gli ammirevoli italiani di poços de caldas 1884-1915

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gli ammirevoli italiani di poços de caldas 1884-1915
MARIO SEGUSO
GLI AMMIREVOLI ITALIANI
DI POÇOS DE CALDAS
1884-1915
edizioni del noce
Regione del Veneto
Siamo lieti di presentare il volumetto “Gli ammirevoli italiani di Poços
de Caldas 1884-1915”, scritto in brasiliano e tradotto in lingua italiana da
Mario Seguso, un veneto che, partito da Venezia nel 1954, risiede e lavora in Brasile, nello Stato di Minas Gerais.
L’Associazione Padovani nel Mondo in questi anni si è sempre attivata a far conoscere, con il prezioso sostegno della Regione del Veneto, la
realtà della nostra emigrazione in terre lontane, fatta di impegno costante
e a volte sofferto con la speranza di trovare fortuna e un futuro sereno per
tutta la famiglia.
L’Autore, trasferendosi da San Paolo a Poços de Caldas, una piccola
città in una zona tranquilla e serena che rendeva possibile un fruttuoso
lavoro di vetraio, si è trovato ad operare con collaboratori discendenti di
immigrati italiani che parlavano, specie i giovani, il dialetto veneto.
Entrando nelle loro famiglie e frequentando gli archivi esistenti nelle
istituzioni pubbliche locali, ha potuto raccogliere dati interessanti e utili
informazioni sugli immigrati italiani e sui loro paesi di origine.
Dalla pubblicazione emergono eloquenti testimonianze di vita familiare e sociale, nonché lingua, cultura, identità, usi e costumi trasferiti in
Brasile dal Veneto.
L’Assessore ai Flussi Migratori della Regione del Veneto e l’Associazione Padovani nel Mondo si complimentano con l’autore per le iniziative culturali poste in essere, apprezzano il contenuto dell’opera e assicurano la loro collaborazione.
L’Assessore Regionale
Oscar De Bona
ISBN 88-87555-55-9
Copyright by Edizioni del noce 2007
Riviera S. Marco, 9 - 35012 Camposampiero (PD)
Tel. Fax: 049 9302012 - E-mail: [email protected]
Il Presidente
Gianfranco Chiesa
PREFAZIONE
Nel 1965 dopo aver trascorso undici anni nella città di San Paolo,
dove abitavo dal giorno del mio arrivo in Brasile, per una felice combinazione del destino mi sono spostato in una piccola e ridente città nello
Stato di Minas Gerais.
Poços de Caldas contava allora circa 35.000 abitanti. Lì ho aperto
la mia vetreria senza immaginare che quella nuova fase della mia vita, in
un posto tranquillo e sereno, situato in un’area montagnosa, avrebbe dato
a tutta la famiglia la possibilità di poter condurre una vita più piacevole
di quella che le aveva offerto prima la grande metropoli.
Nella vetreria fin dall’inizio delle attività mi sono accorto con gradevole sorpresa che la maggior parte dei miei collaboratori e vetrai erano
discendenti di immigrati italiani, che negli ultimi anni del 1800 erano
venuti in Brasile per coltivare il caffè nelle varie “Fazende” situate nel
municipio; e stanchi di aspettare nelle proprietà rurali un miglioramento
sociale, che invece si differenziava sempre di più da quello offerto dalla
città, avevano finito con il trasferirsi in massa a Poços de Caldas.
Molti dei giovani parlavano il dialetto veneto e, per questo, tanti
degli strumenti e ferri da lavoro usati nella vetreria venivano chiamati col
nome originale con il quale erano conosciuti da secoli a Venezia.
La curiosità mi spinse a voler conoscere molto di più sull’origine di
quei giovani e delle loro famiglie; capivo che molte cose che andavo constatando oltrepassavano la semplice conoscenza di un fatto o di un
momento particolare, perché si trattava di qualcosa concretamente serio,
meritevole di un’analisi più approfondita.
Gli anni sono passati quasi volando, perché io ero completamente
assorbito dalla conduzione della vetreria, che per la sua propria caratteristica di produzione esigeva la mia totale dedizione.
Per molti anni sono andato raccogliendo dati e informazioni sugli
immigrati Italiani ed a volte ero io che le fornivo a loro, specialmente
quando sorgevano dubbi sui loro paesi di origine nel Veneto o quando mi
chiedevano altre curiosità sull’Italia che avrei potuto soddisfare.
Oggi i miei due figli dirigono la vetreria, poiché si sono preparati ad
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assumere la responsabilità di un’azienda fondata dalla nostra famiglia a
Murano in Italia da molti secoli e che loro, prima generazione dei Seguso
brasiliani, certamente sapranno onorare.
Perciò, con maggior tempo a disposizione, ho potuto concludere il
mio progetto sugli italiani di Poços de Caldas portando a termine ricerche durate quattro anni negli Archivi delle Pubbliche Istituzioni e in quelli delle Chiese.
Ciò che sono riuscito a riunire e che trovate qui pubblicato lo devo
in gran parte anche all’appoggio e alla collaborazione di mia moglie
Rita, e all’aiuto e pazienza degli amici che mi hanno fornito molte informazioni.
Questo libro vuol essere il mio modesto omaggio e la manifestazione
di rispetto per tutti gli italiani, i loro figli e i discendenti che in maniera
determinante hanno contribuito alla nascita e crescita di questa nostra
bella città.
A tutti loro il mio ringraziamento.
MARIO SEGUSO
Poços de Caldas, Agosto del 1984
Ho realizzato oggi la mia prima intervista con un discendente di italiani, nato a Poços de Caldas in Brasile. Volevo registrare il nostro colloquio che segnava l’inizio di una lunga ricerca sugli immigranti italiani
residenti nella città ed anche di quelli che vivevano nell’area rurale del
suo Municipio. La ricerca comprendeva i loro nomi e cognomi a partire
dall’anno 1872, data della fondazione della Città, fino al 1915, quando è
esploso il primo conflitto mondiale.
Il registratore col suo nastro nuovo, lo schema delle domande definito. Ero stato avvisato che il signor Americo non si sentiva bene quel giorno, ma voleva ricevermi lo stesso nella sua casa .
Quando la signora Natalia mi fece entrare nelle stanza dove lui si
trovava mi prese un sentimento di sconforto perché solo in quel momento
mi resi conto del suo precario stato di salute. Se ne stava seduto su una
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poltrona con una coperta che gli copriva le gambe, l’espressione del suo
volto era serena e nello stesso tempo rassegnata, forse il presentimento
che la vita lo stava abbandonando.
Con voce bassa e stanca mi chiese cosa volevo sapere da lui ed il
perché. Gli spiegai allora delle ricerche che stavo conducendo sugli italiani e dei tanti documenti consultati nei vari uffici, specialmente nel
Cartorio del Registro Civile di Poços de Caldas, poiché intendevo raccogliere tutti i dati riguardanti ogni famiglia italiana per poi riunirli in uno
schedario.
«Come Lei ben sa – dissi – molti dei pionieri immigrati non ci sono
più; se fino a poco tempo fa la loro presenza era sufficiente per testimoniare la realtà concreta di una saga vissuta da milioni di creature, oggi
con la loro mancanza si sta aprendo un vuoto che ha bisogno di essere
riempito senza perdita di tempo, scrivendo quelle pagine di una storia
quasi tutta ancora da registrare, evitando così che si perdano i ricordi.
Sarebbe un pena se le prossime generazioni dei discendenti non avessero
da dove attingere le informazioni riguardanti le loro origini e ignorassero perfino la storia della loro famiglia».
Il Signor Americo si andava entusiasmando all’idea di poter essere
utile nel contribuire con l’aggiunta di altre informazioni oltre a quelle già
registrate. Mentre il colloquio proseguiva la sua voce si faceva più ferma
e sicura, andava raccontando episodi della sua infanzia, ricordava il
padre, il passato; varie volte ho tentato di porre fine al nostro colloquio
dicendogli: «Adesso basta, signor Americo, non posso abusare della
vostra gentilezza, quello che mi avete detto è più che sufficiente, non
voglio esservi causa di stanchezza».
«No! No!», diceva e andava ricordando fatti interessanti.
Anche le persone che discretamente apparivano per salutarlo e stare
un poco in sua compagnia venivano avvisate da lui:«Scusatemi ma in questo momento mi trovo occupato in una intervista, vogliate scusarmi!». E
continuava a raccontare del viaggio fatto in Italia nell’anno 1975 quando
in uno degli spostamenti in automobile, venne a trovarsi davanti a un cartello indicativo che segnalava l’entrata a Campodarsego, la piccola località nei pressi di Padova, da dove era partito suo padre quando era emigrato in Brasile.
Ricordava dei tentativi fatti, dopo aver raggiunto il centro della cittadina, per cercare di scoprire se sul posto vivessero ancora dei parenti,
e la delusione provata quando dopo aver visitato due famiglie Frison
venne informato che con esse non esisteva nessuna parentela..
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Non sapeva che la sua insistenza ed entusiasmo avevano lasciato un
senso di rimorso in uno dei Frison visitati, il quale, tardivamente, si era
reso conto di non aver dedicato l’attenzione e le premure che avrebbe
meritato di ricevere quel brasiliano così felice dir aver trovato il posto
dove era nato suo padre.
Il desiderio di riparare a quella mancanza di appoggio, fece sì che
Mario Frison telefonasse da Campodarsego a Don Domenico Frison parroco a Cittadella e che da quella telefonata nascesse un’idea che avrebbe
fruttificato in breve tempo trasformandosi in una piacevole realtà.
Fondarono il clan dei Frison per raccoglierli tutti in qualsiasi parte
del mondo essi vivano, e da quel momento, ogni anno nella zona del Veneto
dove ha avuto origine la loro famiglia, si riuniscono centinaia di persone
con lo stesso cognome per convivere un giorno di fraterna comunione.
Il nastro totalmente inciso ha segnato che il nostro incontro stava
arrivando al termine. Nell’accomiatarci, prese la mia mano fra le sue e
stringendole disse: «E sì! Questa idea di scrivere la storia dei nostri vecchi bisogna realizzarla, promettimi che lo farai!».
Io che già trovavo difficile l’impegno di organizzare uno schedario e
non avevo le minime pretese letterarie non trovai il coraggio di dirgli che
non mi ritenevo capace di tanto, così gli promisi lo stesso che alla fine
delle mie ricerche avrei riunito il tutto in un fascicolo.
Avevo fissato un viaggio in Italia dove mi sarei trattenuto un mese;
fu durante la mia assenza che il signor Americo Frison riposò per sempre.
Dalla signora Natalia venni a sapere dopo che quel sabato pomeriggio fu
una parentesi di pace vissuta dal marito in quel periodo difficile.
A Lui quale rappresentante di tutti gli italiani ed i loro figli che non
si trovano più fra noi, dedico questo mio lavoro sperando di aver realizzato almeno in parte il compito di ricordare il loro passaggio venerandone la memoria e per questo ho dedicato tutto il mio impegno. Se non sono
riuscito nell’intento, pazienza, l’intenzione era onesta e sincera.
E lo dedico anche a Rodrigo, mio primo nipote brasiliano di seconda generazione, nato mentre mi trovavo impegnato in queste annotazioni,
perché possa ricordare sempre che anche il nonno Mario faceva parte e
con molto orgoglio, del grande, immenso contingente degli immigranti
italiani.
Ed ecco la storia, così come l’ho raccolta
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CAPITOLO 1
FONDAZIONE DELLA CITTÀ DI POÇOS
DE CALDAS E ARRIVO DEI PRIMI
IMMIGRATI ITALIANI
I. Francesco Vigna aveva appena finito di firmare il contratto biennale di affittuario di una piccola azienda di laterizi.
Le trattative per concludere l’affare non erano state laboriose; anzi il
proprietario, lo spagnolo Gonzales, aveva interesse di chiudere la transazione. Così, dopo qualche accertamento sulle clausole e le modalità di
pagamento, erano arrivati alla conclusione finale in un clima di euforia
tipico in casi del genere. Strette di mano e auguri anche da parte dei conoscenti che erano stati invitati in qualità di testimoni, frasi scherzose scambiate sui futuri successi della nuova attività, le firme ancora fresche d’inchiostro a suggellare la validità dell’atto.
Francesco sentiva quanto era importante quel momento, sapendo
cosa significasse per lui e per la famiglia questa nuova fase della sua vita.
Mentre accelerava il passo per arrivare al più presto a casa a raccontare alla moglie Carmela che tutto si era svolto nel migliore dei modi, non
riusciva a evitare l’accavallarsi delle sensazioni che lo assillavano.
No! non era possibile che non avesse preso la decisione giusta! Tutti
i segnali erano favorevoli, la città stava crescendo con sempre maggiore
necessità di abitazioni per i nuovi arrivati; adesso in più c’era anche la
strada ferrata in fase di completamento.
E Marini, che comandava una squadra di operai impegnati a collocare i binari per la compagnia Mogiana, si era mostrato sicuro quando gli
aveva assicurato qualche giorno prima che, al massimo entro due anni, e
cioè verso la fine del 1886, l’ultimo tratto della ferrovia Estação da
Cascata–Poços de Caldas, sarebbe stato concluso e consegnato al traffico.
Non esistevano motivi plausibili da far credere che le cose non potessero andare bene… Fra poco ce ne sarebbero stati mattoni e tegole da vendere!... Anche il posto dove sorgeva la fabbrica di laterizi era ben localizzato e le istallazioni in buono stato di conservazione. Avrebbe comperato
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subito due mule molto robuste per far girare l’impastatrice dell’argilla.
Chissà perché Gonzales aveva escluso gli animali dal contratto!...
Quei pensieri occupavano la mente del nostro Francesco in quel lontano pomeriggio del 5 maggio 1884 da quando era uscito dalla sala dove
aveva firmato il documento.
Era quello uno dei primi contratti registrati ufficialmente sull’apposito libro che, solo pochi giorni prima, il secondo Giudice di Pace della
vicina città di Caldas, dalla quale Poços de Caldas dipendeva, aveva
rubricato, firmato e consegnato all’incaricato dell’Ufficio Civile, per
poter avviare l’archiviazione di tutti i documenti legali inerenti alla incipiente comunità.
La località dove era venuto a vivere Francesco era sorta da pochissimi anni ed era nata quasi per imposizione delle autorità della Provincia del
Minas Gerais, visto che “le virtuose acque termali” che affioravano alla
superficie con la temperatura di quaranta gradi centigradi dentro una grande proprietà privata, attiravano sempre più l’attenzione e l’interesse di un
grande numero di persone, che volevano utilizzare le virtù medicinali
delle acque per trovare sollievo ai loro mali.
Durante il periodo di permanenza per le cure, gli ammalati dovevano
adattarsi alle molte difficoltà e ai sacrifici causati dalla totale mancanza di
infrastrutture che offrissero il minimo conforto. Fin dall’arrivo dovevano
costruirsi delle capanne dove alloggiare ed erano costretti a portarsi del
personale in numero tale da garantire la loro protezione in un posto così
lontano e isolato.
Le acque affioravano in una vasta area pianeggiante, solcata da due fiumiciattoli e circondata da una corona di colline che disegnano chiaramente
la formazione del cratere di un vulcano estinto da millenni. Si trovavano
nelle terre di un’immensa “fazenda” di proprietà della famiglia Junqueira,
che l’aveva ricevuta come “Sesmaria”, a titolo di concessione privilegiata
da parte dell’Imperatore del Brasile don Pedro II di Orleans e Bragança.
La fabbrica di laterizi era situata sul margine di uno dei due ruscelli,
a pochi metri da dove l’acqua sgorgava calda e già esisteva un progetto di
canalizzarla attraverso tubature, per farla arrivare fino alle previste installazioni termali.
Al momento il tracciato del quartiere definiva quell’area come
“Largo da Columbia” oggi conosciuta come “Praça dos macacos” (Piazza
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delle scimmie); però il suo nome ufficiale è “Praça don Pedro I”. Era quello un tratto alquanto pantanoso, sia per lo scavo di terra e argilla ed anche
per il frequente straripamento dei due corsi d’acqua che uscivano dal proprio letto durante la lunga stagione delle piogge.
Fino a poco tempo prima, l’acqua calda era servita per abbeverare gli
animali che l’apprezzavano molto per i sali minerali che essa conteneva.
In quel periodo vivevano pochissimi cittadini italiani a Poços de Caldas,
anzi erano ben pochi gli abitanti e questo era dovuto all’isolamento nel
quale si trovava la località.
Benché la città fosse nata per diventare un centro turistico e termale
e la sua fondazione risalisse all’anno 1872, dodici anni dopo il nucleo dell’abitato raggiungeva al massimo un centinaio di costruzioni, incluse
anche quelle adibite al commercio e le installazioni alberghiere che contavano tre unità.
Erano arrivati i Bonvicino ed i Longo, legati fra loro da parentela, i
Siciliano ed i Filardi che subito avevano comperato una casa, mentre
Basilio Bertini, che per motivi di lavoro doveva essere entrato in disaccordo con la ditta appaltatrice delle opere per la strada ferrata, si licenziava e
nominava un procuratore che si occupasse della liquidazione dei suoi interessi con la sopra citata ditta.
Benedetto Pellici invece inviava un atto di procura alla madre che
risiedeva a Lucca in Toscana, perché intercedesse presso le autorità competenti al fine di ottenere l’esenzione dal servizio Militare per il quale era
stato sorteggiato in Italia. Anche lui faceva parte del gruppo addetto alla
costruzione della strada ferrata e precisamente alla squadra comandata da
Benedetto Marini con l’incarico di panettiere.
Così aveva inizio la storia degli Italiani a Poços de Caldas, venuti inizialmente per sondare il terreno e capire quali fossero le possibilità che il
posto poteva offrire loro per il futuro.
Inizialmente arrivavano immigranti che esercivano professioni legate in prevalenza ad attività che potevano trovare impiego nel perimetro
urbano, e quasi certamente non provenivano direttamente dall’Italia, bensì
da altre località, che avrebbero potuto trovarsi non solo in suolo brasiliano ma anche argentino, dopo aver trascorso una permanenza più o meno
lunga in diversi posti di lavoro.
