli occhi inquietanti ancora lucidi per il bacio e sì, dovetti ammettere ancora una volta che Lorenzo non se la cavava male nella gestione dell’ansia da mia figlia ha un ragazzo. Due settimane prima, non appena aveva saputo di Panco, Lorenzo mi aveva chiamata. Non ci incontravamo da quasi un mese, perché quello che ha di buono mio padre è il suo lavoro, che lo leva di torno per la quasi totalità del tempo. Mi vide arrivare in Maserati. – Mio padre. Detlev – masticai imbarazzata, anche se avevo avuto tutto un giorno, quello successivo alla battaglia, per prepararmi alle presentazioni. Ero stata medicata, ripulita e mi ero infilata gli occhiali da sole, insomma avevo fatto del mio meglio. Ma mio padre sbiancò lo stesso. Scrutò Detlev, che mi so- 16 steneva mentre saltellavo sui gradini dell’entrata, in un silenzio minaccioso. Alle mie spiegazioni arruffate a proposito di ramponi che scivolano e di crepe nel ghiaccio, Lorenzo commentò freddamente l’estrema stupidità degli sport estremi. Attese che Detlev tornasse indietro a prendere dall’auto i miei pochi effetti personali. – Il tuo amico, lo conosci da molto? – Esaminò il mio viso ammaccato, due solchi profondi si disegnarono fra le sue sopracciglia. – Abbastanza. – Abbastanza per cosa? – Per sapere che è… speciale – arrossii. Quando Detlev ritornò gli chiese senza preamboli: – Tu, cosa hai a che fare con le condizioni di mia figlia? – Tutto. Ne sono completamente responsabile – rispose Detlev appoggiando il borsone. Quelle linee sulla fronte di Lorenzo guadagnarono un altro centimetro, io mugugnai una qualche protesta ma Detlev continuò a sostenere il suo sguardo con quel suo modo sicuro e dolorosamente consapevole, fino a che mio padre si scostò e ci fece entrare. – Resti qui qualche giorno, vero? – chiese rivolto a me. Esitai qualche istante e poi annuii. Lorenzo fece una smorfia come per trattenere qualcosa. – Telefono subito al dottore – ma dopo due passi si girò, – nel frigo c’è del latte, frutta eccetera, e il tè è nella credenza. Fate colazione. Te ne occupi tu, – sospirò – Detlev? – Certo. Mio padre aveva deciso che una cauta fiducia poteva andare, per ora. Bella mossa. Fu così che firmai una tregua con lui. 17 Non appena Lorenzo tornò a rintanarsi nel suo studio, Detlev mi prese per mano. – Vestiti, ti porto in viaggio premio. – Premio per cosa? – Miglior convalescente del mese. Maggior numero di vitamine ingoiate. – Dove andiamo? – Vicino, preparati! Mi cambiai e mi pettinai in fretta, ma quando tornai in sala Detlev si era addormentato. La testa appoggiata al divano, il collo bianco piegato da un lato, sporgeva un po’ le labbra. Mi avvicinai senza rumore. Doveva avere quell’espressione lì a cinque anni, quelle ciglia che facevano ombra sugli zigomi alti, le tempie lisce dove pulsava una vena azzurrina. – Oh – aprì gli occhi. – Qualcuno è molto eccitato dal programma, mi pare. O notte di bagordi? – Mi prese la mano che gli tendevo e lo tirai in piedi ridendo. Rise anche lui, con una strana espressione. – No, solo una notte lunga. – Trovato qualcosa? – Domandai dopo un momento. – Loro sono scomparsi. Rashid dice che per i naguish è il momento di ricarica. Si sono rintanati da qualche parte, a raccogliere le forze. Ma Solo non ci crede e Micha crede a Solo, specialmente ora che è tornato dalla parte dei buoni, cioè la sua parte. Così io, Chandra e gli altri siamo stati spediti nella Valle dei Laghi, mentre i silvani sono corsi dietro alle solite tracce false. – Scomparsi davvero? – Non ci pensare, anzi direi di andare a… oh, fatti vedere. Lorenzo mi aveva comprato dei vestiti. Se non avesse detto li posso cambiare, con quell’aria timido- 18 barra-rassegnata, forse avrei mosso delle obiezioni. Ma davanti al suo pacchetto regalo, chi avrebbe avuto il fegato di difendere il diritto a vestire felpe lise e jeans strappati? Del resto, m’importava poco. Almeno fino al momento in cui a giudicare era Detlev. – Ti sta… sei… – la frase restò tronca per un bel po’. – Okay? – Interruppi la sua valutazione silenziosa, corrosa dall’impazienza. Gonna e stivali, gente. Mica roba da poco. Per mascherare l’imbarazzo, mi tirai su il cappuccio orlato di finto pelo della