Il crac dei conti in banca
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Il crac dei conti in banca
10309 e di h c a n o cr Più che una fine della guerra, vogliamo una fine dei principi di tutte le guerre Franklin Delano Roosevelt 9 771827 881004 di Ferdinando Adornato QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 9 MARZO 2011 DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK L’Istat denuncia livelli record nella disoccupazione femminile: al Sud il 53,7% non lavora «È tornata l’epoca delle donne oggetto» Napolitano sull’8 marzo: la parità tra i sessi è ancora lontana La vedova Raciti con l’Udc. Casini: «Una scelta in nome dei valori» di Riccardo Paradisi ROMA. «È necessaria un’opera di rinnovamento morale alla quale le donne di oggi, come quelle di ieri, sono chiamate a dare un contributo fondamentale». Giorgio Napolitano vola molto alto nel suo discorso alla cerimonia per la giornata della donna. a pagina 10 «Mi impegno in politica, per far vincere la dignità» Il marito, poliziotto, fu ucciso 4 anni fa dopo il derby CataniaPalermo. Ora lei, con due figli, decide di scendere in campo Errico Novi • pagina 11 Assalto finale per la città di Zawiya: i lealisti attaccano con carriarmati e aerei, ma l’opposizione mantiene il controllo del centro L’ultimatum dei ribelli Gli insorti: «Se Gheddafi andrà via entro 72 ore non subirà processi». La Conferenza islamica appoggia la “no-fly zone”e il vertice Nato conferma: «Possibili tutte le opzioni» I dubbi dell’ex ambasciatore Usa di Luisa Arezzo Ma noi americani siamo davvero pronti a intervenire? entre in diverse zone della Libia continuano i combattimenti tra forze lealiste e rivoltosi, è giallo sui presunti contatti che dietro le quinte sarebbero intercorsi tra il regime di Muammar Gheddafi (che continua a negare ogni ipotesi di contatto) e gli insorti. M di John R. Bolton Il testamento biologico La legge serve ad evitare il Far West etico a pagina 2 entre in Libia il massacro continua, possiamo tirare alcune conclusioni sulla politica estera americana delle ultime settimane. Cominciando dalla rivolta tunisina che ha più volte colto di sorpresa l’Amministrazione Obama, incerta se porre dei paletti per l’America e i suoi alleati e concettualmente e operativamente impreparata ad affrontare le conseguenze. a pagina 5 M L’opinione di Silvio Fagiolo «Il nostro compito «Il rischio è vedere (almeno per ora) l’inverno arabo è aiutare i civili» scendere su Beirut» Martha Nunziata • pagina 4 Bernard Selwan El Khoury • pagina 6 I tassi di interesse sui mutui arrivano al 3,36 per cento dal 3,18 Il crac dei conti in banca Allarme di Bankitalia: più prestiti, meno soldi di Alessandro D’Amato tassi di interesse sui mutui per l’acquisto di abitazioni erogati a gennaio 2011 alle famiglie sono aumentati al 3,36 per cento dal 3,18 per cento di dicembre, mentre quelli I seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00 I QUADERNI) • ANNO XVI • sulle nuove operazioni di credito al consumo sono aumentati all’8,78 dall’8,33 per cento di dicembre. Pressoché stabili i tassi passivi sui depositi in essere (0,69 contro 0,70 per cento del mese precedente). Lo scrive Banca d’Ita- NUMERO 47 • di Rocco Buttiglione Il monito di Nadim Gemayel lia, che rileva come il tasso di crescita sui dodici mesi dei prestiti al settore privato, corretto per le cartolarizzazioni cancellate dai bilanci bancari, è salito al 4,8 per cento rispetto al 3,6 per cento di dicembre. WWW.LIBERAL.IT l progetto di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento tocca valori e beni vitali fondamentali e ha suscitato nel Paese un dibattito ampio ma talvolta confuso. È necesssario fare chiarezza. La prima domanda con cui dobbiamo confrontarci è quella sulla effettiva opportunità di fare una legge su questi temi. È stato il senatore Marino, e con lui il Pd e l’Idv a chiedere una legge sul testamento biologico già nella passata legislatura. Essi denunciarono allora un grave ritardo e addirittura un vuoto legislativo. Io dissi che una tale legge non mi pareva opportuna e non mi sembrava che esistesse un tale vuoto legislativo. Il mio parere è stato autorevolmente corretto dalla Corte di Cassazione con un procedimento alquanto inusuale. I segue a pagina 8 a pagina 12 • CHIUSO IN REDAZIONE ALLE ORE 19.30 prima pagina pagina 2 • 9 marzo 2011 il fatto Il governo libico nega siano in corso trattative. Ancora attesa per la “no-fly zone”. Ue: accordo sull’estensione delle sanzioni ai fondi 72 ore per Gheddafi Insorti disposti a trattare con il Colonnello, ma senza intermediari. Il capo dei ribelli: «Il raìs ha 3 giorni per lasciare». Bombardata Zawiya di Luisa Arezzo entre in diverse zone della Libia continuano i combattimenti tra forze lealiste e rivoltosi, è giallo sui presunti contatti che dietro le quinte sarebbero intercorsi tra il regime di Muammar Gheddafi (che continua a negare ogni ipotesi di contatto) e gli insorti. Dopo le inidscrezioni di Al Jazeera, ieri per la prima volta i ribelli hanno ammesso che un tentativo di abboccamento c’è stato: più che da parte di emissari del Colonnello, su iniziativa di non meglio identificati avvocati di Tripoli, che si sarebbero prestati quali intermediari spontaneamente, e non in base a istruzioni ricevute. Come dire: nessun coinvolgimento straniero, ipotesi circolata dopo che altre fonti interne agli insorti avevano confermato di aver aperto - in merito alla trattative - un canale preferenziale con gli Stati Uniti. Ai ribelli, dunque, sarebbe stata proposta la rinuncia di Gheddafi al potere in cambio dell’immunità. Nonostante i primi “non se ne parla”, gli insorti avrebbero infine accettato di non perseguire il M leader libico Muammar Gheddafi per i suoi crimini se questo si dimetterà entro le prossime 72 ore. Dunque entro venerdì 11, giorno in cui è stato convocato sia il Consiglio starordinario della Ue sulla crisi libica sia quello della Lega Araba. Il cerchio, insomma, prova nuovamente a stringersi intorno al dittatore. E la comunità internazionale sembra intenzionata ad aspettare venerdì 11 per decidere il da farsi. All’attendismo internazionale risponde di contro l’attivismo ”diplomatico” libico: «Se Gheddafi lascerà la Libia immediatamente, entro 72 ore, e fermerà i bombardamenti, noi come libici non lo perseguiremo per i suoi crimini», ha detto Mustafa Abdel Jalil, ex-ministro della Giustizia e oggi capo del Consiglio nazionale libico dei ribelli, parlando telefonicamente alla tv al Jazeera. «Ma la scadenza non sarà estesa oltre». La televisione di Stato, subito dopo la dichiarazione, ha negato categoricamente qualsiasi approccio segreto con i ri- voltosi, mentre fonti governative hanno di nuovo smentito contatti di qualsivoglia natura con gli avversari, liquidando le notizie al riguardo come mera «spazzatura» e semplici «fandonie senza senso». È significativo tuttavia il fatto che le stesse fonti abbiano preteso di restare anonime. Resta il fatto che nessuno sembra davvero diposnibile ad accogliere il dittatore. L’ipotesi fino ad oggi più concreta, quella che voleva il raiss “ospite”di Chavez in Venezuela, ieri è stata categoricamente smentita da Julio Cesar Pineda, ex ambasciatore Venezuelano in Libia e profondo conoscitore dei rapporti tra Hugo Chavez e Muammar Gheddafi. «L’idea, che pure sarebbe stata accarezzata dal presidente Chavez», ha spiegato Pineda da Ginevra, «si scontra con la contrarietà dell’influente minoranza araba del Paese e in generale con quella dei venezuelani: Il popolo non lo accetterebbe e tra un anno in Venezuela ci sono le elezioni». Il diplomatico, che oggi è un’opinionista della rete Tv Globovision, non esclude però la possibilità che il Venezuela apra le porte a un esilio dorato per alcuni familiari del raiss libico: «per alcuni di loro sarebbe possibile, ma non per il Colonnello». Sul terreno nel frattempo continuano a parlare le armi. Le forze fedeli al regime hanno sferrato l’ennesimo attacco contro Zawiyah, la strategica località situata appena 40 chilometri a sud-ovest della capitale Tripoli. Nonostante l’assedio sulla città sia stato ulteriormente inasprito, però, al momento i ribelli che ne presidiano il centro continuano a resistere. Secondo la Bbc l’intera città sarebbe stata vittima di un intenso fuoco. «Una pioggia di proiettili ha colpito ogni singolo edificio» ha detto una fonte araba, mentre secondo un’altra televisione britannica, Sky News, che cita testimoni oculari, circa 50 carri armati avrebbero bombardato Al Zawiyah, e diversi edifici e moschee sarebbero stati completamente distrutti. Quanto al nodo petrolifero di Ras Lanuf, è stato bombardato almeno altre quattro volte, sebbene non risultino nuove vittime. I ribelli hanno anche il timore di rimanere senza combustibile nel giro di una settimana a causa della cessazione delle attività nelle raffinerie della regione. Un ufficiale dello stesso governo, Tarek Bu Zaqiya, ha ammesso che ci sono scorte solo per una settimana, precisando che «c’è un piano per far fronte al problema», senza però volerne precisare i dettagli. Secondo Gulf News, alcune fonti del governo di Bengasi hanno ipotizzato l’invio in Libia di combustibile dall’Italia. In attesa di eventuali sviluppi, ieri comunque i Ventisette Paesi dell’Unione Europea hanno raggiunto un accordo (che per entrare in vigore attende ora l’approvazione formale dei Capi di Stato e di governo venerdì) per delle nuove sanzioni contro la Libia, soprattutto per colpire il Fondo sovrano Libyan Investment Authority (Lia) e la Banca centrale libica. Le nuove sanzioni riguardano in particolare il prima pagina 9 marzo 2011 • pagina 3 l’intervista «In Libia sta avvenendo un genocidio» Dounia Ettaib, guida delle donne maghrebine in Italia, attacca: «L’Occidente finora inerme» MILANO. «I fatti del Nord Africa devono che essere accolti positivamente da qualunque parti vengano osservati. È l’espressione di un mondo giovanile che ha deciso di dire “Basta!”. Spero che si tratti anche di un punto di svolta per nuovo conquiste per le donne arabo-islamiche». Dounia Ettaib, Presidente delle donne marocchine in Italia e di Fondazione Grin, pone sotto gli stessi riflettori la celebrazione dell’8 marzo con le rivolte di Egitto, Libia e Tunisia. «In questa fase di grandi cambiamenti, è necessario osservare i due fenomeni in parallelo. La partecipazione femminile alle rivolte non è scontata». La signora Ettaib vive nel nostro Paese da oltre 15 anni. Come consulente del Ministero dell’Interno, segue quotidianamente le dinamiche dei flussi immigratori dal Nord Africa. In questo momento, quindi il suo impegno è rivolto alla situazione in Libia e alle eventuali ripercussioni sulle coste nazionali. Possiamo permetterci di essere ottimisti? È ancora troppo presto. La situazione della Libia, in particolare, è preoccupante. Le scelte di Gheddafi sono da classificare unicamente come un genocidio. Il colonnello libico ha saputo sfruttare due spazi per la propria sopravvivenza. Da una parte, ha preso in contropiede l’Occidente, il quale si è dimostrato incapace di reagire di fronte alle violenze messe in atto. Dall’altro, è riuscito a gestire in proprio favore la debolezza del suo stesso popolo. Washington e Bruxelles sono state rapite da un atteggiamento di inerzia nei confronti di una dittatura dalla quale le nostre economie non sanno rendersi indipendenti. In che senso? Gheddafi sta facendo quello che vuole perché i libici sono un popolo debole. La storia del Paese è diversa dalle tradizioni che caratterizzano le nazioni confinanti. Egi- Lia, fondo sovrano che gestisce il ricavato delle esportazioni di petrolio e detiene delle quote azionarie in molte grandi imprese europee, come le italiane Unicredit e Finmeccanica e l’editrice britannica Pearson. Secondo fonti diplomatiche, sarebbe stato inoltre trovato un meccanismo atto ad «evitare effetti indesiderati delle sanzioni sulle imprese europee», timore che era stato espresso dalla delegazione maltese. Continua a muoversi anche la diplomazia internazionale: il segretario dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, il turco Ekmeleddin Ihsanoglu, ha addirittura sollecitato il Consi- di Antonio Picasso ziani e tunisini non avrebbero reagito in questo modo così dilettantesco se i loro rispettivi rais avessero dato ordine di sparare sulla folla. Il colonnello è un sanguinario, ma non è stupido. La fragilità del suo Paese gli è tornata vantaggiosa. Si aspettava tanto sangue tra Bengasi e Tripoli? Sinceramente no. Non credevo che i libici sarebbero riusciti a svincolarsi dal magnetismo del loro colonnello. Ancora a gennaio, quando la rivolta era circoscritta “ Il Marocco ha reagito meglio dei vicini perché è retto da un governo riformista, moderato e pronto al dialogo ” alla Tunisia, Gheddafi si era esposto nel valutare positivamente i cortei contro Ben Alì. Poi, smentendo se stesso, aveva dichiarato il suo personale dispiacere per la caduta dello stesso leader tunisino. Sono contraddizioni, queste, che da sempre ispirano gli atteggiamenti imprevedibili del colonnello. Gheddafi, inoltre, aveva parlato di ragazze finalmente emancipate dal velo, simbolo – a suo