Erano persone con coraggio e determinazione, mosse dall’ansia di
migliorare le loro condizioni di vita e conquistare la propria indipendenza,
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contando a volte solo su un piccolo capitale che si portavano appresso dalla
lontana Patria o racimolato faticosamente poco a poco fin dal loro arrivo.
Affrontavano l’incognito arrischiando la sorte con fermezza, contando solamente sulle loro forze e facendo uso della tenacia, caratteristica
delle persone decise a vincere. Normalmente il tempo impiegato per
ambientarsi nel nuovo posto non era lungo: fin dall’inizio studiavano
cosa, come e dove con i pochi mezzi a disposizione avrebbero potuto scegliere fra le tante professioni e attività che allora erano richieste, specialmente nei posti avanzati dove stavano sorgendo nuove comunità.
Arrivavano dopo il passaggio dei nativi che erano stati contrattati per
abbattere gli alberi della foresta fino ad allora intatta, per aprire le vastissime aree dove sarebbero dovute sorgere le nuove piantagioni di caffè.
Si fermavano nei piccoli nuclei abitati che stavano nascendo e che,
col passare del tempo, si sarebbero trasformati in villaggi o piccole città,
avide di poter contare su quei piccoli impresari–artigiani, tanto utili o,
meglio ancora, indispensabili allo sviluppo e alla crescita della località.
Nel posto scelto per tentare la sorte dovevano decidere da soli, non
potendo contare sull’aiuto di nessuno all’infuori di qualche congiunto (se
per caso lo avessero assieme) o di qualche connazionale con il quale – per
la solidarietà che il destino comune di emigranti li univa – poter avere uno
scambio di idee o un consiglio.
Per fortuna l’idioma portoghese parlato in Brasile non rappresentava
per gli italiani un grande ostacolo: anch’esso deriva dal latino ed è perciò
similare a quello che parlavano nella loro patria di origine. Per questo, fin
dall’inizio, quasi tutti gli italiani non trovavano grandi difficoltà a capire
o a farsi capire, malgrado il fatto di non averlo studiato ma soltanto appreso per processo auditivo.
Il modo di esprimersi, pensando di parlare la lingua del posto, era una
confusa mescolanza di italiano e portoghese, non arrivando ad essere né
l’uno né l’altro ma semplicemente una caricatura dei due idiomi; e come
se ciò non bastasse, parlati con le rispettive cadenze dei dialetti delle varie
regioni italiane di provenienza.
Proprio per via dei dialetti, era più difficile che si intendessero fra
loro due immigranti nati in due diverse regioni italiane che un italiano parlando con un brasiliano.
I primi italiani che si sono radicati a Poços de Caldas erano originari
del centro–sud della Penisola, quasi tutti venuti da soli, facendosi poi rag10
giungere dalle famiglie o anche da amici quando, iniziata un’attività promettente, bisognava compiere uno sforzo congiunto per dividere le forze
e garantire il successo.
Questi italiani, rispetto alla grande massa degli altri connazionali
emigrati (specialmente i Veneti), erano partiti dall’Italia in condizioni
migliori: il viaggio sulla nave che li aveva portati in Brasile se lo erano
pagato loro con i soldi realizzati a prezzo di grandi sacrifici o attraverso
prestiti onerosi, ma che in compenso non li sopraccaricava della responsabilità di una famiglia appresso, con tutti i rischi e le preoccupazioni che
ciò comportava, lasciando loro una maggiore libertà di azione al momento delle decisioni.
Potevano essere arrivati anche qualche anno prima con il viaggio
pagato dalla società brasiliana che promuoveva la venuta di lavoratori
agricoli da occupare con un contratto nelle piantagioni di caffè e che difficilmente avrebbero potuto lasciare la fazenda in poco tempo se non
avessero avuto qualche risparmio giacché, per completare il ciclo della
produzione del caffè dal momento della collocazione in sede delle piantine al primo raccolto, dovevano trascorrere tre anni.
Un’alternativa per lasciare la fazenda prima di completare il contratto poteva essere quella dell’abbandono notturno, praticamente una fuga,
qualora le condizioni di vita o di lavoro non corrispondessero alle loro
aspettative. Questo sistema era molto usato da persone singole, o con
familiari anche loro in età di poterlo fare, perché se nel nucleo che voleva
allontanarsi ci fossero stati bambini piccoli o persone in età avanzata la
soluzione della fuga diventava impraticabile.
Ad ogni modo quelli che lasciavano le fazende in quelle condizioni,
certamente non avevano mezzi sufficienti per iniziare una qualsiasi altra
attività per conto proprio.
Ma ritornando all’inizio della nostra storia, quando Francesco Vigna,
originario di Spezzano Albanese, piccolo centro situato nella Calabria, si
preparava ad esercitare l’attività di fabbricante di mattoni e tegole, nemmeno lui poteva rendersi conto, per quanto fosse ottimista nelle sue previsioni, dello sviluppo che la città avrebbe avuto in seguito.
Probabilmente ignorava perfino la storia di come e perché era sorta
la città; il suo desiderio immediato mirava a un risultato positivo da ottenere col suo lavoro, contando più sui fattori che in quel momento si
dimostravano indicatori di un rapido sviluppo della stessa, che a voler
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conoscere i motivi che avevano originato la nascita del posto dove aveva
scelto di vivere.
II. Volendo raccontare la storia degli italiani e di come e quando essi
apparvero a Poços de Caldas, non è possibile farlo senza raccontare prima
come era sorta la città e il motivo che ne è stata la causa.
La città non trova esempi o termini di confronto con nessuno degli
altri centri abitati sorti in quell’epoca, che si sviluppavano sui punti strategici segnati dai pionieri lungo il cammino da essi percorso penetrando
nelle immense aree ancora sconosciute di un paese grande come un continente.
Prima di trasformarsi in una comunità attiva, il posto dove è sorta
Poços de Caldas era parte di una grandissima proprietà rurale posta in
un’area ceduta come “Sesmaria” alla famiglia Junqueira, ed era situata su
un altopiano con altitudine media che si aggira sui mille e trecento metri
sopra il livello del mare, avendo una topografia leggermente ondulata e
circondata da colline che fanno parte di una catena montagnosa conosciuta come “Serra da Mantiqueira” la quale nel suo punto massimo raggiunge i mille e seicento metri d’altezza.
Nell’area dove si sarebbe sviluppata Poços de Caldas, in tempi non
molto lontani convergevano gli interessi di due Stati confinanti: San Paolo
e Minas Gerais, i quali fino al termine del periodo di penetrazione alla
ricerca dell’oro, si contendevano il diritto di possesso del posto. Alla fine
il possesso fu riconosciuto appartenere allo Stato di Minas Gerais. Il ciclo
dell’oro aveva spinto i cercatori ad aprire nuovi cammini e scorciatoie per
arrivare fino al fiume Pardo dove c’erano segnali di esistenza del prezioso metallo e sulle sponde lungo il suo corso avevano edificato le prime
abitazioni.
Sull’altopiano non sono mai stati localizzati giacimenti auriferi o perlomeno in quantità tale da giustificare l’interesse per l’estrazione; per questo motivo esso è rimasto fuori dall’itinerario dei cercatori.
In questa situazione di isolamento causato anche dalla sua conformazione accidentata, l’altopiano ha vissuto lunghi anni di abbandono e di
tranquillità, con la natura ancora intatta, le fitte foreste di piante native che
davano alimento e rifugio ai molti animali che lì vivevano e si dissetavano alle acque limpide dei ruscelli che lo solcavano per poi immettersi,
dopo un lungo e tortuoso percorso, nel fiume “das Antas”.
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Un paesaggio bellissimo, continuamente rinnovato da nuovi scorci; e
la varietà delle colline, coperte dal verde cupo caratteristico delle foreste
tropicali, lasciava intravedere lunghe valli percorse da corsi d’acqua serpeggianti che si perdevano all’orizzonte.
Tutto l’altopiano, contrastando con i pendii alberati che lo circondavano, era coperto di prati naturali dove cresceva una vegetazione rada e
bassa per l’eccesso di acidità contenuto nella terra, che per essere povera
di altri nutrienti minerali ne aveva ridotta la fertilità; era l’abitat ideale di
molte varietà di animali fra i quali cervi, antas, pacas, e in quel paradiso
vivevano un’infinità di uccelli delle più varie specie, raramente disturbati
dal passaggio di qualche isolato cacciatore.
Il primo abitante a stabilirsi nell’altopiano, dove un giorno sarebbe
sorta Poços de Caldas, fu il “paulista” Inácio Preto de Moraes, entrato in
possesso di un’area che misurava tre leghe quadrate. Lì si sistemò assieme al figlio nell’anno 1782, però la permanenza fu di breve durata perché, quando la provincia del Minas Gerais ebbe il sopravvento su quel
territorio in litigio, essi furono espulsi, non essendo stato riconosciuto
loro il diritto di proprietà ottenuto dalle autorità della provincia di San
Paolo.
Dal momento dell’abbandono della terra, fino alla distribuzione di
nuovi diritti di proprietà ceduti come “Sesmaria”, trascorsero molti anni e
tanto grande era lo spazio da occupare e tanto pochi gli abitanti che era
certamente più conveniente stabilirsi in territori situati in zone pianeggianti e fertili. Probabilmente fu questo uno dei motivi che ritardò il popolamento dell’altopiano.
Quando nell’anno 1819 la famiglia Junqueira ottenne la “Sesmaria”,
si radicò subito sul posto e da quel momento e senza interruzione passò a
figurare come protagonista principale della storia e degli avvenimenti
legati alla sua presenza fino ai nostri giorni.
La “Sesmaria” veniva concessa attraverso un documento ufficiale
con il quale il Re del Portogallo concedeva l’uso della terra abbandonata
a chi ne facesse domanda tramite le autorità competenti insediate inizialmente nelle “Capitanie” e poi in seguito, fino alla promulgazione della
Repubblica, nelle Provincie che fungevano da intermediarie tra il richiedente e l’autorità massima.
La loro misura variava, dipendendo dalla disponibilità di aree spopolate, dal potere finanziario del richiedente ed anche dalla necessità che aveva13
no le Provincie di mantenere sotto controllo il loro territorio, riservando una
speciale attenzione alle zone di confine sempre disputate con interminabili
litigi tra i governanti, che se le contendevano con maggiore interesse specialmente se l’area litigiosa possedeva oro o altri minerali preziosi.
Se nell’altopiano di Poços de Caldas non esistevano giacimenti auriferi in compenso si trovavano molti altri minerali che in quell’epoca non
erano di interesse immediato.
Gli esploratori si limitavano a raccogliere dei campionari e registrare
la loro presenza attraverso relazioni che poi inviavano alle autorità della
Provincia. Sicuramente, assieme ad altri minerali, devono averne catalogato anche alcuni sconosciuti come il Torio, la Bauxite e lo Zirconio.
Nel territorio che faceva parte della Sesmaria dei Junqueira, si verificò un fenomeno strano che aveva attratto l’attenzione e l’interesse dei
primi scopritori, probabilmente cacciatori che seguendo le orme di animali infiltrati nella sterpaglia, avevano incontrato delle sorgenti dalle quali
l’acqua usciva calda alla superficie, lasciando nell’aria un forte odore di
zolfo e di uova marce.
Così per puro caso furono scoperte le fonti e divulgata la loro esistenza, subito portata a conoscenza delle autorità della Provincia che, sempre
vigile e informata su tutto quanto avveniva nella sua giurisdizione, ne
prese atto formale.
Le acque si trovavano dentro un’area che in quel momento era soggetta a una contesa litigiosa, e per questo finirono per essere a lungo trascurate, venendo limitato il loro uso a pochi infermi disposti ad affrontare le innumerevoli difficoltà richieste per accedere alle fonti medicinali, le
quali, secondo quanto affermavano i cronisti dell’epoca, facevano guarire
da molte delle tante malattie diffuse in quei tempi: oltre a quelle della
pelle, includevano anche il reumatismo, la lebbra e la sifilide.
Quando la vastissima area di terra passò per diritto di proprietà ai
Junqueira, la situazione delle sorgenti divenne molto delicata perché il
passaggio di persone bisognose di cure aumentava continuamente e propozionalmente al crescere del malcontento dei proprietari che non gradivano l’invasione delle loro terre per il trambusto causato dalla presenza di
tanta gente. Era necessario perciò risolvere quel problema che si trascinava già da quando quella zona era ancora totalmente spopolata e aperta a
tutti.
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È possibile immaginare che per proteggere la proprietà dalla presenza indesiderata di estranei il sesmeiro gradisse (guardandosi bene di smentirlo) il diffondersi di notizie fantasiose come quella che il dottor Mario
Mourão registra nel suo libro “Poços de Caldas, syntese historica e cronologica” facendo riferimento al fenomeno delle acque solfuree: “Di quel
posto, esiste ignorante notizia diffusa da molto tempo e ben caratteristica
di una popolazione poco illuminata, e cioè, che nei dintorni circolava il
diavolo, esistendo le prove per essere state viste ripetute volte delle alte e
tanto forti lance di fuoco, maleodoranti, che erano arrivate ad incendiare
una grande parte della circonferenza dove sorgeva la vegetazione, in
mezzo a una terribile puzza di zolfo”.
Sicuramente il diavolo doveva avere cose più importanti da fare che
passeggiare in quei paraggi, e le alte lance di fuoco altro non dovevano
essere, se non il risultato del gesto sbadato di un cacciatore di passaggio,
che provocava un incendio.
Da millenni il vulcano spento che contiene nelle sue viscere le acque
sulfuree non lancia più fiamme e neppure lava, ma il fatto che esse escono
alla superficie alla temperatura di quarantadue gradi centigradi comprova
chiaramente che la sua attività non si è spenta del tutto.
A partire dall’anno 1822 cessarono le concessioni di nuove
“Sesmarias”.
Nel 1870 quando era ben prossima la data che avrebbe visto sorgere
la città di Poços de Caldas, la situazione del Brasile si presentava nei
seguenti termini. Già da molti anni si trovava sotto la guida
dell’Imperatore Don Pedro II che ne dirigeva le sorti, affrontando molte
situazioni nuove che si erano create in conseguenza dei movimenti che
stavano agitando l’Europa, iniziati con la rivoluzione francese, e dilagati
poi in altri paesi.
Il commercio degli schiavi era stato abolito fin dal 1850 per insistenza e volere dell’Inghilterra, la quale stava raggiungendo l’apice del suo
dominio in quasi tutto il mondo, e grazie alla forza del suo potere si aggiudicava il diritto di interferire negli affari interni di altre nazioni per proteggere i propri interessi.
Le primitive piantagioni della canna da zucchero e le coltivazioni del
caffè incominciavano a sentire l’effetto della mancanza di nuova manodopera schiava e per questo serpeggiava l’irritazione fra i grandi proprietari
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terrieri consapevoli che si stava avvicinando la fine dei loro privilegi, che
peraltro erano durati fin troppo tempo.
Stava nascendo una nuova mentalità nel paese, che includeva anche i
progressisti, i quali chiedevano mezzi per poter espandere i loro progetti e
le loro attività nella parte del Brasile dove le foreste occupavano immense
superfici e loro le volevano abbattere per guadagnare terra da coltivare.
Poca gente abitava l’immenso Paese e quindi nessun’altra soluzione
sarebbe stata valida se non attirando mano d’opera agricola dall’Europa e
offrendo a tutti quelli che volevano la possibilità di garantirsi in questa
nuova terra il lavoro e la prospettiva di un futuro sicuro.
L’impulso del progresso si faceva sentire in Brasile, le prime strade
ferrate stavano passando dai progetti alla realizzazione e Don Pedro II,
che seguiva attentamente gli avvenimenti, si mostrava disposto ad introdurre nel Paese tutte le novità ed i benefici che potessero accelerare il suo
sviluppo.
III. Della famiglia Junqueira il patriarca continuava ad essere
Joaquim Bernardes da Costa Junqueira, il quale oltre alla sua “Sesmaria”
possedeva anche quella che aveva comperato dal fratello, ed altre terre
incorporate alla sua proprietà. Si era stabilito nella casa – sede della fazenda “Barreiro” che sorgeva alle pendici dell’altopiano, in una vastissima
area dove la terra era più fertile e la topografia favorevole, per amministrare da vicino lo sviluppo delle attività agricole e di pastorizia.
La vita nella fazenda scorreva tranquilla, senza grandi emozioni; i
giorni erano occupati dai lavori normali che iniziavano ancora prima del
sorgere del sole, le attività venivano svolte dai pochi schiavi della famiglia che si mettevano in movimento dando sequenza alle operazioni ed ai
lavori necessari al normale funzionamento di una proprietà rurale.
Mungevano le mucche dopo averle prelevate dai pascoli e raccolte in
un recinto vicino alla sede, attingevano l’acqua alla sorgente, portavano il
mangiare ai cani ed eventualmente preparavano la muta nel caso che quel
giorno fosse dedicato alla caccia al cervo, all’anta o ai grossi animali presenti allora in grande numero nell’area. Sellavano i cavalli e si dirigevano
verso le praterie più lontane per controllare se durante la notte il bestiame
avesse subìto qualche attacco da parte di animali selvaggi quali i giaguari che allora si trovavano nel loro ambiente naturale, ricco di alimento.
Vedevano anche se durante la notte era nato qualche vitello, per con16
durlo assieme alla madre fino alla sede della fazenda dove avrebbe trascorso i primi giorni di vita controllato da vicino.
Una parte degli schiavi, finiti gli impegni, si incamminava verso i
campi per svolgere i lavori agricoli richiesti in quel momento; nello stesso tempo le donne si alternavano nella cucina, accendendo il fuoco, preparando il caffè e programmando i lavori da svolgere durante la giornata.
