Il crac dei conti in banca

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Il crac dei conti in banca
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Più che una fine della guerra,
vogliamo una fine
dei principi di tutte le guerre
Franklin Delano Roosevelt
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 9 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’Istat denuncia livelli record nella disoccupazione femminile: al Sud il 53,7% non lavora
«È tornata l’epoca delle donne oggetto»
Napolitano sull’8 marzo: la parità tra i sessi è ancora lontana
La vedova Raciti con l’Udc. Casini: «Una scelta in nome dei valori»
di Riccardo Paradisi
ROMA. «È necessaria un’opera di rinnovamento morale alla quale le donne di oggi,
come quelle di ieri, sono chiamate a dare
un contributo fondamentale». Giorgio Napolitano vola molto alto nel suo discorso
alla cerimonia per la giornata della donna.
a pagina 10
«Mi impegno
in politica,
per far vincere
la dignità»
Il marito, poliziotto,
fu ucciso 4 anni fa
dopo il derby CataniaPalermo. Ora lei, con
due figli, decide
di scendere in campo
Errico Novi • pagina 11
Assalto finale per la città di Zawiya: i lealisti attaccano con carriarmati e aerei, ma l’opposizione mantiene il controllo del centro
L’ultimatum dei ribelli
Gli insorti: «Se Gheddafi andrà via entro 72 ore non subirà processi». La Conferenza
islamica appoggia la “no-fly zone”e il vertice Nato conferma: «Possibili tutte le opzioni»
I dubbi dell’ex ambasciatore Usa
di Luisa Arezzo
Ma noi americani
siamo davvero
pronti
a intervenire?
entre in diverse zone
della Libia continuano i
combattimenti tra forze
lealiste e rivoltosi, è giallo sui
presunti contatti che dietro le
quinte sarebbero intercorsi tra
il regime di Muammar Gheddafi (che continua a negare ogni
ipotesi di contatto) e gli insorti.
M
di John R. Bolton
Il testamento biologico
La legge
serve
ad evitare
il Far West
etico
a pagina 2
entre in Libia il massacro continua, possiamo tirare alcune conclusioni sulla politica estera americana delle ultime settimane. Cominciando dalla rivolta tunisina che ha più volte
colto di sorpresa l’Amministrazione Obama, incerta se porre dei paletti per l’America e i suoi alleati e concettualmente e
operativamente impreparata ad affrontare le conseguenze.
a pagina 5
M
L’opinione di Silvio Fagiolo
«Il nostro compito «Il rischio è vedere
(almeno per ora) l’inverno arabo
è aiutare i civili» scendere su Beirut»
Martha Nunziata • pagina 4
Bernard Selwan El Khoury • pagina 6
I tassi di interesse sui mutui arrivano al 3,36 per cento dal 3,18
Il crac dei conti in banca
Allarme di Bankitalia: più prestiti, meno soldi
di Alessandro D’Amato
tassi di interesse sui mutui per l’acquisto di abitazioni erogati a gennaio 2011 alle famiglie sono aumentati al 3,36 per
cento dal 3,18 per cento di
dicembre, mentre quelli
I
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EURO
(10,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
sulle nuove operazioni di
credito al consumo sono
aumentati all’8,78 dall’8,33
per cento di dicembre.
Pressoché stabili i tassi
passivi sui depositi in essere (0,69 contro 0,70 per
cento del mese precedente). Lo scrive Banca d’Ita-
NUMERO
47 •
di Rocco Buttiglione
Il monito di Nadim Gemayel
lia, che rileva come il tasso
di crescita sui dodici mesi
dei prestiti al settore privato, corretto per le cartolarizzazioni cancellate dai
bilanci bancari, è salito al
4,8 per cento rispetto al 3,6
per cento di dicembre.
WWW.LIBERAL.IT
l progetto di legge sulle
Dichiarazioni anticipate
di trattamento tocca valori e beni vitali fondamentali
e ha suscitato nel Paese un
dibattito ampio ma talvolta
confuso. È necesssario fare
chiarezza. La prima domanda con cui dobbiamo confrontarci è quella sulla effettiva opportunità di fare una
legge su questi temi. È stato
il senatore Marino, e con lui
il Pd e l’Idv a chiedere una
legge sul testamento biologico già nella passata legislatura. Essi denunciarono allora un grave ritardo e addirittura un vuoto legislativo. Io
dissi che una tale legge non
mi pareva opportuna e non
mi sembrava che esistesse
un tale vuoto legislativo. Il
mio parere è stato autorevolmente corretto dalla Corte di
Cassazione con un procedimento alquanto inusuale.
I
segue a pagina 8
a pagina 12
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 9 marzo 2011
il fatto
Il governo libico nega siano in corso trattative. Ancora attesa per la “no-fly zone”. Ue: accordo sull’estensione delle sanzioni ai fondi
72 ore per Gheddafi
Insorti disposti a trattare con il Colonnello, ma senza intermediari.
Il capo dei ribelli: «Il raìs ha 3 giorni per lasciare». Bombardata Zawiya
di Luisa Arezzo
entre in diverse zone
della Libia continuano
i combattimenti tra
forze lealiste e rivoltosi, è giallo sui presunti contatti
che dietro le quinte sarebbero
intercorsi tra il regime di
Muammar Gheddafi (che continua a negare ogni ipotesi di
contatto) e gli insorti. Dopo le
inidscrezioni di Al Jazeera, ieri
per la prima volta i ribelli hanno
ammesso che un tentativo di abboccamento c’è stato: più che da
parte di emissari del Colonnello, su iniziativa di non meglio
identificati avvocati di Tripoli,
che si sarebbero prestati quali
intermediari spontaneamente, e
non in base a istruzioni ricevute. Come dire: nessun coinvolgimento straniero, ipotesi circolata dopo che altre fonti interne
agli insorti avevano confermato
di aver aperto - in merito alla
trattative - un canale preferenziale con gli Stati Uniti. Ai ribelli, dunque, sarebbe stata proposta la rinuncia di Gheddafi al
potere in cambio dell’immunità.
Nonostante i primi “non se ne
parla”, gli insorti avrebbero infine accettato di non perseguire il
M
leader libico Muammar Gheddafi per i suoi crimini se questo
si dimetterà entro le prossime
72 ore. Dunque entro venerdì
11, giorno in cui è stato convocato sia il Consiglio starordinario della Ue sulla crisi libica sia
quello della Lega Araba. Il cerchio, insomma, prova nuovamente a stringersi intorno al dittatore. E la comunità internazionale sembra intenzionata ad
aspettare venerdì 11 per decidere il da farsi.
All’attendismo internazionale risponde di contro l’attivismo ”diplomatico” libico: «Se
Gheddafi lascerà la Libia immediatamente, entro 72 ore, e
fermerà i bombardamenti, noi
come libici non lo perseguiremo per i suoi crimini», ha detto
Mustafa Abdel Jalil, ex-ministro della Giustizia e oggi capo
del Consiglio nazionale libico
dei ribelli, parlando telefonicamente alla tv al Jazeera. «Ma la
scadenza non sarà estesa oltre». La televisione di Stato, subito dopo la dichiarazione, ha
negato categoricamente qualsiasi approccio segreto con i ri-
voltosi, mentre fonti governative hanno di nuovo smentito
contatti di qualsivoglia natura
con gli avversari, liquidando le
notizie al riguardo come mera
«spazzatura» e semplici «fandonie senza senso». È significativo tuttavia il fatto che le stesse fonti abbiano preteso di restare anonime. Resta il fatto
che nessuno sembra davvero
diposnibile ad accogliere il dittatore. L’ipotesi fino ad oggi più
concreta, quella che voleva il
raiss “ospite”di Chavez in Venezuela, ieri è stata categoricamente smentita da Julio Cesar
Pineda, ex ambasciatore Venezuelano in Libia e profondo conoscitore dei rapporti tra Hugo
Chavez e Muammar Gheddafi.
«L’idea, che pure sarebbe stata
accarezzata dal presidente
Chavez», ha spiegato Pineda
da Ginevra, «si scontra con la
contrarietà dell’influente minoranza araba del Paese e in generale con quella dei venezuelani: Il popolo non lo accetterebbe e tra un anno in Venezuela ci sono le elezioni». Il diplomatico, che oggi è un’opinionista della rete Tv Globovision,
non esclude però la possibilità
che il Venezuela apra le porte a
un esilio dorato per alcuni familiari del raiss libico: «per alcuni di loro sarebbe possibile,
ma non per il Colonnello».
Sul terreno nel frattempo continuano a parlare le armi. Le
forze fedeli al regime hanno
sferrato l’ennesimo attacco
contro Zawiyah, la strategica
località situata appena 40 chilometri a sud-ovest della capitale Tripoli. Nonostante l’assedio sulla città sia stato ulteriormente inasprito, però, al momento i ribelli che ne presidiano il centro continuano a resistere. Secondo la Bbc l’intera
città sarebbe stata vittima di un
intenso fuoco. «Una pioggia di
proiettili ha colpito ogni singolo edificio» ha detto una fonte
araba, mentre secondo un’altra
televisione britannica, Sky
News, che cita testimoni oculari, circa 50 carri armati avrebbero bombardato Al Zawiyah,
e diversi edifici e moschee sarebbero stati completamente
distrutti. Quanto al nodo petrolifero di Ras Lanuf, è stato
bombardato almeno altre quattro volte, sebbene non risultino
nuove vittime. I ribelli hanno
anche il timore di rimanere
senza combustibile nel giro di
una settimana a causa della
cessazione delle attività nelle
raffinerie della regione. Un ufficiale dello stesso governo, Tarek Bu Zaqiya, ha ammesso
che ci sono scorte solo per una
settimana, precisando che «c’è
un piano per far fronte al problema», senza però volerne
precisare i dettagli. Secondo
Gulf News, alcune fonti del governo di Bengasi hanno ipotizzato l’invio in Libia di combustibile dall’Italia.
In attesa di eventuali sviluppi,
ieri comunque i Ventisette Paesi
dell’Unione Europea hanno
raggiunto un accordo (che per
entrare in vigore attende ora
l’approvazione formale dei Capi
di Stato e di governo venerdì)
per delle nuove sanzioni contro
la Libia, soprattutto per colpire
il Fondo sovrano Libyan Investment Authority (Lia) e la Banca
centrale libica. Le nuove sanzioni riguardano in particolare il
prima pagina
9 marzo 2011 • pagina 3
l’intervista
«In Libia sta avvenendo un genocidio»
Dounia Ettaib, guida delle donne maghrebine in Italia, attacca: «L’Occidente finora inerme»
MILANO. «I fatti del Nord Africa
devono che essere accolti positivamente da qualunque parti vengano osservati. È l’espressione di
un mondo giovanile che ha deciso
di dire “Basta!”. Spero che si tratti
anche di un punto di svolta per
nuovo conquiste per le donne arabo-islamiche». Dounia Ettaib, Presidente delle donne marocchine in
Italia e di Fondazione Grin, pone
sotto gli stessi riflettori la celebrazione dell’8 marzo con le rivolte di
Egitto, Libia e Tunisia. «In questa
fase di grandi cambiamenti, è necessario osservare i due fenomeni
in parallelo. La partecipazione
femminile alle rivolte non è scontata». La signora Ettaib vive nel
nostro Paese da oltre 15 anni. Come consulente del Ministero dell’Interno, segue quotidianamente
le dinamiche dei flussi immigratori dal Nord Africa. In questo
momento, quindi il suo impegno è
rivolto alla situazione in Libia e
alle eventuali ripercussioni sulle
coste nazionali.
Possiamo permetterci di essere ottimisti?
È ancora troppo presto. La situazione della Libia, in particolare, è
preoccupante. Le scelte di Gheddafi sono da classificare unicamente come un genocidio. Il colonnello libico ha saputo sfruttare
due spazi per la propria sopravvivenza. Da una parte, ha preso in
contropiede l’Occidente, il quale si
è dimostrato incapace di reagire
di fronte alle violenze messe in atto. Dall’altro, è riuscito a gestire in
proprio favore la debolezza del
suo stesso popolo. Washington e
Bruxelles sono state rapite da un
atteggiamento di inerzia nei confronti di una dittatura dalla quale
le nostre economie non sanno
rendersi indipendenti.
In che senso?
Gheddafi sta facendo quello che
vuole perché i libici sono un popolo debole. La storia del Paese è diversa dalle tradizioni che caratterizzano le nazioni confinanti. Egi-
Lia, fondo sovrano che gestisce
il ricavato delle esportazioni di
petrolio e detiene delle quote
azionarie in molte grandi imprese europee, come le italiane
Unicredit e Finmeccanica e l’editrice britannica Pearson. Secondo fonti diplomatiche, sarebbe stato inoltre trovato un
meccanismo atto ad «evitare effetti indesiderati delle sanzioni
sulle imprese europee», timore
che era stato espresso dalla delegazione maltese.
Continua a muoversi anche la
diplomazia internazionale: il segretario dell’Organizzazione
della Conferenza Islamica, il
turco Ekmeleddin Ihsanoglu, ha
addirittura sollecitato il Consi-
di Antonio Picasso
ziani e tunisini non avrebbero reagito in questo modo così dilettantesco se i loro rispettivi rais avessero
dato ordine di sparare sulla folla. Il
colonnello è un sanguinario, ma
non è stupido. La fragilità del suo
Paese gli è tornata vantaggiosa.
Si aspettava tanto sangue tra
Bengasi e Tripoli?