mia giacca nuova e lo guardai tipo torbidamente. – Okay – disse pianissimo senza staccarmi gli occhi di dosso. Poi mi attirò contro il suo petto. – Sembri mmh… una principessa russa in fuga. – In fuga da cosa? – Biascicai con le labbra sulla sua maglia. – Dalla sua vita grigia e monotona. – Ah, ah. Faceva freddo ma nessuno pareva farci caso. C’era fumo di legna e musica, le bancarelle che vendevano vino caldo profumato alle spezie s’inerpicavano lungo le stradine tutte in salita, gremite di gente per la festa del paese. Passando tra la folla mi strinsi al braccio di Detlev. Alzai gli occhi ai tetti aguzzi, ai balconi di legno scuro, respirando l’aria nevosa di montagna mentre il pomeriggio illividiva nel tramonto. Ci sedemmo a un tavolino e ordinammo un tè caldo. La sua bocca aveva quella piega in giù così irresistibile, come un sorriso segreto. Mi avvicinai di più, serrando le palpebre per sentire il suo profumo. Lui mi soffiò sulle ciglia. Ridendo spalancai gli occhi e rimanemmo così a guardarci. – Stanotte ci saranno perlustrazioni? – Pare di no. Serata libera! – Cose da ragazzi? 19 – Chandra, Bansi e Haris vogliono cacciare del pesce in un lago d’alta quota. Il nostro ristorante a cinque stelle! – Vuoi dire che mangiate pesce – faccia schifata – crudo? – Vivo. Mangiamo pesce vivo. – Rise della mia aria inorridita – Io sono abituato a… qui, il sushi per me è sufficiente. Ma loro sono appena usciti e sono schizzinosi. – Un cinque stelle sotto il ghiaccio… brrr! – Non immaginavo come dovesse essere nuotare in quel gelo, anche se sapevo che il marmash li proteggeva. Rividi l’immagine sgranata dei tre che si muovevano come un unico organismo, fluendo più che correndo nel fumo del castello devastato, durante la battaglia. – E loro staranno qui per sempre? – Per un po’. Dipende. – Sapevo da cosa dipendeva, ma nessuno dei due voleva parlarne. – Ho una cosa… – Detlev sembrò ricordare improvvisamente. Dalla tasca del giubbotto tolse un astuccio azzurro e lo aprì. Un bagliore bianco scivolò fra le sue dita, gli occhi abbassati, disse: – Questo viene da lontano, dal mio mondo. Una parte almeno… – Che cos’è? – È per te – e aprì la mano. Era una falce di luna, sottilissima, fatta di una pietra nera incastonata su un supporto di oro bianco. – Quando è calante è nera, vedi? Ma quando è crescente… Brillava, liscia e stupenda. E io ero senza parole. – La pietra è un meteorite, viene da un lago profondissimo. Per noi è una pietra-custode, difende dal male. Anche quello che viene dal nostro cuore. Tu sei questo, per me. Volevo dirtelo. Allungai due dita e sfiorai il ciondolo, era come una lama curva, la più bella che avessi mai visto. – È un bravo custode? 20 – Pronto a tutto, per salvarti. Sorrisi, accarezzando la falce. – Ti piace? Annuii, ammutolita dall’emozione. Detlev si alzò e venne dietro di me, scostò il cappuccio della giacca e mi sollevò i capelli. Rabbrividii al contatto delle sue mani. Allacciò la catenina e la luna si appoggiò sulla mia pelle, fredda e leggera. Acuminata e splendente. Girai la testa verso la sua, china su di me, e ci baciammo. Mormorai Detlev, lui disse ti amo, senza staccare le labbra. Tenevo la mano sulla mia luna, non me la sarei tolta mai più. Una fisarmonica attaccò con vigore un pezzo folk così vicino a noi che sobbalzammo. Non ci eravamo accorti del gruppo musicale e scoppiammo a ridere. – Sai, c’è una cosa che mi piacerebbe fare – dissi, e lui alzò l’angolo della bocca annuendo. – Non intendevo, cioè… ehi! Non ridere! – Sghignazzammo, coi visi così vicini da confonderci uno nel respiro dell’altro. – Volevo dire, un giorno vorrei che tu mi portassi… Perché mi fermai? Era una cosa che avevo in mente fin dalla notte allo chalet, ma in quell’attimo avrei voluto tornare indietro, non aver iniziato quella frase. Come se portasse male. – Dimmi. Dimmi quello che vuoi – la sua voce roca si abbassò, – per favore. – Vorrei vedere dove vivono gli anguani. Mi porterai? Non parve sorpreso. O sapeva mascherare bene le sue emozioni. – Viaggio lungo. E pericoloso. – Ma è possibile, no? Con il marmash mi puoi portare a qualsiasi profondità, vero? 21 – Il fatto è che le visite non sono ben accette. Molti