Le cucine nelle sedi delle fazende, erano localizzate in un posto privilegiato dell’immobile e sempre tenute in grande considerazione: era lì
dentro che si svolgeva la maggior parte delle attività e ferveva la vita, e
per questo rappresentavano proprio il cuore della fazenda. Lì cucinavano,
scioglievano lo strutto, preparavano la farina di mandioca, facevano il formaggio, la “rapadura” (che è lo zucchero di canna allo stato greggio), producevano il sapone fatto con la cenere, preparavano dolci e tante altre
cose. Per questo era necessario possedere una batteria di grandi tegami e
recipienti di rame con il fondo semi sferico o piatto di differenti misure,
che erano l’orgoglio della famiglia e simbolo di “status” della fazenda.
Il caffè rimaneva permanentemente caldo nel recipiente collocato ai
bordi del focolare a legna, sempre pronto per essere servito nelle tazzine
durante le frequenti visite degli uomini di casa, i quali fra un lavoro e l’altro trovavano il tempo per passare in cucina.
Oltre ai lavori normali, quali il bucato le pulizie ed altro, le donne si
dedicavano anche alla preparazione delle carni che poi dovevano conservare immerse nello strutto dentro a voluminosi recipienti di latta, poi c’era
anche la filatura del cotone e la tessitura fatta a mano, che forniva la stoffa usata per varie finalità come la confezione del vestiario, di tovaglie,
lenzuola e panni per vari usi, contribuendo in maniera determinante
all’autosufficienza della proprietà rurale.
Durante le lunghe serate invernali i familiari tutti si riunivano nella
cucina per godere il calore emanato dal focolare che, grazie all’abbondanza di legna disponibile, rimaneva perennemente acceso.
I componenti della famiglia del Sesmeiro erano andati aumentando
di numero durante gli ultimi anni. Il padrone era rimasto vedovo e si era
risposato altre due volte. Risiedevano tutti nella fazenda dove le maggiori entrate provenivano dal reddito ottenuto con la vendita del bestiame
che allevavano e che era l’attività possibile in quel momento, giacché la
topografia accidentata della zona, il clima freddo e umido dell’inverno
che provocava dannose brinate, unito alla mancanza di mano d’opera,
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non permettevano di sfruttare in modo sufficientemente produttivo quelle terre.
Conducevano vita austera, senza lussi, concedendosi di tanto in tanto
attraverso i commessi viaggiatori conosciuti come “comete” (che con le
loro carovane di mule andavano di fazenda in fazenda vendendo merce e
ricevendo ordinazioni) il piacere di possedere cose e oggetti che venivano da Rio de Janeiro. In tal modo potevano così sentirsi partecipi delle
ultime mode e al corrente delle ultime novità, visto che la mercanzia proveniva in grande parte dall’Europa.
Rimaneva sempre il problema delle acque solfuree le cui virtù venivano divulgate sempre più, vedendo aumentare così il numero delle persone interessate ad usarle. Per il sesmeiro era sempre più difficile accettare il trambusto di tutta quella gente nella sua proprietà. Persino un suo ex
schiavo molti anni dopo raccontava che il padrone, per non lasciar trapelare l’esistenza di una sorgente di acqua calda che sgorgava dove venivano riunite le mandrie dei bovini, l’aveva fatta tappare con argilla e sassi
per evitare di vedere invase ancora di più le sue terre. Quell’acqua sorgeva dove attualmente è situato il quartiere della villa Cruz. Il patriarca sentiva tuttavia che era solo questione di tempo per arrivare al momento di
dover cedere alla pressione sempre più insistente da parte delle autorità
della Provincia
Da Ouro Preto, capitale del Minas Gerais, giungevano informazioni
che la Provincia era fermamente decisa di voler utilizzare le acque facendo sorgere sul posto un centro termale. Le lettere inviate non avevano più
il tenore di scambio di punti di vista, giacché erano tanto discordi che non
lasciavano la minima possibilità di poter arrivare a una soluzione amichevole.
La Provincia di Minas Gerais faceva pressione per metter fine a quella disputa sorta per una serie di malintesi che si erano creati fin dal
momento della concessione della Sesmaria, visto che se si fosse rispettata la legge, l’area di terra dove sgorgavano le fonti di acqua solfurea non
avrebbe potuto far parte di una proprietà privata, ma doveva essere soggetta alla giurisdizione della Provincia. D’altra parte, quando alla famiglia
Junqueira venne concesso l’uso della terra accettando la richiesta fatta dal
padre del sesmeiro nell’anno 1819, non solamente la Provincia ma tutto il
Brasile stavano attraversando un momento confuso di transizione.
Dopo aver ricoperto durante vari anni la vice Reggenza, Don João VI
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era salito sul trono nel dicembre del 1815 quando il Brasile era stato elevato alla nomina di Regno Unito di Portogallo e Algarvers.
Egli stava tentando di mantenere sotto controllo lo scontento e le
rivolte che si susseguivano nel Paese, senza ottenere risultati soddisfacenti, a tale punto che quella situazione precipitò con il suo rientro in
Portogallo nell’anno 1821, pressato anche dai Portoghesi che esigevano il
suo ritorno. Prima di lasciare il Paese, Don João VI lasciava in Brasile il
giovane figlio Pedro con la nomina di Principe ereditario del Portogallo.
La Provincia che in quel periodo aveva concluso la disputa dei confini in litigio con la Provincia di San Paolo e ottenuto definitivamente il
possesso dell’area, l’aveva ceduta subito in forma di “Sesmarias” a un
numero di cittadini idonei residenti nel Minas Gerais, affinché la loro presenza mettesse fine ad eventuali ulteriori rivendicazioni su quel territorio.
Probabilmente nella fretta di distribuire le terre, furono trascurate
alcune esigenze che avrebbero dovuto essere rispettate, creando casi come
quello dei Junqueira che si sarebbero trascinati durante tanti anni e avrebbero trovato una soluzione solamente quando il Brasile già si trovava sotto
il comando dell’Imperatore Don Pedro II, salito al trono vari anni dopo
l’abdicazione del padre.
Oramai le notizie che divulgavano i benefici ottenuti con l’uso delle
acque medicinali si erano diffuse anche in altre Provincie, perciò erano
sempre più numerose le persone che volevano farne uso.
Ebbe così inizio l’ultima fase della contesa fra la Provincia ed il
sesmeiro per definire quale delle due parti sarebbe uscita vincitrice da
quel duro confronto, che alla fine fu vinto dal Sesmeiro il quale chiuse la
pendenza con molta astuzia, donando alla Provincia una grande area di
terra, ben maggiore di quella dove erano localizzate le acque. Cedeva ben
novantasei ettari e otto decimi della sua proprietà, dando così la possibilità, non soltanto di costruire le terme, ma di poterci edificare anche una
piccola città.
Pacificamente e con generale accordo, quella decisione vincente preludeva anche alla nascita della città di Poços de Caldas. Questo accadeva
nell’anno del Signore 1872; nella Capitale della Provincia i documenti che
erano stati firmati autorizzando l’espropriazione, vennero archiviati.
IV. Anche il Brasile come il resto del mondo viveva una trasformazione. Per il bisogno di crescere, diventava una necessità urgente quella di
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attrarre pionieri, braccia che permettessero di poter aiutare a conquistare
l’interno del Paese, gente nuova che, allora, aveva popolato solamente la
fascia litoranea.
D’altra parte nel contesto di una Europa infiacchita da guerre e rivoluzioni, l’Italia aveva da poco celebrato la sua unificazione avvenuta solamente due anni prima della nascita di Poços de Caldas e dopo decenni di
movimenti insurrezionali, di dominazioni straniere e dell’interferenza
della Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
L’entrata dei bersaglieri in Roma attraverso la breccia aperta a Porta
Pia il giorno 20 settembre 1870, segnava la capitolazione del Papa che si
era chiuso in Vaticano e innalzava la famiglia dei Savoia, che da principi
di una piccola regione erano poi diventati Re di Piemonte e Sardegna ed
infine, con l’unificazione, i Regnanti dell’Italia.
Questa era la situazione che esisteva nell’anno 1872 nelle due nazioni che interessano la nostra storia ed era uno dei motivi che serviranno per
rendere più chiare le ragioni che hanno portato un considerevole gruppo
di emigranti italiani venuti in Brasile a scegliere per vivere e lavorare, la
città di Poços de Caldas e le fazende di caffè che stavano sorgendo nel
municipio.
Non si può trascurare una fase storica che fu di enorme importanza,
per dedicare spazio solamente al resoconto della presenza italiana ed
ancora meno non ricordare che ancora prima dell’arrivo degli italiani,
anche se sparuta, già esisteva una comunità radicata sul posto.
Fu appunto grazie allo sforzo di tutti quei cittadini messi assieme che
con il passare del tempo, i fatti e gli avvenimenti da loro vissuti divennero storia: la storia globale della città.
Sarebbe una mancanza grave se nel raccontare i fatti non si desse
l’importanza dovuta al contributo dato dai cittadini che appartenevano ad
altre nazioni o etnie, ignorandone la loro presenza o per non considerarli
degni di nota quando invece, pur essendo a volte delle minoranze, ebbero
una grande importanza con la loro presenza e lavoro per il progresso e lo
sviluppo della città.
Primi fra loro gli africani ed i discendenti di africani che si sono trovati in questo Paese contro la loro volontà, strappati dalla terra natale per
soddisfare le necessità di ricchezza e potere di individui ambiziosi, dalle
menti ammalate o confuse che probabilmente non li aiutava a rendersi
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conto del disumano e bestiale destino al quale riducevano quelle povere
creature schiavizzate.
Sfruttati durante trecento lunghissimi anni, essi videro la fine dell’ingiustizia non per il desiderio da parte delle autorità di porre fine a tanta
vergogna, ma per interessi meschini di ordine politico quale fu l’imposizione degli inglesi che passarono da trafficanti di schiavi ad esserne i loro
difensori, esigendo la cessazione del loro commercio ed infliggendo
pesanti castighi a chi non la rispettasse.
Dovevano passare ancora attraverso molte umiliazioni e sofferenze,
vedere approvata la legge del “ventre livre” (ventre libero era il nome dato
alla legge che decretava lo stato di libero cittadino, concesso dal momento della sua abrogazione ai nascituri di schiavi) per arrivare all’anno 1888
quando fu definitivamente abolita la schiavitù.
La libertà li trovò confusi e disuniti, senza la minima nozione di cosa
significasse appartenere ad un nucleo chiamato “famiglia” ed anche senza
condizioni economiche per iniziare qualche attività che potesse condurli a
una vita degna ed indipendente.
Forse non ebbero neanche la possibilità di dare il giusto valore a quella libertà ottenuta, ma fu da quel momento che ebbe inizio il lungo cammino alla ricerca della loro identità e dei loro valori morali e culturali,
come anche della loro storia, soffocata ma non distrutta durante il periodo del loro lungo calvario.
Finalmente entrarono a far parte di quella stessa società che li aveva relegati alla condizione di oggetti d’uso, ottenendo gli stessi diritti goduti da tutti
i cittadini brasiliani, loro che brasiliani lo erano diventati con la violenza.
Da quel momento il Paese poteva contare sulla collaborazione degli
ex schiavi, che però adesso, diventava volontaria e remunerata. Se durante il periodo che riguarda gli avvenimenti vissuti dagli italiani, non appariranno quasi mai nomi di persone di razza nera, questo è dovuto al fatto
che allora non si erano ancora organizzati né socialmente e neppure nelle
loro attività; non per questo vengono diminuiti i loro meriti o non riconosciuto l’importante contributo e la loro costante presenza in tutte le realizzazioni che resero possibile il progresso della città.
V. Il giorno sette di maggio 1876 il “Major” Joaquim Bernardes da
Costa Junqueira lasciava questo mondo, gli succedeva al comando del
clan uno dei figli, il più giovane, nato dal suo terzo matrimonio.
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Si chiamava Agostinho Josè da Costa Junqueira, a lui era andata in
eredità la fazenda Barreiro che era la culla dove si era formato il ramo
della famiglia, venuta a vivere nel Sud del Minas Gerais al confine con lo
stato di San Paolo. Aveva appoggiato il padre nella decisione di donare la
grande area, parte della loro proprietà alla Provincia di Minas, per questo
gli era riconosciuto il merito di essere uno dei fondatori della città.
Finite le divergenze, con la cessione dei novantasei ettari di terra, una
svolta importante si verificò nella famiglia Junqueira che fino a quel
momento si era dedicata ad attività agricole e all’allevamento di bovini,
preoccupata esclusivamente a condurre il buon andamento della proprietà.
La nuova situazione arrivata repentinamente non era stata affrontata
con facilità da Agostinho Josè, che impiegò molto tempo e dovette usare
grande abilità per superare le difficoltà e le incognite che gli si sarebbero
presentate per poter mantenere la sua posizione.
Da erede e signore assoluto delle sue proprietà, rispettato da tutti, con
la nascita della nuova città si trovò a dover competere con persone estranee, con nuovi arrivati, dei quali, certamente qualcuno sarebbe stato culturalmente più preparato e magari anche con abbondanti mezzi economici, esistendo per questo la possibilità di confronti che avrebbero potuto
offuscare il suo prestigio.
Attraverso la sua personalità e le doti di leader che possedeva, dimostrò con il passare degli anni che la sua supremazia sarebbe rimasta inalterata; anche quando la città cominciò ad espandersi in ritmo accelerato,
non c’era decisione importante tanto politica come sociale, che non avesse l’avallo del colonello Agostinho. Il titolo di colonnello rappresentava la
massima carica onorifica riservata ai grandi fazendeiros, dentro alla gerarchia della “Guarda Nacional”, istituzione destinata a proteggere gli interessi politici ed economici e anche la manutenzione dell’ordine nelle aree
soggette alla loro influenza.
Per la città che nasceva attraverso un decreto ufficiale, come sarebbe
nata anche Brasilia molti anni dopo, i primi provvedimenti, progetti e
studi furono orientati verso l’attuazione di un piano che una volta realizzato portasse alla raccolta delle acque solfuree per distribuirle attraverso
una rete di tubature nel complesso termale e negli alberghi.
Nello stesso piano era stato studiato intelligentemente anche il tracciato urbano, poi realizzato con la costruzione di strade larghe e con marciapiedi spaziosi e ben alberati.
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Inizialmente la sua realizzazione fu lenta perché la Provincia, mentre
aveva fretta di attivare il centro termale, agiva tuttavia con cautela preoccupata per le concessioni di uso ed i contratti da stipulare con gli interessati per lo sfruttamento delle acque. La fondazione della città comunque
era già avvenuta, e se durante i primi anni della sua esistenza è rimasta
solo allo stato embrionale, questo fu dovuto al fatto che non si era ancora
destato l’interesse da parte dell’iniziativa privata, un po’ per la mancanza
di mano d’opera e di materiali da costruzione ma molto per le difficoltà
esistenti, come la precarietà di transito nelle poche strade che la legavano
ad altre piccole città e soprattutto la distanza che le separava.
Isolatamente però stavano arrivando i primi elementi specializzati
nelle varie attività come muratori, carpentieri, falegnami ed altri artigiani
pronti ad iniziare l’edificazione delle prime costruzioni di una categoria
superiore a quelle già esistenti.
Accompagnato da un folto gruppo di aiutanti, arrivava da Campinas,
probabilmente invitato dalle autorità della Provincia de Minas Gerais,
l’architetto e costruttore Giovanni Battista Pansini per iniziare la sua attività a Poços de Caldas; egli può essere considerato il costruttore italiano
più importante durante molti anni; varie sue opere rimangono ancora a
testimoniare la sua abilità e preparazione artistica.
Tra le varie ville, alcune delle quali non esistono più, come la villa
Pinhal, residenza dei Conti di Pinhal, possiamo ancora ammirare la residenza costruita per il Barone di Itacuruça, oggi appartenente alla famiglia
Frayha e la villa di Martinico Prado preminente uomo politico e grande
produttore di caffè nella Provincia di San Paolo, datata del 1890, in seguito appartenuta al colonnello Agostinho e che oggi ospita il “Museo
Historico e Geografico di Poços de Caldas”. In questa villa si può ammirare un’ampia scalinata esterna a due rampe, tipico esempio di architettura classica delle ville campestri specialmente del Veneto.
È comprovata anche la partecipazione del Pansini per il tracciato iniziale della pianta topografica della città. Alcuni anni dopo, assieme ad altri
italiani l’architetto si trasferì in Argentina.
Martinico Prado e il suo parente Antonio da Silva Prado, contribuirono in maniera rilevante al progresso di Poços de Caldas e del suo
Municipio, che furono beneficiati con le imprese e le iniziative di quei due
dinamici “Paulistani”. Sono stati tra i primi a promuovere la colonizzazione della Provincia di San Paolo e trasformarla rapidamente, visto che fino
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Pedro de Castro
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a poco tempo prima aveva una popolazione limitata e la terra non sufficientemente sfruttata.
La perseveranza dei due cugini, che oltre ad essere grandi “fazendeiros” produttori di caffè, occupavano importanti cariche pubbliche, con
l’appoggio di altri progressisti avevano convinto le autorità di San Paolo
a promuovere una massiccia campagna di propaganda per attrarre
dall’Europa, specialmente dall’Italia, un grande contingente di persone da
dedicare al lavoro della terra, offrendo vantaggi che le convincessero ad
accettare l’invito.
Così sorse la Società Promotrice della Colonizzazione, un organo ufficiale creato dalla Provincia con la finalità di sovvenzionare il viaggio dei
lavoratori e delle loro famiglie, recuperando in secondo momento le spese
che aveva anticipato, col pagamento da parte del fazendeiro datore di lavoro, attraverso una tassa speciale che incideva sul caffè da lui esportato.
Gli immigranti al loro arrivo venivano condotti nell’Hospedaria, centro di raccolta dei nuovi arrivati, per regolarizzare i documenti e per ospitarli in attesa della partenza verso le fazende che avevano contrattato il
loro lavoro.