giudizio – della oppressione dei regimi confinanti con la Libia. Si è trattato certamente di un’avventatezza che Gheddafi ha pagato a proprie spese. Quello che sta accadendo nel suo ex feudo è la conseguenza della sua miopia. Lo scherzo del destino, infatti, è che le donne scese in piazza in Libia sono le meno velate fra tutte quelle presenti nei cortei di questi mesi. Al Cairo e a Tunisi era facile incontrare molte manifestanti con il capo coperto. Questo ha portato alcuni osservatori, soprattutto in Occidente, a temere la presa di glio di Sicurezza dell’Onu a «fare il proprio dovere» e imporre sulla Libia una no-fly zone, come caldeggiato dall’Occidente. Persino la Cina comincia a non escludere più tale ipotesi. Mentre la Russia continua a restare contraria. Così come l’India, il Brasile ed il Sudafrica, che ieri hanno auspicato una “soluzione pacifica” della crisi «a vantaggio del popolo libico». Francia e Gran Bretagna stanno invece premendo l’acceleratore per preparare una bozza di risoluzione da presentare “entro breve tempo” al Consiglio di Sicurezza, proprio con controllo del fondamentalismo. Il fenomeno non si sta ripetendo in Libia. Qui, proprio dove il rais aveva parlato di emancipazione femminile in simbiosi con le rivolte, le donne scese in piazza sono davvero senza velo. Facciamo un pronostico preoccupante: cosa accadrebbe se Gheddafi non venisse sconfitto? L’eventualità, effettivamente, non può essere esclusa. Anzi, più si va avanti e maggiori sono le sue possibilità di vittoria. La sua resistenza si sta rivelando tenace. Se davvero Gheddafi restasse al potere, l’Europa pagherebbe un prezzo salatissimo. Il colonnello, di cui conosciamo ormai la totale mancanza di scrupoli, aprirebbe le porte dell’Africa. Questo significa al Qaeda o immigrazioni di massa? Entrambe. Si può ancora evitare questo scenario? Quali sono le carte a disposizione della comunità internazionale? Partiamo dal mondo arabo. Questo, finora, si è comportato con drammatica ipocrisia. Le sue iniziative si sono dimostrate decisamente idiote e prive di una prospettiva politica. In questi giorni, i quotidiani arabi insistono sull’eventualità di creare una forza di pace costituita da contingenti egiziano e tunisino e da impegnare in Libia. Ieri l’Organizzazione della conferenza islamica (Oci) ha dato il suo ok di massima per la creazione della no fly zone. Cosa ne pensa È un’assurdità! Come si può pensare che due Paesi, orfani di governo e istituzioni amministrative, possano organizzare una missione tanto impegnativa? Ci sono alternative? I Paesi arabi hanno a disposizione l’obiettivo di creare una no-fly zone sul paese Nordafricano. «La Nato sta considerando diverse opzioni, compresa la possibilità di operazioni militari» in Libia, ha confermato il presidente americano Barack Oba- i loro fondi sovrani (si tratta un ammontare complessivo che supera un triliardo di dollari, ndr). Anche con una percentuale irrisoria di questi capitali, potrebbero essere create risorse importanti di investimento da indirizzare in riforme sociali e strutturali, di ampio respiro e in ogni Paese. I governi occidentali invece? La loro lentezza è stata terribile. Non hanno preso iniziative prima per contrastare i regimi, o al limite prevederne la caduta, ora per favorire la transizione, cercando di evitare lo spargimento di sangue. Sappiamo perfettamente che i vari Gheddafi sono rimasti al potere per così tanto tempo per colpa dei governi di Stati uniti ed Europa. Non è stato definito un piano successione. E adesso? Mi sembra che l’indecisione regni sovrana ovunque. Come vede la situazione del Marocco? Finora è quello che in Nord Africa ha attraversato questa fase di cambiamento senza gravi danni per le proprie istituzioni. Il merito va tutto al nostro sovrano. Re Mohammed VI si è dimostrato capace di seguire la strada delle riforme, già intrapresa dal padre. Successivamente ha assunto un atteggiamento di dialogo e di moderazione. Questo ha permesso di creare una serie di valvole di decompressione dei disagi sociali. Cosa che, al contrario, non è accaduta altrove. re la sua voce è stato invece Barroso: «Anche se riconosciamo l’estrema complessità della situazione, le sue sfide e le sue difficoltà, non ci può essere nessuna ambiguità da parte dell’Unione europea, il cui po- Luis Moreno Ocampo, il procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale ha detto che l’inchiesta contro il dittatore dovrebbe procedere in tempi rapidi ma. Ma al riguardo una strategia più precisa dovrebbe emergere dalla riunione dei Ministri della Difesa della Nato, in programma domani a Bruxelles. Da Strasburgo, ieri, a far senti- sto è a fianco di coloro che rivendicano la libertà politica e il rispetto della dignità umana». Ma se la diplomazia ha tempi lenti, lo stesso non si può dire per il Tribunale penale internazionale dell’Aja. Ieri Luis Moreno Ocampo, il Procuratore generale del Cpi ha detto che l’inchiesta dovrebbe procedere in tempi rapidi: «Quando abbiamo aperto l’inchiesta c’erano dei possibili crimini contro l’umanità, un attacco contro dei civili nel quale non si ravvisava alcun conflitto armato, ed è su questo che indaghiamo; oggi un conflitto c’è, e questo ha cambiato i tempi», ha spiegato Ocampo, sottolineando come «vi siano due parti in conflitto, e chiunque commetta dei crimini di guerra può essere oggetto di un’inchiesta». l’approfondimento pagina 4 • 9 marzo 2011 La crisi mediterranea vista dall’ambasciatore Silvio Fagiolo, docente di Relazioni internazionali alla Luiss di Roma Un intervento civile «Limitiamoci a questo: l’azione militare può avvenire solo se concertata in seno alla comunità delle Nazioni Unite. Roma può fare molto in termini di assistenza umanitaria, senza dimenticare che nei confronti della Libia siamo vulnerabili» di Martha Nunziata Ambasciatore Silvio Fagiolo, docente di Relazioni Internazionali all’Università Luiss di Roma, un passato come diplomatico a Mosca, Washington e Berlino, ha commentato per Liberal la crisi politica dell’Africa mediterranea e in particolare il possibile intervento militare in Libia. Ambasciatore, la comunità internazionale esplora con sempre maggiore insistenza la possibilità di intervenire nella crisi libica. Pensa che un suo coinvolgimento sia imminente? Sull’intervento militare sono molto scettico: gli stessi ribelli libici hanno molte esitazioni in merito a questo intervento militare. Dal nostro punto di vista l’Italia si deve muovere in un contesto multilaterale, non deve certo pensare di intervenire da sola, ma esclusivamente in un contesto europeo, delle Nazioni Unite, oppure nell’ambito di un intervento ad hoc, come nel caso dell’operazione “Alba”, in Albania, nel 1997. Deve trattarsi, cioè, di L’ una azione concertata, soprattutto se si tratta di usare la forza. Individualmente, invece, l’Italia può fare molto in termini di assistenza sanitaria, soprattutto adesso alle frontiere dove è più forte l’emergenza umanitaria. Non ha senso denunciare il trattato italo-libico: gli obblighi sono di lungo periodo, molto sterili. Il trattato vieta l’intervento, la messa a disposizione di basi per un intervento in Libia, ma se l’intervento è multilaterale, e soprattutto con l’ombrello delle Nazioni Unite, è lo stesso diritto delle Nazioni Unite a prevalere sui singoli accordi. Alcuni giornali inglesi e americani riportano l’indiscrezione che l’America abbia un piano segreto per armare i ribelli libici, e Obama avrebbe domandato all’Arabia Saudita di preparare un ponte aereo per fornire armi ai ribelli, lei che ne pensa? Le basi americane nella zona sono diverse, l’America ha ampie possibilità di movimento, in termini di ponti aerei, di mezzi, strutture e appoggi sul territorio, ma quello che occorre stabilire, in questo momento, è la legittimità dell’intervento. La Nato è intervenuta quando si trattò della Jugoslavia, quando non si riusciva a trovare il consenso sull’intervento e c’era il veto della Russia. L’ideale in questo caso sarebbe, sempre se si decidesse, un intervento della Nato, con la “benedizione”delle Nazioni Unite. La Cina e la Russia sono storicamente contrarie a queste violazioni della sovranità nazionale e quindi si preferisce scendere ad L’ideale sarebbe una decisione della Nato con la benedizione dell’Onu una legittimazione di gradino inferiore, ovvero quello della Nato: anche per l’Italia, però, converrebbe sempre un quadro di riferimento multilaterale. Ma perché la comunità internazionale (Unione Europea, nello specifico) tarda ad intervenire? Si ravvisa, secondo lei, l’assenza di una visione e di una strategia condivisa nella gestione di queste crisi? L’Europa non ha una voce univoca nei confronti della politica estera: non si può parlare di una politica estera dell’Unione europea, in questo senso, perché sarebbe sbagliato pensare all’Europa come a uno Stato. Credo che, da questo punto di vista, si possano considerare due strade diverse per l’intervento nell’area mediterranea coinvolta dalla crisi: a breve termine penso che l’apporto che l’Europa possa fornire sia quello di “expertise”, sia nel campo legislativo sia in quello economico, mentre a lungo termine sarà il nostro esempio, quello di democrazie evolute, a fare da guida a questi paesi. Lei ha detto recentemente: «l’Italia è la rappresentazione del potere occidentale nel Mediterraneo, soprattutto in riferimento agli Usa». Quale ruolo, quale credibilità l’Italia potrebbe avere nell’emergenza libica dopo anni di amicizia di Berlusconi con il dittatore Gheddafi? È vero, c’è stato da parte del governo Berlusconi un eccesso di condiscendenza formale, sconveniente nella gestualità e nei modi: il famoso baciamano, per 9 marzo 2011 • pagina 5 Alcune critiche da parte dell’ex ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite Ma noi americani siamo davvero pronti ad attaccare il raìs? Servizi segreti inadeguati, scarsa capacità operativa sul fronte arabo e l’incertezza su costi e benefici di una guerra stanno penalizzando gli Usa di John R. Bolton entre in Libia il massacro continua, possiamo tirare alcune conclusioni sulla politica estera americana delle ultime settimane. A cominciare dalla rivolta tunisina che ha più volte colto di sorpresa l’Amministrazione Obama, incerta se porre dei paletti per l’America e i suoi alleati e concettualmente e operativamente impreparata ad affrontare le conseguenze. Verso l’Egitto la voce della Casa Bianca è stata inutilmente gonfia di retorica - il silenzio sarebbe stato più prudente - e verso la Libia il silenzio è stato invece protagonista, mentre una forte posizione (e azione) americana era praticamente chiesta ovunque. Purtroppo, anche in questo caso, la retorica presidenziale l’ha fatta da padrone. A questo punto bisogna capire se il governo Usa sia preparato ad affrontare l’incertezza e se sia in grado di prendere decisioni sotto la marcata pressione di questi giorni. Un test dinanzi al quale l’Amministrazione Obama è sembrata piuttosto traballante. Tanto da spingermi a porre quattro domande utili a capire quale sia il grado di risposta che l’America è pronta a dare ai possibili scenari futuri per evitare che lo scorrere della Storia la travolga. M 1. L’intelligence aveva fornito indicazioni adeguate su quanto stava per accadere? La risposta ovvia, oltre confine, è “no”. Il dibattito sul perché i servizi segreti Usa si siano rivelati così maldestri avrà sicuramente delle ripercussioni nei prossimi mesi. Qui non stiamo parlando di preveggenza, ma solo di un buon canale informativo, capace di indicare ai politici la strada da seguire o prevedere. Lo scarso livello dei nostri agenti in Medioriente è un problema con cui si sono scontrate molte Amministrazioni. E quello di cui ora abbiamo bisogno è un aumento delle risorse sul campo, non una loro diminuzione (i recenti tagli alla Difesa decisi dal Congresso colpiscono anche i Servizi, ndt.). 2. Eravamo preparati a proteggere i cittadini americani nei singoli paesi in rivolta e ad evacuarli velocemente se necessario? Non è una domanda da poco. Questa è la prima responsabilità del governo. Eppure, appena la situazione in Libia ha cominciato a precipitare ci siamo accorti che gli Usa erano sostanzialmente impreparati all’emergenza e che centinaia di cittadini statunitensi rischiavano grosso, forse anche la vita. La nostra capacità di risposta deve essere implementata. E invece nel Mediterraneo schieriamo solo poche, anche se preziose, ri- sorse. Diciamolo: siamo sfuggiti a una crisi di ostaggi simile a quella avvenuta nel 1979 in Iran solo per pura fortuna. E non possiamo confidare nella buona sorte una seconda volta. 