Sinceramente no. Non credevo
che i libici sarebbero riusciti a
svincolarsi dal magnetismo del loro colonnello. Ancora a gennaio,
quando la rivolta era circoscritta
“
Il Marocco ha reagito
meglio dei vicini perché
è retto da un governo
riformista, moderato
e pronto al dialogo
”
alla Tunisia, Gheddafi si era esposto nel valutare positivamente i
cortei contro Ben Alì. Poi, smentendo se stesso, aveva dichiarato il
suo personale dispiacere per la
caduta dello stesso leader tunisino. Sono contraddizioni, queste,
che da sempre ispirano gli atteggiamenti imprevedibili del colonnello. Gheddafi, inoltre, aveva parlato di ragazze finalmente emancipate dal velo, simbolo – a suo
giudizio – della oppressione dei
regimi confinanti con la Libia. Si è
trattato certamente di un’avventatezza che Gheddafi ha pagato a
proprie spese. Quello che sta accadendo nel suo ex feudo è la conseguenza della sua miopia. Lo
scherzo del destino, infatti, è che
le donne scese in piazza in Libia
sono le meno velate fra tutte quelle presenti nei cortei di questi mesi. Al Cairo e a Tunisi era facile incontrare molte manifestanti con il
capo coperto. Questo ha portato
alcuni osservatori, soprattutto in
Occidente, a temere la presa di
glio di Sicurezza dell’Onu a «fare il proprio dovere» e imporre
sulla Libia una no-fly zone, come caldeggiato dall’Occidente.
Persino la Cina comincia a
non escludere più tale ipotesi.
Mentre la Russia continua
a restare contraria. Così
come l’India, il Brasile ed
il Sudafrica, che ieri hanno auspicato una “soluzione pacifica” della crisi «a
vantaggio del popolo libico». Francia e Gran Bretagna
stanno invece premendo l’acceleratore per preparare una bozza di risoluzione da presentare
“entro breve tempo” al Consiglio di Sicurezza, proprio con
controllo del fondamentalismo. Il
fenomeno non si sta ripetendo in
Libia. Qui, proprio dove il rais aveva parlato di emancipazione femminile in simbiosi con le rivolte, le
donne scese in piazza sono davvero senza velo.
Facciamo un pronostico
preoccupante: cosa accadrebbe se Gheddafi non venisse sconfitto?
L’eventualità, effettivamente, non
può essere esclusa. Anzi, più si va
avanti e maggiori sono le sue possibilità di vittoria. La sua resistenza si sta rivelando tenace. Se davvero Gheddafi restasse al potere,
l’Europa pagherebbe un prezzo
salatissimo. Il colonnello, di cui
conosciamo ormai la totale mancanza di scrupoli, aprirebbe le
porte dell’Africa.
Questo significa al Qaeda o
immigrazioni di massa?
Entrambe.
Si può ancora evitare questo
scenario? Quali sono le carte
a disposizione della comunità internazionale?
Partiamo dal mondo arabo. Questo, finora, si è comportato con
drammatica ipocrisia. Le sue iniziative si sono dimostrate decisamente idiote e prive di una prospettiva politica.
In questi giorni, i quotidiani
arabi insistono sull’eventualità di creare una forza di pace costituita da contingenti
egiziano e tunisino e da impegnare in Libia. Ieri l’Organizzazione della conferenza
islamica (Oci) ha dato il suo
ok di massima per la creazione della no fly zone. Cosa ne
pensa
È un’assurdità! Come si può pensare che due Paesi, orfani di governo e istituzioni amministrative,
possano organizzare una missione tanto impegnativa?
Ci sono alternative?
I Paesi arabi hanno a disposizione
l’obiettivo di creare una no-fly
zone sul paese Nordafricano.
«La Nato sta considerando diverse opzioni, compresa la possibilità di operazioni militari»
in Libia, ha confermato il presidente americano Barack Oba-
i loro fondi sovrani (si tratta un
ammontare complessivo che supera un triliardo di dollari, ndr). Anche con una percentuale irrisoria
di questi capitali, potrebbero essere create risorse importanti di
investimento da indirizzare in
riforme sociali e strutturali, di
ampio respiro e in ogni Paese.
I governi occidentali invece?
La loro lentezza è stata terribile. Non hanno preso iniziative prima per contrastare i
regimi, o al limite prevederne
la caduta, ora per favorire la
transizione, cercando di evitare lo
spargimento di sangue. Sappiamo
perfettamente che i vari Gheddafi
sono rimasti al potere per così
tanto tempo per colpa dei governi
di Stati uniti ed Europa. Non
è stato definito un piano
successione. E adesso?
Mi sembra che l’indecisione regni sovrana
ovunque.
Come vede la situazione del Marocco? Finora è
quello che in
Nord Africa ha
attraversato questa fase di cambiamento senza
gravi danni per le
proprie istituzioni.
Il merito va tutto al nostro
sovrano.
Re
Mohammed VI si è dimostrato capace di seguire la strada delle
riforme, già intrapresa
dal padre. Successivamente ha assunto un atteggiamento di dialogo
e di moderazione. Questo ha permesso di
creare una serie di
valvole di decompressione dei disagi sociali. Cosa che, al contrario, non è accaduta
altrove.
re la sua voce è stato invece
Barroso: «Anche se riconosciamo l’estrema complessità della
situazione, le sue sfide e le sue
difficoltà, non ci può essere
nessuna ambiguità da parte
dell’Unione europea, il cui po-
Luis Moreno Ocampo, il procuratore generale
del Tribunale Penale Internazionale ha detto che l’inchiesta
contro il dittatore dovrebbe procedere in tempi rapidi
ma. Ma al riguardo una strategia più precisa dovrebbe emergere dalla riunione dei Ministri
della Difesa della Nato, in programma domani a Bruxelles.
Da Strasburgo, ieri, a far senti-
sto è a fianco di coloro che rivendicano la libertà politica e il
rispetto della dignità umana».
Ma se la diplomazia ha tempi
lenti, lo stesso non si può dire
per il Tribunale penale internazionale dell’Aja. Ieri Luis Moreno Ocampo, il Procuratore generale del Cpi ha detto che l’inchiesta dovrebbe procedere in
tempi rapidi: «Quando abbiamo
aperto l’inchiesta c’erano dei
possibili crimini contro
l’umanità, un attacco contro dei civili nel quale non
si ravvisava alcun conflitto armato, ed è su questo
che indaghiamo; oggi un
conflitto c’è, e questo ha
cambiato i tempi», ha spiegato
Ocampo, sottolineando come
«vi siano due parti in conflitto, e
chiunque commetta dei crimini
di guerra può essere oggetto di
un’inchiesta».
l’approfondimento
pagina 4 • 9 marzo 2011
La crisi mediterranea vista dall’ambasciatore Silvio Fagiolo, docente di Relazioni internazionali alla Luiss di Roma
Un intervento civile
«Limitiamoci a questo: l’azione militare può avvenire solo se
concertata in seno alla comunità delle Nazioni Unite. Roma
può fare molto in termini di assistenza umanitaria, senza
dimenticare che nei confronti della Libia siamo vulnerabili»
di Martha Nunziata
Ambasciatore Silvio
Fagiolo, docente di Relazioni Internazionali
all’Università Luiss di
Roma, un passato come diplomatico a Mosca, Washington e Berlino, ha commentato per Liberal
la crisi politica dell’Africa mediterranea e in particolare il possibile intervento militare in Libia.
Ambasciatore, la comunità
internazionale esplora con
sempre maggiore insistenza la possibilità di intervenire nella crisi libica. Pensa
che un suo coinvolgimento
sia imminente?
Sull’intervento militare sono
molto scettico: gli stessi ribelli
libici hanno molte esitazioni
in merito a questo intervento
militare.
Dal nostro punto di vista l’Italia
si deve muovere in un contesto
multilaterale, non deve certo
pensare di intervenire da sola,
ma esclusivamente in un contesto europeo, delle Nazioni Unite,
oppure nell’ambito di un intervento ad hoc, come nel caso dell’operazione “Alba”, in Albania,
nel 1997. Deve trattarsi, cioè, di
L’
una azione concertata, soprattutto se si tratta di usare la forza.
Individualmente, invece, l’Italia
può fare molto in termini di assistenza sanitaria, soprattutto
adesso alle frontiere dove è più
forte l’emergenza umanitaria.
Non ha senso denunciare il trattato italo-libico: gli obblighi sono di lungo periodo, molto sterili. Il trattato vieta l’intervento, la
messa a disposizione di basi per
un intervento in Libia, ma se
l’intervento è multilaterale, e soprattutto con l’ombrello delle
Nazioni Unite, è lo stesso diritto
delle Nazioni Unite a prevalere
sui singoli accordi.
Alcuni giornali inglesi e
americani riportano l’indiscrezione che l’America
abbia un piano segreto per
armare i ribelli libici, e
Obama avrebbe domandato all’Arabia Saudita di
preparare un ponte aereo
per fornire armi ai ribelli,
lei che ne pensa?
Le basi americane nella zona sono diverse, l’America ha ampie
possibilità di movimento, in termini di ponti aerei, di mezzi,
strutture e appoggi sul territorio,
ma quello che occorre stabilire,
in questo momento, è la legittimità dell’intervento. La Nato è
intervenuta quando si trattò della
Jugoslavia, quando non si riusciva a trovare il consenso sull’intervento e c’era il veto della Russia. L’ideale in questo caso sarebbe, sempre se si decidesse, un intervento della Nato, con la “benedizione”delle Nazioni Unite.
La Cina e la Russia sono storicamente contrarie a queste violazioni della sovranità nazionale e
quindi si preferisce scendere ad
L’ideale sarebbe
una decisione
della Nato con
la benedizione
dell’Onu
una legittimazione di gradino
inferiore, ovvero quello della
Nato: anche per l’Italia, però,
converrebbe sempre un quadro
di riferimento multilaterale.
Ma perché la comunità internazionale (Unione Europea, nello specifico) tarda
ad intervenire? Si ravvisa,
secondo lei, l’assenza di
una visione e di una strategia condivisa nella gestione di queste crisi?
L’Europa non ha una voce univoca nei confronti della politica
estera: non si può parlare di una
politica estera dell’Unione europea, in questo senso, perché sarebbe sbagliato pensare all’Europa come a uno Stato. Credo
che, da questo punto di vista, si
possano considerare due strade
diverse per l’intervento nell’area
mediterranea coinvolta dalla
crisi: a breve termine penso che
l’apporto che l’Europa possa
fornire sia quello di “expertise”,
sia nel campo legislativo sia in
quello economico, mentre a lungo termine sarà il nostro esempio, quello di democrazie evolute, a fare da guida a questi paesi.
Lei ha detto recentemente:
«l’Italia è la rappresentazione del potere occidentale nel Mediterraneo, soprattutto in riferimento
agli Usa». Quale ruolo,
quale credibilità l’Italia potrebbe avere nell’emergenza libica dopo anni di amicizia di Berlusconi con il
dittatore Gheddafi?
È vero, c’è stato da parte del governo Berlusconi un eccesso di
condiscendenza formale, sconveniente nella gestualità e nei
modi: il famoso baciamano, per
9 marzo 2011 • pagina 5
Alcune critiche da parte dell’ex ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite
Ma noi americani siamo davvero
pronti ad attaccare il raìs?
Servizi segreti inadeguati, scarsa capacità operativa sul fronte arabo
e l’incertezza su costi e benefici di una guerra stanno penalizzando gli Usa
di John R. Bolton
entre in Libia il massacro continua, possiamo tirare alcune
conclusioni sulla politica estera americana delle ultime settimane. A cominciare dalla rivolta tunisina che ha più volte colto di sorpresa
l’Amministrazione Obama, incerta se
porre dei paletti per l’America e i suoi
alleati e concettualmente e operativamente impreparata ad affrontare le conseguenze. Verso l’Egitto la voce della
Casa Bianca è stata inutilmente gonfia
di retorica - il silenzio sarebbe stato più
prudente - e verso la Libia il silenzio è
stato invece protagonista, mentre una
forte posizione (e azione) americana era
praticamente chiesta ovunque. Purtroppo, anche in questo caso, la retorica presidenziale l’ha fatta da padrone. A questo punto bisogna capire se il governo
Usa sia preparato ad affrontare l’incertezza e se sia in grado di prendere decisioni sotto la marcata pressione di questi giorni. Un test dinanzi al quale l’Amministrazione Obama è sembrata piuttosto traballante. Tanto da spingermi a
porre quattro domande utili a capire
quale sia il grado di risposta che l’America è pronta a dare ai possibili scenari
futuri per evitare che lo scorrere della
Storia la travolga.
M
1. L’intelligence aveva fornito indicazioni adeguate su quanto stava per accadere? La risposta ovvia, oltre confine,
è “no”. Il dibattito sul perché i servizi segreti Usa si siano rivelati così maldestri
avrà sicuramente delle ripercussioni
nei prossimi mesi. Qui non stiamo parlando di preveggenza, ma solo di un
buon canale informativo, capace di indicare ai politici la strada da seguire o
prevedere. Lo scarso livello dei nostri
agenti in Medioriente è un problema
con cui si sono scontrate molte Amministrazioni. E quello di cui ora abbiamo bisogno è un aumento delle risorse sul campo, non una loro diminuzione (i recenti tagli alla Difesa
decisi dal Congresso colpiscono
anche i Servizi, ndt.).
2. Eravamo preparati a proteggere i cittadini americani
nei singoli paesi in rivolta e
ad evacuarli velocemente se
necessario? Non è una domanda da poco. Questa è la
prima responsabilità del governo. Eppure, appena la situazione in Libia ha cominciato a precipitare ci siamo
accorti che gli Usa erano sostanzialmente impreparati all’emergenza e che centinaia di
cittadini statunitensi rischiavano grosso, forse anche la vita.
La nostra capacità di risposta
deve essere implementata. E invece nel Mediterraneo schieriamo
solo poche, anche se preziose, ri-
sorse. Diciamolo: siamo sfuggiti a una
crisi di ostaggi simile a quella avvenuta
nel 1979 in Iran solo per pura fortuna. E
non possiamo confidare nella buona
sorte una seconda volta.