Sostituendo i vecchi Baroni del caffè, legati all’Impero e all’uso di
mano d’opera schiava, sorgevano i Colonnelli, nuove figure di pionieri
che si spingevano verso le aree ancora vergini, usando gli elementi locali, i “caboclos”, incaricandoli del disboscamento, prima attraverso il fuoco
e poi sradicando dal suolo i rimasugli dei tronchi; lasciando così la terra
pronta per i nuovi arrivati che iniziavano subito la piantagione del caffè.
Quando gli italiani penetrarono nello Stato di San Paolo, si sparsero
in tutte le direzioni, arrivando molti di essi nelle fazende situate al confine con lo Stato del Minas Gerais; non potevano perciò passare inosservate ai fazendeiros mineiros la laboriosità e l’esperienza di quelle persone,
che attraverso gli insegnamenti ricevuti nella loro terra natia, sapevano
come far produrre la terra, portando il progresso nei posti dove andavano
a radicarsi.
Ma il Minas Gerais non aveva partecipato a nessun piano di sovvenzione all’emigrazione, perciò i proprietari terrieri di questo Stato rimasero esclusi dalla possibilità di poter usare una manodopera così preziosa.
Il colonnello Agostinho risolse il problema nel modo che ci è stato
raccontato da un figlio di veneti, nato e cresciuto nella fazenda Barreiro
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dove il padre, uno dei primi coloni contrattati nell’anno 1889, visse e
lavorò nelle terre della famiglia Junqueira fino alla fine dei suoi giorni.
Ricordava che quando il padre raccontava del lungo viaggio e dei
primi tempi nella fazenda, non lasciava mai di citare scherzosamente che
sia lui come gli altri coloni, erano stati rapiti dal colonnello; in realtà non
li aveva rapiti ma semplicemente convinti, attraverso qualche proposta
allettante, a lavorare per lui, portandoli via a qualche collega del vicino
Stato al quale non deve essere piaciuto molto.
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CAPITOLO 2
ARRIVO DEI PRIMI COLONI ITALIANI
A POÇOS DE CALDAS
I. Così furono introdotti i primi coloni italiani in prevalenza veneti al
Sud del Minas Gerais nell’area che sarebbe diventata in seguito il
Municipio di Poços di Caldas.
Lì cominciarono a scrivere la loro storia che si sarebbe sviluppata
sempre parallela ma nello stesso tempo distante da quella vissuta dai loro
connazionali che risiedevano in città. Fra gli anni 1889 e 1990 si verificò
il primo importante reclutamento di coloni nella fazenda Barreiro.
Avevano pernottato nella stazione ferroviaria della “Cascata”, che era
l’ultima nello Stato di San Paolo e la penultima rispetto a quella di Poços
di Caldas, perché fin dal mese di dicembre del 1886 era stato aperto al
traffico l’ultimo tratto di quasi trenta chilometri del percorso conosciuto
come “Diramazione di Caldas”, che aveva il suo punto finale proprio nella
città di Poços di Caldas.
La stazione dove erano scesi si trovava in un punto strategico situato
sull’altopiano al confine fra i due Stati, subito dopo la fine di una lunga e
sinuosa salita. Era completamente isolata e con rare costruzioni edificate
attorno.
Probabilmente, la decisione di farli scendere nell’ultima fermata
dello Stato di San Paolo era stata presa per un motivo tattico. La persona
che li stava contattando non voleva destare curiosità con il loro arrivo, sia
nella popolazione ma più ancora tra i molti e importanti fazendeiros di
altri Stati del Brasile e specialmente di San Paolo che risiedevano a Poços
di Caldas. Oltre a vari Baroni e Visconti c’erano i due parenti della famiglia Prado che in quel momento figuravano fra i maggiori piantatori di
caffè Paulistani.
Dopo varie ore di aspettativa finalmente era ritornato il loro inviato
informando che tutto era già stato sistemato e che il colonnello Agostinho
li stava aspettando.
L’incarico di svolgere quella missione era stato affidato a Giulio
Moras figlio di Giacinto, che faceva parte di quel numeroso gruppo di
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famiglie prevalentemente venete ed era stato scelto per la sua disinvoltura e iniziativa. La sua famiglia era composta dal padre, dalla madre e vari
fratelli ed era originaria di Santo Odorico, una piccola frazione della città
di Sacile nel Friuli.
Quando il messaggero riapparve, lo seguiva una carovana di carri
trainati da buoi venuti per trasportare le persone e le loro masserizie.
Aveva trasmesso anche la notizia che la fazenda dove sarebbero andati a
vivere gli era piaciuta e che il posto era molto bello, e inoltre aveva incontrato alcuni coloni italiani arrivati separatamente pochi giorni prima.
Il gruppo arrivato era composto da famiglie provenienti da varie
Provincie del Veneto e qualcuna della Lombardia, giunte in epoche diverse in Brasile e una parte già con esperienze anteriori di lavoro nelle fazende pauliste. Caricati i carri, avevano fatto sistemare gli anziani ed i bambini tra i fagotti che contenevano i vestiti e le lenzuola, per attutire gli
scrolloni provocati dal movimento delle ruote sulle strade sterrate, dove le
piogge tropicali avevano lasciato solchi profondi rendendole quasi impraticabili. Per i bambini era una festa osservare i conducenti dei carri che
impugnando una lunga asta di legno, sull’estremità della quale vi era
infissa una punta di ferro con un anello, stuzzicavano con leggeri colpi
sulle groppe i buoi più lenti, incitandoli per nome e ad alta voce: “Vai
Fumaça” “Forza Macchiato”…
Le due grandi ruote di legno massiccio, che avevano dei fori scavati
vicino all’asse, entrando in movimento emettevano un suono stridulo e
lamentoso che cambiava di intensità a seconda del peso che il carro trasportava. Cantavano una delle più belle e suggestive melodie che si potevano udire e che tanto si armonizzavano con l’ambiente e la pace agreste.
Terminavano i dubbi dei nuovi arrivati se sarebbero riusciti a sistemarsi in quell’altopiano per vivere e lavorare, visto che le prime impressioni causate dal nuovo ambiente erano state molto favorevoli a tutti i
componenti del gruppo.
L’ultimo tratto del viaggio li aveva lasciati elettrizzati: più la locomotiva si arrampicava sfiorando le pendici della montagna, sbuffando e serpeggiando lungo le tante curve, più si riaccendevano nelle menti e nei
cuori di quella gente le sensazioni che credevano perdute per sempre
all’abbandonare la loro terra natia. Sembrava loro di rivedere paesaggi
conosciuti, rivivere momenti non tanto lontani e ad ogni curva superata
sognavano di poter avvistare il campanile del loro paese.
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Perfino con il fumo bianco che usciva dai camini delle rade case disseminate lungo il percorso, respiravano l’odore della legna bruciata che a
loro pareva frammischiato con quello della polenta cucinata sul focolare.
L’aria diventava sempre più fresca e pura e la temperatura gradevole; non
c’erano dubbi che la somiglianza con i loro posti di origine era veramente straordinaria ed anche il paesaggio ben differente da quello che avevano visto fino a quel momento, specie durante i loro spostamenti nel nuovo
paese. L’entusiasmo li animava e li portava a scambiarsi richiami e frasi
scherzose, non riuscendo a nascondere l’euforia provocata dalla scoperta
di quel nuovo e inaspettato miracolo; anche i bambini partecipavano
unendosi agli adulti per condividere l’allegria generale. Nell’aria e nei
loro cuori c’era sapore di casa.
Prima ancora di sbarcare nel porto di destinazione, quando il piroscafo dopo la lunga traversata aveva incominciato a costeggiare il Brasile, era
apparsa ai loro occhi la visione di una vegetazione differente da quella del
loro paese: questa era rigogliosa, fitta di palme, alberi e arbusti. Erano
rimasti impressionati nel loro primo incontro dalla lussureggiante foresta
tropicale, perennemente verde e impenetrabile grazie all’umidità che la
impregnava e la vivificava, fornendo l’humus attraverso il marcire delle
foglie cadute e i resti dei tronchi morti, e proteggendola inoltre dal caldo
afoso che perdurava l’anno intero.
Il verde aveva una tonalità ben più cupa di quella delle piante
d’Europa. Scesi dalla nave nel porto di Santos, erano stati caricati su un
treno che li avrebbe trasportati a San Paolo dopo aver valicata la “Serra do
mar”, la catena di monti che nasce al livello dell’Oceano Atlantico e arriva sull’altopiano dove sorge la città, a una altitudine di ottocento metri.
Lungo tutto quel percorso in treno, quando la locomotiva aiutata da un
ingegnoso sistema di cremagliere, si arrampicava lentamente per superare la grande pendenza, avevano avuto modo di osservare un altro tipo
ancora di vegetazione, una massa compatta di verde quasi come se la
montagna fosse un unico gigantesco cavolfiore, tanto erano fitte le piante
da non lasciare spazio alcuno tra loro. Rimasero affascinati passando vicino agli alberi quando poterono ammirare quanti di essi erano coperti di
fiori e foglie dai colori tanto vivi da creare una splendida visione.
Poi per alcuni di essi c’era stata l’esperienza nelle fazende di caffè
nell’interno dello Stato di San Paolo. Lì erano entrati in contatto con la
fertile terra rossa, con il caldo afoso che trasformava il sudore in gocce
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che scorrevano rossastre sui loro volti e che impregnavano anche i loro
corpi e gli indumenti e li faceva sembrare statue di terracotta.
Ma quello che i loro occhi avevano visto in quest’ultimo tratto del
viaggio, quando ancora non avevano intravista la stazione della cascata,
decisamente li aveva convinti che quello sarebbe stato il posto ideale dove
rimanere per sempre.
Il. Il vecchio Angelo portò la mano al taschino del panciotto ed
estrasse l’orologio per sapere l’ora. Si era seduto nella parte posteriore del
carro dando la schiena ai buoi, le gambe penzoloni per correggere un poco
la posizione scomoda in cui si trovava e che aveva tentato di cambiare
varie volte durante quel lungo e penoso tragitto.
Un momento prima aveva dato una sbirciata in direzione dove era
stata sistemata la sua “vecchia” per vedere come stava sopportando tutti
quegli scossoni e sobbalzi continui, ma nella fisonomia di lei non era riuscito a scorgere altro se non la solita espressione mesta e rassegnata.
“Povera donna – pensò – è più forte di tutti noi messi assieme”.
Cinque mesi prima quando Santo, il figlio più vecchio, al ritorno dal
paese dove era andato per svolgere una commissione per il Conte, lo
aveva messo al corrente dell’argomento trattato durante il suo casuale
incontro con il compare Bordin, aveva capito che il momento da lui tanto
temuto stava per arrivare.
Apprese che molti compaesani si erano decisi ad entrare nella lista di
un agente incaricato di reclutare contadini per una compagnia di colonizzazione, che li richiedeva per lavorare la terra in Brasile.
Meccanicamente Angelo ripeteva i nomi, tutti conosciuti, dei candidati alla partenza. Anche Piero il figlio della Felicita e Toni Finotto con
tutta la famiglia, nuore e generi, i fratelli Pegoraro e anche… tanti altri.
Sentiva che Santo lo stava preparando prima di dargli la notizia finale
e quando quella arrivò, fu per lui quasi un sollievo e la fine di un incubo.
Da varie generazioni la sua famiglia serviva una delle più nobili e tradizionali casate del patriziato di Venezia e sempre nel lavoro dei campi,
coltivando una proprietà che era già stata composta da molti ettari in più
di terra grassa e fertile. I suoi antenati avevano vissuto molti anni buoni,
quando il tempo era scandito solamente dalle stagioni dell’anno e dai
lavori che ciclicamente si ripetevano.
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Aravano all’inizio della stagione calda, quando la terra ritornava ad
ammorbidirsi per ricevere dentro di sé le sementi sparse a manciate contro il vento, poi seguiva il taglio del fieno, il raccolto del grano, la potatura degli alberi e delle viti.
D’inverno avveniva l’uccisione del maiale, quasi un rito che richiedeva un lungo cerimoniale con la partecipazione di tutti, ognuno con la
sua funzione che andava dall’ebollizione dell’acqua per lo scuoiamento
dell’animale alla confezione finale dei salami e degli altri insaccati.
Anche la vendemmia e la pigiatura dell’uva per trasformarla in vino,
faceva parte di una festa che si ripeteva ogni anno e che segnava la fine del
ciclo vegetativo delle piante e indicava che l’inverno stava arrivando con
le sue giornate fredde e nebbiose. Gli alberi spogli formavano una visione
triste, era il silenzio che scendeva, quasi volesse rispettare il meritato riposo della terra, dopo tanto vigore e generosità elargiti durante molti mesi.
Il rapporto della sua famiglia con i proprietari era stato sempre molto
buono. I Conti avevano già posseduto un patrimonio gigantesco, accumulato durante secoli di privilegi, eredità e concessioni di favori da parte
della Repubblica di Venezia, che tanto avevano arricchita la famiglia, specialmente con il commercio delle spezie rare ed altre mercanzie che trasportavano con le loro navi a vela dai paesi dell’Oriente.
La casa padronale della grande proprietà rurale, sorgeva dove l’argine del fiume formava l’ultima ansa e le punte dei rami dei salici piangenti si lasciavano accarezzare dall’acqua che scorreva lentamente, mentre
lontano si scorgevano il campanile e i tetti di alcune costruzioni del paese.
Era stata progettata dal grande architetto Palladio, gigantesca, imponente e nello stesso tempo sobria; le logge e l’ampia scalinata centrale si
affacciavano su un largo viale ricoperto di ghiaia fine e bianca ed era
recintato di siepi basse per permettere una visione d’ insieme della casa.
Una volta oltrepassato il cancello di ferro battuto, appariva in tutta la
sua scenografica maestosità, con il profilo dei suoi porticati, delle statue e
dei pinnacoli di marmo bianco che si frastagliavano contro il verde delle
grandi piante che facevano da cornice sullo sfondo del parco.
La sua costruzione risaliva alla metà del sedicesimo secolo ma con
certezza gli antenati del Conte possedevano quella proprietà già da molto
tempo prima. Malgrado le loro attività fossero sempre state tradizionalmente legate al mare ed ai commerci marittimi, aderirono alla nuova
moda che si stava diffondendo allora fra i nobili veneziani.
31
Quando, con la sconfitta di Padova nell’anno 1405, Venezia estese i
suoi domini nell’entroterra, essi intravvidero in quella occasione che
un’altra modalità di vita si offriva loro quale alternativa per diversificare
e aumentare le fonti dei già cospicui redditi, potendo così continuare a
condurre la vita principesca alla quale erano abituati.
Scoprirono l’agricoltura come una nuova attività ed assieme scoprirono anche i piaceri della villeggiatura; si dedicarono con interesse affinché dalle loro terre uscisse una buona produzione agricola e per questo
seguivano i lavori nei campi ed amministravano con criterio la proprietà
comprovando che avevano anche una buona capacità organizzativa che
portava i loro affari ad essere lucrativi.
Le grandi ville progettate dai più famosi architetti dell’epoca erano
arricchite con statue, quadri e affreschi eseguiti dai maestri della pittura e
scultura veneti e decorate con marmi lavorati e arazzi, ferri battuti e mobilia del migliore artigianato esistente. In realtà erano delle piccole reggie con
gli stessi conforti e lusso dei palazzi residenziali che possedevano a Venezia.
Durante il periodo di villeggiatura, che aveva inizio verso il giorno 13
di giugno, dedicato a Sant’Antonio e terminava alla fine di luglio, le ville
fervevano di vita e movimento con le visite di cortesia che si scambiavano fra i nobili delle proprietà vicine ed anche per le frequenti feste e gli
incontri sociali.
I grandi saloni illuminati dalle molte candele che bruciavano nei
giganteschi lampadari di vetro di Murano erano palco di feste memorabili che venivano realizzate con la presenza di molti invitati; lì venivano
eseguiti concerti di musica per strumenti a corda, clavicembalo, spinetta,
violini e violoncelli e realizzati frequenti balli; non c’erano infatti visite di
personaggi importanti che non venissero ricevute nelle ville con lo splendore e la signorilità che distingueva il patriziato veneziano
Le ricchezze che avevano accumulato erano immense, per questo non
immaginavano o non volevano immaginare che tutto quello un giorno
sarebbe potuto finire.
Il funzionamento di quelle ville e la loro manutenzione anche nei
periodi che rimanevano disabitate, richiedeva un grande numero di personale incaricato a svolgere i molti lavori come stallieri, giardinieri, personale delle pulizie ecc.
Sicuramente una grande parte del personale occupato in quelle attività proveniva dalla stessa proprietà agricola essendo spose, figlie o paren32
ti dei dipendenti che lavoravano la terra e per questo, grazie al grande
numero di posti di lavoro disponibili, ognuno poteva contribuire al proprio mantenimento.
Nelle campagne, molta gente dipendeva da lavori che nulla avevano
a che fare con quelli agricoli, poiché non solo il personale della villa in
campagna, ma anche quello del palazzo a Venezia era fornito dalla stessa
fonte. I dipendenti non venivano trattati male, anzi una delle caratteristiche della classe nobile veneziana era giustamente la maniera paternalista
ed in un certo modo amichevole con la quale si relazionavano con i servitori qualunque fosse il loro posto di lavoro; dai gondolieri di casata al
maggiordomo o ai contadini, a tutti i padroni trasmettevano la convinzione che facessero parte di un clan.
Il comportamento dei nobili verso i propri dipendenti era dettato
soprattutto da una innegabile astuzia che li faceva sentire come fosse
necessario e importante l’uso della diplomazia e della bontà per ricevere
in cambio fedeltà e rispetto, evitando così il rischio di circondarsi di persone scontente o rivoltose.
Quello, assieme alle paure dei castighi eterni, tenuti in primo piano
dalla chiesa, sicuramente fu un altro dei motivi che influenzò il carattere
di molti veneti, che per aver avuto sempre chi pensava per loro e li comandava, si trasformarono in individui dall’indole pacifica e mite.