3. Abbiamo chiari quali siano i nostri interessi e i vantaggi e svantaggi di questi repentini cambi di potere? È una domanda geostrategica fondamentale, troppo complessa per essere riassunta in poche righe. Ma io non mi Sull’Egitto il Presidente ha cambiato idea quattro volte prima che Hosni Mubarak uscisse di scena sento rassicurato da come Obama ha gestito fino a questo momento la crisi. La verità è che mentre le rivolte dilagano nei vari Stati praticamente in simultanea, i motivi che le hanno provocate andrebbero cercati direttamente sul campo dai nostri analisti intelligence e non interpretati artificialmente a distanza da una narrativa piena di preconcetti. Ma questo non è accaduto. Sull’Egitto, Obama ha cambiato idea quattro volte prima che Hosni Mubarak uscisse di scena. Un’incertezza che ha evidentemente danneggiato la credibilità americana a livello regionale, soprattutto quella riservataci dai governanti che si considerano amici degli Stati Uniti. In Libia, uno degli scenari al momento più plausibili, è che il Paese precipiti in una guerra civile senza vinti e vincitori certi. Una manna per al Qaeda e per i terroristi che, come accaduto in Somalia, in queste realtà sguazzano, stabilendo basi operative e dando vita a Stati falliti. Questo è quello che stiamo rischiando in quella che una volta era chiamata la “Costa Barbara” nell’inno dei Marines. Piuttosto che stare a guardare che il caos maturi, dovremmo fare dei passi precisi, come riconoscere un governo libico alternativo e mettere in sicurezza il porto e l’aeroporto di Tripoli. 4. Siamo pronti alla prossima emergenza? Nuovi focolai sono dietro l’angolo, quando divamperanno in un incendio? Le monarchie della Penisola arabica sono evidentemente preoccupate dall’effetto contagio, ma ancor di più lo sono dalla maligna presenza iraniana che si affaccia sul Golfo.Vedono crescere l’influenza di Teheran nell’intensa opposizione sciita nel sunnita stato monarchico del Bahrain, e temono che gli Usa li possa abbandinare, esattamente come successo a Mubarak. La differenza fondamentale, qui, è evidentemente il ruolo che gioca la produzione petrolifera dei paesi del Golfo sul’economia internazionale, e quella americana in particolare, così come le profonde differenze in seno ai paesi fra i monarchi e i cittadini. Se tutti questi fattori siano sufficienti a garantire stabilità e sicurezza alla regione è tutto da vedere, ma una cosa è certa: dobbiamo essere preparati ad ogni evenienza e pronti a difendere i nostri cruciali interessi economici. Queste non sono astratte questioni di politica estera, ma problemi reali che toccano direttamente le nostre vite. esempio, che ha provocato molte critiche all’estero. Oggi, però, guardando indietro, queste critiche sembrano eccessive, anche perché è vero che nessun altro paese ha tenuto con lui un comportamento di eccessiva familiarità, ma è anche vero che tutti hanno negoziato con Gheddafi e tutti lo hanno trattato con deferenza. L’Italia però è più vulnerabile: dobbiamo ricordare che è il paese più vicino alla Libia, e la tradizione e la storia ci legano a questo paese, e anche la dipendenza delle risorse energetiche. ha condizionato le nostre scelte politiche negli ultimi anni. E allora come potrà gestire, l’Italia, l’emergenza avendo la Libia importanti interessi economici sul nostro territorio e in considerazione anche degli interessi personali dei due leader? Il patrimonio personale di Gheddafi è stato immediatamente aggredito e bloccato, è stato denunciato al Tribunale penale internazionale, e non gli è stato data la possibilità di fuga, come nel caso di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto. Bisogna tener presente, però che, essendo la Libia divisa in tribù, non c’è stato l’intervento dell’esercito regolare che, per esempio, in Egitto ha fatto un po’ da arbitro, e con il quale, forse, le cose sarebbero state più semplici. Per gli altri interessi economici-finanziari sul territorio (Eni 0,7%, Finmeccanica 2%, Unicredit 7,2%, Juventus 7,5%, Retelit 15%, Olcese 21%, ndr.) ci vuole cautela da parte del governo italiano: ci sono crediti da esibire, contratti da far rispettare. Per questi motivi l’Italia ha un coinvolgimento più forte rispetto ad altri paesi ed è rimasta sorpresa per la velocità degli avvenimenti, ma soprattutto per lo sbocco così incerto, in particolare per la Libia. Lei ha visto da vicino le rivoluzioni del 1989: le rivolte di questi mesi possono essere accostate a quelle, o differiscono? In effetti questi movimenti sono equiparabili a quelli del 1989, sia per la loro transnazionalità, sia per il fatto di rappresentare, oggi come allora, rivolte in nome di valori spiccatamente europei, quelli cioè di democrazia e di libertà, non basati sullo scontro di civiltà. Parlerei dunque di un incontro tra civiltà. A differenza di quelli del 1989, però, questi moti rivoluzionari hanno un’origine e uno sviluppo orizzontale: nascono dal popolo e sono gestite dal popolo, soprattutto grazie alle nuove tecnologie, dalla rete, ai nuovi mezzi di comunicazione che non lasciano i cittadini isolati. Una rivolta quella del Maghreb in nome di ideali nati e raggiunti con la globalizzazione dei diritti fondamentali dell’uomo, un processo che parte da lontano e che arriverà anche in Cina non fra due anni, ma sicuramente prima di dieci. pagina 6 • 9 marzo 2011 a gli stessi lineamenti di suo padre, e a guardarlo sembra di aver fatto un salto nella storia. Si chiama Nadim Gemayel, è il figlio di Bashir, noto alle nuove generazioni per il film Valzer con Bashir. In realtà Bashir Gemayel, figlio di Pierre Gemayel, fondatore del partito “Kataeb”, fu il leader della resistenza cristiana libanese (le Forze Libanesi) durante i primi anni della guerra in Libano (1975-1990), e fu eletto Presidente della Repubblica il 23 agosto 1982. Il sogno di un Libano riappacificato si spense poche settimane dopo, quando il Presidente fu vittima di un attentato nel suo ufficio ad Ashrafiyyeh, quartiere cristia- sta idea e preservare la presenza sovrana e libera della comunità cristiana in questo paese, attraverso la via democratica. A tal proposito, sul nostro cammino incontriamo numerose difficoltà e ostacoli, e vi sono gruppi e movimenti che invece non credono nella libertà e nella democrazia in Libano, due valori fondamentali su cui i cristiani del Medioriente, e del Libano in particolare, basano il loro messaggio. Ma come stiamo vedendo in questi giorni, gran parte dei regimi arabi opprimono le libertà e la democrazia, e noi come cristiani orientali oggi ci sentiamo minacciati direttamente dalle correnti antiliberali e antidemocratiche. no di Beirut. Ed è proprio da questo quartiere che Nadim, anni fa, ha iniziato la sua attività politica. Laureato in Giurisprudenza e responsabile della “Gemayel Foundation”, Nadim è stato eletto due anni fa a Beirut deputato nel Parlamento libanese con il partito “Kataeb”, di cui è vicepresidente. Lo abbiamo incontrato a Roma, in occasione della festività di San Maron, mentre in Libano tornano le manifestazioni di piazza. L’on. Gemayel, membro del Fronte 14 Marzo, evidenzia il delicato momento storico in Medioriente, ma si dice ottimista per il futuro. Che significa essere figlio di Bashir Gemayel? Innanzitutto mi presento. Sono Nadim Gemayel, deputato nel Parlamento Libanese. Sono stato eletto a Beirut, e attualmente sono il deputato più giovane del Parlamento. Sono figlio di Bashir Gemayel. Mio padre ha offerto il suo estremo sacrificio affinché rimanesse intatta la presenza e il ruolo della libera comunità cristiana in Medioriente e in particolare in Libano. Noi oggi abbiamo il dovere morale di portare avanti que- Quanto sono influenti le idee di suo padre sul suo pensiero politico? La sorgente del mio pensiero nasce dalle idee di mio padre, dal clima in cui egli visse, dalla sua vita, dal suo sogno libanese.Tuttavia, oggi la situazione è diversa rispetto a 30 anni fa. Noi dobbiamo cercare di preservare ciò che abbiamo conquistato in tutti questi anni, e allo stesso tempo sviluppare le nostre attività e portare avanti la nostra causa per la libertà e la democrazia. Proprio oggi vediamo che la maggior parte delle popolazioni arabe musulmane stanno facendo loro la causa di libertà e democrazia a cui noi iniziammo a fare appello decine di anni fa. Parliamo della delicata situazione politica in Libano? La situazione politica in Libano oggi è estremamente pericolosa, e non solo per i cristiani. I cristiani portano avanti una causa basata sulla libertà, la democrazia e la sicurezza in tutto il Medioriente; ma ad essere in pericolo è l’intero sistema istituzionale libanese e i valori che ho appena menzionato. La fonte di questo pericolo sta nell’asse formato dai regimi in Siria e Iran, che in Libano è rappresentato da Hezbollah, che sta cercando di imporre, anche con la forza, la sua opinione e la sua cultura al sistema libanese, alla libertà e alla H Prossima fermata Beirut Nadim Gemayel lancia l’allarme: «La primavera araba in corso rischia di gettare il Libano in un inverno provocato dall’odio del fondamentalismo islamico» di Bernard Selwan El Khoury democrazia di cui il Libano godeva. La loro è una cultura di occupazione, di oppressione e di carattere dittatoriale. Quando parlo di “occupazione” mi riferisco a un’occupazione delle idee e della mente, tramite cui Hezbollah sta tentando oggi di imporre le sue idee al clima liberale e democratico libanese, per fare di questo Paese una succursale del regime siriano e dell’Iran, una base militare facente capo al regime iraniano che si affaccia sul Mediterraneo. Questa è la realtà vissuta dai libanesi in Libano. Nelle elezioni parlamentari del 2005 e del 2009, noi del Fronte 14 Marzo abbiamo ottenuto la maggioranza. Oggi, con l’imposizione della forza delle armi, e con i suoi metodi intimidatori e “terroristici”, Hezbollah è riuscito a ribaltare la situazione. Per ora non riusciranno a formare un governo monocolore in quanto sanno che qualsiasi assetto governativo di questo tipo non troverà il riconoscimento dell’Occidente, che considererà un governo “Hezbollah” un “governo terroristico”. Per questo, ripeto, in Libano stiamo vivendo in una situazione estremamente delicata. E il nostro timore non è soltanto che Hezbollah dia vita a un regime totalitario, ma che possa dare impulso al macropiano iraniano di islamizzare la re- prima pagina gione ed esportare lo spirito della Rivoluzione Islamica. Sono trascorsi circa 30 anni dalla nascita di Hezbollah: nel manifesto originale si parlava di Stato Islamico. Come libanese e come politico, crede veramente che ancora oggi la priorità di Hezbollah sia quella? Questo è uno dei progetti di Hezbollah. Non dimentichiamo che Hezbollah considera se stesso un rappresentante della Velayat-e-Faqih in Libano. La fonte e la legittimazione del potere di Hezbollah nascono proprio dal concetto della Velayat-e-Faqih, vale a dire dall’autorità religiosa sciita iraniana di ispirazione khomeinista. In questo senso, Hezbollah fa direttamente capo alla Rivoluzione Islamica iraniana, e il suo segretario generale, Hassan Nasrallah, ha come principale riferimento quello degli Imam iraniani. Hezbollah non può riconoscere e difatti non riconosce il Libano come Stato, entro i suoi confini territoriali. In questo senso, il Libano è la base da cui partire per diffondere nel Vicino Oriente la Velayat-e-Faqih, passando attraverso il sostegno alle minoranze sciite e la “conversione” allo sciismo, due fattori che trovano riscontro nella realtà. Data la sua forza, è possibile che Hezbollah disarmi oggi? Io credo fortemente che nella vita molte cose che si credono impossibili poi si realizzano. Ci vuole soprattutto forza di volontà. I siriani hanno occupato il nostro Paese per 30 anni, e nessuno avrebbe mai immaginato che nel 2005 si sarebbero ritirati. Il regime non è riuscito a far fronte a questa forza di volontà. Ciò che noi chiediamo oggi è che il popolo mantenga e consolidi questa sua forza di volontà, e che tutti vedano chiaramente la minaccia rappresentata dal progetto dell’asse Siria-Iran-Hezbollah non soltanto per il Libano e la regione ma anche per l’Occidente e i suoi valori. Io credo che questa forza di volontà, così come sta facendo cadere i regimi dittatoriali nel mondo arabo, possa far ca- dere i regimi in Siria e Iran, e permettere un disarmo di Hezbollah. Tuttavia, metà della comunità cristiana libanese è schierata a favore di Hezbollah. Metà dei cristiani libanesi sono schierati dalla parte di un uomo politico che si è alleato con Hezbollah e Siria soltanto per ottenere vantaggi personali: acquisire potere e arrivare così alla Presiden- “ Il pericolo per il Paese sta nell’asse formato da Siria e Iran, che da noi è rappresentato da Hezbollah. Cerca di imporre, con la forza, opinioni e cultura ” za della Repubblica, anche se questo significa rinnegare la sua causa e i suoi valori. Bisogna recuperare la cultura tradizionale libanese e i suoi valori, basati sul pluralismo politico, sulla democrazia e sulla libertà, ed è questa la piazza comune in cui tutti i cristiani libanesi devono incontrarsi. Riguardo al mondo arabo in generale, abbiamo assistito alle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto e stiamo assistendo alle proteste in Libia, Bahrein, Yemen. Secondo lei, che impatto possono avere sul Libano questi avvenimenti? Innanzitutto bisogna dire che quanto è accaduto e sta accadendo in questi Paesi è un fatto estremamente importante e positivo. Oggi, i popoli ma soprattutto i regimi arabi hanno preso coscienza del fatto che nessuno può pretendere di detenere un potere assoluto per 20 o 30 anni, ed esercitarlo in