3. Abbiamo chiari quali siano i nostri interessi e i vantaggi e svantaggi di
questi repentini cambi di potere? È
una domanda geostrategica fondamentale, troppo complessa per essere
riassunta in poche righe. Ma io non mi
Sull’Egitto
il Presidente
ha cambiato idea
quattro volte prima
che Hosni Mubarak
uscisse di scena
sento rassicurato
da come Obama
ha gestito fino a
questo momento la crisi.
La verità è che
mentre le rivolte dilagano
nei vari Stati
praticamente in
simultanea, i
motivi che le hanno provocate andrebbero cercati direttamente sul campo dai
nostri analisti intelligence e non interpretati artificialmente a distanza da una
narrativa piena di preconcetti. Ma questo non è accaduto. Sull’Egitto, Obama
ha cambiato idea quattro volte prima
che Hosni Mubarak uscisse di scena.
Un’incertezza che ha evidentemente
danneggiato la credibilità americana a
livello regionale, soprattutto quella riservataci dai governanti che si considerano amici degli Stati Uniti.
In Libia, uno degli scenari al momento
più plausibili, è che il Paese precipiti in
una guerra civile senza vinti e vincitori
certi. Una manna per al Qaeda e per i
terroristi che, come accaduto in Somalia, in queste realtà sguazzano, stabilendo basi operative e dando vita a Stati
falliti. Questo è quello che stiamo rischiando in quella che una volta era
chiamata la “Costa Barbara” nell’inno
dei Marines.
Piuttosto che stare a guardare che il
caos maturi, dovremmo fare dei passi
precisi, come riconoscere un governo libico alternativo e mettere in sicurezza il
porto e l’aeroporto di Tripoli.
4. Siamo pronti alla prossima emergenza? Nuovi focolai sono dietro l’angolo, quando divamperanno in un incendio? Le monarchie della Penisola
arabica sono evidentemente preoccupate dall’effetto contagio, ma ancor di più
lo sono dalla maligna presenza iraniana
che si affaccia sul Golfo.Vedono crescere l’influenza di Teheran nell’intensa
opposizione sciita nel sunnita stato
monarchico del Bahrain, e temono che
gli Usa li possa abbandinare,
esattamente come successo a
Mubarak. La differenza
fondamentale, qui, è evidentemente il ruolo che
gioca la produzione petrolifera dei paesi del Golfo
sul’economia internazionale, e quella americana
in particolare, così come
le profonde differenze in
seno ai paesi fra i monarchi e i cittadini. Se
tutti questi fattori siano
sufficienti a garantire
stabilità e sicurezza
alla regione è tutto da
vedere, ma una cosa è
certa: dobbiamo essere preparati ad ogni
evenienza e pronti a
difendere i nostri
cruciali
interessi
economici. Queste
non sono astratte
questioni di politica
estera, ma problemi
reali che toccano
direttamente le nostre vite.
esempio, che ha provocato molte critiche all’estero. Oggi, però,
guardando indietro, queste critiche sembrano eccessive, anche
perché è vero che nessun altro
paese ha tenuto con lui un comportamento di eccessiva familiarità, ma è anche vero che tutti
hanno negoziato con Gheddafi e
tutti lo hanno trattato con deferenza. L’Italia però è più vulnerabile: dobbiamo ricordare che è
il paese più vicino alla Libia, e la
tradizione e la storia ci legano a
questo paese, e anche la dipendenza delle risorse energetiche.
ha condizionato le nostre scelte
politiche negli ultimi anni.
E allora come potrà gestire, l’Italia, l’emergenza
avendo la Libia importanti
interessi economici sul nostro territorio e in considerazione anche degli interessi personali dei due leader?
Il patrimonio personale di
Gheddafi è stato immediatamente aggredito e bloccato, è
stato denunciato al Tribunale penale internazionale, e non gli è
stato data la possibilità di fuga,
come nel caso di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto. Bisogna tener presente, però che, essendo la Libia divisa in tribù,
non c’è stato l’intervento dell’esercito regolare che, per esempio, in Egitto ha fatto un po’ da
arbitro, e con il quale, forse, le
cose sarebbero state più semplici. Per gli altri interessi economici-finanziari sul territorio (Eni
0,7%, Finmeccanica 2%, Unicredit 7,2%, Juventus 7,5%, Retelit 15%, Olcese 21%, ndr.) ci
vuole cautela da parte del governo italiano: ci sono crediti da
esibire, contratti da far rispettare. Per questi motivi l’Italia ha
un coinvolgimento più forte rispetto ad altri paesi ed è rimasta
sorpresa per la velocità degli avvenimenti, ma soprattutto per lo
sbocco così incerto, in particolare per la Libia.
Lei ha visto da vicino le rivoluzioni del 1989: le rivolte di questi mesi possono
essere accostate a quelle, o
differiscono?
In effetti questi movimenti sono
equiparabili a quelli del 1989, sia
per la loro transnazionalità, sia
per il fatto di rappresentare, oggi come allora, rivolte in nome di
valori spiccatamente europei,
quelli cioè di democrazia e di libertà, non basati sullo scontro di
civiltà. Parlerei dunque di un incontro tra civiltà. A differenza di
quelli del 1989, però, questi moti
rivoluzionari hanno un’origine e
uno sviluppo orizzontale: nascono dal popolo e sono gestite dal
popolo, soprattutto grazie alle
nuove tecnologie, dalla rete, ai
nuovi mezzi di comunicazione
che non lasciano i cittadini isolati. Una rivolta quella del Maghreb in nome di ideali nati e raggiunti con la globalizzazione dei
diritti fondamentali dell’uomo,
un processo che parte da lontano e che arriverà anche in Cina
non fra due anni, ma sicuramente prima di dieci.
pagina 6 • 9 marzo 2011
a gli stessi lineamenti di suo padre, e a guardarlo sembra di
aver fatto un salto nella storia.
Si chiama Nadim Gemayel, è il
figlio di Bashir, noto alle nuove generazioni per il film Valzer con Bashir. In
realtà Bashir Gemayel, figlio di Pierre
Gemayel, fondatore del partito “Kataeb”, fu il leader della resistenza cristiana libanese (le Forze Libanesi) durante i primi anni della guerra in Libano (1975-1990), e fu eletto Presidente
della Repubblica il 23 agosto 1982. Il sogno di un Libano riappacificato si spense poche settimane dopo, quando il Presidente fu vittima di un attentato nel suo
ufficio ad Ashrafiyyeh, quartiere cristia-
sta idea e preservare la presenza sovrana e libera della comunità cristiana in
questo paese, attraverso la via democratica. A tal proposito, sul nostro cammino incontriamo numerose difficoltà e
ostacoli, e vi sono gruppi e movimenti
che invece non credono nella libertà e
nella democrazia in Libano, due valori
fondamentali su cui i cristiani del Medioriente, e del Libano in particolare,
basano il loro messaggio. Ma come stiamo vedendo in questi giorni, gran parte
dei regimi arabi opprimono le libertà e
la democrazia, e noi come cristiani
orientali oggi ci sentiamo minacciati direttamente dalle correnti antiliberali e
antidemocratiche.
no di Beirut. Ed è proprio da questo
quartiere che Nadim, anni fa, ha iniziato la sua attività politica. Laureato in
Giurisprudenza e responsabile della
“Gemayel Foundation”, Nadim è stato
eletto due anni fa a Beirut deputato nel
Parlamento libanese con il partito “Kataeb”, di cui è vicepresidente. Lo abbiamo incontrato a Roma, in occasione della festività di San Maron, mentre in Libano tornano le manifestazioni di piazza. L’on. Gemayel, membro del Fronte
14 Marzo, evidenzia il delicato momento storico in Medioriente, ma si dice ottimista per il futuro.
Che significa essere figlio di Bashir
Gemayel?
Innanzitutto mi presento. Sono Nadim
Gemayel, deputato nel Parlamento Libanese. Sono stato eletto a Beirut, e attualmente sono il deputato più giovane
del Parlamento. Sono figlio di Bashir
Gemayel. Mio padre ha offerto il suo
estremo sacrificio affinché rimanesse
intatta la presenza e il ruolo della libera
comunità cristiana in Medioriente e in
particolare in Libano. Noi oggi abbiamo
il dovere morale di portare avanti que-
Quanto sono influenti le idee di suo
padre sul suo pensiero politico?
La sorgente del mio pensiero nasce dalle idee di mio padre, dal clima in cui egli
visse, dalla sua vita, dal suo sogno libanese.Tuttavia, oggi la situazione è diversa rispetto a 30 anni fa. Noi dobbiamo
cercare di preservare ciò che abbiamo
conquistato in tutti questi anni, e allo
stesso tempo sviluppare le nostre attività e portare avanti la nostra causa per
la libertà e la democrazia. Proprio oggi
vediamo che la maggior parte delle popolazioni arabe musulmane stanno facendo loro la causa di libertà e democrazia a cui noi iniziammo a fare appello decine di anni fa.
Parliamo della delicata situazione
politica in Libano?
La situazione politica in Libano oggi è
estremamente pericolosa, e non solo
per i cristiani. I cristiani portano avanti
una causa basata sulla libertà, la democrazia e la sicurezza in tutto il Medioriente; ma ad essere in pericolo è l’intero sistema istituzionale libanese e i valori che ho appena menzionato. La fonte di questo pericolo sta nell’asse formato dai regimi in Siria e Iran, che in
Libano è rappresentato da Hezbollah,
che sta cercando di imporre, anche con
la forza, la sua opinione e la sua cultura al sistema libanese, alla libertà e alla
H
Prossima fermata Beirut
Nadim Gemayel lancia l’allarme:
«La primavera araba in corso
rischia di gettare il Libano in
un inverno provocato dall’odio
del fondamentalismo islamico»
di Bernard Selwan El Khoury
democrazia di cui il Libano godeva. La
loro è una cultura di occupazione, di
oppressione e di carattere dittatoriale.
Quando parlo di “occupazione” mi riferisco a un’occupazione delle idee e della mente, tramite cui Hezbollah sta tentando oggi di imporre le sue idee al clima liberale e democratico libanese, per
fare di questo Paese una succursale del
regime siriano e dell’Iran, una base militare facente capo al regime iraniano
che si affaccia sul Mediterraneo. Questa è la realtà vissuta dai libanesi in Libano. Nelle elezioni parlamentari del
2005 e del 2009, noi del Fronte 14 Marzo abbiamo ottenuto la maggioranza.
Oggi, con l’imposizione della forza delle armi, e con i suoi metodi intimidatori
e “terroristici”, Hezbollah è riuscito a ribaltare la situazione. Per ora non riusciranno a formare un governo monocolore in quanto sanno che qualsiasi assetto governativo di questo tipo non troverà il riconoscimento dell’Occidente,
che considererà un governo “Hezbollah” un “governo terroristico”. Per questo, ripeto, in Libano stiamo vivendo in
una situazione estremamente delicata.
E il nostro timore non è soltanto che
Hezbollah dia vita a un regime totalitario, ma che possa dare impulso al macropiano iraniano di islamizzare la re-
prima pagina
gione ed esportare lo spirito della Rivoluzione Islamica.
Sono trascorsi circa 30 anni dalla
nascita di Hezbollah: nel manifesto originale si parlava di Stato
Islamico. Come libanese e come
politico, crede veramente che ancora oggi la priorità di Hezbollah
sia quella?
Questo è uno dei progetti di Hezbollah.
Non dimentichiamo che Hezbollah considera se stesso un rappresentante della
Velayat-e-Faqih in Libano. La fonte e la
legittimazione del potere di Hezbollah
nascono proprio dal concetto della Velayat-e-Faqih, vale a dire dall’autorità religiosa sciita iraniana di ispirazione
khomeinista. In questo senso, Hezbollah
fa direttamente capo alla Rivoluzione
Islamica iraniana, e il suo segretario generale, Hassan Nasrallah, ha come principale riferimento quello degli Imam iraniani. Hezbollah non può riconoscere e
difatti non riconosce il Libano come Stato, entro i suoi confini territoriali. In questo senso, il Libano è la base da cui partire per diffondere nel Vicino Oriente la
Velayat-e-Faqih, passando attraverso il
sostegno alle minoranze sciite e la “conversione” allo sciismo, due fattori che
trovano riscontro nella realtà.
Data la sua forza, è possibile che
Hezbollah disarmi oggi?
Io credo fortemente che nella vita molte
cose che si credono impossibili poi si
realizzano. Ci vuole soprattutto forza di
volontà. I siriani hanno occupato il nostro Paese per 30 anni, e nessuno avrebbe mai immaginato che nel 2005 si sarebbero ritirati. Il regime non è riuscito
a far fronte a questa forza di volontà.
Ciò che noi chiediamo oggi è che il popolo mantenga e consolidi questa sua
forza di volontà, e che tutti vedano chiaramente la minaccia rappresentata dal
progetto dell’asse Siria-Iran-Hezbollah
non soltanto per il Libano e la regione
ma anche per l’Occidente e i suoi valori.
Io credo che questa forza di volontà, così come sta facendo cadere i regimi dittatoriali nel mondo arabo, possa far ca-
dere i regimi in Siria e Iran, e permettere un disarmo di Hezbollah.
Tuttavia, metà della comunità cristiana libanese è schierata a favore
di Hezbollah.
Metà dei cristiani libanesi sono schierati dalla parte di un uomo politico che si
è alleato con Hezbollah e Siria soltanto
per ottenere vantaggi personali: acquisire potere e arrivare così alla Presiden-
“
Il pericolo per il Paese
sta nell’asse formato
da Siria e Iran, che da noi
è rappresentato da Hezbollah.
Cerca di imporre, con la forza,
opinioni e cultura
”
za della Repubblica, anche se questo significa rinnegare la sua causa e i suoi
valori. Bisogna recuperare la cultura
tradizionale libanese e i suoi valori, basati sul pluralismo politico, sulla democrazia e sulla libertà, ed è questa la piazza comune in cui tutti i cristiani libanesi devono incontrarsi.
Riguardo al mondo arabo in generale, abbiamo assistito alle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto e stiamo
assistendo alle proteste in Libia,
Bahrein, Yemen. Secondo lei, che
impatto possono avere sul Libano
questi avvenimenti?