La partecipazione dei dipendenti nel convivio della famiglia nobile
non si limitava solamente ai loro doveri, godevano anche di privilegi
come premio alla loro fedeltà, tanto che quando venivano organizzate le
grandi feste, mentre nei saloni i nobili si divertivano, fuori del palazzo o
della villa di campagna, i dipendenti godevano del piacere di un trattenimento solo per loro. Non era senza ragione che i veneziani godevano la
fama di essere “Gran Signori” giacché l’opulenza e la ricchezza accumulate avevano insegnato loro a vivere bene.
Ma purtroppo gli anni passarono in fretta uno dopo l’altro, alcuni
erano stati buoni, altri meno e, ogni volta di più, carichi di ombre ed incertezze. Nel mondo si stava preparando una grande trasformazione che
sarebbe culminata con la rivoluzione francese. Tutta l’Europa veniva
coinvolta da avvenimenti che modificavano radicalmente la sua struttura
socio-economica e politica. Il potere e le ricchezze passavano in altre
mani, provocando anche in Italia la decadenza e la rovina di molti che fino
a poco tempo prima li detenevano.
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Uno ad uno si sfaldarono i regimi e le istituzioni che come tessere
componevano il mosaico politico e sociale della penisola.
Quando nel 1872 l’unificazione d’Italia era già stata raggiunta ed anche
finite le lotte per scacciare lo straniero oppressore, dalle rovine ancora
fumanti nascevano sogni di speranza e redenzione, ma quanti anni dovevano ancora passare prima che una parte di essi diventasse realtà!
Una situazione confusa aveva mantenuto l’Italia senza grandi prospettive di sviluppo e di progresso, durante lunghi anni si era stagnato nell’aria il malessere e la scontentezza tra i piccoli proprietari ed i contadini
che non riuscivano a far durare le loro provviste alimentari da un raccolto all’altro, dovendo molto spesso ricorrere a prestiti o peggio ancora privarsi dell’indispensabile.
La pellagra imperava nelle campagne, l’aringa salata che scendeva
dal lume a petrolio appesa ad un filo di cotone rimaneva lì, sospesa nel
vuoto in mezzo alla tavola e già non lasciava più nessun sapore sulla
polenta che le veniva pressata contro da troppo tempo; allora incominciarono a mangiare un boccone di polenta fatta con la farina gialla alternandola con uno di polenta fatta con la farina bianca, accontentandosi con
l’illusione di una differenza di sapori che il loro palato avrebbe potuto
provare.
Erano tutti stanchi e delusi, sapevano che le speranze di un miglioramento erano remote, vedevano oltretutto che anche per molti dei loro
padroni, già proprietari terrieri, le cose non stavano andando bene. La loro
rivolta non era indirizzata verso coloro per i quali avevano lavorato anche
i loro antenati; capivano che tutti assieme ormai erano stati travolti dallo
stesso vortice: era la nuova classe sociale che si stava consolidando sempre più, quella sorta dal nuovo Regno d’Italia che preoccupava per la sua
incompetenza e ambizione
III. Quella domenica mattina, Angelo finalmente riuscì a parlare con
il conte, il quale, di ritorno dalla messa delle undici, vedendolo da lontano fece fermare la carrozza per chiedergli notizie della mucca marchigiana che aveva avuto problemi nel partorire.
Era quella una eccellente occasione per liberarsi del peso che si caricava dentro già da qualche settimana; così, dopo aver risposto a quanto gli
era stato chiesto, rigirando il cappello fra la mani, si fece coraggio e rivolgendosi al conte disse:
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«Eccellenza avrei bisogno di parlarle.»
«Qualche cosa che tu possa dirmi qui? adesso?»
«No, Eccellenza, dovrei parlarle di un cosa importante.»
«Allora più tardi, verso le tre... dopo il mio riposo pomeridiano ti
aspetto nella villa, va bene?»
«Grazie, Eccellenza.»
Mentre si allontanava, il Conte cercava di immaginare che cosa poteva avere di tanto importante da dirgli, al punto da chiedere un colloquio
particolare; ottima persona Angelo, buon padre di famiglia, onesto e fedele, eh sì! gente cresciuta con noi, pensava, ma che cosa vorrà mai?
Soldi da prestare non ne ho e lui lo sa bene; anzi, mi farebbe comodo
se potessi riavere i soldi di quel prestito che gli ho fatto l’anno scorso,
beh! fra poco sapremo cosa vuole dirmi. Occupato da questi pensieri non
si era accorto che la carrozza si era fermata davanti alla scalinata principale della villa e il cocchiere stava lì impalato porgendogli il braccio per
farlo scendere.
La notizia giunse come una mazzata sulla testa del Conte; non che lui
ignorasse di come le cose stavano precipitando ultimamente, solo non si
aspettava che dopo le prime reticenze ed un silenzio pieno di angustia,
finalmente gli venisse comunicato da Angelo che la decisione di dover
lasciare il servizio e andare via dall’Italia in modo definitivo era stata
presa dai figli con il consenso di tutta la famiglia.
Il Conte ascoltava, ma la sua mente non riusciva a concentrarsi. I pensieri gli si accavallavano mentre Angelo parlava, lui afferrava solo brani
di frasi: bisogno di gente… piantagioni di caffè... Brasile...
Tutta la classe e la signorilità sempre dimostrate in modo altero ed
equilibrato, sembrava lo volessero abbandonare nelle oramai sempre più
numerose situazioni difficili che doveva affrontare. Mio Dio, pensava, ma
non mi rimane più nessuno della mia gente, come faccio adesso per coltivare le terre?
«Siete ben sicuri della decisione presa?»
«Sì, Eccellenza, se fosse per mia moglie e per me saremo rimasti, noi
siamo vecchi... con poco viviamo… ma abbiamo figli, nuore, nipoti. Loro
sognano un futuro migliore, dicono che vogliono fare “la Merica”…»
«Ma sapete a quante delusioni potete andare incontro? Quanti si sono
già pentiti amaramente del passo sbagliato che hanno fatto andando in una
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terra così lontana e semiselvaggia! Avete pensato bene per non dovervi
trovare un giorno in una cattiva situazione?...»
«Cattiva situazione? Un giorno? Sarà che può esistere una situazione
peggiore di quella che stiamo vivendo oggi? Sarà che può fare più buio
che alla mezzanotte?...» Tutto questo Angelo si era limitato a pensarlo,
certamente non avrebbe potuto dirlo per non offendere il signor Conte,
così buono da meritare tutto il suo rispetto.
Il colloquio stava arrivando alla fine. Conclusi gli accertamenti del
dare e dell’avere e combinati i lavori da portare a termine, Angelo insistette per pagare il suo debito, anche se il Conte cercava invano di rifiutare la
restituzione dei soldi.
«Hai lavorato una vita con la mia famiglia e con me, – diceva il Conte
– lascia stare...»
Alla fine dovette cedere ed accettare, perché capiva che la dignità di
questo servitore sarebbe stata ferita, se non gli si fosse permesso di lasciare il suo posto con la testa alta e la coscienza tranquilla.
E poi, Angelo stava vendendo quel poco che possedeva proprio per
poter pagare i suoi debiti e mettere da parte un ben magro resto da usare
nel caso di necessità future.
La partenza sarebbe avvenuta fra un mese e mezzo, verso la metà di
novembre, non c’era più niente che potessero dirsi ancora. Rimasero i due
per qualche istante in silenzio e poi, tirato dal taschino del panciotto l’orologio d’oro con i numeri romani, il Conte lo porse a Angelo dicendogli
semplicemente:
«El toga, che el possa segnarghe solo ore bone…»
Quel mattino il rumore delle ruote dei carri e lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli che venivano a caricare i partenti per condurli alla stazione
ferroviaria, si diluivano ovattati dalla nebbia di novembre.
Solo le voci di chi partiva e dei parenti, allegramente eccitate, erano
l’unico segno di vita in tutto quel grigiore.
«State attenti ai leoni!»
«Mandateci uno scimmiotto!..»
«Non dimenticatevi di noi, chiamateci in Brasile quando avrete fatto
i soldi!»
Tra frizzi e raccomandazioni di chi rimaneva, il gruppo si mise in
movimento per andare incontro alla nuova avventura. Dalle grandi impo36
ste socchiuse il Conte, senza farsi vedere, osservava tutto quel movimento; altri contadini suoi dipendenti avevano fatto la stessa scelta della famiglia di Angelo, erano tutti lì che se ne stavano andando via, e lui, senza
poter fare niente per evitarlo, guardava ed a bassa voce ripeteva:
«Stupidi, illusi, ingrati, vedrete… vedrete quanto sarà bello!
Andatevene pure, ma credete di essere capaci di difendervi da soli? State
pensando che sia così tanto facile?... State bene attenti, non lasciatevi
imbrogliare cadendo nelle mani di qualche avventuriero che possa farvi
soffrire… Che Dio vi benedica!»
Mentre le voci e i rumori andavano sparendo con l’allontanarsi dei
carri che già avevano imboccata la curva sull’argine, il Conte rimase pensieroso, fissando per qualche momento ancora nel vuoto; poi scostandosi
dalla finestra, pensando a voce alta disse:
«Non so, mi ha preso un freddo che penetra nelle ossa, dev’essere l’inverno che s’avvicina, ora faccio preparare un caffè ben forte e caldo..»
Quello che il Nobiluomo stava sentendo non era il freddo dell’inverno in arrivo, ma di un inverno molto più rigido lungo e tenebroso, uguale
a quello che dovettero affrontare i dinosauri al preannunciarsi dell’epoca
glaciale che decretava l’estinzione totale della loro specie.
Già gli sciacalli rondavano il Conte, sapevano che presto o tardi
anche lui avrebbe dovuto capitolare cedendo il resto di quel poco che gli
era rimasto, per poi venire definitivamente inghiottito dai ghiacci.
Non era lontano il giorno in cui i lussuosi saloni della villa sarebbero stati trasformati in depositi, per conservare i cereali e riparare gli attrezzi agricoli dalle intemperie. E dai soffitti affrescati da mani maestre che
avevano immortalato con mirabili allegorie la storia della famiglia, sarebbero scesi gli spaghi con i salami appesi.
Stava per finire un altro lungo e tribolato anno, mancavano quarantacinque giorni per entrare nel 1889.
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CAPITOLO III
CAUSE DELL’ESODO DEGLI ITALIANI
DALLA PATRIA E NASCITA DELLA SOCIETÀ
DI MUTUO SOCCORSO “STELLA D’ITALIA”
I. Durante l’anno 1889 furono celebrati a Poços de Caldas cinque
matrimoni, uno dei quali, il ventitre febbraio, fra italiani. Alle 18,30 di
quel pomeriggio si sposavano: Alessandro Marè di 31 anni, aiutante cuoco
(probabilmente in qualche albergo) con Deodolinda Rebecchi, cameriera.
Dal registro ufficiale risulta che i due erano nativi della provincia di
Mantova e più precisamente dal paese chiamato Sabona (che non esiste
ma potrebbe invece essere Sabbioni o Sabbioneta); ha servito da testimone il compatriota Antonio Remanato. È questa una delle prime constatazioni degli errori di trascrizione che molto frequentemente appariranno
nei documenti ufficiali.
Il matrimonio fu celebrato nella piccola Chiesa dedicata al “Buon
Gesù della canna verde”, situata nella via San Paolo dove esiste tutt’oggi.
Allora, per essere l’unica chiesa edificata nella città che stava nascendo,
svolse per molto tempo le funzioni di Basilica.
Era il primo matrimonio che appariva registrato ufficialmente fra
elementi della colonia italiana ed è curioso osservare che fu l’ultimo realizzato “Conforme i costumi dell’Impero” come è stato annotato sul
libro nel Cartorio del Registro Civile. Di fatto pochi mesi dopo, esattamente il giorno 15 novembre, veniva ufficialmente proclamata la
Repubblica Federativa del Brasile. Già un anno prima, il 13 maggio
1888, attraverso la legge “Aurea” era stata abolita definitivamente anche
la schiavitù.
Quelli furono “anni caldi”, pieni di avvenimenti della maggior importanza per il Paese. Alla fine, con l’avvento della Repubblica, l’Imperatore
Don Pedro II° lasciava il Brasile trovando asilo in Europa. I progressisti
finalmente erano riusciti a far prevalere le loro idee ed i loro progetti e
questo aveva favorito sensibilmente il flusso di emigranti diretti in Brasile
già iniziato da tempo, e da quel momento prese nuovo impulso. Nell’area
urbana di Poços de Caldas risiedevano vari italiani arrivati fin dal 1885.
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Questi dati sono stati ricavati dal registro di compra e vendita di immobili, ipoteche e procure, il primo registro a contenere informazioni riguardanti gli italiani.
Angelo Bonvicino – per citare uno di loro – vendeva una casa al
Barone di Itatiaia in un terreno composto da tre lotti per la somma di quattro “contos de reis” che era una piccola fortuna a quei tempi.
La casa sul lato destro confinava con la residenza del Visconte do Bom
Retiro. Questa notizia è ben significativa sul tipo di persone che frequentavano la città già in quell’epoca. Contemporaneamente alle residenze e agli
alberghi, furono costruiti i Casinò dove il gioco d’azzardo avrebbe avuto
sempre una grande importanza per la città, fino a quando, dopo la fine della
seconda guerra mondiale nel 1945, venne abolito.
Dal 1884 al l889 abbiamo trovato molti documenti con i nomi di vari
italiani che concludono transazioni immobiliari o hanno funzione di testimoni, o concedono procure, come nel caso della tassazione di un terreno
che doveva essere risolta a Ouro Preto, in quell’epoca ancora capitale
della Provincia del Minas Gerais.
Oltre ai già citati nomi, troviamo anche quelli di Giacobbe e Pietro
Dal Poggetto, Michele Paladini, Saverio Peppe, Raffaele Danza e Felice
Ghilardi. Di tutti questi italiani ed altri che verranno citati in seguito, ufficialmente non esiste la possibilità di specificare le date precise del loro
arrivo per mancanza di documenti anteriori a quelli esistenti nell’ufficio
del Registro Civile.
I loro nomi apparivano in ordine cronologico solamente quando venivano registrati per matrimoni, decessi, nascite o compravendite e ipoteche. Una famiglia di emigrati, che fosse arrivata a Poços de Caldas con i
figli ancora piccoli e non avesse avuto nessun decesso, nessuna nascita,
nessun matrimonio, oppure non avesse comperata nessuna proprietà o
fatta qualche transazione legale, non esisteva ufficialmente, e difficilmente sarebbero stati recuperati dei documenti per comprovarne l’esistenza.
Le autorità consolari italiane, attraverso le liste dei passeggeri delle
navi che certamente dovevano ricevere ufficialmente dall’Italia, erano in
condizione di sapere molte cose riguardo ai compatrioti che sbarcavano in
Brasile. Una volta scesi dalle navi, gli emigranti venivano indirizzati negli
appositi centri di raccolta, chiamati Hospedarias, e mantenuti dal governo
Brasiliano dove rimanevano durante alcuni giorni per poi partire verso il
loro destino, che avrebbe potuto essere la più lontana località ai confini
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dello stato di San Paolo, oppure la possibile sistemazione in città e magari a pochi quartieri di distanza dal centro che li aveva accolti.
All’arrivo le autorità brasiliane registravano i loro nomi, la data dello
sbarco, la provenienza e la destinazione, poi corredavano questi dati su dei
grossi volumi da archiviare assieme ad altre informazioni supplementari.
Tutt’oggi si possono consultare quei registri in deposito nella antica
“Hospedaria dos emigrantes” recentemente trasformata in Museo.
Le autorità consolari italiane, perlomeno quelle di San Paolo, sembra
che non abbiano conservato nessun documento relativo agli immigranti;
anzi, al contrario, avendo l’autorizzazione di poterli distruggere dopo un
determinato numero di anni di archiviazione, così hanno proceduto. A San
Paolo, gli italiani emigrati di recente e residenti nell’area dove il
Consolato d’Italia ha la sua giurisdizione, hanno i loro dati registrati solamente da dopo la seconda guerra mondiale, cioè dal 1945. Di quelli arrivati durante i settant’anni anteriori non esiste traccia alcuna. Questo mi è
stato affermato personalmente dal Console.
Si vorrebbero conoscere molti degli avvenimenti che sono accaduti
allora, per trovare delle giustificazioni plausibili, magari ricercandole
nelle enormi distanze da coprire e con le evidenti difficoltà di appoggio,
nel caso fossero esistiti.
Non possiamo però evitare lo sgomento nel leggere in un documento
ufficiale di Poços de Caldas che il giorno 14 gennaio 1892, si presentava
nell’ufficio di Registro Civile, il cittadino italiano Francesco Mencarini
dichiarando la morte tragica di Mansueto Puglia avvenuta per suicidio alle
ore nove della stessa mattina. Il defunto aveva cinquant’anni, era calzolaio, sposato in Italia e “attualmente residente in questa città”. Il dichiarante ignorava se avesse lasciato figli, ed anche l’indirizzo della residenza in
Italia, affermava inoltre che il defunto non aveva lasciato testamento.
Spariva nel nulla, in maniera tragica, un uomo, un cittadino, uno sposo,
un figlio del quale niente più si saprà, all’infuori di quell’unica testimonianza tracciata nelle poche righe della pagina ingiallita di un vecchio registro.
Rimarrà sempre il dubbio se le autorità italiane siano state informate del
caso e se abbiano trasmesso a suo tempo la triste notizia alla famiglia in
Italia. Altrimenti che cosa avranno pensato di quell’infelice i propri familiari in Italia? Che non voleva più comunicare con loro? Che si era formata
un’altra famiglia, dimenticando quella lasciata al suo paese? Chissà per
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quanti anni sono perdurate quelle incertezze e quelle domande senza risposta, forse fino a scemare con il tempo.
Nei giornali di lingua italiana stampati in quegli anni in Brasile, apparivano di frequente liste con i nominativi di persone delle quali i parenti
in Italia chiedevano notizie, per aver perduto ogni contatto con loro.