modo oppressivo e non democratico, continuando a credere di avere il popolo dalla sua parte. Oggi, il popolo arabo sta vivendo un risveglio all’insegna della libertà, la democrazia e il pluralismo politico, e si tratta di un evento storico di massima rilevanza. Credo che da oggi in poi nessun regime potrà credere di poter governare il suo popolo con l’oppressione e la repressione senza poi aspettarsi una reazione.Ovviamente, questa ondata influenzerà anche il Libano, vedremo se in senso negativo o positivo.Tuttavia, se queste rivoluzioni genereranno maggiore libertà e democrazia, il Libano non potrà che trarne vantaggio. E riguardo alla Siria? Oggi, dopo 30 anni di potere, Hosni Mubarak è stato deposto dal popolo. Così come il regime siriano, anche quello egiziano stava cercando di passare il potere al suo figlio Gamal. Il regime siriano è stato il primo regime ad aver sperimentato questa esperienza. Come gli altri regimi che sono caduti e che cadranno, anche quello siriano è basato su una politica oppressiva e repressiva, e dunque vi è la concreta possibilità che possa seguire il destino degli altri regimi arabi. Se ciò dovesse accadere, avrebbe forti ripercussioni anche in Libano. Primo di tutto, diminuirà la pressione siriana sul Libano e nel caso i sunniti dovessero prendere il potere in Siria, ciò potrebbe rafforzare la posizione della classe politica sunnita all’interno del Libano. E questo indebolirà Hezbollah? Certo. Ad ogni modo, anche se il regime siriano non dovesse cadere ora, Hezbollah sarà indebolito dalle rivolte dei cittadini che in Iran manifestano contro il regime e chiedono democrazia. Vi è secondo lei il rischio che queste rivolte possano prendere una deriva islamista? Io, sinceramente, non sono preoccupato dall’eventualità che al potere possano arrivare partiti islamici, per un semplice motivo: il popolo che oggi è riuscito a opporsi a regimi totalitari e oppressivi è in grado di far fronte anche a eventuali regimi di tipo confessionale. Dunque il problema non è nella religione ma nel carattere oppressivo o meno del regime. Il popolo sta chiedendo maggiore libertà e apertura, e se la sua volontà è quella di essere rappresentato da un partito religioso, questa sarebbe l’espressione della democrazia. Nel mondo arabo vi sono regimi in cui la religione ha un ruolo centrale, ma non per questo sono chiusi al mondo esterno o limitano la libertà. Oggi c’è bisogno di Paesi che abbiano un’apertura che gli permetta di interfacciarsi con l’Occidente e l’Oriente, così da poter essere partner e attori primari nelle dinamiche regionali. Come vede i prossimi mesi? L’intera regione si troverà ad attraversa- In alto da sinistra: un check point sulla Blue Line; una manifestazione ; un’immagine di “Valzer con Bashir”; Nadim Gemayel; un soldato; giovani festeggiano la cacciata siriana; il patriarca Sfeir; sostenitori di Nasrallah; Bashir Gemayel, l’ex presidente ucciso 9 marzo 2011 • pagina 7 re una fase di grande instabilità e rivolte, e questo accadrà anche in Libano. Ma superata questa fase, da qui a 5 anni, credo che anche in Libano vi sarà maggiore stabilità, soprattutto se verranno disarmate le milizie illegali. Il nostro progetto per il Libano è quello di tornare a farne un centro di attrazione per l’intera regione, dal punto di vista economico, commerciale, bancario e turistico. Vogliamo che il Libano torni ad essere la “perla del Medioriente”, un paese all’avanguardia dal punto di vista culturale. Questo è il nostro sogno, che in parte è stato già realizzato e sono certo riusciremo a portare a termine. Questo è il sogno di tutti gli schieramenti politici in Libano? Questo è il sogno di ogni libanese.. Di tutti i libanesi? Di tutti i libanesi che credono nel Libano, non certo di coloro che conducono il Libano verso guerre e distruzioni. I veri libanesi, al di là del colore politico o confessionale, credono nella stabilità, nella sovranità, nella libertà, nella pace e nell’apertura verso l’Occidente e l’Oriente. Il problema di Hezbollah dunque è rappresentato soltanto dalle sue armi? Se dovesse disarmare, sarebbe un soggetto politico come gli altri? “ Oggi i popoli dell’area hanno preso coscienza del fatto che nessuno può pretendere di detenere un potere assoluto per 20 o 30 anni ed esercitarlo in modo oppressivo e non democratico ” È proprio questo che noi chiediamo. Hezbollah è libero di avere le sue idee politiche e le sue opinioni, che dovrà discutere attraverso i mezzi democratici, nel Parlamento libanese, e non con la pressione delle armi. Nessuno, in un paese democratico e in un periodo di pace, può imporre la sua opinione con le armi, oltretutto illegali e giustificate come un mezzo di difesa da eventuali nemici. il paginone pagina 8 • 9 marzo 2011 Il fine supremo è quello di tutelare la vita fino alla morte naturale: quindi diciamo segue dalla prima La Corte non si è pronunciata con sentenza su di un caso sottoposto al suo esame. Essa ha piuttosto enunciato un principio generale autorizzando, in via preventiva, la interruzione di trattamenti di sostegno vitale somministrati ad una giovane donna che, di conseguenza, è morta. Se un vuoto legislativo esiste, allora deve riempirlo, secondo la Costituzione, non il potere giudiziario ma il potere legislativo. Di qui la necessità della legge che stiamo discutendo. Secondo la nostra Costituzione e la teoria generale del diritto, il Parlamento formula le leggi, che sono norme generali ed astratte. I giudici formulano la norma del caso, che è sempre particolare e concreta. Certo, grande e fondamentale è il ruolo della interpretazione delle leggi. La interpretazione, però, non può mai sostituirsi al legislatore. Ma, si potrebbe argomentare, si presentano talvolta al giudice casi pietosi nei quali il sentimento di umanità può spingere ad andare oltre la legge esistente. Anche in questi casi l’ordinamento offre al giudice tutti i mezzi necessari per adattare la sua pronuncia alla specificità del caso. Davanti all’omicidio per pietà commesso da un familiare nella convinzione di abbreviare le sofferenze di una persona cara il giudice può, se davvero la situazione lo richiede, prosciogliere l’imputato per incapacità di intendere e di volere a causa dello stress provocato dalla situazione di dolore insostenibile. Lo stato può, e talvolta deve, astenersi dal giudicare. Davanti ad un caso del genere Gesù, chiamato ad esercitare la funzione di giudice, si è astenuto dal giudicare, non ha però cambiato la legge per affermare che ciò che è bene è male e viceversa. Sgomberiamo dunque il campo dal richiamo ai cosiddetti “casi pietosi”. Ad essi l’ordinamento provvede nel momento in cui si giudicano le circostanze dell’azione. Le circostanze possono diminuire o anche addirittura annullare la responsabilità per l’azione ma non possono determinare un cambiamento della natura dell’azione. Il pronunciamento della Cassazione non aveva questa natura, stabiliva una massima di carattere generale, affermava non la non punibilità ma la liceità di un comportamento. Di qui la necessità di un intervento legislativo. Quale è la finalità di questa legge? Essa vuole assicurare il diritto dell’uomo alla vita dal suo inizio fino alla morte naturale. Questo diritto deve essere riaffermato in una condizione sociale mutata. La rivoluzione della scienza medica rende oggi possibile il prolungare indefinitamente il tempo della agonia. Macchine sempre più perfezionate consentono di allontanare il tempo della morte pur senza poterla evitare. È giusto usare Contro il Far West La legge sul “testamento biologico” scongiura che la dolce-morte diventi un fenomeno gestito soltanto dalla magistratura di Rocco Buttiglione queste macchine fino a che esiste una speranza di guarigione. Quando tale speranza viene meno è giusto spegnere le macchine e lasciare che la natura segua il suo corso. È, questo, un principio facile da enunciare ma non altrettanto facile da mettere in pratica. Per un aspetto è una decisione del medico. Per un altro, però, è una decisione del paziente. È giusto che il paziente possa decidere in una situazione che lo tocca così da vicino. D’altro canto il medico non è un semplice esecutore privo di una coscienza propria che gli dice cosa è bene e cosa è male e non può mai essere tenuto a fare qualcosa diritto di rifiutare un trattamento, ma non quello di imporre un trattamento di sua scelta. Ha il diritto di dire di no. Decide il dialogo fra medico e paziente, tale dialogo però si svolge all’interno del limite che abbiamo definito. Che accade però nel caso in cui il paziente non sia in grado di esprimere un valido atto di volontà? Deve valere la volontà del paziente e per questo sono opportune le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento.Tale volontà, però, per le ragioni dette prima, non può valere in modo assoluto ed incondizionato. Vale la volontà del paziente nella misura in cui ciò che essa chiede è ragionevole e proporzionato. Se Quando sospendiamo le cure straordinarie contro una determinata malattia il paziente muore di quella malattia. Se gli neghiamo l’acqua ed il cibo muore di fame e di sete. Siamo noi ad ucciderlo che giudica contrario alla sua coscienza di uomo ed alla sua etica professionale di medico. Come si risolve questo dilemma? La legge ha trovato, mi sembra, una soluzione equa. Se il paziente è in grado di esprimere la sua volontà il medico non può imporgli alcun trattamento sanitario che il paziente rifiuti. D’altro canto il paziente non può imporre al medico di somministrargli trattamenti che il medico in scienza e coscienza giudichi dannosi. Il paziente ha il chiedo, per esempio, di interrompere le cure quando esse hanno ancora un livello assai elevato di probabilità di successo o quando esse non generano sofferenza questo non è ragionevole. Egualmente non sarebbe ragionevole rifiutare cure non straordinarie ma ordinarie. Le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento intervengono esattamente in questo spazio. Tra l’abbandono terapeutico e l’accani- mento terapeutico esiste uno spazio di decisione legittima in cui il paziente ha il diritto di intervenire e di decidere. Tutti quelli che hanno visto morire una persona amata sanno quanto sia penoso e difficile dire: va bene, è tutto finito, staccate il respiratore. La presenza di Dichiarazioni Anticipate di Trattamento allevia la pena dei familiari e preserva il personale medico da possibili azioni giudiziarie. Questa ultima, difficilissima decisione viene infatti presa con il consenso del paziente e su suo mandato. Lediamo un diritto del paziente se rifiutiamo di dare alle sue dichiarazioni una validità incondizionata? Non sembra. La convenzione di Oviedo, che ho sentito spesso citare in modo inesatto, chiede che si tenga conto delle volontà espresse dal paziente. Non sfugge a nessuno la differenza che esiste fra il tenere conto ed il dare esecuzione incondizionata. Anche l’art. 32 della Costituzione dice sí che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario» ma aggiunge subito «se non per disposizione di legge». Ho visto citare questo articolo innumerevoli volte ma mai nella versione corretta. La Costituzione istituisce una riserva di legge e non una proibizione assoluta. Aggiunge poi, sempre il medesimo art. 32. «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Non è chiaro perché il rifiuto di da- re corso ad una indicazione eutanasica debba essere considerato come contrario alla dignità della persona umana. Per lo meno altrettanto sostenibile la tesi opposta per cui è l’indicazione eutanasica a violare la dignità della persona. Si eviti in questo dibattito di strumentalizzare la Costituzione. Essa nasce da una larga convergenza nel popolo italiano, nella quale i cattolici hanno avuto una parte non secondaria. Se, sul tema decisivo della vita, ci si dicesse che i principi cattolici sono incostituzionali verrebbe meno il legame che lega la Costituzione ad una grande parte del popolo italiano. I cattolici italiani hanno sostenuto con convinzione e senza sbandamenti questa Costituzione ed intendono continuare a farlo. Se però ci si venisse a dire che i nostri principi ed i nostri valori sono incostituzionali allora dovremmo dare ragione a quelli che dicono che la Costituzione va cambiata e che c’è bisogno di un’altra Costituzione. I cattolici italiani possono accettare di essere sconfitti in una libera battaglia democratica. Non possono invece accettare di essere qualificati a priori come cittadini di seconda categoria che stanno, per cosí dire, al di fuori del patto costituzionale. Quando abbiamo detto che il fine della legge è tutelare la vita fino alla morte naturale abbiamo implicitamente affermato un doppio no: no all’accanimento te- il paginone 9 marzo 2011 • pagina 9 o no all’accanimento terapeutico e no all’abbandono terapeutico e alla eutanasia essere di giovamento al paziente. Abbiamo già riconosciuto il diritto del paziente ad essere sottratto all’accanimento terapeutico. Ad un certo punto le cure vengono sospese ed il paziente muore. Questo è il modo in cui con ogni probabilità morirà ciascuno di noi.Talvolta però anche dopo la sospensione