Innanzitutto bisogna dire che quanto è
accaduto e sta accadendo in questi Paesi è un fatto estremamente importante e
positivo. Oggi, i popoli ma soprattutto i
regimi arabi hanno preso coscienza del
fatto che nessuno può pretendere di detenere un potere assoluto per 20 o 30
anni, ed esercitarlo in modo oppressivo
e non democratico, continuando a credere di avere il popolo dalla sua parte.
Oggi, il popolo arabo sta vivendo un risveglio all’insegna della libertà, la democrazia e il pluralismo politico, e si
tratta di un evento storico di massima
rilevanza. Credo che da oggi in poi nessun regime potrà credere di poter governare il suo popolo con l’oppressione
e la repressione senza poi aspettarsi
una reazione.Ovviamente, questa ondata influenzerà anche il Libano, vedremo
se in senso negativo o positivo.Tuttavia,
se queste rivoluzioni genereranno maggiore libertà e democrazia, il Libano
non potrà che trarne vantaggio.
E riguardo alla Siria?
Oggi, dopo 30 anni di potere, Hosni Mubarak è stato deposto dal popolo. Così
come il regime siriano, anche quello
egiziano stava cercando di passare il
potere al suo figlio Gamal. Il regime siriano è stato il primo regime ad aver
sperimentato questa esperienza. Come
gli altri regimi che sono caduti e che cadranno, anche quello siriano è basato su
una politica oppressiva e repressiva, e
dunque vi è la concreta possibilità che
possa seguire il destino degli altri regimi arabi. Se ciò dovesse accadere,
avrebbe forti ripercussioni anche in Libano. Primo di tutto, diminuirà la pressione siriana sul Libano e nel caso i sunniti dovessero prendere il potere in Siria, ciò potrebbe rafforzare la posizione
della classe politica sunnita all’interno
del Libano.
E questo indebolirà Hezbollah?
Certo. Ad ogni modo, anche se il regime
siriano non dovesse cadere ora, Hezbollah sarà indebolito dalle rivolte dei cittadini che in Iran manifestano contro il
regime e chiedono democrazia.
Vi è secondo lei il rischio che queste rivolte possano prendere una
deriva islamista?
Io, sinceramente, non sono preoccupato
dall’eventualità che al potere possano
arrivare partiti islamici, per un semplice
motivo: il popolo che oggi è riuscito a
opporsi a regimi totalitari e oppressivi è
in grado di far fronte anche a eventuali
regimi di tipo confessionale. Dunque il
problema non è nella religione ma nel
carattere oppressivo o meno del regime.
Il popolo sta chiedendo maggiore libertà e apertura, e se la sua volontà è
quella di essere rappresentato da un
partito religioso, questa sarebbe l’espressione della democrazia. Nel mondo arabo vi sono regimi in cui la religione ha un ruolo centrale, ma non per
questo sono chiusi al mondo esterno o
limitano la libertà. Oggi c’è bisogno di
Paesi che abbiano un’apertura che gli
permetta di interfacciarsi con l’Occidente e l’Oriente, così da poter essere
partner e attori primari nelle dinamiche
regionali.
Come vede i prossimi mesi?
L’intera regione si troverà ad attraversa-
In alto da sinistra:
un check point sulla Blue
Line; una manifestazione ;
un’immagine di “Valzer
con Bashir”;
Nadim Gemayel;
un soldato; giovani
festeggiano la cacciata
siriana; il patriarca Sfeir;
sostenitori di Nasrallah;
Bashir Gemayel,
l’ex presidente ucciso
9 marzo 2011 • pagina 7
re una fase di grande instabilità e rivolte, e questo accadrà anche in Libano.
Ma superata questa fase, da qui a 5 anni, credo che anche in Libano vi sarà
maggiore stabilità, soprattutto se verranno disarmate le milizie illegali. Il nostro progetto per il Libano è quello di
tornare a farne un centro di attrazione
per l’intera regione, dal punto di vista
economico, commerciale, bancario e turistico. Vogliamo che il Libano torni ad
essere la “perla del Medioriente”, un
paese all’avanguardia dal punto di vista
culturale. Questo è il nostro sogno, che
in parte è stato già realizzato e sono certo riusciremo a portare a termine.
Questo è il sogno di tutti gli schieramenti politici in Libano?
Questo è il sogno di ogni libanese..
Di tutti i libanesi?
Di tutti i libanesi che credono nel Libano, non certo di coloro che conducono il
Libano verso guerre e distruzioni. I veri
libanesi, al di là del colore politico o
confessionale, credono nella stabilità,
nella sovranità, nella libertà, nella pace
e nell’apertura verso l’Occidente e l’Oriente.
Il problema di Hezbollah dunque è
rappresentato soltanto dalle sue
armi? Se dovesse disarmare, sarebbe un soggetto politico come gli
altri?
“
Oggi i popoli dell’area
hanno preso coscienza del fatto
che nessuno può pretendere
di detenere un potere assoluto
per 20 o 30 anni ed esercitarlo
in modo oppressivo
e non democratico
”
È proprio questo che noi chiediamo.
Hezbollah è libero di avere le sue idee
politiche e le sue opinioni, che dovrà
discutere attraverso i mezzi democratici, nel Parlamento libanese, e non
con la pressione delle armi. Nessuno,
in un paese democratico e in un periodo di pace, può imporre la sua opinione con le armi, oltretutto illegali e giustificate come un mezzo di difesa da
eventuali nemici.
il paginone
pagina 8 • 9 marzo 2011
Il fine supremo è quello di tutelare la vita fino alla morte naturale: quindi diciamo
segue dalla prima
La Corte non si è pronunciata con
sentenza su di un caso sottoposto
al suo esame. Essa ha piuttosto
enunciato un principio generale
autorizzando, in via preventiva,
la interruzione di trattamenti di
sostegno vitale somministrati ad
una giovane donna che, di conseguenza, è morta. Se un vuoto legislativo esiste, allora deve riempirlo, secondo la Costituzione,
non il potere giudiziario ma il potere legislativo. Di qui la necessità della legge che stiamo discutendo. Secondo la nostra Costituzione e la teoria generale del diritto, il Parlamento formula le
leggi, che sono norme generali
ed astratte. I giudici formulano la
norma del caso, che è sempre
particolare e concreta. Certo,
grande e fondamentale è il ruolo
della interpretazione delle leggi.
La interpretazione, però, non può
mai sostituirsi al legislatore.
Ma, si potrebbe argomentare, si
presentano talvolta al giudice casi
pietosi nei quali il sentimento di
umanità può spingere ad andare
oltre la legge esistente. Anche in
questi casi l’ordinamento offre al
giudice tutti i mezzi necessari per
adattare la sua pronuncia alla specificità del caso. Davanti all’omicidio per pietà commesso da un familiare nella convinzione di abbreviare le sofferenze di una persona cara il giudice può, se davvero la situazione lo richiede, prosciogliere l’imputato per incapacità di intendere e di volere a causa dello stress provocato dalla situazione di dolore insostenibile.
Lo stato può, e talvolta deve, astenersi dal giudicare. Davanti ad un
caso del genere Gesù, chiamato ad
esercitare la funzione di giudice, si
è astenuto dal giudicare, non ha
però cambiato la legge per affermare che ciò che è bene è male e
viceversa. Sgomberiamo dunque
il campo dal richiamo ai cosiddetti “casi pietosi”. Ad essi l’ordinamento provvede nel momento in
cui si giudicano le circostanze dell’azione. Le circostanze possono
diminuire o anche addirittura annullare la responsabilità per l’azione ma non possono determinare
un cambiamento della natura dell’azione. Il pronunciamento della
Cassazione non aveva questa natura, stabiliva una massima di carattere generale, affermava non la
non punibilità ma la liceità di un
comportamento. Di qui la necessità di un intervento legislativo.
Quale è la finalità di questa legge?
Essa vuole assicurare il diritto dell’uomo alla vita dal suo inizio fino
alla morte naturale. Questo diritto
deve essere riaffermato in una
condizione sociale mutata. La rivoluzione della scienza medica
rende oggi possibile il prolungare
indefinitamente il tempo della
agonia. Macchine sempre più perfezionate consentono di allontanare il tempo della morte pur senza
poterla evitare. È giusto usare
Contro il Far West
La legge sul “testamento biologico” scongiura che la dolce-morte
diventi un fenomeno gestito soltanto dalla magistratura
di Rocco Buttiglione
queste macchine fino a che esiste
una speranza di guarigione.
Quando tale speranza viene meno è giusto spegnere le macchine
e lasciare che la natura segua il
suo corso. È, questo, un principio
facile da enunciare ma non altrettanto facile da mettere in pratica. Per un aspetto è una decisione del medico. Per un altro, però,
è una decisione del paziente. È
giusto che il paziente possa decidere in una situazione che lo tocca
così da vicino.
D’altro canto il medico non è un
semplice esecutore privo di una
coscienza propria che gli dice cosa
è bene e cosa è male e non può
mai essere tenuto a fare qualcosa
diritto di rifiutare un trattamento,
ma non quello di imporre un trattamento di sua scelta. Ha il diritto
di dire di no. Decide il dialogo fra
medico e paziente, tale dialogo
però si svolge all’interno del limite
che abbiamo definito.
Che accade però nel caso in cui il
paziente non sia in grado di
esprimere un valido atto di volontà? Deve valere la volontà del
paziente e per questo sono opportune le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento.Tale volontà,
però, per le ragioni dette prima,
non può valere in modo assoluto
ed incondizionato. Vale la volontà del paziente nella misura
in cui ciò che essa chiede è ragionevole e proporzionato. Se
Quando sospendiamo le cure straordinarie
contro una determinata malattia il paziente muore
di quella malattia. Se gli neghiamo l’acqua ed il cibo
muore di fame e di sete. Siamo noi ad ucciderlo
che giudica contrario alla sua coscienza di uomo ed alla sua etica
professionale di medico. Come si
risolve questo dilemma? La legge
ha trovato, mi sembra, una soluzione equa. Se il paziente è in grado di esprimere la sua volontà il
medico non può imporgli alcun
trattamento sanitario che il paziente rifiuti. D’altro canto il paziente non può imporre al medico
di somministrargli trattamenti che
il medico in scienza e coscienza
giudichi dannosi. Il paziente ha il
chiedo, per esempio, di interrompere le cure quando esse hanno
ancora un livello assai elevato di
probabilità di successo o quando
esse non generano sofferenza
questo non è ragionevole. Egualmente non sarebbe ragionevole
rifiutare cure non straordinarie
ma ordinarie.
Le Dichiarazioni Anticipate di
Trattamento intervengono esattamente in questo spazio. Tra l’abbandono terapeutico e l’accani-
mento terapeutico esiste uno spazio di decisione legittima in cui il
paziente ha il diritto di intervenire
e di decidere. Tutti quelli che hanno visto morire una persona amata sanno quanto sia penoso e difficile dire: va bene, è tutto finito,
staccate il respiratore. La presenza
di Dichiarazioni Anticipate di Trattamento allevia la pena dei familiari e preserva il personale medico da possibili azioni giudiziarie.
Questa ultima, difficilissima decisione viene infatti presa con il consenso del paziente e su suo mandato. Lediamo un diritto del paziente se rifiutiamo di dare alle sue
dichiarazioni una validità incondizionata? Non sembra. La convenzione di Oviedo, che ho sentito
spesso citare in modo inesatto,
chiede che si tenga conto delle volontà espresse dal paziente. Non
sfugge a nessuno la differenza che
esiste fra il tenere conto ed il dare
esecuzione incondizionata.
Anche l’art. 32 della Costituzione
dice sí che «nessuno può essere
obbligato ad un determinato trattamento sanitario» ma aggiunge
subito «se non per disposizione di
legge».
Ho visto citare questo articolo innumerevoli volte ma mai nella
versione corretta. La Costituzione
istituisce una riserva di legge e
non una proibizione assoluta. Aggiunge poi, sempre il medesimo
art. 32. «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana».
Non è chiaro perché il rifiuto di da-
re corso ad una indicazione eutanasica debba essere considerato
come contrario alla dignità della
persona umana. Per lo meno altrettanto sostenibile la tesi opposta per cui è l’indicazione eutanasica a violare la dignità della persona. Si eviti in questo dibattito di
strumentalizzare la Costituzione.
Essa nasce da una larga convergenza nel popolo italiano, nella
quale i cattolici hanno avuto una
parte non secondaria. Se, sul tema
decisivo della vita, ci si dicesse che
i principi cattolici sono incostituzionali verrebbe meno il legame
che lega la Costituzione ad una
grande parte del popolo italiano. I
cattolici italiani hanno sostenuto
con convinzione e senza sbandamenti questa Costituzione ed intendono continuare a farlo. Se
però ci si venisse a dire che i nostri
principi ed i nostri valori sono incostituzionali allora dovremmo
dare ragione a quelli che dicono
che la Costituzione va cambiata e
che c’è bisogno di un’altra Costituzione. I cattolici italiani possono
accettare di essere sconfitti in una
libera battaglia democratica. Non
possono invece accettare di essere
qualificati a priori come cittadini
di seconda categoria che stanno,
per cosí dire, al di fuori del patto
costituzionale.
Quando abbiamo detto che il fine della legge è tutelare la vita fino alla morte naturale abbiamo
implicitamente affermato un
doppio no: no all’accanimento te-
il paginone
9 marzo 2011 • pagina 9
o no all’accanimento terapeutico e no all’abbandono terapeutico e alla eutanasia
essere di giovamento al paziente.