Con Mansueto Puglia spariva uno dei figuranti di una grande saga
che coinvolgeva centinaia di migliaia di creature, che per porre fine a una
situazione sempre più complicata e difficile, avevano lasciato i luoghi
dove erano nati per avventurarsi in nuove terre.
Provocarono il famoso “fenomeno emigratorio”. Fenomeno che, in
realtà, lo fu solamente all’inizio, appena conclusa l’unificazione
dell’Italia quando il Re e i suoi Ministri si preparavano ad affrontare una
grande quantità di problemi sorti allora ed altri che si andavano aggiungendo. Per prima cosa (e la più importante) era la mancanza totale da parte
dei sudditi del sentimento di unione e di amor patrio, sconosciuti durante
secoli di frazionamenti che avevano visto fiorire regni, ducati, principati,
contee ecc., sempre in lotta armata per soggiogare al loro dominio i meno
forti. Per il troppo tempo che è durata l’incapacità dei governanti di saperlo o volerlo risolvere, il fenomeno migratorio finì col diventare una piaga
per la nazione, la quale, un po’ per vergogna e un po’ per interesse non
trovò mai il coraggio di assumere le proprie responsabilità.
Al momento dell’unificazione, la macchina a vapore stava rivoluzionando il mondo e stimolava una competizione tra le nazioni più emancipate, ognuna delle quali voleva essere la prima a dominare la tecnica per
poi, con il suo uso, ottenere dei grandi benefici che avrebbero favorito i
propri interessi. Lo sforzo non era orientato solamente allo sviluppo e progresso interno di ogni singola nazione, ma mirava specialmente alla fornitura di manufatti ai paesi meno organizzati, conquistando i loro mercati e conseguentemente ritardando la loro industrializzazione per lasciarli
sempre dipendenti dal rifornimento di prodotti finiti.
L’Inghilterra, la Francia e persino il piccolo Belgio avevano stese
delle reti ferroviarie invidiabili nei loro Paesi mentre l’Italia non aveva
ancora incominciato a farlo.
Le statistiche riferite al chilometraggio delle ferrovie esistenti nei vari
paesi dell’Europa nel periodo immediatamente successivo all’unificazione, servirebbero solamente per confermare la situazione precaria nella
quale si trovava l’Italia.
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Quel ritardo tecnologico e l’impossibilità di poter usufruire di rapide
vie di comunicazione e di trasporto, costarono caro al Regno perché mantenne per molti anni la penisola a dibattersi nelle difficoltà. Persino i prodotti alimentari che giungevano dalla Russia o dagli Stati Uniti, come nel
caso del grano, avevano dei prezzi di concorrenza tali che solamente quei
paesi geograficamente e topograficamente privilegiati potevano sostenere, grazie alle loro immense aree piane che potevano essere coltivate meccanicamente.
I governanti italiani si dibatterono nel buio per molti anni, nel tentativo di trovare soluzioni che potessero lasciar trasparire la speranza di
sanare i problemi esistenti. Anche aspirazioni colonialistiche in Africa
furono tentate con risultati completamente negativi. La colpa e i colpevoli non sarebbe facile individuarli come non sarebbe facile citare i motivi
che provocarono quell’infelice problema. La mancanza di capacità e polso
fermo da parte dei governanti, associate ai compromessi assunti in precedenza che hanno impedito di poter prendere atteggiamenti giusti e positivi, oppure il caos generalizzato in tutta la penisola che non lasciava una
breccia per capire da quale punto cominciare a metter ordine nella casa, o
forse una fase d’oro per opportunisti, furbi, associazioni segrete o altro
che vedevano in quella confusione il loro momento di gloria per imporre
la loro supremazia su tutti e su tutto e arricchire a costo di qualsiasi operazione lecita o illecita. Dev’essere stata una guerriglia combattuta all’ultimo sangue, disputata fra le classi dominanti e prepotenti, evidentemente
a scapito del paese e della popolazione meno privilegiata.
Nell’anno 1879 il primo ministro De Pretis, approvando un progetto
del Ministro Coppino, rendeva obbligatoria l’istruzione pubblica in Italia,
compiendo con questo atto sensato e degno di elogio, uno dei passi più
importanti per la nascente Nazione Italiana dove l’analfabetismo raggiungeva proporzioni impressionanti.
In contropartita solamente nel 1882, trascorsi ben dieci anni dalla
data dell’unificazione della Patria, venne ampliato il diritto di voto, le
quaranta lire che erano necessarie quale reddito annuo per poter avere
quel diritto vennero ridotte a quindici lire, permettendo così l’accesso alle
urne di un maggior numero di cittadini appartenenti alla media borghesia.
Con la nuova legge veniva anche ridotta l’età per poter esercitare il diritto di voto, passando dai 25 anni necessari fino a quel momento ai 21 anni
di età. Grazie a quei cambiamenti gli elettori italiani che raggiungevano il
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numero di seicento mila passarono a tre milioni; questo viene a comprovare che durante i primi dieci anni di Regno dei Savoia, solamente un
ridottissimo numero di cittadini aveva esercitato il privilegio delle decisioni, imponendo leggi e assumendo atteggiamenti in nome di una popolazione di circa ventisette milioni di abitanti lasciati completamente emarginati.
Volendo sapere che cosa ha rappresentato quel biasimevole periodo
che fece arricchire anche un gruppo egoista e senza scrupoli di armatori e
agenti commissari di navigazione, si scoprirà allora a quale alto prezzo e
col sacrificio di chi è sorta la flotta mercantile italiana e come diventarono poderosi i gruppi di capitalisti dedicati a tale attività. Sembra, e tutti gli
indizi lo lasciano credere, che il governo italiano, che avrebbe avuto l’obbligo di mantenere un controllo rigoroso affinché non avvenissero abusi e
corruzione, dati i grandi interessi finanziari in gioco, non vedesse tutto
quello che di vergognoso stava succedendo.
Ad un certo momento il commercio marittimo di carne umana divenne talmente rivoltante e insopportabile da arrivare al punto di provocare
malessere a tutte le persone perbene che protestarono pubblicamente contro tale infamia. Resta il dubbio se quegli abusi il governo italiano li ignorava o semplicemente li tollerava. Forse aveva interesse di vedersi liberato della presenza di quei sudditi rivoltosi e scontenti o forse soffriva troppo nel vedere quelle creature lasciare le loro case e i loro paesi per andarsene via?....
Chissà se i responsabili a capo della nazione non si erano prefissi il
disegno ben architettato di lasciare da parte il rimorso e la tristezza nel
vedere i partenti: tutte quelle braccia non più usate per aiutare la propria
Patria a crescere e progredire, ma destinate a dissodare e far produrre le
terre rosse e fertili nelle fazende Brasiliane o nelle sconfinate pianure
dell’Argentina? Probabilmente per l’Italia era più importante e comodo il
pensiero dei soldi che quei suoi figli lontani avrebbero inviato, mandando
le loro economie attraverso il Banco di Napoli e con questo contribuire ad
alleggerire la miseria regnante nelle casse del tesoro nazionale.
Solamente un lungo e minuzioso studio potrà chiarire un giorno molti
punti oscuri che offuscano quelle pagine di Storia recentemente affrontata da studiosi seri, i quali stanno abbattendo le barriere quasi insormontabili create dalla burocrazia che è riuscita a mantenere il silenzio fino ai
nostri giorni sul problema dell’emigrazione, un silenzio che giammai riu44
scirebbe a far dimenticare la Storia di una nazione che non ha saputo offrire condizioni di vita soddisfacenti per trattenere i sudditi nei posti dove
erano nati.
Meno ancora è riuscita a strutturare una organizzazione che perlomeno li accompagnasse seguendo fin dall’inizio i loro passi, dando loro
appoggio e protezione ed anche verificando se i contratti di lavoro e le
promesse fatte venivano rispettati. Quell’esodo fu una triste realtà che col
tempo si sarebbe trasformata in un problema irreversibile che avrebbe
dovuto essere affrontato con più decisione e serietà.
II. È stato nell’anno l889 che le Province passarono a definirsi
“Stati”. Poços de Caldas si trovava in fase di pieno sviluppo, il cambiamento di regime non aveva modificato la vita della città anche se delle
alterazioni erano avvenute nei quadri politici locali.
Uno dei primi provvedimenti innovatori praticati dai repubblicani fu
la proibizione del gioco d’azzardo, che era una delle grandi attrazioni per
i frequentatori del centro termale. Questo provvedimento ebbe una breve
durata ritornando ad essere praticato nuovamente qualche mese dopo. In
quel frattempo erano sorti altri alberghi ogni volta più sofisticati e con
pretese di lusso ed ogni volta più confortevoli. Dai due alberghi che offrivano “sopportabili sistemazioni” come annunciava l’almanacco del Sud
di Minas dell’anno l874, dove Poços de Caldas veniva definita come un
piccolo abitato che si stava a malapena sbozzando con le ventiquattro case
a uno e due piani, molto cammino era stato percorso a tale punto che nell’edizione del l884 dello stesso almanacco (quindi dieci anni dopo), le
case erano già diventate 100 ed in più esisteva una scuola femminile con
56 alunne e una maschile con 49 studenti, più una Banda di musica “accettabile”, due pianoforti, una eccellente pasticceria, due panetterie e una
fabbrica di birra e liquori. In quello stesso anno venne inaugurato “l’Hotel
da Empresa” di capitale misto al quale partecipavano come azionisti lo
Stato e alcuni imprenditori privati. Aveva 60 stanze, era il più importante
dell’epoca e lo è stato per molti anni ed era frequentato dall’elite del
Brasile. Ospitò nel mese di dicembre del l886 anche l’Imperatore Don
Pedro II, quando con il suo seguito venne a Poços de Caldas ad inaugurare il tratto della ferrovia che univa la città allo Stato di San Paolo.
Tra le persone più importanti che componevano il gruppo dei dirigenti locali, il dottore Pedro Sanches de Lemos, uno dei primi ad abitare il
45
posto, era fra i preminenti: medico famoso, studioso delle acque medicinali partecipava attivamente anche alla politica. Si era sposato con una
delle figlie del colonnello Agostinho.
Gli italiani continuavano ad affluire nella città che offriva impiego
per molte professioni che erano necessarie soltanto nei grandi centri. La
ferrovia facilitava molto la loro venuta.
L’importanza della presenza degli emigranti non era stata notata fino
a quel momento, visto che la preoccupazione dei nuovi arrivati era quella
di trovarsi un lavoro per sistemarsi definitivamente.
Contemporaneamente andavano studiando la linea di condotta da
seguire assieme ai connazionali, sia per aiutarsi vicendevolmente nel caso
di necessità e sia perché sapevano che solamente mantenendosi uniti
sarebbero riusciti a inserirsi nella comunità.
Era ancora presto per incontrare qualche elemento della colonia italiana che partecipasse alla vita politica e amministrativa della città, già attiva
dal 1884 quando erano state realizzate le prime elezioni per la nomina dei
senatori. A quel punto la comunità stava aumentando rapidamente, e diventava sempre più urgente l’impiego di mano d’opera per accompagnare la
crescita della città, con le strade da aprire, i ponti e gli edifici pubblici e privati da costruire per sopperire alle necessità crescenti dei cittadini.
Vennero iniziati i grandi lavori di riporto di terra nel centro, dove
erano precarie le condizioni di transitabilità e dove durante l’epoca delle
piogge si formavano dei veri laghi, con tanta acqua che per molto tempo
rimaneva stagnante. Per risolvere quel problema usarono terra e pietre
estratte da una piccola e isolata collina situata non lontano dal centro e
conosciuta col nome di “Itororò”, della quale una grande parte fu spianata, per creare spazio a nuove costruzioni. Il riporto della terra venne effettuato con carrette trainate da muli.
Col riconoscimento ufficiale che decretava l’emancipazione della
“Vila de Poços de Caldas” attraverso l’autorizzazione promulgata dall’allora Governatore di Minas Gerais João Pinheiro nell’anno 1890, il piccolo centro cominciò a funzionare indipendentemente staccandosi dalla città
di Caldas. Da quel momento iniziava l’esistenza del Municipio con l’istallazione della Camera per le riunioni e le nomine dei cittadini che avrebbero sanzionato le leggi da rispettare nell’interesse della comunità.
Nel 1892 fra i pochi matrimoni realizzati a Poços de Caldas due di essi
furono celebrati fra due coppie di connazionali: Francesco Mencarini tosca46
no di Monte Carlo, residente nel centro urbano, sposava Angelina Perillo, e
Santo Moras sposava Antonia Bolleta. Questa seconda coppia, come anche
il testimone Francesco Pizzol, risiedevano nella fazenda “Barreiro”, erano
originari della regione veneta e facevano parte del grande gruppo di italiani
che vivevano nelle fazende sparse nei dintorni della città.
Altri due matrimoni erano misti: Pietro Bianucci di 24 anni anche lui
di Monte Carlo in Toscana si sposava con Ana Rosa de Oliveira, mentre
Enrico Goffi di 30 anni, sposava Ordelia Elizea Pereira dos Reis, essendo
le due spose di nazionalità brasiliana. Quei matrimoni focalizzano un piccolo campionario di situazioni esistenti allora e stanno a dimostrare come
gli italiani residenti nella città, specialmente quelli provenienti dalle
regioni come la Calabria, la Lombardia, la Romagna, il Veneto e la
Toscana, che formavano il gruppo che riuniva il maggior numero di presenze, convivendo spalla a spalla finirono col mescolarsi fra loro.
Solamente qualche anno prima, quando ancora vivevano nei loro paesi di
origine, un matrimonio tra due elementi nati in due Regioni distanti fra
loro, anche nella stessa Italia, sarebbe stato un avvenimento raro data la
grande differenza di mentalità, di usi e costumi che creavano preconcetti
e barriere quasi insormontabili.
Quello che doveva essere lo scopo dell’unificazione dell’Italia nel
sogno dei suoi idealizzatori, una nazione unita sotto un’unica bandiera e
abitata da un unico popolo, si realizzò solamente in parte. L’impresa più
difficile, ossia il desiderio di vedere gli italiani fraternamente uniti, ebbe
maggior successo lontano dall’Italia. In buona parte quel sogno fu vissuto in Brasile, Argentina, Uruguai, negli Stati Uniti o dove esistevano emigranti italiani che, attraverso la solidarietà, riuscivano ad affrontare i disagi e le più grandi difficoltà, e tutti assieme potevano sfidare e superare
molti preconcetti che da sempre avevano ostacolato quelle unioni. In
seguito anche i matrimoni contratti con cittadini brasiliani o di altre nazioni, fin dai primi tempi del loro arrivo, diventarono avvenimenti normali.
Dei quattro matrimoni sopra citati, gli sposi erano: Goffi, barbiere,
Moras, colono mezzadro, Bianucci, piccolo proprietario, agricoltore, che
fu il primo a piantare le viti e fare il vino a Poços de Caldas e Mencarini,
commerciante con negozio di calzature. I cognomi dei vari testimoni
erano: Paladini, anche lui con negozio di scarpe, Petrecca commerciante,
e Zuanella costruttore edile.
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Nel 1891 fra le ottantasette nascite registrate, undici erano di figli di
italiani, sette erano nati nel perimetro urbano e gli altri quattro nella zona
rurale, due nella fazenda Barreiro, una nella fazenda Lambarì e l’ultima
nella fazenda Bela Vista. Da quel momento incominciarono ad apparire
con sempre maggior frequenza i cognomi italiani nei documenti:
Solferini, Gorrasi, Amalfi, Tambellini, Pironato, Gallo, Ballarin, Samioli,
La Rosa, Zaghetto e tanto andò aumentando questo esercito di cittadini
che al momento della fondazione della “Società di Mutuo Soccorso Stella
d’Italia” gli italiani residenti nella città e nelle fazende del suo municipio
già erano moltissimi.
Erano arrivate le famiglie Incrocci, Giuntoli, Chiapparini, Agostini,
Denadai, Ferraris, Depauli, Piva, Galeazzi, Frizzarini, Betti, Zonno,
Taviani, Cinquini, Ponteprimo, Orlandi, Nesporatti, Bolleta, Lucidi,
Basilio, Zavattaro, Rosi, Guazzelli, Capitanini, Migot, Stella e tanti altri
che ufficialmente non avevano ancora il cognome registrato.
Molti cognomi apparivano come delle meteore, perché poco dopo
scomparivano nel nulla, vedasi il caso di Bianchetti Federico che dichiarava il decesso di Bonturi Cesare di 28 anni aiutante di cucina; quelle persone probabilmente lavoravano solamente nei periodi di movimento turistico termale quando gli alberghi avevano bisogno di una mano d’opera
più numerosa.
Altri cognomi saranno invece destinati a diventare importanti e
rispettati dalla comunità Italo-Brasiliana locale.
Quando gli immigranti italiani raggiunsero un numero considerevole,
trovarono opportuno riunire e ufficializzare le forme di solidarietà e di
aiuto esistenti che generalmente venivano praticate isolatamente fra i propri connazionali. Nel 1893 fu quindi istituita una associazione (la Società
di Mutuo Soccorso Stella d’Italia) che si prefiggeva il compito di organizzare, orientare e proteggere sia gli italiani residenti sul posto come quelli
che sicuramente sarebbero arrivati poi in seguito.
Diedero inizio al processo di formazione dell’immagine che dovevano trasmettere, non tanto individualmente, ma come un gruppo etnico che
si stava introducendo nel nuovo ambiente. Tuttavia era chiaro che nella
associazione si sarebbero imposti attraverso una selezione gerarchica gli
elementi dotati di personalità spiccata e capacità organizzativa, quelli che
erano i più intraprendenti e sempre presenti nelle attività comunitarie.