delle cure il paziente si rifiuta di morire. Rimane in uno stato di coma prolungato. Che fare in questo caso? Ucciderlo visto che si rifiuta di morire da solo? Esistono forze potenti che spingono in questa direzione. I pazienti costano e se si facessero morire rapidamente quelli che non possono essere recuperati alla vita produttiva certamente i bilanci della sanità ne trarrebbero giovamento. rapeutico e no all’abbandono terapeutico ed alla eutanasia. A me sembra che molte critiche alla legge nascano dal fatto che le si rimprovera di non essere una legge eutanasica. Non lo è e non vuole esserlo.Vorrei chiedere agli avversari di questa legge un esame sereno. Valutate ciò che essa contiene ed approvatela se trovate ragionevole il contenuto, rigettatela se il contenuto vi sembra sbagliato. Non esprimetevi contro solo perché essa non contiene la legalizzazione della eutanasia. Se volete legalizzare la eutanasia proponete voi un’altra legge che lo faccia ma non accanitevi contro questa solo perché non afferma principi eutanasici. Veniamo qui al punto più delicato della legge. Il no alla eutanasia, in questa legge, dipende da due principi. Il primo è quello che condiziona la cogenza delle indicazioni del paziente al principio di ragionevolezza e di proporzionalità. Se il paziente chiedesse di essere ucciso attraverso la omissione di pratiche mediche dovute, a questo desiderio non dovrebbe essere dato corso. Diverso è il caso in cui il paziente chieda la omissione di pratiche mediche non dovute, futili, non necessarie o inutilmente invasive, anche nel caso in cui tale omissione accellerasse la fine della vita del paziente. Il secondo principio è il rifiuto di interrompere la alimentazione ed idratazione artificiali se non nel caso in cui esse non possano più A noi che guardiamo il paziente in coma la sua vista è spesso dolorosissima ed ostacola il nostro tornare ad una vita normale. Noi però riteniamo che questo non sia giusto. Il paziente in coma è un uomo che vive. Non dà segni evidenti di sofferenza. Dopo un anno di coma prolungato è assai improbabile che si risvegli. Talvolta però questo avviene. Non avendo il coraggio di proporre la uccisione diretta del paziente alcuni chiedono che lo si privi dell’alimentazione e della idratazione. A noi sembra che questa proposta non sia accettabile. Quando sospendiamo le cure straordinarie contro una determinata malattia il paziente muore di quella malattia. Se gli neghiamo l’acqua ed il cibo muore di fame e di sete, siamo noi ad ucciderlo. Si può obiettare che noi non imponiamo l’alimentazione artificiale a chi la rifiuta. Non sarebbe giusto, allora, evitare di somministrarla quando il paziente lo chieda nelle sue Dichiarazioni Anticipate di Trattamento? No, perché la rinuncia a trattamenti di sostegno vitale o a terapie salvavita è un atto personalissimo che non si può delegare a nessuno. La ragione sta nel carattere straordinario ed irreversibile di questo atto. Ogni atto di volontà ha luogo in una specifica situazione esistenziale. La situazione nel coma è assai diversa da quella del momento in cui il documento è stato scritto. Un esempio ci aiuta a capire. Prendiamo il caso di un tentato suicidio. Qui la decisione è stata presa poche ore pri- ma ed è stata suggellata non con l’inchiostro ma con il sangue. Tuttavia noi curiamo quelli che tentano il suicidio ed essi per lo più sono contenti di essere salvati. Non è questa una dimostrazione eloquente di come sia fragile e precario il fenomeno della volontà in circostanze di eccezione come cer- tro il dolore derivi la morte del paziente stesso. Questa non è eutanasia e questo emendamento rassicurerebbe molti che pensano di essere a favore della eutanasia ma in realtà vogliono semplicemente essere protetti contro il dolore. Esso potrebbe inoltre introdurre un momento di unità oggi La convenzione di Oviedo, spesso citata in modo inesatto, chiede che si tenga conto delle volontà del paziente. Non sfugge a nessuno la differenza fra il tenere conto ed il dare esecuzione incondizionata tamente è lo stare davanti alla morte? Vi è poi un ulteriore problema pratico. Nella gran parte dei casi si procede alla alimentazione ed idratazione artificiale in un momento in cui le speranze di recupero sono grandi. Nella pratica medica non si tratterebbe di non dare alimentazione ed idratazione ma di interrompere alimentazione ed idratazione in atto provocando non con una omissione ma con una azione diretta la morte del paziente. Per di più c’è da essere preoccupati che la propaganda sconsiderata che si fa su questi temi possa indurre molti giovani a formulare, se ne avranno la possibilità, Dichiarazioni Anticipate di Trattamento con le quali rifiutano l’alimentazione ed idratazione artificiale che, nella grande maggioranza dei casi, porterebbero al loro pieno recupero. Quella di cui stiamo discutendo è una buona legge. Come tutte le cose umane, tuttavia, può essere migliorata ed il mio partito proporrà pochi ma importanti emendamenti. Uno mi sembra particolarmente significativo e tale da potere avere un ampio consenso.Talvolta accade che questa o quella ricerca di opinione affermi che esiste nel nostro Paese una maggioranza a favore della eutanasia. In realtà questa convinzione illusoria deriva da una confusione concettuale. Nessuno di noi desidera morire in mezzo ad atroci sofferenze o, peggio, vedere morire in mezzo ad atroci sofferenze una persona amata. Noi vorremmo scrivere in questa legge che il paziente ha diritto alla protezione contro il dolore anche nel caso in cui come conseguenza non intenzionale ma prevedibile dalla terapia con- più che mai necessario nel Parlamento e nel Paese.Se si apre uno spiraglio alla eutanasia con questa legge presto inizierà la pressione perché questo spiraglio venga allargato e per fare della eutanasia un fenomeno di massa. C’è un film bellissimo in Germania che illustra un tipico “caso pietoso”. Un medico uccide per pietà la moglie affetta da una malattia terribile ed incurabile. Alla fine però non chiede umana comprensione e perdono, vuole invece affermare di avere fatto la cosa giusta e chiede che la legge lo riconosca. Quel film iniziò nella Germania degli anni 30 la campagna nazista a favore della eutanasia. Una volta affermato il principio esso rapidamente dilagò ed assunse dimensioni di massa. Alla fine qualche centinaio di migliaia di innocenti furono privati della vita e non ci si scomodò troppo per chiedere il loro consenso. Dire no alla eutanasia però non è sufficiente. C’è una potenziale domanda di massa di eutanasia che deriva da una condizione anziana che diventa sempre più invivibile. Molti anziani vivono isolati, hanno perso la connessione viva con le loro famiglie, sono depressi perchè convinti che la loro vita non sia importante per nessuno e non porti gioia a nessuno. È urgente sviluppare una politica di sostegno alla condizione anziana come parte integrante di una più generale politica della famiglia. Sarebbe ipocrita dire no alla eutanasia e poi lasciare il paziente terminale ed in generale l’anziano in una condizione di alienazione e di abbandono. Napolitano denuncia la condizione delle donne in Italia. Siamo al settantaquattresimo posto su 128 Paesi per uguaglianza di genere Il presidente rosa «È necessario incidere oggi sulla concezione del ruolo femminile e su un’immagine consumistica che la riduce da soggetto a oggetto» di Riccardo Paradisi necessaria un’opera di rinnovamento morale alla quale le donne di oggi, come quelle di ieri, sono chiamate a dare un contributo fondamentale». Giorgio Napolitano come obbliga il suo ruolo istituzionale vola molto alto nel suo discorso alla cerimonia per la giornata internazionale della donna che s’è tenuta al Quirinale, ma chi vuole intendere intende bene come sia preciso e tagliente il suo riferimento all’immoralità pubblica dilagante sulla scena italiana. Non solo politica ma anche mediatica. «È Il capo dello Stato parla infatti di ”una rilevante responsabilità”nel contrastare l immagine della donna come oggetto da parte dei mezzi di comunicazione e di «quanti hanno ruoli preminenti in tutti gli ambiti e nelle professioni».Insomma una reprimenda a 360 gradi che si traduce in un appello rivolto alle donne perché reagiscano: «Alle donne in particolare – dice infatti il presidente – tocca offrire validi modelli di comportamento. Per raggiungere una parità sostanziale – secondo il presidente – è infatti necessario incidere essenzialmente sulla cultura diffusa, sulla concezione del ruolo della donna, sugli squilibri persistenti e capillari nelle relazioni tra i generi su un’immagine consumistica che la riduce da soggetto a oggetto, propiziando comportamenti aggressivi che arrivano fino al delitto». Sul compito di incidere, gramscianamente sulla cultura diffusa, Napolitano insiste: «il progresso femminile – dice – non si deve solo a figure professionalmente eccezionali, ma anche e molto a persone normali che hanno infranto barriere, consuetudini stantie, a donne coraggiose che hanno distrutto vergognosi privilegi maschili». A rappresentare le istituzioni durante la cerimonia del Quirinale i vicepresidenti di Senato e Camera, Rosi Mauro e Rosy Bindi, e le ministre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini a loro e a chi lo ascolta Napolitano indica il modello di una donna che ”non è entrata nei libri di storia” ma la storia del suo Paese l’ha fatta. Si tratta di Franca Viola che «nel 1966 rifiutò di concedere il matrimo- nio riparatore al giovane mafioso che l’aveva rapita e violentata». Aggiunge il presidente: «Il suo comportamento contribuì a determinare la revisione della norma e conferì alla parola onore il significato che deve avere, cioè rispetto di sé, rispetto da parte degli altri». Insomma, «è evidente che le donne stesse devono agire da protagoniste nel condurre fino in fondo la marcia verso la parità. Ma gli uomini non sono esentati dal dovere di comportarsi come loro validi e solidali compagni». Così come «le lotte per la libertà politica non sono esclusiva dei dissidenti, quelle per la tolleranza non toccano solo le minoranze». Il presidente della Repubblica sottolinea quindi che proprio questa marcia verso la parità tra uomo e donna «deve essere una causa comune che coinvolga chi assuma come propri i valori democratici». Ne con- segue che «l’ulteriore cammino verso la parità di genere non può non essere parte di una generale ripresa di valori civili». Nota poi con soddisfazione Napolitano che «Quest’anno, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ci si sta giustamente adoperando anche per valorizzare la partecipazione femminile al percorso risorgimentale e per rendere onore al contributo venuto dall’universo femminile all’avanzamento generale della società nazionale». Eppure se nell’ultimo mezzo secolo si sono fatti passi da gigante sulla via dell’emancipazione «Le donne italiane – nota amaramente Napolitano – sono ancora lontane dall’aver conquistato la parità in molti campi». Il capo dello Stato ricorda come il divario di genere, che risulta anche dai rapporti internazionali, «si registri nella rappresentanza politica, nei media, ancora in qualche carriera pubblica, nella conduzione delle imprese». Più in generale, aggiunge Napolitano, si trovano «divario e strozzature che pesano società 9 marzo 2011 • pagina 11 «Ora faccio politica perché vinca la dignità» Maria Raciti aderisce ai Circoli liberal e all’Udc: «Qui a Catania non mi fanno nemmeno parlare nelle scuole» ROMA. C’è un coraggio che deve farsi sfrontatezza. Al Sud più che altrove. Mettersi in gioco, sfidare il pregiudizio, la cultura omertosa con cui la mafia avvelena i giovani, è difficile per chiunque. Figurarsi per una donna, figurarsi per una donna «vedova di uno sbirro ammazzato a Catania». Perché negli occhi allo stesso tempo tristi e illuminati da genuina speranza di Marisa Grasso c’è tutta questa consapevolezza: «Sono la vedova di Filippo Raciti, cioè di un poliziotto. Ho raccontato la mia storia, il mio desiderio di impegnarmi per gli altri, in tutte le scuole d’Italia. A tutti ho parlato di legalità, di prevenzione non solo negli stadi. Centinaia di ragazzi mi hanno ascoltato. Tutti, ma non a Catania. Lì resto appunto la vedova di uno sbirro». Filippo Raciti è morto negli scontri scoppiati durante un Catania-Palermo di quattro anni fa, il 2 febbraio 2007, eppure la città ancora non riesce a farci i conti, con quella tragedia. Lei però non aspetta. Sfida la diffidenza che la circonda nella città che piange più per la condanna a quattordici anni di Antonio Speziale che per suo marito. «Voglio far cominciare proprio da qui il mio impegno nella vita pubblica». Marisa Grasso aderisce ai Circoli liberal, e attraverso questi «alla scommessa del presidente Casini». Lo annuncia l’8 marzo, come è giusto per una donna del Sud che vuole sottrarsi all’effigie già scolpita da altri. Dopo la forza per reagire al dolore le resta davvero ancora la forza per lottare nella società? È talmente grande il dolore che dovevo trovare una strada per dargli un senso. Ho pensato che un modo potesse essere proprio questo: impegnarmi perché un dolore