Abbiamo già riconosciuto il diritto
del paziente ad essere sottratto all’accanimento terapeutico. Ad un
certo punto le cure vengono sospese ed il paziente muore. Questo
è il modo in cui con ogni probabilità morirà ciascuno di noi.Talvolta però anche dopo la sospensione
delle cure il paziente si rifiuta di
morire. Rimane in uno stato di coma prolungato. Che fare in questo
caso? Ucciderlo visto che si rifiuta
di morire da solo? Esistono forze
potenti che spingono in questa direzione. I pazienti costano e se si
facessero morire rapidamente
quelli che non possono essere recuperati alla vita produttiva certamente i bilanci della sanità ne trarrebbero giovamento.
rapeutico e no all’abbandono terapeutico ed alla eutanasia. A me
sembra che molte critiche alla
legge nascano dal fatto che le si
rimprovera di non essere una legge eutanasica. Non lo è e non
vuole esserlo.Vorrei chiedere agli
avversari di questa legge un esame sereno. Valutate ciò che essa
contiene ed approvatela se trovate ragionevole il contenuto, rigettatela se il contenuto vi sembra
sbagliato. Non esprimetevi contro solo perché essa non contiene
la legalizzazione della eutanasia.
Se volete legalizzare la eutanasia
proponete voi un’altra legge che
lo faccia ma non accanitevi contro questa solo perché non afferma principi eutanasici.
Veniamo qui al punto più delicato
della legge. Il no alla eutanasia, in
questa legge, dipende da due
principi. Il primo è quello che
condiziona la cogenza delle indicazioni del paziente al principio
di ragionevolezza e di proporzionalità. Se il paziente chiedesse di
essere ucciso attraverso la omissione di pratiche mediche dovute,
a questo desiderio non dovrebbe
essere dato corso.
Diverso è il caso in cui il paziente chieda la omissione di pratiche
mediche non dovute, futili, non necessarie o inutilmente invasive,
anche nel caso in cui tale omissione accellerasse la fine della vita
del paziente.
Il secondo principio è il rifiuto di
interrompere la alimentazione ed
idratazione artificiali se non nel
caso in cui esse non possano più
A noi che guardiamo il paziente
in coma la sua vista è spesso dolorosissima ed ostacola il nostro tornare ad una vita normale. Noi
però riteniamo che questo non sia
giusto. Il paziente in coma è un uomo che vive. Non dà segni evidenti di sofferenza. Dopo un anno di
coma prolungato è assai improbabile che si risvegli. Talvolta però
questo avviene.
Non avendo il coraggio di proporre la uccisione diretta del paziente
alcuni chiedono che lo si privi dell’alimentazione e della idratazione. A noi sembra che questa proposta non sia accettabile. Quando
sospendiamo le cure straordinarie
contro una determinata malattia il
paziente muore di quella malattia.
Se gli neghiamo l’acqua ed il cibo
muore di fame e di sete, siamo noi
ad ucciderlo.
Si può obiettare che noi non imponiamo l’alimentazione artificiale a
chi la rifiuta. Non sarebbe giusto,
allora, evitare di somministrarla
quando il paziente lo chieda nelle
sue Dichiarazioni Anticipate di
Trattamento? No, perché la rinuncia a trattamenti di sostegno vitale
o a terapie salvavita è un atto personalissimo che non si può delegare a nessuno. La ragione sta nel
carattere straordinario ed irreversibile di questo atto. Ogni atto di
volontà ha luogo in una specifica
situazione esistenziale. La situazione nel coma è assai diversa da
quella del momento in cui il documento è stato scritto. Un esempio
ci aiuta a capire. Prendiamo il caso di un tentato suicidio. Qui la decisione è stata presa poche ore pri-
ma ed è stata suggellata non con
l’inchiostro ma con il sangue. Tuttavia noi curiamo quelli che tentano il suicidio ed essi per lo più sono contenti di essere salvati. Non è
questa una dimostrazione eloquente di come sia fragile e precario il fenomeno della volontà in
circostanze di eccezione come cer-
tro il dolore derivi la morte del paziente stesso. Questa non è eutanasia e questo emendamento rassicurerebbe molti che pensano di
essere a favore della eutanasia
ma in realtà vogliono semplicemente essere protetti contro il dolore. Esso potrebbe inoltre introdurre un momento di unità oggi
La convenzione di Oviedo, spesso citata in
modo inesatto, chiede che si tenga conto delle volontà
del paziente. Non sfugge a nessuno la differenza
fra il tenere conto ed il dare esecuzione incondizionata
tamente è lo stare davanti alla
morte? Vi è poi un ulteriore problema pratico. Nella gran parte dei
casi si procede alla alimentazione
ed idratazione artificiale in un momento in cui le speranze di recupero sono grandi. Nella pratica medica non si tratterebbe di non dare
alimentazione ed idratazione ma
di interrompere alimentazione ed
idratazione in atto provocando
non con una omissione ma con
una azione diretta la morte del paziente. Per di più c’è da essere
preoccupati che la propaganda
sconsiderata che si fa su questi temi possa indurre molti giovani a
formulare, se ne avranno la possibilità, Dichiarazioni Anticipate di
Trattamento con le quali rifiutano
l’alimentazione ed idratazione artificiale che, nella grande maggioranza dei casi, porterebbero al loro pieno recupero.
Quella di cui stiamo discutendo è
una buona legge. Come tutte le cose umane, tuttavia, può essere migliorata ed il mio partito proporrà
pochi ma importanti emendamenti. Uno mi sembra particolarmente
significativo e tale da potere avere
un ampio consenso.Talvolta accade che questa o quella ricerca di
opinione affermi che esiste nel
nostro Paese una maggioranza a
favore della eutanasia. In realtà
questa convinzione illusoria deriva da una confusione concettuale.
Nessuno di noi desidera morire in
mezzo ad atroci sofferenze o, peggio, vedere morire in mezzo ad
atroci sofferenze una persona
amata. Noi vorremmo scrivere in
questa legge che il paziente ha diritto alla protezione contro il dolore anche nel caso in cui come
conseguenza non intenzionale
ma prevedibile dalla terapia con-
più che mai necessario nel Parlamento e nel Paese.Se si apre uno
spiraglio alla eutanasia con questa legge presto inizierà la pressione perché questo spiraglio
venga allargato e per fare della eutanasia un fenomeno di massa.
C’è un film bellissimo in Germania che illustra un tipico “caso pietoso”. Un medico uccide
per pietà la moglie affetta da
una malattia terribile ed incurabile. Alla fine però non chiede
umana comprensione e perdono, vuole invece affermare di
avere fatto la cosa giusta e chiede che la legge lo riconosca.
Quel film iniziò nella Germania
degli anni 30 la campagna nazista a favore della eutanasia.
Una volta affermato il principio
esso rapidamente dilagò ed assunse dimensioni di massa. Alla
fine qualche centinaio di migliaia di innocenti furono privati della vita e non ci si scomodò
troppo per chiedere il loro consenso. Dire no alla eutanasia
però non è sufficiente. C’è una
potenziale domanda di massa di
eutanasia che deriva da una
condizione anziana che diventa
sempre più invivibile. Molti anziani vivono isolati, hanno perso la connessione viva con le loro famiglie, sono depressi perchè convinti che la loro vita non
sia importante per nessuno e
non porti gioia a nessuno. È urgente sviluppare una politica di
sostegno alla condizione anziana come parte integrante di una
più generale politica della famiglia. Sarebbe ipocrita dire no alla eutanasia e poi lasciare il paziente terminale ed in generale
l’anziano in una condizione di
alienazione e di abbandono.
Napolitano denuncia la condizione delle donne in Italia. Siamo al settantaquattresimo posto su 128 Paesi per uguaglianza di genere
Il presidente rosa
«È necessario incidere oggi sulla concezione del ruolo femminile
e su un’immagine consumistica che la riduce da soggetto a oggetto»
di Riccardo Paradisi
necessaria un’opera di rinnovamento
morale alla quale
le donne di oggi,
come quelle di ieri, sono chiamate a dare un contributo fondamentale». Giorgio Napolitano come obbliga il suo ruolo
istituzionale vola molto alto nel
suo discorso alla cerimonia per
la giornata internazionale della
donna che s’è tenuta al Quirinale, ma chi vuole intendere intende bene come sia preciso e
tagliente il suo riferimento all’immoralità pubblica dilagante
sulla scena italiana. Non solo
politica ma anche mediatica.
«È
Il capo dello Stato parla infatti di ”una rilevante responsabilità”nel contrastare l immagine della donna come oggetto
da parte dei mezzi di comunicazione e di «quanti hanno ruoli preminenti in tutti gli ambiti e
nelle professioni».Insomma
una reprimenda a 360 gradi
che si traduce in un appello rivolto alle donne perché reagiscano: «Alle donne in particolare – dice infatti il presidente –
tocca offrire validi modelli di
comportamento. Per raggiungere una parità sostanziale –
secondo il presidente – è infatti
necessario incidere essenzialmente sulla cultura diffusa, sulla concezione del ruolo della
donna, sugli squilibri persistenti e capillari nelle relazioni tra i
generi su un’immagine consumistica che la riduce da soggetto a oggetto, propiziando comportamenti aggressivi che arrivano fino al delitto».
Sul compito di incidere, gramscianamente sulla cultura diffusa, Napolitano insiste: «il
progresso femminile – dice –
non si deve solo a figure professionalmente eccezionali, ma
anche e molto a persone normali che hanno infranto barriere, consuetudini stantie, a donne coraggiose che hanno distrutto vergognosi privilegi
maschili». A rappresentare le
istituzioni durante la cerimonia
del Quirinale i vicepresidenti di
Senato e Camera, Rosi Mauro e
Rosy Bindi, e le ministre Mara
Carfagna e Mariastella Gelmini a loro e a chi lo ascolta Napolitano indica il modello di
una donna che ”non è entrata
nei libri di storia” ma la storia
del suo Paese l’ha fatta. Si tratta di Franca Viola che «nel 1966
rifiutò di concedere il matrimo-
nio riparatore al giovane mafioso che l’aveva rapita e violentata». Aggiunge il presidente: «Il suo comportamento contribuì a determinare la revisione della norma e conferì alla
parola onore il significato che
deve avere, cioè rispetto di sé,
rispetto da parte degli altri».
Insomma, «è evidente che
le donne stesse devono agire
da protagoniste nel condurre
fino in fondo la marcia verso la
parità. Ma gli uomini non sono
esentati dal dovere di comportarsi come loro validi e solidali
compagni». Così come «le
lotte per la libertà politica non sono esclusiva
dei dissidenti, quelle
per la tolleranza non
toccano solo le minoranze».
Il presidente della Repubblica
sottolinea
quindi che proprio
questa marcia verso
la parità tra uomo e
donna «deve essere
una causa comune
che coinvolga chi
assuma come propri i valori democratici». Ne con-
segue che «l’ulteriore cammino
verso la parità di genere non
può non essere parte di una generale ripresa di valori civili».
Nota poi con soddisfazione Napolitano
che
«Quest’anno,
in occasione
del 150° anniversario dell’Unità
d’Italia, ci si sta giustamente
adoperando anche per valorizzare la partecipazione femminile al percorso risorgimentale
e per rendere onore al contributo venuto dall’universo femminile all’avanzamento generale della società nazionale».
Eppure se nell’ultimo mezzo
secolo si sono fatti passi da gigante sulla via dell’emancipazione «Le donne italiane – nota
amaramente Napolitano – sono
ancora lontane dall’aver
conquistato la parità in
molti campi». Il capo
dello Stato ricorda
come il divario di genere, che risulta anche dai rapporti internazionali, «si registri nella rappresentanza politica,
nei media, ancora
in qualche carriera pubblica, nella
conduzione delle
imprese».
Più in generale,
aggiunge Napolitano, si trovano
«divario e strozzature che pesano
società
9 marzo 2011 • pagina 11
«Ora faccio politica perché vinca la dignità»
Maria Raciti aderisce ai Circoli liberal e all’Udc: «Qui a Catania non mi fanno nemmeno parlare nelle scuole»
ROMA. C’è un coraggio che deve farsi
sfrontatezza. Al Sud più che altrove.
Mettersi in gioco, sfidare il pregiudizio, la cultura omertosa con cui la mafia avvelena i giovani, è difficile per
chiunque. Figurarsi per una donna, figurarsi per una donna «vedova di uno
sbirro ammazzato a Catania». Perché
negli occhi allo stesso tempo tristi e illuminati da genuina speranza di Marisa Grasso c’è tutta questa consapevolezza: «Sono la vedova di Filippo Raciti, cioè di un poliziotto. Ho raccontato
la mia storia, il mio desiderio di impegnarmi per gli altri, in tutte le scuole
d’Italia. A tutti ho parlato di legalità, di
prevenzione non solo negli stadi. Centinaia di ragazzi mi hanno ascoltato.
Tutti, ma non a Catania. Lì resto appunto la vedova di uno sbirro». Filippo
Raciti è morto negli scontri scoppiati
durante un Catania-Palermo di quattro anni fa, il 2 febbraio 2007, eppure
la città ancora non riesce a farci i conti, con quella tragedia. Lei però non
aspetta. Sfida la diffidenza che la circonda nella città che piange più per la
condanna a quattordici anni di Antonio Speziale che per suo marito. «Voglio far cominciare proprio da qui il
mio impegno nella vita pubblica».
Marisa Grasso aderisce ai Circoli liberal, e attraverso questi «alla scommessa del presidente Casini». Lo annuncia l’8 marzo, come è giusto per una
donna del Sud che vuole sottrarsi all’effigie già scolpita da altri.
Dopo la forza per reagire al dolore le resta davvero ancora la forza per lottare nella società?
È talmente grande il dolore che dovevo trovare una strada per dargli un
senso. Ho pensato che un modo potesse essere proprio questo: impegnarmi
perché un dolore come quello che vivo
io non debba capitare ad altri, ad altre
famiglie. Mi spinge quel velo di tristezza che vedo sempre negli occhi dei
miei figli.