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Gli elementi al comando della associazione si assumevano la responsabilità di realizzare con successo le sue finalità. Lo statuto della nuova
società sicuramente era stato redatto in base ai molti che reggevano le
società italiane proliferanti allora in Argentina, Uruguai e Brasile, dove
nelle grandi città o nei più sperduti posti dell’interno si dedicavano a dare
appoggio ai propri connazionali. Chi ebbe l’idea a Poços de Caldas e riuscì a realizzarla fu un gruppo di 45 persone originarie di varie regioni italiane. In realtà quei cittadini si proponevano di volere riempire il vuoto
causato dalla lontananza della terra natale, del calore umano che fino a
poco prima condividevano con le loro famiglie e gli amici ed il desiderio
di ridurre il tempo per entrare a far parte integrante della comunità, dalla
quale fin dal loro arrivo mai si erano sentiti discriminati o esclusi.
Nella maggior parte dei casi, furono quelle associazioni a dover fare
le veci della Madre Patria ed ebbero il merito di coscientizzare la popolazione locale che aveva ricevuto quegli sconosciuti venuti da lontano per
disputare con loro lo spazio, il lavoro e la posizione sociale, facendoli
accettare senza problemi, non solo per la loro giustificata intromissione
ma specialmente per la grande carica di valori umani che si portavano
appresso. Dissipavano in quella maniera anche l’impressione iniziale che
i cittadini locali potevano aver riportata nei loro riguardi a causa dei molti
dialetti e dei costumi e usanze così differenti, che molte volte faceva sembrare che quegli immigrati non appartenessero ad un unico popolo. Col
tempo si sarebbero amalgamati nel nuovo paese che era poi la Patria dei
loro figli nati qui.
Nell’anno 1893 Poços de Caldas già si era trasformata in una piccola città organizzata. Una parte dei fondatori della società denominata
“Stella d’Italia” era composta da connazionali giunti in Brasile dopo un
periodo di permanenza in Argentina, dalla quale si erano allontanati per le
crisi economiche che si susseguivano negli ultimi anni in quel paese,
obbligando molte persone a spostarsi verso nuove destinazioni che potessero offrire migliori prospettive di lavoro. Vale ricordare che il fenomeno
degli spostamenti, coinvolgendo cittadini italiani, aveva carattere di reciprocità e si verificava periodicamente dipendendo dalla situazione politico-economica nella quale i due paesi si dibattevano in quel momento.
La credibilità da riservare alle statistiche condotte allora dai due
governi, quello italiano per le uscite, e quello brasiliano per le entrate di
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italiani, è molto relativa, visto che durante i lunghi anni del movimento
migratorio i due paesi non sono mai riusciti a raggiungere una approssimazione ragionevole sul numero degli spostamenti attraverso i loro singoli
calcoli. La triangolazione tra Italia, Argentina e Brasile avvenuta in quegli
anni ha reso più difficile il controllo dei movimenti.
Gli arrivati in Brasile dopo una permanenza in Argentina, portavano
con loro una coscienza sociale più matura, perché acquisita attraverso le
esperienze vissute in quel paese, dove gli italiani erano giunti molti anni
prima che il Brasile aprisse le porte all’emigrazione. Da tempo avevano
superato molti dei problemi inerenti all’adattamento e all’integrazione, e
per questo il loro apporto fu determinante per la nascita della società che
si proponeva di consolidare l’unione fra compatrioti.
Il gruppo degli emigranti italiani fondatori della “Società Stella
d’Italia” era composto da elementi dedicati a varie attività che contribuivano decisamente al progresso della città. C’erano commercianti distribuiti in una vasta gamma di specialità, dai generi alimentari alla frutta e
verdura, scarpe, tabacco ecc., cui si aggiungevano quelli che si dedicavano al ramo alberghiero sia come proprietari che direttori e conduttori di
ristoranti e trattorie ed anche quelli che svolgevano attività di edilizia, o
legate al turismo termale, al gioco nei casinò, e non ultima la classe degli
artigiani, rappresentata da barbieri, sarti, falegnami, fabbri, panettieri ecc.
Erano elementi che avevano dato prova della loro capacità lavorativa
che si fondava nella conoscenza profonda che ognuno di loro aveva della
propria professione, imparata quasi sempre fin da giovane, attraverso una
scuola di vita che aveva trasmesso loro il frutto di una comprovata esperienza.
Molti erano stati i fattori favorevoli ad accogliere gli immigranti al loro
arrivo in Brasile. Il primo di loro (e senza dubbio il più importante) era la
stessa razza di origine latina dei portoghesi, i colonizzatori del paese, e per
questo una grande affinità nei temperamenti, nel modo di interpretare la vita
e nella cultura ed inoltre la prevalenza nei due popoli di una individualità
ben caratteristica dei latini. Perfino la religione ufficiale professata in Italia
era la stessa praticata nel nuovo paese, per cui tutta la carica di fede e devozione venuta con loro, non venne a soffrire nessuna stasi o fase di adattamento alla ricerca di uno spazio proprio, come occorse invece agli italiani
che emigravano verso paesi dove la religione prevalente non era la Cattolica
Apostolica Romana.
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Anche la lingua ufficiale, il portoghese parlato in Brasile, favoriva un
rapido relazionamento e proporzionava una relativa mancanza di inibizione da parte dei nuovi arrivati, i quali affrontavano imperterriti qualsiasi
conversazione, mescolando quel poco di italiano che conoscevano con il
loro dialetto di origine e con quanto avevano appreso oralmente di portoghese. In tal modo riuscivano comunque a spiegarsi e a capire. La grande
capacità di amalgamare, unita all’ammirevole fenomeno del mantenimento dell’idioma portoghese in tutto il territorio brasiliano, minacciato innumerevoli volte durante secoli, non ha preoccupato nessuno per quella
nuova forma di espressione orale che in certi posti arrivò ad essere una
seconda lingua. Si è lasciato tempo al tempo ed il compito ai figli e nipoti dei primi immigranti di ricondurlo al suo dovuto posto. Oggi il linguaggio col quale si esprimevano i nostri primi italiani è motivo di studio
anche nelle università, per analizzare il fenomeno e collocarlo nella posizione storico-sociale che gli spetta.
III. La prima meta che si era prefissa la ‘‘Società Stella d’Italia” consisteva nell’organizzare raduni e feste per i soci, però nell’assemblea svoltasi il giorno 6 gennaio 1894 venne apportata una modifica allo statuto per
definire la sua nuova finalità che da quel momento sarebbe stata orientata verso l’aiuto materiale e l’appoggio morale da riservare agli associati.
Per questo passava a denominarsi da quel momento “Società di
Mutuo Soccorso Stella d’Italia” e assumeva come suo motto: “Equilibrio
fra Diritti e Doveri”. Nessuno degli associati avrebbe potuto impegnarsi
politicamente, infatti l’articolo IV dello statuto affermava: “Detto sodalizio avendo per fine l’unione reciproca, fa astrazione completa di qualsiasi privilegio politico o religioso, tendendo al miglioramento morale e
materiale di ognuno”. L’astensione dichiarata sugli assunti politici e religiosi aveva il compito di far evitare possibili attriti e disaccordi tra i soci,
per i quali la politica seguita in Italia non era più motivo di interesse preminente, anzi nutrivano ancora il rancore per i risultati altamente negativi
di quella stessa politica che aveva spinto milioni di italiani ad andarsene
dalla Madre Patria proprio in conseguenza delle sue colpe.
Era più interessante in quel momento aggrapparsi anima e corpo al
sentimento di patriottismo che ancora invadeva le menti ed i cuori degli
italiani emigrati, ai quali il tempo e la lontananza facevano dimenticare i
giorni difficili e i momenti sgradevoli vissuti in un recente passato per
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lasciare posto solamente al ricordo di quello che dava allegria e orgoglio.
In primo piano figurava sempre l’unità d’Italia conquistata a costo di
sacrifici e molta lotta.
Il Re d’Italia (un po’ meno) e Giuseppe Garibaldi, furono i due idoli
di maggior splendore, rappresentando e soddisfacendo appieno il sentimento patrio. Particolarmente Garibaldi, col suo alone di eroe senza macchia né paura, sempre pronto a combattere in difesa dei più nobili ideali,
incantava ancora di più gli italiani in Brasile, perché oltre al suo mito personale, si aggiungeva il fatto, visto con molta simpatia, che molte pagine
della sua storia come eroe dei due Mondi erano state vissute con la presenza fedele e coraggiosa della brasiliana Anita.
Le manifestazioni patriottiche hanno sempre rappresentato il punto
alto nei programmi festivi della “Società Stella d’Italia”. Due erano le
date principali destinate ai festeggiamenti: la prima, quella dell’8 gennaio
che segnava il giorno della fondazione della società, la seconda ricorreva
il 20 settembre per festeggiare la conquista di Roma avvenuta in quel giorno nel 1870 e suggellava la sua annessione all’Italia, dopo che il Papa
sconfitto era stato rinchiuso dentro le mura del Vaticano. La seconda data
veniva realizzata con il massimo della pompa, venendo usata tutta l’immaginazione, la fantasia e il lusso che le disponibilità finanziarie della
società permettevano al momento.
La banda musicale, composta esclusivamente da italiani in elegante
uniforme, era quella che apriva i cortei e le lunghe sfilate che precedevano
i discorsi; gli strumenti di ottone tirati a lucido per l’occasione brillavano
ai riflessi del sole con i movimenti che gli venivano dati dai suonatori mentre sfilavano eseguendo marce militari ed inni patriottici. Nelle strade e
dalle finestre delle case il pubblico assisteva e applaudiva allegramente e
si entusiasmava con quell’aria di festa che contagiava tutti e li faceva vivere momenti di felicità. Era una festa di suoni e di colori, la bandiera italiana e quella della società (le due in pura seta francese), la bandiera del
Brasile ed altri vessilli di varie associazioni fra le quali la garibaldina, aprivano il corteo ufficiale. Le prime due venivano sorrette dai portabandiera
nominati assieme a due supplenti nell’assemblea, che annualmente rinnovava tutte le cariche inclusa quella del presidente. Nelle grandi cerimonie
le uniformi dei portabandiera dovevano essere obbligatoriamente composte da abito nero e guanti bianchi. Subito al seguito sfilavano le autorità: il
presidente, il segretario, il vice segretario, il cassiere, il vice cassiere oltre
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ai sei consiglieri, venivano quindi gli invitati ospiti d’onore che dipendendo dalla loro importanza avevano un posto in prima fila assieme al presidente. Gli invitati, scelti fra le autorità della società locale partecipavano
sempre a quelle cerimonie perché era un’occasione piovuta dal cielo per
potersi mettere in evidenza ostentando ancora una volta le loro doti oratorie già dimostrate alcuni giorni prima in occasione del 7 settembre, giorno
che celebrava la proclamazione di indipendenza del Brasile fatta da Don
Pedro, il principe reggente nell’anno1822, e che dopo questo atto sarebbe
stato proclamato Imperatore assumendo il titolo col nome di Don Pedro I.
In quelle occasioni offerte dagli italiani le autorità locali si potevano
esprimere in un clima più eccitante e festivo, perché affrontavano una
situazione nuova che riuniva molte persone ben disposte e contente di ciò
che si fosse detto o fatto, in modo che l’avvenimento potesse concludersi
con un brillante coronamento.
Il culmine veniva raggiunto quando gli infuocati discorsi arrivavano
al momento delle dichiarazioni d’amore che immancabilmente sfociavano nel riconoscimento dei legami affettivi che univano i due popoli fratelli in un solo destino.
Già al mattino veniva celebrata una Messa solenne all’aperto e la
sede sociale rimaneva a disposizione durante la giornata per la visita del
pubblico. Al primo pomeriggio, in un clima bucolico aveva inizio il picnic che propiziava alla colonia italiana l’incontro delle famiglie in un
ambiente sereno con le donne riunite fra loro, formando capannelli e sfoggiando eleganza con i loro vestiti più belli, preoccupate solo di non perdere nessuna delle ultime novità che le più informate si facevano premura di raccontare.
I ragazzini si distraevano in giochi innocenti e qualche adolescente
che aveva adocchiato quella che nei suoi sogni sarebbe dovuta diventare
la sua innamorata, armeggiava lanciando sguardi pieni di ardore e di speranza. Già gli uomini dopo aver parlato un po’ di tutto, commentavano
adesso le varie fasi della festa e del suo esito che, secondo loro, si era svolta nel modo più soddisfacente, tanto che già progettavano e lanciavano
idee nuove per una festa ancora più bella l’anno successivo.
La fotografia ricordo era già stata scattata, c’era voluta mezz’ora di
richiami e tentativi da parte degli organizzatori, che dopo inauditi sforzi a
malapena erano riusciti a far stare fermi, zitti e a posto, tutti quegli italiani, uomini, donne vecchi e fanciulli, per immortalarli in una immagine che
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poi sarebbe stata pubblicata sull’almanacco italiano che si stampava a San
Paolo.
Il giorno 20 febbraio 1895, due anni dopo la fondazione, la società
riceveva, con documento poi registrato presso il “Cartorio de Registro
Civil de Poços de Caldas”, il dono di due lotti di terra “facenti fronte con
la Rua Marques do Paranà” (attuale via Assis Figureido) avendo venti
metri di larghezza e cinquanta metri di lunghezza. Il dono dei terreni era
stato fatto dal capitano Manoel Junqueira e Signora e da Joaquim Augusto
Ribeiro e Signora. A nome della Società Stella d’Italia, firmavano: il presidente “da Sociedad” Lorenzo Darioli (che essendo vissuto in Argentina
scriveva lo spagnolo), il vice presidente “de sociedade” Josè Paladini (che
tentò di scrivere in portoghese) e finalmente “Il segretario della società”
Giovanni Belelli (decisamente in italiano).
Sul documento si può leggere che i due terreni erano stati ceduti di
libera e spontanea volontà, per la finalità destinata dalla sunnominata
società (era quella di edificare la sede sociale). Il valore nominale dei terreni era di 4:000$00, quatro contos de Reis, somma non indifferente anche
in quell’epoca.
Quel documento dimostra chiaramente la buona volontà e le ottime
relazioni esistenti in quell’epoca nel piccolo centro urbano, nel rapporto
fra i residenti locali ed i nuovi arrivati.
Per molti anni la Società Stella d’Italia svolse il compito di soccorrere i suoi iscritti seguendo le direttive iniziali e attenendosi alle varie clausole stabilite dallo statuto. In seguito vennero aggiunte nuove clausole fra
le quali, nell’anno 1912, quella che ammetteva la partecipazione delle
donne nella società. Per quanto riguardava l’aspetto materiale, l’assistenza ai soci consisteva nella facilitazione e aiuto per ottenere lavoro o impiego, assicurando, in caso di malattia, l’assistenza medica gratuita durante il
periodo di due mesi e la somministrazione delle medicine o bagni solfurei che si rendessero necessari, nonché un sussidio di “hum mil reis” giornaliero fintanto che durasse l’infermità, dopodiché ogni caso sarebbe stato
valutato dalla presidenza.
I soci residenti a tre chilometri fuori dal perimetro urbano non avevano diritto alla visita medica da parte del dottore autorizzato dalla società,
ma solamente alle medicine e al sussidio. L’articolo 10, “Patrimonio e sua
amministrazione”, nel capitolo undicesimo affermava che i capitali eccedenti sarebbero stati messi a frutto con il tasso del 12% annuo dando pre55
ferenza ai soci che ne avessero bisogno e alle seguenti condizioni: non
superare la somma di 200 mil reis, che il socio si sarebbe obbligato a restituire dentro il periodo da tre a sei mesi. In caso di morte, se avvenuta dopo
perlomeno due anni dalla sua iscrizione, la famiglia del socio estinto
aveva diritto a un sussidio di centomila reis.
La clausola che si riferiva all’ammissione delle donne merita una
attenzione speciale, perché ritrae fedelmente le usanze dell’epoca, quando le donne socialmente erano tenute ad occupare una posizione secondaria nell’ambito della famiglia e particolarmente nei riguardi dei maschi.
La prova inconfutabile la si viene a constatare leggendo la redazione dell’articolo ed i relativi motivi che lo rendevano necessario. Diceva:
“Visto che i disagi dei soci possono derivare anche dalla malattia di
una donna loro appartenente, e che oltre all’accasciamento morale metterebbe il socio in dure contingenze, non potendo supplire col quotidiano
lavoro alle cure dell’inferma, per il medico e le medicine, la società, sempre per lenire le sventure che potessero aver colpito un suo affiliato, ha
deciso di incorporare in questo sodalizio anche le donne alle seguenti condizioni:
1. Che siano appartenenti o no a soci italiani e di comprovata buona
condotta.
2. Che paghino una tassa mensile, variante secondo la loro età.
3. Che pur non avendo diritto a prendere parte a qualsiasi seduta e
se invitate non godano dell’uso della parola né degli altri diritti dei soci
(uomini), tuttavia usufruiranno del diritto di assistenza medica ed alle
medicine, salvo si tratti di qualche vecchia malattia o già esistente all’atto dell’iscrizione.
4. Il parto non viene considerato malattia, a meno che non insorga
qualche complicazione che faccia peggiorare le condizioni della partoriente.
5. Lo statuto sociale non ha nessuna attinenza con le donne tranne
per quanto concerne aiuto morale e onoranze servendo di base e di norma
solo il presente ecc...ecc...ecc...”
Qui finivano tutti i privilegi riservati alle donne; però nello stesso
momento, anche se lentamente, aveva inizio il processo che vedeva un
mutamento negli atteggiamenti degli uomini nei riguardi delle donne con
l’apertura di un piccolo spazio anche per loro. Forse si erano resi conto
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che bisognava essere coerenti al motto della società che esortava
“all’equilibrio fra diritti e doveri”.
Una preoccupazione mantenuta costante durante lunghi anni fu quella dell’uso di seggiole leggere nella sala delle riunioni, dove solamente il
presidente godeva del diritto di sedersi su una grande poltrona di legno
pregiato e massiccio e per questo difficile da spostare.
Essa era finemente intagliata e aveva scolpita sulla parte superiore della
spalliera una stella a cinque punte ed il motto della società; sicuramente era
opera di un associato artista. La poltrona attualmente può essere vista in una
sala del Museo Storico e Geografico di Poços de Caldas.