come quello che vivo io non debba capitare ad altri, ad altre famiglie. Mi spinge quel velo di tristezza che vedo sempre negli occhi dei miei figli. È appena partito uno dei processi d’appello per l’omicidio di suo marito: alla prima udienza sua figlia Fabiana ha chiesto giustizia, in lacrime. nell’accesso al mercato del lavoro». Per il presidente della Repubblica di questa situazione «ne soffrono soprattutto le ragazze, le giovani in cerca di occupazione che vedono sacrificate tante energie e potenzialità». Nel corso della cerimonia, Napolitano ha anche nominato Franca Valeri Cavaliere di Gran Croce, 93 anni, la più longeva attrice del cinema e del teatro italiano, una delle più amate. Motivazione: «La sua maestria e ironia» nel dipingere, durante la lunghissima carriera, un’infinità di ritratti femminili, mai volgari, mai banali. Un allarme quello di Napolitano supportato dai dati forniti dal World Economic Forum dove l’Italia è al 74imo posto su di Errico Novi Non è una questione di perdono o non perdono, vorrei si capisse. In questi quattro anni trascorsi dalla morte di Filippo spesso mi sono chiesta: visto che sono stati dei giovani, dei ragazzi a colpirlo, come devo rispondere? Ho pensato: devo comportarmi da sorella maggiore. Parlare con i giovani. L’ho fatto nelle scuole di tutta Italia, appunto. Tranne a Catania, dove finora non me l’hanno permesso. Mi dicono che non ci sono le condizioni. Ciononostante lei adesso, impegnandosi in politica, lancia una sfida al rialzo contro questa diffidenza. Ripeto: dovevo dare un senso a qualcosa che non ne aveva. Ho trovato questo senso in una spinta in positivo da offrire agli altri. Difficile altrimenti reagire a un atto assurdo. Nella follia costata la vita a suo marito Filippo c’è anche un rifiuto verso lo Stato? Mi chiedo: come può esistere una repubblica democratica, una repubblica “ Dovevo dare un senso al mio dolore, l’ho trovato impegnandomi nel difendere gli stessi valori per i quali è morto mio marito Filippo ” fondata sul lavoro, se non si ha rispetto per il lavoro delle persone in divisa? E qui, in Sicilia, è più difficile: io qui sarò sempre e comunque la vedova di uno sbirro ammazzato. Ci sono colpe dello Stato dietro la follia dei giovani assassini di Filippo? I ragazzi non hanno esempi che insegnino cosa sia il valore, la dignità, il rispetto. E in Sicilia bisogna lottare anche contro il linguaggio mafioso. Che è omertà non solo dei criminali, ma anche di chi non prende una posizione. 128 Paesi per uguaglianza di genere. Le donne italiane continuano infatti ad essere discriminate nel lavoro, sono sottooccupate e sotto-pagate, e per molte donne la sola prospettiva di una possibile gravidanza è un grave handicap nell’ottenimento di un impiego. Di chi assiste inerte al maltrattamento di altri. Di chi ha responsabilità e non fa nulla. Cosa teme di più? Mi ferisce per esempio il comportamento del comune di Catania: eravamo in attesa che a Filippo venisse intitolata una strada, un aeroporto, una scuola. Gli hanno dato uno slargo, un posto dove non ho nemmeno il coraggio di portare mio figlio Alessio. Non mi va che veda cosa ha dato la città in cambio della vita di suo padre. Sceglie l’8 marzo per mettersi in gioco: per una donna del Sud c’è sempre un muro in più da abbattere. Sapevo cosa poteva aspettarmi da quando decisi di sposare Filippo: avrei dovuto essere responsabile in tutto e per tutto, sapevo che lui c’era e non c’era. Diventata la vedova Raciti la difficoltà si è moltiplicata. Ne ho vissuto le conseguenze nel mio lavoro, nel mio ambiente circoscritto. Diffidenza? Sono la vedova di uno sbirro e tento di difendermi con la dignità, l’educazione. Andarsene sarebbe stata una sconfitta non solo per me. Tento di rispondere impegnandomi affinché le cose cambino. Lei è un modello di donna alternativo, di questi tempi. Le donne a volte trovano più facile cambiare ruolo e ridursi a oggetto di desiderio. Preferiscono non lottare per altri obiettivi, non cercare di essere un esempio di dignità per i propri figli. Eppure la donna ha un ruolo decisivo, tutte dovrebbero esserne consapevoli. Dal concepimento alla crescita dei figli, ci facciamo carico di una funzione che è solo nostra. C’è però chi trova più co- lenzio quasi di rassegnazione. Il quadro non migliora se ad essere presi in considerazione sono i dati dell’Istat. Fra i giovani che non studiano né lavorano (i cosiddetti Neet) fenomeno preoccupante che s’è affacciato modo sottrarsi a questa responsabilità. Eppure io che me le assumo, a volte ho l’impressione di diventare un capro espiatorio persino per altre donne, per quelle che le famiglie le distruggono. I suoi sono i valori di un cattolico impegnato. Faccio catechismo ai ragazzi. Cerco di dimostrare che il rispetto verso se stessi va sempre difeso. Capisco che ci sono valori più a portata di mano: il benessere economico facilmente prevale sui valori della persona. Eppure non immagino gioia più grande, più vera, che ottenere un risultato utile per sé e per gli altri dopo aver sacrificato qualcosa. Lei è riuscita a perdonare? Riesco a comprendere. Capisco che ai ragazzi, anche a chi ha provocato la morte di Filippo, mancano esempi. Manca una cultura positiva. Mio marito ha indossato la divisa con onore e con onestà. Si è esposto al rischio della morte non certo per quello che gli pagavano, ma per quello in cui ha creduto. L’Italia deve essere orgogliosa di aver avuto tra i suoi servitori un uomo come mio marito. L’Italia merita un servitore come Filippo? Mi sono spesso chiesta: bisognava aspettare che lui morisse? Non erano anni che dopo ogni Palermo-Catania si contavano i feriti, le milze spappolate? La prevenzione è una via migliore della repressione, ma la prevenzione dovrebbe essere soprattutto far comprendere il valore della legalità a chi non riesce a recepirlo. Non la spaventa fare politica a Catania da vedova di uno sbirro? No.Voglio mettere un impegno costruttivo a disposizione degli altri. È bello donarsi nel posto in cui ho visto i miei figli privati dell’amore di mio marito. rispetto al tempo libero. In percentuale, le giovani che non studiano e non lavorano sono il 29,9%, un valore piú alto di quello maschile (22,9%). Il livello è molto elevato tra le giovani con basso titolo di studio Alle giovani donne spetta il primato negativo della disoccupazione (con punte del 53,7% al Sud) come dell’impegno nel lavoro familiare rispetto al tempo libero In politica, la partecipazione femminile continua ad essere bassa e nel mondo della cultura le donne continuano a giocare un ruolo troppo limitato e ciò che è peggio è che in prospettiva, nulla consente di immaginare che l’immediato futuro riservi novità positive sul terreno dell’eguaglianza di genere, mentre sul fronte dell’associazionismo femminile si percepisce un si- sulla scena italiana negli ultimi anni prevalgono ancora le donne: si tratta di 1 milione 153 mila nella classe di età 18-29 anni. E sempre alle giovani donne spetta il primato negativo della disoccupazione (con punte del 53,7% al sud) come anche dell’impegno nel lavoro familiare (43,8%), ma si mantiene intorno a un quarto per le diplomate e le laureate. Il tasso di disoccupazione femminile, fra i 18-29 anni, poi è al 21,1% contro il 18,4% di quello maschile. Il divario tra i due generi si accentua inoltre tra i giovani che hanno una famiglia propria: in questo caso, la durata del lavoro familiare è pari a 5 ore e 47 minuti per le donne, contro 1 ora e 53 dei coetanei maschi; a ció va aggiunto che le donne svolgono almeno un’attività di lavoro familiare nel 98,6% dei casi, a fronte del 52% dei coetanei. Eppure malgrado gli svantaggi oggettivi sembra indomita nelle donne più che negli uomini la voglia d’indipendenza: è vero che la maggior parte delle giovani donne vive ancora con i genitori ma in minoranza rispetto ai maschi. Un segnale questo positivo e che malgrado tutto indica un alto grado di combattività delle donne italiane. diario pagina 12 • 9 marzo 2011 ’Ndrangheta, 41 arresti in 4 Stati REGGIO CALABRIA. I carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria e il Ros, e la squadra mobile della questura di Reggio Calabria hanno eseguito 41 ordinanze di custodia cautelare in Italia, Germania, Canada e Australia di soggetti ritenuti appartenenti alle cosche della ’ndrangheta. L’operazione «Il Crimine 2» segue la prima tranche dello scorso mese di agosto, quando finirono in manette trecento persone tra la Calabria e il Nord d’Italia, in particolare in Lombardia, ma anche all’estero dove sarebbe stato replicato il modello organizzativo calabrese da parte di quelle articolazioni che risultano dipendenti dai vertici decisionali del territorio reggino. Stalking, molestata per 9 anni dall’ex Italia-Serbia: Ivan condannato a 3 anni ROMA. Gli agenti del Commissariato Esposizione hanno arrestato l’ex compagno di una donna che era stata vittima di atti persecutori per nove anni. Nel 2003 infatti un uomo, conosciuto per motivi di lavoro, aveva iniziato ad infastidirla e a perseguitarla attraverso lettere e telefonate anonime indirizzate anche ai suoi parenti, amici, colleghi e vicini di casa, rendendole la vita impossibile. Disperata, la signora, di origini toscane, si era rivolta agli agenti del commissariato Esposizione, diretti da Giuseppe Piervirgili, che hanno aperto le indagini. Per inchiodarlo, gli investigatori hanno effettuato appostamenti lungo tutta l’area, in attesa di coglierlo in flagrante. Qualche giorno fa il cerchio si è finalmente chiuso. ROMA. Condannato a tre anni e tre mesi di carcere Ivan Bogdanov, uno dei quattro tifosi serbi processati ieri con rito abbreviato al Tribunale di Genova per gli incidenti del 12 ottobre scorso allo stadio Marassi in occasione della partita Italia-Serbia, sospesa per disordini. Il giudice per l’udienza preliminare, Annalisa Giacalone, ha anche condannato Daniel Janjic a due anni e otto mesi, Nicola Klicovic a tre anni e Srdan Jovetic a due anni e sei mesi. A tutti sono state concesse le attenuanti generiche. Riccardo Dirella, difensore dei quattro ultra serbi condannati ieri, ha subito criticato la condanna. «Sono dentro da cinque mesi e se non fossero serbi sarebbero già usciti». I dati di palazzo Koch evidenziano un aumento dei mutui che metterà in ginocchio il ceto medio e il piccolo artigianato I conti in banca fanno crac L’allarme di Bankitalia: sempre più prestiti richiesti e meno soldi di Alessandro D’Amato I prestiti alle famiglie italiane erogati da istituti di credito e bancari non scendono oramai dal dicembre del 2009, quando si erano attestati sul più 3,5 per cento. L’indebidamento pubblico si sposa con un crollo dei depositi che preoccupa la nostra Banca centrale: meno liquidità significa infatti aumento dei prezzi tassi di interesse sui mutui per l’acquisto di abitazioni erogati a gennaio 2011 alle famiglie sono aumentati al 3,36 per cento dal 3,18 per cento di dicembre, mentre quelli sulle nuove operazioni di credito al consumo sono aumentati all’8,78 dall’8,33 per cento di dicembre. Pressoché stabili i tassi passivi sui depositi in essere (0,69 contro 0,70 per cento del mese precedente). È quanto emerge dal supplemento ”Moneta e banche” della Banca d’Italia, che rileva come il tasso di crescita sui dodici mesi dei prestiti al settore privato, corretto per le cartolarizzazioni cancellate dai bilanci bancari, è salito al 4,8 per cento rispetto al 3,6 per cento di dicembre. Il tasso di crescita sui dodici mesi dei prestiti alle società non finanziarie è salito al 4,2 per cento dal 2 per cento del mese precedente mentre è rimasto invariato al 5 per cento l’analogo tasso di crescita per il credito alle famiglie. I I prestiti alle famiglie non scendono ormai da dicembre 2009, quando si erano attestati a +3,5 per cento. Il tasso di crescita sui dodici mesi delle sofferenze - non corretto per le cartolarizzazioni ma tenendo conto delle discontinuità statistiche - rimane sostanzialmente stabile al 30 per cento dal 29,9 per cento di dicembre. I depositi del settore privato - al netto di quelli di controparti centrali e di quelli connessi con operazioni di cartolarizzazione - registrano una variazione negativa (-1,7 per cento su base annua rispetto al -1,2 per cento di dicembre). Il tasso di crescita sui dodici mesi della raccolta obbligazionaria rimane negativo e pari a -1,6 per cento (invariato rispetto a dicembre). Per quanto riguarda i tassi di interesse, a gennaio quelli sui nuovi finanziamenti alle imprese erogati nel mese sono diminuiti di 10 punti base, al 2,69 per cento. La discesa è guidata dai tassi sui prestiti di importo superiore a 1 milio- ne di euro (2,36 per cento rispetto al 2,56 per cento di dicembre), mentre rimangono pressoché stabili i tassi sui prestiti di importo inferiore a tale soglia (3,26 dal 3,24 per cento del mese precedente). Bankitalia ricorda comunque che da giugno, le banche hanno inserito nei prestiti alcune operazioni di cartolarizzazione (cessione di attività o beni di una società attraverso l’emissione ed il collocamento di titoli), e questo può aver aumentato il computo totale e i conteggi finali. Per Adusbef e