anguani vi vedono come una potenziale minaccia. Noi di terra non potremmo nemmeno parlare del nostro mondo di laggiù. Senza contare… – aveva parlato bruscamente e lasciò la frase così. Non c’era bisogno di finirla. Il Patto era lì, sempre accanto a noi. Vivevamo una specie di tregua della memoria, ma era come essere su un atollo paradisiaco che presto, lo sapevamo, la marea avrebbe sommerso. – Ho detto, un giorno – insistetti cocciuta. – Un giorno. – Detlev dischiuse il suo sorriso più radioso. Non resistetti e lo baciai, lui mi rispose lentamente, e poi assaporandomi come se fossi un qualcosa di molto dolce. Era una felicità che faceva male. – Non m’importa dove – dissi. – Come. Io voglio stare con te. – Io non so – rimase zitto per un tempo interminabile e io mi sentii sciogliere. Per favore, posso tornare indietro di dieci secondi e non dire niente? – Io non so pensare – mi sfiorò la manica della giacca – di vivere senza i tuoi polsi. Lo guardai stordita. – Così sottili. Detlev mi scostò i capelli. – E senza questa piccola cicatrice qui – mi sfiorò la fronte, poi con l’indice scese alla mia bocca. – Senza questa. Come liquida lava i suoi occhi m’inondarono, mi bruciarono il viso, un’emozione così violenta che arrossii. Non ero mai preparata a lui, niente nella mia vita era mai stato simile a lui. E quando pensavo di percorrere un sentiero sicuro si spalancava l’abisso. Detlev era un salto nel vuoto. Strinsi le sue dita, gli rovesciai la mano accarezzando il pal- 22 mo, la sua pelle era un territorio conosciuto. Quando riuscii ad alzare gli occhi aveva cambiato espressione. – Sei arrabbiata? – Io? – Inconcepibile! – E perché dovrei? – Perché non posso portarti dove vuoi. – Strinse le palpebre. – Vorrei darti tutto, capisci, anche i desideri che non sai di avere. Soprattutto quelli – spinse il suo sguardo più dentro nel mio finché arrossii. – Ma questo no. Sarebbe pericoloso e non potrei difenderti. – Non importa – lo rassicurai. – Era solo, non so, ho detto una cavolata, non so neanch’io perché ci ho pensato… Davvero, perché mai mi era passato per la mente? Da quel poco che avevo capito di lui, la sua anguanità era una cosa che rivendicava sempre, ma anche una specie di tabù. – Non cercare mai. Mai. Di trovarli. Ma non capiva? – Non m’importa di vedere il mondo degli anguani, cioè sì, m’importa un po’. Cercavo solo di conoscerti di più. Ma va bene, per conoscerci abbiamo tempo. Così neri i suoi occhi. – Sì – mormorò. – Ogni minuto con te è tutto il tempo che voglio. – E come lo spieghi? – Scherzai. – Magia umana, anche voi avete i vostri sortilegi. – Sono certa che se non torno a casa fra mezzora, Lorenzo ci mostrerà qualche numero di magia paterna. – Hai ragione – rise. – Andiamo. – Aspetta! – Lo trattenni per la manica e tirai fuori il cellulare. Me lo ero ripromessa nelle ultime mattine, mentre aspettavo il momento giusto per aspettarlo. Troppo presto, mi dicevo verso le otto. Non ancora, mentre mi facevo la doccia. Da 23 mezzogiorno in poi, ecco, l’avevo reso legale. Recentemente, per decreto speciale, l’attesa poteva iniziare verso le undici, ma che non diventasse un’abitudine. Una foto era una dose minima per tirare fino al primo pomeriggio. – Io non… – scosse i capelli che gli ricaddero sul viso, come lo schiaffo di un’ala nera. – Neanch’io! – Ero proprio allergica alle foto, ma avrei fatto di tutto per averne una sua. – Dài, per i posteri. E prima che potesse reagire, allungai il braccio e scattai. Subito riguardai l’immagine. Mezza nascosta dal pelo finto del cappuccio c’era una me tutta sorriso e naso lucido, addossata al braccio di un ragazzo dai lineamenti fiabeschi. E lo sguardo disperato. Ammiccò come per scusarsi e si alzò dal tavolo tendendomi la mano. Poi mi cinse la vita e risalimmo l’onda della folla che confluiva verso la piazzetta. Soli in mezzo alla gente che non si curava di due ragazzi abbracciati. Sarebbe stato possibile, un giorno, andare così per il mondo. In quel momento ne ero sicura. E mentre si accendevano le luminarie colorate e la sera iniziava piena di promesse, la ragazza dai polsi sottili e il ragazzo bellissimo camminavano stretti uno all’altra, anonimi e liberi. 24