È appena partito uno dei processi d’appello per l’omicidio di suo
marito: alla prima udienza sua figlia Fabiana ha chiesto giustizia,
in lacrime.
nell’accesso al mercato del lavoro». Per il presidente della
Repubblica di questa situazione «ne soffrono soprattutto le
ragazze, le giovani in cerca di
occupazione che vedono sacrificate tante energie e potenzialità».
Nel corso della cerimonia, Napolitano ha anche nominato
Franca Valeri Cavaliere di Gran
Croce, 93 anni, la più longeva
attrice del cinema e del teatro
italiano, una delle più amate.
Motivazione: «La sua maestria
e ironia» nel dipingere, durante
la lunghissima carriera, un’infinità di ritratti femminili, mai
volgari, mai banali.
Un allarme quello di Napolitano supportato dai dati forniti
dal World Economic Forum dove l’Italia è al 74imo posto su
di Errico Novi
Non è una questione di perdono o non
perdono, vorrei si capisse. In questi
quattro anni trascorsi dalla morte di Filippo spesso mi sono chiesta: visto che
sono stati dei giovani, dei ragazzi a colpirlo, come devo rispondere? Ho pensato: devo comportarmi da sorella
maggiore. Parlare con i giovani. L’ho
fatto nelle scuole di tutta Italia, appunto. Tranne a Catania, dove finora non
me l’hanno permesso. Mi dicono che
non ci sono le condizioni.
Ciononostante lei adesso, impegnandosi in politica, lancia una
sfida al rialzo contro questa diffidenza.
Ripeto: dovevo dare un senso a qualcosa che non ne aveva. Ho trovato questo
senso in una spinta in positivo da offrire agli altri. Difficile altrimenti reagire
a un atto assurdo.
Nella follia costata la vita a suo
marito Filippo c’è anche un rifiuto verso lo Stato?
Mi chiedo: come può esistere una repubblica democratica, una repubblica
“
Dovevo dare un senso
al mio dolore, l’ho trovato
impegnandomi nel difendere
gli stessi valori per i quali
è morto mio marito Filippo
”
fondata sul lavoro, se non si ha rispetto per il lavoro delle persone in divisa?
E qui, in Sicilia, è più difficile: io qui
sarò sempre e comunque la vedova di
uno sbirro ammazzato.
Ci sono colpe dello Stato dietro la
follia dei giovani assassini di Filippo?
I ragazzi non hanno esempi che insegnino cosa sia il valore, la dignità, il rispetto. E in Sicilia bisogna lottare anche contro il linguaggio mafioso. Che è
omertà non solo dei criminali, ma anche di chi non prende una posizione.
128 Paesi per uguaglianza di
genere. Le donne italiane continuano infatti ad essere discriminate nel lavoro, sono sottooccupate e sotto-pagate, e per
molte donne la sola prospettiva
di una possibile gravidanza è
un grave handicap nell’ottenimento di un impiego.
Di chi assiste inerte al maltrattamento
di altri. Di chi ha responsabilità e non
fa nulla.
Cosa teme di più?
Mi ferisce per esempio il comportamento del comune di Catania: eravamo in attesa che a Filippo venisse intitolata una strada, un aeroporto, una
scuola. Gli hanno dato uno slargo, un
posto dove non ho
nemmeno il coraggio di
portare mio figlio Alessio. Non mi va che veda
cosa ha dato la città in
cambio della vita di suo
padre.
Sceglie l’8 marzo
per mettersi in
gioco: per una
donna del Sud c’è
sempre un muro
in più da abbattere.
Sapevo cosa poteva
aspettarmi da quando
decisi di sposare Filippo: avrei dovuto essere
responsabile in tutto e
per tutto, sapevo che lui c’era e non c’era. Diventata la vedova Raciti la difficoltà si è moltiplicata. Ne ho vissuto le
conseguenze nel mio lavoro, nel mio
ambiente circoscritto.
Diffidenza?
Sono la vedova di uno sbirro e tento di
difendermi con la dignità, l’educazione. Andarsene sarebbe stata una sconfitta non solo per me. Tento di rispondere impegnandomi affinché le cose
cambino.
Lei è un modello di donna alternativo, di questi tempi.
Le donne a volte trovano più facile
cambiare ruolo e ridursi a oggetto di
desiderio. Preferiscono non lottare per
altri obiettivi, non cercare di essere un
esempio di dignità per i propri figli. Eppure la donna ha un ruolo decisivo, tutte dovrebbero esserne consapevoli. Dal
concepimento alla crescita dei figli, ci
facciamo carico di una funzione che è
solo nostra. C’è però chi trova più co-
lenzio quasi di rassegnazione.
Il quadro non migliora se ad essere presi in considerazione sono i dati dell’Istat. Fra i giovani
che non studiano né lavorano (i
cosiddetti Neet) fenomeno
preoccupante che s’è affacciato
modo sottrarsi a questa responsabilità.
Eppure io che me le assumo, a volte ho
l’impressione di diventare un capro
espiatorio persino per altre donne, per
quelle che le famiglie le distruggono.
I suoi sono i valori di un cattolico
impegnato.
Faccio catechismo ai ragazzi.
Cerco di dimostrare che il rispetto verso se stessi va sempre difeso. Capisco che ci sono valori più
a portata di mano: il
benessere economico
facilmente prevale sui
valori della persona.
Eppure non immagino
gioia più grande, più
vera, che ottenere un
risultato utile per sé e
per gli altri dopo aver
sacrificato qualcosa.
Lei è riuscita a perdonare?
Riesco a comprendere.
Capisco che ai ragazzi,
anche a chi ha provocato la morte di Filippo, mancano esempi.
Manca una cultura positiva. Mio marito ha
indossato la divisa con onore e con
onestà. Si è esposto al rischio della
morte non certo per quello che gli pagavano, ma per quello in cui ha creduto. L’Italia deve essere orgogliosa di
aver avuto tra i suoi servitori un uomo
come mio marito.
L’Italia merita un servitore come
Filippo?
Mi sono spesso chiesta: bisognava
aspettare che lui morisse? Non erano
anni che dopo ogni Palermo-Catania si
contavano i feriti, le milze spappolate?
La prevenzione è una via migliore della repressione, ma la prevenzione dovrebbe essere soprattutto far comprendere il valore della legalità a chi non
riesce a recepirlo.
Non la spaventa fare politica a
Catania da vedova di uno sbirro?
No.Voglio mettere un impegno costruttivo a disposizione degli altri. È bello
donarsi nel posto in cui ho visto i miei
figli privati dell’amore di mio marito.
rispetto al tempo libero. In percentuale, le giovani che non
studiano e non lavorano sono il
29,9%, un valore piú alto di
quello maschile (22,9%). Il livello è molto elevato tra le giovani con basso titolo di studio
Alle giovani donne spetta il primato negativo
della disoccupazione (con punte del 53,7% al Sud) come
dell’impegno nel lavoro familiare rispetto al tempo libero
In politica, la partecipazione femminile continua
ad essere bassa e nel mondo della cultura le donne
continuano a giocare un ruolo
troppo limitato e ciò che è peggio è che in prospettiva, nulla
consente di immaginare che
l’immediato futuro riservi novità positive sul terreno dell’eguaglianza di genere, mentre
sul fronte dell’associazionismo
femminile si percepisce un si-
sulla scena italiana negli ultimi
anni prevalgono ancora le donne: si tratta di 1 milione 153 mila nella classe di età 18-29 anni.
E sempre alle giovani donne
spetta il primato negativo della
disoccupazione (con punte del
53,7% al sud) come anche dell’impegno nel lavoro familiare
(43,8%), ma si mantiene intorno a un quarto per le diplomate
e le laureate. Il tasso di disoccupazione femminile, fra i 18-29
anni, poi è al 21,1% contro il
18,4% di quello maschile.
Il divario tra i due generi si accentua inoltre tra i giovani che
hanno una famiglia propria: in
questo caso, la durata del lavoro familiare è pari a 5 ore e 47
minuti per le donne, contro 1
ora e 53 dei coetanei maschi; a
ció va aggiunto che le donne
svolgono almeno un’attività di
lavoro familiare nel 98,6% dei
casi, a fronte del 52% dei
coetanei.
Eppure malgrado gli
svantaggi oggettivi sembra indomita nelle donne più che negli uomini
la voglia d’indipendenza: è vero che la maggior parte delle
giovani donne vive ancora
con i genitori ma in minoranza rispetto ai maschi. Un segnale questo positivo e che
malgrado tutto indica un alto
grado di combattività delle
donne italiane.
diario
pagina 12 • 9 marzo 2011
’Ndrangheta,
41 arresti in 4 Stati
REGGIO CALABRIA. I carabinieri del Comando provinciale
di Reggio Calabria e il Ros, e la
squadra mobile della questura
di Reggio Calabria hanno eseguito 41 ordinanze
di custodia cautelare in Italia, Germania, Canada e Australia di soggetti ritenuti appartenenti
alle cosche della ’ndrangheta. L’operazione «Il
Crimine 2» segue la prima tranche dello scorso
mese di agosto, quando finirono in manette trecento persone tra la Calabria e il Nord d’Italia, in
particolare in Lombardia, ma anche all’estero
dove sarebbe stato replicato il modello organizzativo calabrese da parte di quelle articolazioni
che risultano dipendenti dai vertici decisionali
del territorio reggino.
Stalking, molestata
per 9 anni dall’ex
Italia-Serbia: Ivan
condannato a 3 anni
ROMA. Gli agenti del Commissariato Esposizione hanno arrestato l’ex compagno di una donna che era stata vittima di atti
persecutori per nove anni. Nel 2003 infatti un uomo, conosciuto per motivi di lavoro, aveva iniziato
ad infastidirla e a perseguitarla attraverso lettere
e telefonate anonime indirizzate anche ai suoi parenti, amici, colleghi e vicini di casa, rendendole la
vita impossibile. Disperata, la signora, di origini
toscane, si era rivolta agli agenti del commissariato Esposizione, diretti da Giuseppe Piervirgili, che
hanno aperto le indagini. Per inchiodarlo, gli investigatori hanno effettuato appostamenti lungo tutta l’area, in attesa di coglierlo in flagrante. Qualche giorno fa il cerchio si è finalmente chiuso.
ROMA. Condannato a tre anni e
tre mesi di carcere Ivan Bogdanov, uno dei quattro tifosi serbi
processati ieri con rito abbreviato al Tribunale di Genova per gli incidenti del
12 ottobre scorso allo stadio Marassi in occasione della partita Italia-Serbia, sospesa per disordini. Il giudice per l’udienza preliminare, Annalisa Giacalone, ha anche condannato Daniel
Janjic a due anni e otto mesi, Nicola Klicovic a
tre anni e Srdan Jovetic a due anni e sei mesi. A
tutti sono state concesse le attenuanti generiche.
Riccardo Dirella, difensore dei quattro ultra serbi condannati ieri, ha subito criticato la condanna. «Sono dentro da cinque mesi e se non fossero serbi sarebbero già usciti».
I dati di palazzo Koch evidenziano un aumento dei mutui che metterà in ginocchio il ceto medio e il piccolo artigianato
I conti in banca fanno crac
L’allarme di Bankitalia: sempre più prestiti richiesti e meno soldi
di Alessandro D’Amato
I prestiti alle
famiglie italiane
erogati da istituti
di credito e
bancari non
scendono oramai
dal dicembre del
2009, quando si
erano attestati sul
più 3,5 per cento.
L’indebidamento
pubblico si sposa
con un crollo dei
depositi che
preoccupa la
nostra Banca
centrale: meno
liquidità significa
infatti aumento
dei prezzi
tassi di interesse sui mutui per l’acquisto di abitazioni erogati a gennaio 2011 alle famiglie sono aumentati al 3,36 per cento dal 3,18
per cento di dicembre, mentre quelli
sulle nuove operazioni di credito al
consumo sono aumentati all’8,78
dall’8,33 per cento di dicembre. Pressoché stabili i tassi passivi sui depositi
in essere (0,69 contro 0,70 per cento
del mese precedente). È quanto emerge dal supplemento ”Moneta e banche” della Banca d’Italia, che rileva come il tasso di crescita sui dodici mesi
dei prestiti al settore privato, corretto
per le cartolarizzazioni cancellate dai
bilanci bancari, è salito al 4,8 per cento rispetto al 3,6 per cento di dicembre.
Il tasso di crescita sui dodici mesi dei
prestiti alle società non finanziarie è
salito al 4,2 per cento dal 2 per cento
del mese precedente mentre è rimasto
invariato al 5 per cento l’analogo tasso
di crescita per il credito alle famiglie.
I
I prestiti alle famiglie non scendono
ormai da dicembre 2009, quando si
erano attestati a +3,5 per cento. Il tasso di crescita sui dodici mesi delle sofferenze - non corretto per le cartolarizzazioni ma tenendo conto delle discontinuità statistiche - rimane sostanzialmente stabile al 30 per cento
dal 29,9 per cento di dicembre. I depositi del settore privato - al netto di
quelli di controparti centrali e di quelli connessi con operazioni di cartolarizzazione - registrano una variazione
negativa (-1,7 per cento su base annua
rispetto al -1,2 per cento di dicembre).
Il tasso di crescita sui dodici mesi della raccolta obbligazionaria rimane negativo e pari a -1,6 per cento (invariato rispetto a dicembre). Per quanto riguarda i tassi di interesse, a gennaio
quelli sui nuovi finanziamenti alle imprese erogati nel mese sono diminuiti
di 10 punti base, al 2,69 per cento.
La discesa è guidata dai tassi sui
prestiti di importo superiore a 1 milio-
ne di euro (2,36 per cento rispetto al
2,56 per cento di dicembre), mentre rimangono pressoché stabili i tassi sui
prestiti di importo inferiore a tale soglia (3,26 dal 3,24 per cento del mese
precedente). Bankitalia ricorda comunque che da giugno, le banche hanno inserito nei prestiti alcune operazioni di cartolarizzazione (cessione di
attività o beni di una società attraverso l’emissione ed il collocamento di titoli), e questo può aver aumentato il
computo totale e i conteggi finali.