Federconsumatori, «ancora una volta il sistema bancario fa pagare alle famiglie i costi delle operazioni spregiudicate alle imprese e di allegri finanziamenti erogati senza alcun merito di credito, come dimo- stra l’aumento delle sofferenze bancarie arrivate al 30%». «Mutui e prestiti sono infatti più cari per le famiglie a gennaio - spiegano Lannutti e Trefiletti - mentre gli interessi riconosciuti sui conti correnti si abbassano, con le banche che introducono “un pizzo”di 3 euro, una vera e propria tassa sugli anziani per poter prelevare i propri soldi alla sportello». «Se i prestiti oltre un milione di euro per le società non finanziarie riescono a ridursi dal 2,56% al 2,36%, mentre i tassi sul credito al consumo sono aumentati di quasi mezzo punto dall’8,33% all’ all’8,78% e i mutui aumentano ancor prima dei rialzi dei tassi di riferimento Bce del 7 aprile concludono - vuol dire che la manovra del sistema bancario per far quadrare i conti, è addossata totalmente sulle spalle delle famiglie». Secondo il Codacons, «l’aumento del costo dei mutui è un dato molto preoccupante, specie se si considera che la Bce ha già annunciato un possibile aumento del tasso di riferimento a partire da aprile, cosa che metterebbe in difficoltà con il pagamento delle rate almeno 30.000 famiglie che attualmente riescono a onorare ancora i loro debiti». Di qui la richiesta del Codacons al ministro Tremonti di rivedere immediatamente il Decreto 21 giugno 2010, n. 132, ampliando le condizioni necessarie per poter sospendere il pagamento delle rate, a cominciare da quella di aver avuto un aumento di ra- 9 marzo 2011 • pagina 13 e di cronach Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Yara, controlli su dna di 40 persone L’assassino potrebbe essere donna BERGAMO. È ripartito il giro degli interrogatori a tappeto da parte degli investigatori che indagano sulll’assassinio di Yara Gambirasio. Sono decine le persone che erano già state sentite nelle settimane successive alla scomparsa della ragazza e che vengono convocate di nuovo dalla polizia e carabinieri. E di una quarantina di loro sarebbe già disponibile il Dna, prelevato duranti quegli incontri in modo coattivo, cioè a loro insaputa tramite biccheri, tazze di caffè o sigarette. Non potranno avere valore legale ma potranno servire a indirizzare le indagini una volta arrivata la relazione del medico legale che ha condotto l’autopsia. Per la consegna dovrebbe essere ormai questione di poco tempo, anche se un primo incontro tra l’anatomopatologa Cristina Cattaneo e la pm Letizia Ruggeri, previsto per ieri, è stato rinviato. Nel frattempo nessuno conferma o smentisce le indiscrezioni. Da quelle nei giorni scorsi sul fatto che Yara sia Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) stata uccisa per soffocamento o sull’identikit sull’assassino (un uomo alto 1,75 e sui 73-77 chili) fino alle ipotesi di ieri, secondo le quali, vista la scarsa forza delle coltellate (che, sebbene in grande numero, non sono state fatali) l’omicida potrebbe essere una donna. Ipotesi, questa, che non solo contrasta con i dati dell’identikit, ma fa cadere il movente principale, quello sessuale, e quindi darebbe un indirizzo completamente diverso alle indagini. Da sinistra il Governatore della Banca centrale d’Italia Draghi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza ta mensile di almeno il 20%. «Questi dati - spiega l’associazione dei consumatori - dimostrano che anche il ceto medio italiano ha sempre meno soldi ed è costretto, per far fronte alle spese di tutti i giorni, o ad attingere alle riserve liquide del conto corrente o a indebitarsi. In pratica la crisi non riguarda più solo gli individui poveri, ma anche chi, fino al 2008, occupava una posizione intermedia nella distribuzione della ricchezza, come piccoli commercianti e artigiani». «I dati di Bankitalia confermano l’accelerazione della contrazione del risparmio netto delle famiglie italiane. E l’inevitabile conseguenza dell’elevata disoccupazione, dell’assenza di indennità di disoccupazione per il lavoratori precari, dei tagli ai servizi pubblici, degli aumenti delle tariffe, degli effetti dell’inflazione sul potere d’acquisto», dice invece Stefano Fassina, della segreteria del Partito Democratico, responsabile Economia e Lavoro del Partito democratico. «L’erosione del risparmio e l’aumento del debito delle famiglie -aggiunge- non riesce comunque a evitare la stagflazione che segna l’economia italiana. Il governo ha enormi responsabilità per quanto avviene. È necessario avviare i primi passi di una riforma Irpef a sostegno dei redditi medi e bassi da finanziare con l’innal- Le associazioni dei consumatori e l’opposizione vanno all’attacco: «Il governo distrugge il potere d’acquisto italiano» zamento della tassazione delle rendite. Con il decreto sul fisco municipale - conclude Fassina - Berlusconi, Bossi e Tremonti hanno fatto esattamente il contrario: premiano la rendita e colpiscono i patrimoni artigiani, i commercianti e le imprese«. La Uil chiede invece il taglio delle tasse: per far fronte all’aumento dei tassi sul credito al consumo così come agli aumenti sui mutui «serve un primo passo verso una riforma fiscale che diminuendo le tasse ai lavoratori e alle imprese aumenti il potere d’acquisto», dice il segretario confederale Antonio Foccillo, commentando i dati resi noti da Bankitalia. «Di questo passo - ha affermato Foccillo - come sta già avvenendo, aumen- teranno le richieste di prestiti bancari da parte di famiglie e imprese e diminuiranno i soldi in deposito sui conti correnti. Serve, allora, un primo passo nella direzione di una riforma fiscale che diminuendo le tasse ai lavoratori e alle imprese aumenti il potere d`acquisto e del quale, successivamente, potranno beneficiare i livelli occupazionali e l`insieme della nostra economia». «Sarebbe utile - ha concluso il sindacalista - un maggior controllo dell`andamento dei prezzi dei beni energetici, addizionali comprese, che limiti i possibili effetti di una forte speculazione, suscettibile di impedire al nostro Paese il raggiungimento dei livelli di crescita che si intravedono in Europa». Intanto è notizia di ieri che la nuova tornata di stress test sulle banche europee coinvolgerà 88 istituti di credito, tre in meno della verifica dello scorso anno. L’esame di concentrerà su due scenari: uno di base e uno di shock per il rischio sovrano. Secondo quanto riportato dal Messaggero, i rappresentanti delle cinque banche italiane coinvolte, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Banco Popolare e Ubi, sono stati convocati dalla Banca d’Italia per venerdì prossimo alle 11. Lo scopo dell’incontro sarebbe la definizione dei parametri per svolgere il nuovo test. Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: [email protected] - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30 pagina 14 • 9 marzo 2011 grandangolo Globalizzazione e nuovi servizi d’informazione e sicurezza Le spie? In Borsa! E la Difesa rimane senza armi... L’esperto in strategie militari Carlo Jean e l’economista Paolo Savona spiegano la nuova frontiera dell’interesse nazionale nei tempi delle guerre finanziarie e dei conflitti per le risorse naturali. E come il controspionaggio economico stia diventando fondamentale per ogni Paese del mondo sviluppato (che voglia restare tale) di Pierre Chiartano i tempi della battaglia di Waterloo gli agenti del banchiere de Rothschild facevano la spola attraverso la Manica per avere notizie fresche sugli esiti della battaglia napoleonica. Informazioni da poter sfruttare alla Borsa di Londra. E il giovane rampollo della stirpe di finanzieri tedeschi giocò su di una falsa notizia: Napoleone aveva vinto. Le azioni inglesi crollarono, lui rastrellò il più possibile. Per poi dare la notizia vera. Basterebbe questo episodio per capire quanto sia importante l’intelligence economica. «Per fare una guerra in economia le armi non servono. Avere informazioni altrui, proteggendo le proprie, è sufficiente per ipotecare la vittoria. Per questo, a livello internazionale, l’intelligence economica ha acquisito sempre più importanza nell’apparato statale» spiega a liberal il generale Carlo Jean, già consigliere della presidenza della Repubblica. In Italia, invece, tale consapevolezza pare non si sia ancora affermata, almeno non nella forma che sarebbe auspicabile. L’argomento è il tema di un libro appena pubblicato: Intelligence economica. Uscito per i tipi di Rubettino, Icsa. Dalla fine della guerra fredda è cambiato molto per le barbe finte occidentali. Da un certo punto di vista era più semplice fare analisi sullo sviluppo di sistemi politici. Oggi, l’imprevedibilità delle dinamiche economiche è molto alta. «È molto più difficile fare intelligence economica che quella più classica, quella strategica che si basa sull’analisi della forza», spiega il generale Jean. «Ora per l’Italia, due aree di interesse economico prioritario potrebbero essere la Turchia e la Russia per ovvi motivi legati alla politica energetica», sottolinea il generale. Un lavoro a quattro mani di Jean, presidente del Centro studi di geopolitica economica e con una carriera a cavallo tra mondo militare e accademia, e Paolo Savona, già in Bankitalia, ex ministro dell’Industria e oggi presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi. Per stabilire a che punto si trovi il nostro Paese nel panorama internazionale, Jean e Savona analizzano, tra l’altro, i principali rapporti dei nostri servizi segreti alle istituzioni. Dalla più recente relazione degli 007 per la presidenza del Consiglio dei ministri, relativa al 2009, A È cessata la separazione netta tra guerra e pace ed è tramontata la frattura tra scontri monetari e conflitto militare emerge per esempio che la percentuale degli argomenti trattati inerenti alla sicurezza economica (26,9 per cento) è del tutto simile a quella riguardante la criminalità organizzata e la minaccia eversiva interna. Una percentuale decisamente «inferiore» a quella di altri paesi: l’MI6, i servizi inglesi, dedica il 60 per cento del proprio bilancio a questo settore. I francesi del Dgse la metà del totale. I bilanci di Germania e Giappone sono ignoti, ma «la loro organizzazione è fondata sull’apporto determinante del privato, realizzato con una capillare diffusione della cultura dell’intelligence, unita a una particolare coesione nazionale e a stretti legami esistenti fra banche e imprese». Non è un caso che tuttora in Italia non esista un organismo che si occupi di intelligence economica presso la presidenza del Consiglio. Negli Stati Uniti sono invece attivi il National Economic Council (Nec) e il National Security Council (Nsc). Mentre in Francia il Comité pour la compétitivité et l’intelligence économique ha delegazioni proprie presso ciascun dicastero ed è presente anche a livello regionale. Ed proprio l’esempio francese che «costituisce un modello interessante per l’Italia», secondo gli autori. Per il milita- re e l’economista il concetto di sicurezza economica è sempre stato ed è focalizzato in Italia sugli aspetti difensivi e principalmente riferito a due settori: protezione delle tecnologie, del know-how strategico per la sicurezza nazionale o alleata, contrasto alla criminalità organizzata e al finanziamento del terrorismo. Minore rilievo pare essere attribuito all’intelligence economica «offensiva», cioè quella «destinata ad accrescere la competitività economica nazionale e delle nostre imprese, a favorirne la penetrazione sui mercati esteri, a proteggerle da pratiche sleali (quali la corruzione, la contraffazione, le pressioni politiche degli altri stati a favore delle loro imprese ma a danno di quelle italiane), nonché allo spionaggio e controspionaggio industriali e tecnologici». Non è sorprendente che gli autori abbiano dedicato il libro a Francesco Cossiga, «Maestro di Intelligence», è che nell’economia torneranno a essere decisive le scelte della politica. Non parliamo più dei vecchi strumenti come l’interventismo o la pianificazione. Ma il fattore umano conta ancora, sul campo come a livello di decisori. E che più dei «dettati dell’intelligence economica» peseranno allora «i leader che li applica- 9 marzo 2011 • pagina 15 Il nuovo libro presentato ieri a Roma I conflitti di oggi e il global trade ROMA. no».Tuttora, in Italia, non esiste un organismo autonomo che si occupi di intelligence economica presso la presidenza del Consiglio. Anche se Jean sottolinea i notevoli sforzi fatti sia dal Dipartimento informazioni e sicurezza sia la presidenza del Consiglio dei ministri. Negli Stati Uniti sono invece attivi il National economic council (Nec) e il National security council (Nsc). Mentre in Francia il Comité pour la compétitivité et l’intelligence économique ha delegazioni proprie presso ciascun dicastero ed è presente anche a livello regionale. Proprio l’esempio francese «costituisce un modello interessante per l’Italia», notano gli autori. Jean e Savona osservano pure che «il concetto di sicurezza economica è sempre stato ed è focalizzato in Italia sugli aspetti difensivi» e principalmente riferito a due settori: protezione delle tecnologie, del know-how strategico per la sicurezza nazionale o alleata, contrasto alla criminalità organizzata e al finanziamento del terrorismo. Nell’ambiente dei servizi viene citato spesso un episodio storico antesignano del lavoro di raccolta informazioni che può essere il padre dell’intelligence economica. Mosè, dopo aver attraversato il deserto con 600mila ebrei, aveva mandato i dodici capi delle tribù a esplorare la terra promessa e a sondarne i pericoli e le potenzialità. Nel 1776 il nascente servizio informativo statunitense, il Committee of secret correspondence of the continental congress mandò un agente nell’Europa continentale. Doveva valutare, sotto le mentite spoglie di un commerciante di tabacco, la potenziale concorrenza del prodotto ucraino. Tornò con notizie rassicuranti per i produttori di tabacco americani. Il meglio delle foglie ucraine non poteva competere col peggio della produzione della colonia inglese ora indipendente. Ancora un altro episodio storico. In piena rivoluzione industriale l’Inghilterra deteneva un primato grazie ai segreti delle macchine a vapore che facevano funzionare l’industria tessile.Vi era una legislazione molto restrittiva sui brevetti e sulla possibilità di esportare questa tecnologia. Francis Cabot Lowell si fece ricoverare in una clinica scozzese e cominciò a girare per i vari siti industriali, fingendosi semplicemente una persona affascinata dalla nuova tecnologia. Aveva una memoria prodigiosa e, una volta tornato in America, riuscì a far riprodurre delle copie esatte delle macchine a vapore britanniche. Grazie alla mente fotografica di Lowell gli Stati Uniti riuscirono a far decollare l’industria tessile, grazie alle copie delle macchine inglesi e alle enormi risorse di quel nuovo e immenso Paese. Anche appena conclusa la prima guerra mondiale l’intelligence economi- Enrico Mattei portò a termine operazioni d’intelligence economica molto efficaci. Non scendo nei particolari, perché alcuni aspetti sono ancora riservati. È certo che il lavoro dell’intelligence ha aiutato il nostro Paese a passare da un economia agricola a una industriale». E tanto per restare nella cronaca ricordiamo come Mattei, in contatto con gli americani dai tempi della resistenza, seguì in perfetto accordo con Washington una politica nuova in Nord Africa. «L’economia è diventata una parte fondamentale dei rapporti politici internazionali. Una volta era la forza. Oggi è l’economia e la finanza che in gran parte si è dissociata dalla prima. Diventa più complessa dell’intelligence strategica. Non c’è più un solo avversario, nell’economia sono tutti competitor. Anche l’Italia ha cercato di migliorare il livello professionale degli operatori dell’intelligence. Lo sforzo maggiore è richiesto soprattutto da parte degli analisti». E il nostro paese non è nuovo agli 007 economici. «In particolare quando eravamo una grande potenza, con la costituzione della Società geografica ed economica di Milano, fondata da Carlo Erba e Pirelli. Copriva l’intero Medio Oriente e le zone d’espansione economica italiana». Ma l’intersse nazionale non si difende solamente, va promosso. «E non parliamo solo di spionaggio e controspionaggio, ma anche dell’individuazione delle opportunità per una migliore crescita dell’economia nazionale e del benessere dei cittadini». Insomma il livello di sofisticazione richiesto non può essere raggiunto da chiunque. E per delineare bene i compiti dell’intelligence economica bisognerebbe avere in testa un concetto preciso del ”bene”nazionale. L’Italia sembra però essersi persa un po’ per strada nel corso dell’ultimo mezzo secolo. «Sì, richiede una concezione di sistema Paese e di interesse nazionale, sicuramente delineato. Negli anni Cinquanta l’interesse nazionale era stato ben individuato, nel periodo della ricostruzione c’era un’omogeneità della classe politica. Attualmente nel collasso della classe dirigente, nelle difficoltà di abbassare la litigiosità politica è sicuramente più difficile che avvenga». L’MI6 inglese dedica il 60 per cento del proprio bilancio all’analisi economica. I francesi del Dgse il 50 per cento ca fu determinante nella fase dei negoziati. Durante il conflitto era stato istituito un servizio informativo militare la cui sezione economica era diretta da John Foster Dulles (il fratello minore Allen divenne poi capo della Cia). Durante i negoziati di pace a Versailles, i rapporti di questo organismo furono alla base delle scelte del presidente Woodrow Wilson. Poi nel secondo conflitto ci fu il Board of economic warfare, una branca dell’Oss (Office for strategic service) che oltre ad analizzare i flussi dei rifornimenti di materie prime nei Paesi nemici e i flussi di ricchezza, si occupava anche di traffico di diamanti. Diede un apporto notevole per comprendere i meccanismi dell’apparato industriale tedesco e il modo per metterlo in crisi. In campo nazionale Jean cita alcuni episodi. «Prima della conquista italiana della Libia un’operazione fu quella legata al Banco di Roma. Anche l’Eni di «Nessuna potenza industriale può fare a meno dell’intelligence economica nel mondo globalizzato – spiegano gli autori del volume Intelligence economica – La concorrenza si è trasformata in competizione globale non solo fra le imprese, ma pure fra i sistemi-paese, anche quelli più integrati o alleati politicamente». Lo hanno affermato i due autori del libro Intelligence economica, il ciclo dell’informazione nell’era della globalizzazione presentato ieri nella sede romana della fondazione Icsa (Intelligence culture and strategic analysis). Gli autori del volume Carlo Jean, presidente del Centro studi di geopolitica economica e con una carriera a cavallo tra mondo militare e accademia, e Paolo Savona, già in Bankitalia, ex ministro dell’Industria e oggi presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi, erano presenti ieri pomeriggio insieme ad alcuni ospiti tra i quali Gianni De Genarro, direttore del Dis, Giuseppe orsi di Agusta Westland, Antonio pattuelli dell’Abi, Marco Minniti presidente di Icsa, e il ministro degli Esteri Franco Frattini. Accanto agli imprescindibili meccanismi di mercato, gli attori globali si muovono sempre più secondo logiche analoghe a quelle impiegate in campo strategico militare, allorquando si discute della priorità da attribuire alla conquista del terreno o dell’annientamento delle forze nemiche. Tanto per capire quanto sia complesso questo campo dello spionaggio serve fare unì esempio. Il dipartimento della Difesa Usa definisce il perception management come una serie di «informazioni da convogliare o interdire alle pubbliche opinioni estere per influenzare le loro emozioni, le loro motivazioni e il processo razionale in modo che le classi dirigenti o l’intelligence locali siano indirizzate verso comportamenti favorevoli agli interessi dell’originatore del processo di perception management». Quindi, non si tratta di proteggere un mercato o un vantaggio comparativo, ormai obiettivo quasi impossibile nel sistema globalizzato, ma di indurre comportamenti anche non-economici che inducano a comportamenti economici utili all’originatore del processo di trasformazione della percezione. È cessata la separazione netta tra guerra e pace, è tramontata la frattura tra guerra economica e conflitto militare, è ormai tenue la differenza tra psywar a carattere politico e strategico e infowar di tipo commerciale. ULTIMAPAGINA Azar Karimi, figlia di rifugiati politici, è la presidente dell’associazione dei giovani iraniani in Italia La ragazza che sogna di Franco Insardà tringe tra le mani un mazzetto di mimose che le ha regalato pochi minuti prima Pier Ferdinando Casini. Insieme con Marisa Raciti, la moglie del poliziotto ucciso nel 2007 durante gli scontri seguiti alla partita Catania-Palermo, sono le donne “simbolo” con le quali l’Udc ha scelto di festeggiare l’8 marzo. Lei è Azar Karimi e ha un sogno: poter festeggiare la democrazia in Iran in Piazza della Libertà a Teheran insieme ai suoi genitori, fuggiti nel 1979, sotto la dittatura dello Scià Reza Pahlavi, e da allora rifugiati politici in Italia. Azar Karimi ha 24 anni, è iscritta ai giovani dell’Udc ed è la presidente dell’associazione dei giovani iraniani, suo padre Davood Karimi presiede l’associazione dei rifugiati politici iraniani in Italia, mentre sua madre Shahrazad Sholeh è presidente dell’associazione delle donne democratiche in Italia. Una famiglia impegnata in prima linea per tenere accesi i riflettori sulla situazione drammatica nella quale vivono i loro compatrioti. S Azar è nata a Roma, studia giurisprudenza e l’Iran non l’ha mai visto, ma «da quando nel 1999 gli studenti iraniani scesero in piazza, allora avevo 13 anni, il mio pensiero è sempre stato di ritornare nel Paese dei miei genitori liberato dal regime», dice a liberal. Durante la conferenza stampa la giovane iraniana ha letto la lettera delle figlie di Moussavi e Karroubi, preoccupate per la scomparsa dei genitori a opera del regime di Ahmadinejad aggiungendo: «La situazione in Iran è molta critica e lo dimostra anche quello che sta succedendo nei Paesi del Nord Africa, che vogliono quello che l’Iran vuole da anni. Occorre però fare attenzione al fondamentalismo islamico, e per riuscire a far trovare una stabilità democratica in Medio Oriente è necessario che venga sconfitto il regime iraniano. Vorrei che in Medioriente si stabilisse la TEHERAN Iran è il seguente: siate in guardia dai mullah fondamentalisti e dagli omicidi delle donne e dei giovani in Iran». La presidente del Consiglio nazionale della resistenza iraniana ha lanciato anche un appello ai paesi occidentali interessati a svolgere un ruolo positivo nella nuova storia del Medio Oriente, i quali «come primo e inevitabile passaggio debbono cambiare la loro politica dialogando con la popolazione iraniana. Il passo più importante che deve compiere l’Occidente è quello di abbandonare una politica che va tutta a svantaggio della popolazione e dell’intera regione e di riconoscere il movimento di resistenza». Con Marisa Raciti è stata scelta dall’Udc come donna “simbolo” per festeggiare l’8 marzo e dice: «Vorrei che in Medioriente si stabilisse la democrazia, non quella cercata nel 1999, ma di tipo europeo» democrazia, non quella cercata dai ragazzi iraniani del 1999, ma un sistema simile a quello europeo». Ha voluto anche far conoscere il pensiero di un’altra donna, il presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza iraniana, Maryam Rajavi, esule e rifugiata politica a Parigi dal 1982 a causa della repressione khomenista, in occasione della Festa internazionale della donna. La Rajavi scrive che «la via per un Medio Oriente pacifico e democratico, dove le donne e i giovani possono svolgere il loro legittimo ruolo, passa inevitabilmente attraverso un cambiamento del regime in Iran. Ms senza questo mutamento la democrazia e la stabilità sarebbe impossibile in questa regione. Il nostro messaggio alle nostre sorelle e fratelli in Tunisia, Egitto, Libia, Afghanistan e Maryam Rajavi fa sapere anche che «la resistenza iraniana che ha sfidato i mullah ha presentato una piattaforma democratica, una repubblica basata sulla separazione di Chiesa e Stato, su una democrazia pluralista, una società basata sull’uguaglianza di genere e il rispetto dei diritti umani, dove la pena di morte e la sharia dei mullah saranno abolite, un’economia fiorente, basata su un’eguale opportunità per tutti e un Iran denuclearizzato in pace con tutti i suoi vicini». La giovane Azar ha concluso l’intervento con un appello: «Per questa giornata così significativa vorrei chiedere che la rappresentanza dei mullah nella commissione delle donne all’Onu venga espulsa perché rap- presenta un’offesa a tutte le donne iraniane e del mondo». Donne in piazza per difendere i propri diritti contro la tirannia dei regimi per le quali Marisa Fagà, responsabile nazionale del dipartimento Pari opportunità dell’Udc, ha invitato «tutti gli esponenti politici ad abbandonare le casacche per aiutare le donne di tutto il mondo che vedono negati i loro diritti». Una battaglia che Azar conduce quotidianamente insieme ai tanti iraniani rifugiati. «Il nostro sostegno - dice - arriva ai ragazzi che manifestano in Iran attraverso internet, nonostante tutte le difficoltà dovute alla censura. Siamo in contatto continuo e seguiamo con attenzione e trepidazione quello che accade». Parla con passione Azar, sotto gli occhi orgogliosi di sua madre Shahrzad, che, a poca distanza, la guarda con orgoglio e affetto materno. Dopo p iù di trent’anni madre e figlia dall’Italia lottano insieme per denunciare arresti e uccisioni in Iran, per chiedere il rilascio dei prigionieri politici, sicure che la resistenza del popolo iraniano farà cadere il regime, per il quale le donne valgono metà degli uomini, non hanno diritti di proprietà, hanno poche possibilità di lavorare e sono obbligate a coprire i loro corpi. «Ma le cose stanno cambiando e la fine del regime iraniano è molto vicino», dice sicura Azar, con l’ottimismo di una giovane combattente. Quella passeggiata in Piazza della Libertà, a Teheran, la vede vicina.