Per Adusbef e Federconsumatori,
«ancora una volta il sistema bancario
fa pagare alle famiglie i costi delle
operazioni spregiudicate alle imprese
e di allegri finanziamenti erogati senza alcun merito di credito, come dimo-
stra l’aumento delle sofferenze bancarie arrivate al 30%». «Mutui e prestiti
sono infatti più cari per le famiglie a
gennaio - spiegano Lannutti e Trefiletti - mentre gli interessi riconosciuti sui
conti correnti si abbassano, con le
banche che introducono “un pizzo”di 3
euro, una vera e propria tassa sugli
anziani per poter prelevare i propri
soldi alla sportello».
«Se i prestiti oltre un milione di euro per le società non finanziarie riescono a ridursi dal 2,56% al 2,36%,
mentre i tassi sul credito al consumo
sono aumentati di quasi mezzo punto
dall’8,33% all’ all’8,78% e i mutui aumentano ancor prima dei rialzi dei
tassi di riferimento Bce del 7 aprile concludono - vuol dire che la manovra
del sistema bancario per far quadrare
i conti, è addossata totalmente sulle
spalle delle famiglie».
Secondo il Codacons, «l’aumento del
costo dei mutui è un dato molto preoccupante, specie se si considera che la
Bce ha già annunciato un possibile aumento del tasso di riferimento a partire
da aprile, cosa che metterebbe in difficoltà con il pagamento delle rate almeno 30.000 famiglie che attualmente riescono a onorare ancora i loro debiti».
Di qui la richiesta del Codacons al
ministro Tremonti di rivedere immediatamente il Decreto 21 giugno 2010,
n. 132, ampliando le condizioni necessarie per poter sospendere il pagamento delle rate, a cominciare da
quella di aver avuto un aumento di ra-
9 marzo 2011 • pagina 13
e di
cronach
Direttore Editoriale
Ferdinando Adornato
Yara, controlli su dna di 40 persone
L’assassino potrebbe essere donna
BERGAMO. È ripartito il giro degli interrogatori a tappeto
da parte degli investigatori che indagano sulll’assassinio di
Yara Gambirasio. Sono decine le persone che erano già state sentite nelle settimane successive alla scomparsa della
ragazza e che vengono convocate di nuovo dalla polizia e
carabinieri. E di una quarantina di loro sarebbe già disponibile il Dna, prelevato duranti quegli incontri in modo
coattivo, cioè a loro insaputa tramite biccheri, tazze di caffè
o sigarette. Non potranno avere valore legale ma potranno
servire a indirizzare le indagini una volta arrivata la relazione del medico legale che ha condotto l’autopsia. Per la
consegna dovrebbe essere ormai questione di poco tempo,
anche se un primo incontro tra l’anatomopatologa Cristina
Cattaneo e la pm Letizia Ruggeri, previsto per ieri, è stato
rinviato. Nel frattempo nessuno conferma o smentisce le indiscrezioni. Da quelle nei giorni scorsi sul fatto che Yara sia
Direttore da Washington
Michael Novak
Consiglio di direzione
Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio,
Gennaro Malgieri
Ufficio centrale
Gloria Piccioni (direttore responsabile)
Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori)
Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore)
Antonella Giuli (vicecaporedattore)
Franco Insardà, Luisa Arezzo
Stefano Zaccagnini (grafica)
stata uccisa per soffocamento o sull’identikit sull’assassino
(un uomo alto 1,75 e sui 73-77 chili) fino alle ipotesi di ieri,
secondo le quali, vista la scarsa forza delle coltellate (che,
sebbene in grande numero, non sono state fatali) l’omicida
potrebbe essere una donna. Ipotesi, questa, che non solo
contrasta con i dati dell’identikit, ma fa cadere il movente
principale, quello sessuale, e quindi darebbe un indirizzo
completamente diverso alle indagini.
Da sinistra il Governatore della Banca
centrale d’Italia Draghi e il ministro
dell’Economia Giulio Tremonti
Redazione
Mario Accongiagioco,
Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio,
Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico,
Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
Inserto MOBYDICK
(Gloria Piccioni)
Collaboratori
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Renato Cristin, Francesco D’Agostino
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Aldo Forbice, Antonio Funiciello,
Giancarlo Galli, Pietro Gallina,
Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola,
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi,
Francesco Napoli, Ernst Nolte,
Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini,
Adriano Petrucci, Leone Piccioni,
Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes,
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Loretto Rafanelli, Franco Ricordi,
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Katrin Schirner, Emilio Spedicato,
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Domenico Kappler, Antonio Manzo
Angelo Maria Sanza
ta mensile di almeno il 20%. «Questi
dati - spiega l’associazione dei consumatori - dimostrano che anche il ceto
medio italiano ha sempre meno soldi
ed è costretto, per far fronte alle spese
di tutti i giorni, o ad attingere alle riserve liquide del conto corrente o a indebitarsi. In pratica la crisi non riguarda più solo gli individui poveri,
ma anche chi, fino al 2008, occupava
una posizione intermedia nella distribuzione della ricchezza, come piccoli
commercianti e artigiani». «I dati di
Bankitalia confermano l’accelerazione della contrazione del risparmio
netto delle famiglie italiane. E l’inevitabile conseguenza dell’elevata disoccupazione, dell’assenza di indennità
di disoccupazione per il lavoratori
precari, dei tagli ai servizi pubblici,
degli aumenti delle tariffe, degli effetti dell’inflazione sul potere d’acquisto», dice invece Stefano Fassina, della segreteria del Partito Democratico,
responsabile Economia e Lavoro del
Partito democratico.
«L’erosione del risparmio e l’aumento del debito delle famiglie -aggiunge- non riesce comunque a evitare la stagflazione che segna l’economia italiana. Il governo ha enormi responsabilità per quanto avviene. È necessario avviare i primi passi di una
riforma Irpef a sostegno dei redditi
medi e bassi da finanziare con l’innal-
Le associazioni
dei consumatori
e l’opposizione
vanno all’attacco:
«Il governo
distrugge il potere
d’acquisto italiano»
zamento della tassazione delle rendite. Con il decreto sul fisco municipale
- conclude Fassina - Berlusconi, Bossi
e Tremonti hanno fatto esattamente il
contrario: premiano la rendita e colpiscono i patrimoni artigiani, i commercianti e le imprese«. La Uil chiede invece il taglio delle tasse: per far fronte
all’aumento dei tassi sul credito al
consumo così come agli aumenti sui
mutui «serve un primo passo verso
una riforma fiscale che diminuendo le
tasse ai lavoratori e alle imprese aumenti il potere d’acquisto», dice il segretario confederale Antonio Foccillo,
commentando i dati resi noti da
Bankitalia.
«Di questo passo - ha affermato Foccillo - come sta già avvenendo, aumen-
teranno le richieste di prestiti bancari
da parte di famiglie e imprese e diminuiranno i soldi in deposito sui conti
correnti. Serve, allora, un primo passo
nella direzione di una riforma fiscale
che diminuendo le tasse ai lavoratori e
alle imprese aumenti il potere d`acquisto e del quale, successivamente, potranno beneficiare i livelli occupazionali e l`insieme della nostra economia». «Sarebbe utile - ha concluso il
sindacalista - un maggior controllo
dell`andamento dei prezzi dei beni
energetici, addizionali comprese, che
limiti i possibili effetti di una forte
speculazione, suscettibile di impedire
al nostro Paese il raggiungimento dei
livelli di crescita che si intravedono in
Europa».
Intanto è notizia di ieri che la nuova tornata di stress test sulle banche
europee coinvolgerà 88 istituti di credito, tre in meno della verifica dello
scorso anno. L’esame di concentrerà
su due scenari: uno di base e uno di
shock per il rischio sovrano. Secondo
quanto riportato dal Messaggero, i
rappresentanti delle cinque banche
italiane coinvolte, Intesa Sanpaolo,
Unicredit, Mps, Banco Popolare e Ubi,
sono stati convocati dalla Banca d’Italia per venerdì prossimo alle 11. Lo
scopo dell’incontro sarebbe la definizione dei parametri per svolgere il
nuovo test.
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alle ore 19.30
pagina 14 • 9 marzo 2011
grandangolo
Globalizzazione e nuovi servizi d’informazione e sicurezza
Le spie?
In Borsa!
E la Difesa
rimane
senza armi...
L’esperto in strategie militari Carlo Jean
e l’economista Paolo Savona spiegano
la nuova frontiera dell’interesse nazionale
nei tempi delle guerre finanziarie
e dei conflitti per le risorse naturali. E come
il controspionaggio economico stia
diventando fondamentale per ogni Paese
del mondo sviluppato (che voglia restare tale)
di Pierre Chiartano
i tempi della battaglia di Waterloo gli agenti del banchiere de
Rothschild facevano la spola attraverso la Manica per avere notizie fresche sugli esiti della battaglia
napoleonica. Informazioni da poter
sfruttare alla Borsa di Londra. E il giovane rampollo della stirpe di finanzieri
tedeschi giocò su di una falsa notizia:
Napoleone aveva vinto. Le azioni inglesi crollarono, lui rastrellò il più possibile. Per poi dare la notizia vera. Basterebbe questo episodio per capire quanto sia
importante l’intelligence economica.
«Per fare una guerra in economia le armi non servono. Avere informazioni altrui, proteggendo le proprie, è sufficiente per ipotecare la vittoria. Per questo, a
livello internazionale, l’intelligence economica ha acquisito sempre più importanza nell’apparato statale» spiega a liberal il generale Carlo Jean, già consigliere della presidenza della Repubblica. In Italia, invece, tale consapevolezza
pare non si sia ancora affermata, almeno non nella forma che sarebbe auspicabile. L’argomento è il tema di un libro
appena pubblicato: Intelligence economica. Uscito per i tipi di Rubettino, Icsa.
Dalla fine della guerra fredda è cambiato molto per le barbe finte occidentali.
Da un certo punto di vista era più semplice fare analisi sullo sviluppo di sistemi politici. Oggi, l’imprevedibilità delle
dinamiche economiche è molto alta. «È
molto più difficile fare intelligence economica che quella più classica, quella
strategica che si basa sull’analisi della
forza», spiega il generale Jean. «Ora per
l’Italia, due aree di interesse economico
prioritario potrebbero essere la Turchia
e la Russia per ovvi motivi legati alla politica energetica», sottolinea il generale.
Un lavoro a quattro mani di Jean, presidente del Centro studi di geopolitica
economica e con una carriera a cavallo
tra mondo militare e accademia, e Paolo
Savona, già in Bankitalia, ex ministro
dell’Industria e oggi presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi.
Per stabilire a che punto si trovi il nostro
Paese nel panorama internazionale,
Jean e Savona analizzano, tra l’altro, i
principali rapporti dei nostri servizi segreti alle istituzioni. Dalla più recente
relazione degli 007 per la presidenza del
Consiglio dei ministri, relativa al 2009,
A
È cessata la
separazione netta
tra guerra e pace
ed è tramontata la
frattura tra scontri
monetari
e conflitto militare
emerge per esempio che la percentuale
degli argomenti trattati inerenti alla sicurezza economica (26,9 per cento) è del
tutto simile a quella riguardante la criminalità organizzata e la minaccia eversiva interna. Una percentuale decisamente «inferiore» a quella di altri paesi:
l’MI6, i servizi inglesi, dedica il 60 per
cento del proprio bilancio a questo settore. I francesi del Dgse la metà del totale.
I bilanci di Germania e Giappone sono ignoti, ma «la loro
organizzazione è fondata sull’apporto determinante del privato, realizzato con una capillare diffusione della cultura
dell’intelligence, unita a una
particolare coesione nazionale
e a stretti legami esistenti fra
banche e imprese». Non è un
caso che tuttora in Italia non
esista un organismo che si occupi di intelligence economica
presso la presidenza del Consiglio. Negli Stati Uniti sono invece attivi il National Economic Council (Nec) e il National
Security Council (Nsc). Mentre
in Francia il Comité pour la
compétitivité et l’intelligence
économique ha delegazioni
proprie presso ciascun dicastero ed è presente anche a livello regionale. Ed proprio l’esempio francese che
«costituisce un modello interessante per
l’Italia», secondo gli autori. Per il milita-
re e l’economista il concetto di sicurezza
economica è sempre stato ed è focalizzato in Italia sugli aspetti difensivi e principalmente riferito a due settori: protezione delle tecnologie, del know-how strategico per la sicurezza nazionale o alleata,
contrasto alla criminalità organizzata e
al finanziamento del terrorismo. Minore
rilievo pare essere attribuito all’intelligence economica «offensiva», cioè quella «destinata ad accrescere la
competitività economica nazionale e delle nostre imprese,
a favorirne la penetrazione sui
mercati esteri, a proteggerle
da pratiche sleali (quali la corruzione, la contraffazione, le
pressioni politiche degli altri
stati a favore delle loro imprese ma a danno di quelle italiane), nonché allo spionaggio e
controspionaggio industriali e
tecnologici».
Non è sorprendente che gli
autori abbiano dedicato il libro
a Francesco Cossiga, «Maestro
di Intelligence», è che nell’economia torneranno a essere decisive le scelte della politica.
Non parliamo più dei vecchi
strumenti come l’interventismo o la pianificazione. Ma il
fattore umano conta ancora, sul campo
come a livello di decisori. E che più dei
«dettati dell’intelligence economica» peseranno allora «i leader che li applica-
9 marzo 2011 • pagina 15
Il nuovo libro presentato ieri a Roma
I conflitti
di oggi
e il global
trade
ROMA.
no».Tuttora, in Italia, non esiste un organismo autonomo che si occupi di intelligence economica presso la presidenza
del Consiglio. Anche se Jean sottolinea
i notevoli sforzi fatti sia dal Dipartimento informazioni e sicurezza sia la
presidenza del Consiglio dei ministri.
Negli Stati Uniti sono invece attivi il
National economic council (Nec) e il
National security council (Nsc). Mentre in Francia il Comité pour la compétitivité et l’intelligence économique ha
delegazioni proprie presso ciascun dicastero ed è presente anche a livello
regionale. Proprio l’esempio francese
«costituisce un modello interessante
per l’Italia», notano gli autori. Jean e
Savona osservano pure che «il concetto di sicurezza economica è sempre
stato ed è focalizzato in
Italia sugli aspetti difensivi» e principalmente
riferito a due settori:
protezione delle tecnologie, del know-how strategico per la sicurezza
nazionale o alleata, contrasto alla criminalità
organizzata e al finanziamento del terrorismo.
Nell’ambiente dei servizi viene citato spesso un
episodio storico antesignano del lavoro di raccolta informazioni che può essere il padre dell’intelligence economica. Mosè,
dopo aver attraversato il deserto con
600mila ebrei, aveva mandato i dodici
capi delle tribù a esplorare la terra promessa e a sondarne i pericoli e le potenzialità. Nel 1776 il nascente servizio
informativo statunitense, il Committee
of secret correspondence of the continental congress mandò un agente nell’Europa continentale. Doveva valutare,
sotto le mentite spoglie di un commerciante di tabacco, la potenziale concorrenza del prodotto ucraino. Tornò con
notizie rassicuranti per i produttori di
tabacco americani. Il meglio delle foglie
ucraine non poteva competere col peggio della produzione della colonia inglese ora indipendente. Ancora un altro
episodio storico. In piena rivoluzione industriale l’Inghilterra deteneva un primato grazie ai segreti delle macchine a
vapore che facevano funzionare l’industria tessile.Vi era una legislazione molto restrittiva sui brevetti e sulla possibilità di esportare questa tecnologia. Francis Cabot Lowell si fece ricoverare in
una clinica scozzese e cominciò a girare
per i vari siti industriali, fingendosi semplicemente una persona affascinata dalla nuova tecnologia. Aveva una memoria prodigiosa e, una volta tornato in
America, riuscì a far riprodurre delle copie esatte delle macchine a vapore britanniche. Grazie alla mente fotografica
di Lowell gli Stati Uniti riuscirono a far
decollare l’industria tessile, grazie alle
copie delle macchine inglesi e alle enormi risorse di quel nuovo e immenso Paese. Anche appena conclusa la prima
guerra mondiale l’intelligence economi-
Enrico Mattei portò a termine operazioni
d’intelligence economica molto efficaci.
Non scendo nei particolari, perché alcuni
aspetti sono ancora riservati. È certo che
il lavoro dell’intelligence ha aiutato il nostro Paese a passare da un economia agricola a una industriale». E tanto per restare nella cronaca ricordiamo come Mattei,
in contatto con gli americani dai tempi
della resistenza, seguì in perfetto accordo
con Washington una politica nuova in
Nord Africa.
«L’economia è diventata una parte fondamentale dei rapporti politici internazionali. Una volta era la forza. Oggi è l’economia e la finanza che in gran parte si è
dissociata dalla prima. Diventa più complessa dell’intelligence strategica. Non c’è
più un solo avversario, nell’economia sono tutti competitor. Anche l’Italia ha cercato di migliorare il livello professionale degli operatori dell’intelligence. Lo sforzo maggiore è
richiesto soprattutto da parte degli
analisti». E il nostro paese non è
nuovo agli 007 economici. «In particolare quando eravamo una grande
potenza, con la costituzione della
Società geografica ed economica di
Milano, fondata da Carlo Erba e Pirelli. Copriva l’intero Medio Oriente
e le zone d’espansione economica
italiana». Ma l’intersse nazionale
non si difende solamente, va promosso. «E non parliamo solo di spionaggio e controspionaggio, ma anche dell’individuazione delle opportunità per una
migliore crescita dell’economia nazionale e del benessere dei cittadini». Insomma il livello di sofisticazione richiesto non
può essere raggiunto da chiunque. E per
delineare bene i compiti dell’intelligence
economica bisognerebbe avere in testa
un concetto preciso del ”bene”nazionale.
L’Italia sembra però essersi persa un po’
per strada nel corso dell’ultimo mezzo secolo. «Sì, richiede una concezione di sistema Paese e di interesse nazionale, sicuramente delineato. Negli anni Cinquanta
l’interesse nazionale era stato ben individuato, nel periodo della ricostruzione c’era un’omogeneità della classe politica. Attualmente nel collasso della classe dirigente, nelle difficoltà di abbassare la litigiosità politica è sicuramente più difficile
che avvenga».
L’MI6 inglese dedica
il 60 per cento
del proprio bilancio
all’analisi
economica.
I francesi del Dgse
il 50 per cento
ca fu determinante nella fase dei negoziati. Durante il conflitto era stato istituito un servizio informativo militare la cui
sezione economica era diretta da John
Foster Dulles (il fratello minore Allen divenne poi capo della Cia). Durante i negoziati di pace a Versailles, i rapporti di questo organismo furono alla base delle scelte del presidente Woodrow Wilson. Poi nel
secondo conflitto ci fu il Board of economic warfare, una branca dell’Oss (Office
for strategic service) che oltre ad analizzare i flussi dei rifornimenti di materie
prime nei Paesi nemici e i flussi di ricchezza, si occupava anche di traffico di
diamanti. Diede un apporto notevole per
comprendere i meccanismi dell’apparato
industriale tedesco e il modo per metterlo
in crisi. In campo nazionale Jean cita alcuni episodi. «Prima della conquista italiana della Libia un’operazione fu quella
legata al Banco di Roma. Anche l’Eni di
«Nessuna potenza industriale può fare a meno dell’intelligence economica nel mondo globalizzato – spiegano gli autori del volume Intelligence economica – La concorrenza si è trasformata in competizione globale non solo fra le imprese, ma pure fra i sistemi-paese, anche quelli più integrati o alleati politicamente». Lo hanno affermato i
due autori del libro Intelligence economica, il ciclo dell’informazione
nell’era della globalizzazione presentato ieri nella sede romana della
fondazione Icsa (Intelligence culture
and strategic analysis). Gli autori del
volume Carlo Jean, presidente del
Centro studi di geopolitica economica e con una carriera a cavallo
tra mondo militare e accademia, e
Paolo Savona, già in Bankitalia, ex
ministro dell’Industria e oggi presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi, erano presenti ieri
pomeriggio insieme ad alcuni ospiti
tra i quali Gianni De Genarro, direttore del Dis, Giuseppe orsi di Agusta Westland, Antonio pattuelli dell’Abi, Marco Minniti presidente di
Icsa, e il ministro degli Esteri Franco Frattini. Accanto agli imprescindibili meccanismi di mercato, gli attori globali si muovono sempre più
secondo logiche analoghe a quelle
impiegate in campo strategico militare, allorquando si discute della
priorità da attribuire alla conquista
del terreno o dell’annientamento
delle forze nemiche.
Tanto per capire quanto sia complesso questo campo dello spionaggio serve fare unì esempio. Il dipartimento della Difesa Usa definisce il
perception management come una
serie di «informazioni da convogliare o interdire alle pubbliche opinioni estere per influenzare le loro
emozioni, le loro motivazioni e il
processo razionale in modo che le
classi dirigenti o l’intelligence locali
siano indirizzate verso comportamenti favorevoli agli interessi dell’originatore del processo di perception management». Quindi, non si
tratta di proteggere un mercato o un
vantaggio comparativo, ormai obiettivo quasi impossibile nel sistema
globalizzato, ma di indurre comportamenti anche non-economici che
inducano a comportamenti economici utili all’originatore del processo di trasformazione della percezione. È cessata la separazione netta
tra guerra e pace, è tramontata la
frattura tra guerra economica
e conflitto militare, è ormai
tenue la differenza tra
psywar a carattere
politico e strategico
e infowar di tipo
commerciale.
ULTIMAPAGINA
Azar Karimi, figlia di rifugiati politici, è la presidente dell’associazione dei giovani iraniani in Italia
La ragazza che sogna
di Franco Insardà
tringe tra le mani un mazzetto di mimose che le ha regalato pochi minuti
prima Pier Ferdinando Casini. Insieme
con Marisa Raciti, la moglie del poliziotto ucciso nel 2007 durante gli scontri seguiti alla partita Catania-Palermo, sono le
donne “simbolo” con le quali l’Udc ha scelto
di festeggiare l’8 marzo.
Lei è Azar Karimi e ha un sogno: poter festeggiare la democrazia in Iran in Piazza della Libertà a Teheran insieme ai suoi genitori,
fuggiti nel 1979, sotto la dittatura dello Scià
Reza Pahlavi, e da allora rifugiati politici in
Italia.
Azar Karimi ha 24 anni, è iscritta ai giovani
dell’Udc ed è la presidente dell’associazione
dei giovani iraniani, suo padre Davood Karimi presiede l’associazione dei rifugiati politici iraniani in Italia, mentre sua madre
Shahrazad Sholeh è presidente dell’associazione delle donne democratiche in Italia.
Una famiglia impegnata in prima linea per
tenere accesi i riflettori sulla situazione
drammatica nella quale vivono i loro compatrioti.
S
Azar è nata a Roma, studia giurisprudenza e l’Iran non l’ha mai visto, ma «da quando
nel 1999 gli studenti iraniani scesero in piazza, allora avevo 13 anni, il mio pensiero è
sempre stato di ritornare nel Paese dei miei
genitori liberato dal regime», dice a liberal.
Durante la conferenza stampa la giovane iraniana ha letto la lettera delle figlie di Moussavi e Karroubi, preoccupate per la scomparsa dei genitori a opera del regime di Ahmadinejad aggiungendo: «La situazione in Iran è
molta critica e lo dimostra anche quello che
sta succedendo nei Paesi del Nord Africa, che
vogliono quello che l’Iran vuole da anni. Occorre però fare attenzione al fondamentalismo islamico, e per riuscire a far trovare una
stabilità democratica in Medio Oriente è necessario che venga sconfitto il regime iraniano. Vorrei che in Medioriente si stabilisse la
TEHERAN
Iran è il seguente: siate in guardia dai mullah
fondamentalisti e dagli omicidi delle donne e
dei giovani in Iran».
La presidente del Consiglio nazionale della
resistenza iraniana ha lanciato anche un appello ai paesi occidentali interessati a svolgere un ruolo positivo nella nuova storia del
Medio Oriente, i quali «come primo e inevitabile passaggio debbono
cambiare la loro politica
dialogando con la popolazione iraniana. Il passo più
importante che deve compiere l’Occidente è quello
di abbandonare una politica che va tutta a svantaggio della popolazione e dell’intera regione e
di riconoscere il movimento di resistenza».
Con Marisa Raciti è stata scelta dall’Udc come
donna “simbolo” per festeggiare l’8 marzo e dice:
«Vorrei che in Medioriente si stabilisse la democrazia,
non quella cercata nel 1999, ma di tipo europeo»
democrazia, non quella cercata dai ragazzi
iraniani del 1999, ma un sistema simile a
quello europeo».
Ha voluto anche far conoscere il pensiero di
un’altra donna, il presidente del Consiglio
Nazionale della Resistenza iraniana,
Maryam Rajavi, esule e rifugiata politica a
Parigi dal 1982 a causa della repressione
khomenista, in occasione della Festa internazionale della donna.
La Rajavi scrive che «la via per un Medio
Oriente pacifico e democratico, dove le donne e i giovani possono svolgere il loro legittimo ruolo, passa inevitabilmente attraverso
un cambiamento del regime in Iran. Ms senza questo mutamento la democrazia e la stabilità sarebbe impossibile in questa regione.
Il nostro messaggio alle nostre sorelle e fratelli in Tunisia, Egitto, Libia, Afghanistan e
Maryam Rajavi fa sapere anche che «la
resistenza iraniana che ha sfidato i mullah ha
presentato una piattaforma democratica,
una repubblica basata sulla separazione di
Chiesa e Stato, su una democrazia pluralista, una società basata sull’uguaglianza di
genere e il rispetto dei diritti umani, dove la
pena di morte e la sharia dei mullah saranno abolite, un’economia fiorente, basata su
un’eguale opportunità per tutti e un Iran denuclearizzato in pace con tutti i suoi vicini».
La giovane Azar ha concluso l’intervento
con un appello: «Per questa giornata così significativa vorrei chiedere che la rappresentanza dei mullah nella commissione delle donne all’Onu venga espulsa perché rap-
presenta un’offesa a tutte le donne iraniane
e del mondo». Donne in piazza per difendere i propri diritti contro la tirannia dei regimi per le quali Marisa Fagà, responsabile
nazionale del dipartimento Pari opportunità
dell’Udc, ha invitato «tutti gli esponenti politici ad abbandonare le casacche per aiutare le donne di tutto il mondo che vedono negati i loro diritti».
Una battaglia che Azar conduce quotidianamente insieme ai tanti iraniani rifugiati. «Il
nostro sostegno - dice - arriva ai ragazzi che
manifestano in Iran attraverso internet, nonostante tutte le difficoltà dovute alla censura. Siamo in contatto continuo e seguiamo con attenzione e trepidazione quello che
accade». Parla con passione Azar, sotto gli
occhi orgogliosi di sua madre Shahrzad,
che, a poca distanza, la guarda con orgoglio e affetto materno.
Dopo p iù di trent’anni madre e figlia
dall’Italia lottano insieme per denunciare
arresti e uccisioni in Iran, per chiedere il rilascio dei prigionieri politici, sicure che la
resistenza del popolo iraniano farà cadere il
regime, per il quale le donne valgono metà
degli uomini, non hanno diritti di proprietà,
hanno poche possibilità di lavorare e sono
obbligate a coprire i loro corpi. «Ma le cose
stanno cambiando e la fine del regime iraniano è molto vicino», dice sicura Azar, con
l’ottimismo di una giovane combattente.
Quella passeggiata in Piazza della Libertà, a
Teheran, la vede vicina.