La preoccupazione di usare seggiole leggere aveva uno scopo preventivo e umanitario perché, secondo informazioni ottenute da una persona
degna di credito per avervi partecipato, durante alcune riunioni accalorate quelle seggiole volavano come messaggi di disapprovazione, lanciate
dai soci più esuberanti e intemperanti, nello sforzo di far valere le proprie
ragioni!
IV. Molti dei quarantacinque cognomi dei fondatori della società
Stella d’Italia non si incontrano più nella città di Poços de Caldas sia per
l’estinzione della famiglie o perché si sono trasferite in altri luoghi durante questi ultimi cento e più anni. Nel periodo che va dal 1907 al 1908 un
gruppo di esse fece ritorno in Argentina, a loro si accodava un grande contingente di italiani che per la prima volta lasciava il Brasile per andare a
lavorare in quel paese; erano stati ingaggiati da un agente consolare venuto appositamente per convincerli sui vantaggi che avrebbero goduto con il
loro spostamento.
Probabilmente in quel momento l’Argentina attraversava una fase
economica buona e quindi la necessità di nuova mano d’opera le era indispensabile per la sua crescita industriale e agricola. In questa disputa fra i
due paesi che si contendevano i lavoratori, fecero ritorno in Argentina da
dove erano venuti via pochi anni prima, le famiglie dei fratelli Lorenzo e
Carlo Darioli, di Giobbe e Franco Baldassare, di Benvenuto e Federico
Patteroni, di Giuseppe Rodonò, Alessio Ferraris, Angelo Driussi, Pietro
Galeazzi, Tommaso Merlo, Giovanni Battista Pansini, Giuseppe Ungarelli
e Carlo Vescio. Durante la sua permanenza a Poços de Caldas, Lorenzo
Darioli che era venuto già sposato dall’Argentina dichiarava nel Cartorio
del Registro Civile la nascita di due figlie.
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Togliendo i nomi scritti sopra, ecco i 30 nomi degli altri firmatari
dello statuto. Molti loro discendenti vivono ancora ai nostri giorni nella
città. Sono: Amalfi Nicola, Angeli Michele, Berti Giovanni, Bianucci
Pietro, Cerchiai Agostino, Dal Poggetto Arcangelo, Dalla Santina
Domenico, Dalben Giuseppe, Dinucci Pietro, Fiorda Felice, Giacometti
Achille, Garibaldi C. Giuseppe, Goffi Enrico, Giuntoli Ernesto, Ghilardi
Felice, Longo Nicola, Mencarini Francesco, Mencarini Bartolomeo,
Montanelli Carlo, Martinelli Francesco, Orlandi Aladino, Petrecca
Vincenzo, Paladini Giuseppe, Puccetti Luigi, Peppe Vincenzo, Rosa
Ernesto, Salvucci Giovanni, Siciliani Giuseppe, Solferini Giuseppe,
Zuanella L. Emanuele.
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CAPITOLO IV
I COLONI ITALIANI NELLE FAZENDE
I. Nella lista dei firmatari della società di mutuo soccorso non appare nessun cognome dei tanti italiani che già da qualche anno risiedevano
e lavoravano nelle fazende situate nei dintorni di Poços de Caldas, confermando così la loro assenza dalle attività promosse dalla colonia italiana
residente in città.
Se un associato o un dipendente a suo carico si fossero ammalati, i
vantaggi ottenuti sarebbero risultati nel rimborso delle spese delle medicine mediante la presentazione della ricetta rilasciata dal medico autorizzato dalla società, il quale, per la clausola dello statuto riguardante le visite agli infermi, vedeva la sua assistenza limitata a quelli che abitavano
dentro il raggio di tre chilometri del perimetro urbano.
Perciò i coloni italiani che si trovavano nelle fazende fuori dalla
distanza prevista rimanevano esclusi dalla possibilità di ottenere la ricetta
medica e conseguentemente di ottenere il rimborso delle spese mediche,
come pure tutti gli altri benefici stabiliti dallo statuto che garantivano, fra
l’altro, un sussidio giornaliero per tutta la durata della malattia.
Evidentemente la mancanza di assistenza medica, unita all’esclusione di
qualsiasi aiuto materiale, causarono il totale disinteresse da parte dei coloni, nessuno dei quali si iscrisse per partecipare come socio. Ancora una
volta si dimostrava come gli italiani residenti nell’area rurale, e specialmente nelle piantagioni di caffè, venivano discriminati, magari anche involontariamente, o forse perché non esistevano le condizioni per far collimare gli interessi dei due gruppi, i quali malgrado appartenessero a uno stesso popolo, non riuscirono mai a raggiungere un punto di contatto fra loro.
Nelle fazende i coloni italiani vivevano riuniti in piccoli nuclei sparsi in una vasta area e, a causa delle difficoltà provenienti dall’isolamento
ed anche dal tipo di lavoro che svolgevano, non avevano le stesse facilità
per organizzarsi fra loro, come invece succedeva agli italiani della città.
Inspiegabilmente, malgrado gli italiani residenti a Poços de Caldas si trovassero in una posizione più privilegiata per le maggiori possibilità di
affermarsi e progredire, non hanno fatto (o forse non hanno potuto fare)
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nulla, affinché anche i loro connazionali potessero usufruire di un minimo
di aiuto e appoggio.
In quegli anni pochi erano i medici che esercitavano a Poços de
Caldas. C’erano i dottori: Pedro Sanches de Lemos, Francisco Faria
Lobato, Augusto de Toledo Motta e forse uno o due altri. Tutti loro, oltre
che assistere i pazienti locali, dovevano curare anche gli ospiti stagionali
che in grande numero arrivavano per guarire le malattie della pelle attraverso i bagni sulfurei, mentre altri venivano per trovare nel clima salubre
e nell’aria pura, beneficio e sollievo ai loro problemi polmonari. Non
c’erano però medici sufficienti per sopperire alle esigenze di tutta l’estesa zona rurale compresa nel Municipio di Poços de Caldas.
Per molti anni le spese riferenti all’acquisto delle medicine, rappresentarono una voce importante e onerosa nel bilancio familiare dei coloni, che periodicamente saldavano i loro conti pendenti, prima pagati dal
padrone della fazenda al farmacista e poi segnati sul registro di contabilità della fazenda per scontarli ai coloni al momento in cui ricevevano le
loro retribuzioni.
Nei libri del Cartorio del Registro Civile della città, furono scritte per
molto tempo dichiarazioni di morte di coloni o di loro familiari, dove
appare quasi sempre la premessa del medico legale che firmava il documento, dichiarando che il decesso era avvenuto senza assistenza medica.
E così continuò per molti anni, in quanto il progresso portava nella
città sempre più conforto e vantaggi, mentre nell’area rurale gli abitanti
rimanevano abbandonati a loro stessi dovendo ricorrere alla medicina
casereccia, basata sugli infusi di erbe; e quando decidevano di optare per
le medicine di farmacia, la scelta doveva essere fatta a loro criterio e
magari aiutati dal farmacista, che con le informazioni trasmesse da terzi,
sperava di azzeccare la cura giusta.
Seguendo i passi dei nostri immigrati dal momento del loro arrivo in
Brasile, si può comprendere con chiarezza il comportamento che progressivamente sono andati adottando per accelerare il loro ingresso nella collettività, per l’assimilazione degli usi e costumi del nuovo Paese e per
giungere alla completa ambientazione.
Mentre il nucleo che viveva nella città metteva subito in gioco tutte
le iniziative, l’ambizione e il coraggio per vincere gli eventuali ostacoli,
quello dei lavoratori occupati nell’agricoltura o nelle piantagioni di caffè
era più statico e accomodante, sia per le condizioni ambientali ed anche
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per il lavoro differente che li manteneva staccati da tutti e da tutto, e non
permetteva loro di poter avere una visione più ampia di quella che una
sperduta fazenda, con i suoi limiti, poteva offrire.
Per alcuni coloni il periodo di permanenza nella fazenda si limitava a
un tempo minimo, questo perché la premura di accelerare il loro ingresso
in Brasile faceva sì che molti dei nostri connazionali desiderosi di andarsene via dall’Italia, pur essendo specializzati in mestieri che nulla avevano a che vedere con le attività agricole, aderissero alle uniche richieste in
Brasile sovvenzionate ufficialmente dal governo di San Paolo. Perciò si
iscrivevano lo stesso nelle liste degli ingaggiatori in Italia dichiarandosi
lavoratori della terra. All’arrivo tentavano quasi subito di svincolarsi in
qualche modo da quella falsa posizione per poter incominciare a svolgere
liberamente le loro professioni di artigiani o operai.
Il continuo fluire di nuovi elementi che di anno in anno arrivavano in
numero sempre maggiore servì a migliorare il processo selettivo che lentamente riduceva la differenza tra quelli che vivevano nella città e quelli
delle fazende.
In conseguenza del miglioramento progressivo dell’economia agricola, grazie allo sviluppo delle nuove tecniche con la scelta di qualità delle
piante di caffè e la produttività delle piantagioni, si verificava ai margini
un fenomeno parallelo, che vedeva la rapida crescita di centri urbani dove
le attività commerciali e i settori industriali collaboravano a creare le condizioni ideali per uno sviluppo armonioso del progresso comune.
Se grande stava diventando il numero degli italiani che sbarcavano in
Brasile, altrettanto grande era diventata la ricerca di mano d’opera, non
più solamente da parte dei fazendeiros, ma da tutti quelli che avevano
bisogno di operai specializzati nei più svariati settori.
Si era creato oramai un processo irreversibile che finiva col convincere i fazendeiros ancora incerti che, per far sviluppare le loro piantagioni, era necessario l’apporto del lavoro degli immigranti europei, e non
solo, ma bisognava farlo urgentemente, altrimenti non avrebbero potuto
resistere alla concorrenza dei colleghi, specialmente quelli che già contavano su una buona quantità di manodopera europea.
L’aumento delle richieste di un sempre maggior numero di coloni
nelle fazende ha sicuramente favorito i nuovi arrivati, i quali sapevano che
malgrado l’offerta di braccia per lavorare la terra fosse grande, la richiesta si manteneva sempre ben superiore.
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E tanto costante era il deficit di elementi necessari per iniziare le
piantagioni di caffè, che dopo l’apertura di nuovi flussi di lavoratori, gli
stessi fazendeiros frequentemente se li disputavano. E pur di poter avere
alle loro dipendenze altri coloni, non si preoccupavano di fare tante
domande alle famiglie degli immigrati che si presentavano per offrire il
loro lavoro, pur sapendo che quei coloni stavano uscendo da altre fazende dove non si erano ambientati o non avevano trovato condizioni di lavoro soddisfacenti, e molto probabilmente una buona parte stava uscendo
prima di completare il periodo stabilito dal loro contratto. Per l’ingente
quantità di persone in continuo movimento, in un ambiente tanto vasto e
semi disabitato, non esisteva la minima possibilità di controllo sui loro
spostamenti.
Era talmente gigantesco il progetto destinato ad importare mano
d’opera dall’Europa e di tale importanza che evidentemente doveva comportare molti imprevisti ed innumerevoli problemi che si sarebbero presentati durante lo svolgimento della sua realizzazione. Inoltre era quello
un momento molto importante, dovuto alla trasformazione radicale dei
sistemi vigenti fino a quel momento attraverso il passaggio dal lavoro forzato in regime di schiavitù, a quello libero e remunerato. Questo fu uno
dei punti più difficili da risolvere, sia da parte dei fazendeiros come dai
coloni immigrati perché mai una situazione simile era stata affrontata
prima da nessuna delle due parti.
Dovette passare molto tempo prima di giungere a un soluzione, grazie all’eliminazione progressiva di tutte le situazioni dubbie o negative; e
quando i risultati delle loro esperienze si dimostravano valide esse venivano gradatamente approvate. Aggiustando tutte le imperfezioni contrattuali anteriormente esistenti ed aggiungendovi le correzioni risultanti
dagli esperimenti fatti, erano arrivati finalmente alla formula più soddisfacente per tutti, in particolare per quanto riguardava i relativi interessi, le
remunerazioni e le responsabilità che dovevano esistere fra i fazendeiros
nella loro funzione di datori di lavoro e i coloni nel ruolo di dipendenti.
Ma è sempre stato piuttosto numeroso anche il contingente dei cittadini italiani che per varie ragioni non riuscivano ad adattarsi in Brasile, sia
nelle fazende come nelle città, e per questo sceglievano il rimpatrio.
Dai piroscafi che viaggiavano stracarichi di passeggeri in un susseguirsi di brevi intervalli nei principali porti del Brasile, scendevano fiuma62
nane di emigranti; e tuttavia molti fazendeiros dovevano rimanere sempre
in un lunga lista di attesa.
Il giornale “O Estado de São Paulo” nell’edizione del 4 marzo 1897
informava che nell’alloggiamento degli emigranti di San Paolo, nel giorno precedente c’era stato il seguente movimento: Esistenti 33 ospiti,
entrati altri 6, usciti 16, rimasti 23 ospiti. Avevano chiesto il biglietto di
ritorno 16, e tutti essi erano stati imbarcati; 350 fazendeiros erano interessati ad assumere 3.600 famiglie.
Già nell’edizione del giorno 25 marzo, cioè dopo pochi giorni dalla
pubblicazione del bollettino precedente, lo stesso giornale registrava il
movimento di quel giorno: Nell’Hospedaria esistevano 720 ospiti, ne
erano entrati altri 1.599, ne uscirono 213, risultavano ospitate quel giorno
2.016 persone, 103 avevano chiesto il biglietto per il ritorno; 110 immigranti sono stati destinati per la città.
Per esperienza acquisita, ma anche per le informazioni favorevoli a
loro riservate, i fazendeiros davano una palese preferenza ai coloni veneti e lombardi, piuttosto che a quelli provenienti da altre regioni. E fu con
l’apporto di quei coloni e la capacità nel loro lavoro, che la struttura arcaica esistente allora lasciò il posto alla modernizzazione delle pratiche agricole, dando inizio a un visibile sviluppo in vari stati del Brasile.
La colonia della fazenda Barreiro si stava ingrossando con l’entrata
di nuovi nuclei familiari contrattati; il colonnello Agostinho era andato
assumendo i coloni italiani dapprima in forma sporadica ma poi, dopo
aver constatato i primi risultati positivi ottenuti nella sua proprietà, continuò a contrattarne in quantità sempre maggiore. Finalmente avrebbe potuto piantare il caffè nella sua fazenda e in quantità tale che la produzione
fosse stata consona alla vastissima area di terra disponibile. Avrebbe
anche potuto competere in volume d’affari e di prezzo perché la maggior
parte delle sue terre si trovava in un’area molto accidentata che non offriva condizioni di essere lavorata meccanicamente. I coloni italiani erano
arrivati quindi al momento giusto: adesso il colonnello poteva contare con
gente competente per produrre in modo razionale
L’arrivo della Ferrovia a Poços de Caldas aveva definitivamente
messo fine all’isolamento che da sempre aveva sofferto la grande area
montagnosa. Ferrovia, coloni italiani e una città che si stava sviluppando
all’interno della stessa fazenda erano tutti elementi positivi per favorire
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l’inizio di un cammino che aveva tutti gli ingredienti per trasformarsi in
un successo.
Il caffè era stato introdotto nel sud del Minas Gerais fin dal primo
decennio del milleottocento, e si era andato lentamente espandendo nelle
zone coltivabili, dopo aver scelto i posti esenti dalle brinate invernali che
avrebbero potuto danneggiare definitivamente le piante, costringendo a
sradicarle per sostituirle con altre nuove. Anche l’area occupata dalla
fazenda Barreiro aveva molti punti soggetti alle brinate, però essendo
molto estesa possedeva anche tanti tratti posti su pendici o versanti dove
il fenomeno si verificava senza causare eccessivi danni. Certamente l’entrata dei coloni italiani nella proprietà del colonnello coincise con l’inizio
di una nuova fase per la famiglia Junqueira.
In una relazione destinata alla Provincia, inerente al pagamento delle
tasse alle quali erano soggetti i proprietari di schiavi, in ossevanza dell’articolo II° del regolamento numero 4835 del 1 dicembre 1871, attraverso la
relazione numero 344, il colonnello Agostinho dichiarava di possedere
ventisette elementi, sette di essi li aveva avuti in eredità dopo la morte del
padre (il sesmeiro). Escludendo gli anziani (quasi tutti ereditati) e non contando i bambini al di sotto dei dieci anni, separando le donne, tutte esse
destinate ai lavori di casa, rimanevano validi per il lavoro dodici maschi,
fra i quali alcuni minorenni, un numero troppo esiguo per poter esigere da
loro una produzione soddisfacente ed escludendo così la possibilità della
coltivazione del caffè nella fazenda prima dell’arrivo degli italiani.
Precedentemente nelle migliaia di ettari della proprietà, erano possibili solamente l’allevamento di bestiame e qualche piccola piantagione di
grano. Col tempo ai ventisette schiavi esistenti si aggiunsero: gli “ingenui”
Felippe figlio di Joaquina, nato l’11 maggio 1872, Catterina figlia di
Francelina, nata nel 1873, Candido figlio di Francelina, nato nel 1875 e le
gemelle Clementina e Izabel figlie di Joaquina nate nel 1877.
Anno 1877, quasi vigilia dell’entrata degli italiani nella fazenda, una
parte di essi già si trovavano sparsi nei dintorni a lavorare nelle piantagioni dello Stato confinante.
Il colonnello che era un uomo intelligente, in quel momento stava
sicuramente tracciando i suoi piani e facendo progetti, nell’attesa di potersi lanciare a tutto vapore quando fosse arrivato il momento opportuno.
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II. Quando i coloni vennero ammessi nella fazenda Barreiro tutte le
clausole del contratto di lavoro vigente erano già le definitive. Fino al
momento dell’abolizione della schiavitù, la totalità della manodopera nella
fazenda apparteneva al proprietario il quale la disponeva per tutti i lavori
che dovessero essere eseguiti, non avendo per questo nessun obbligo di
pagamento per il servizio prestato. Durante l’ultima fase del periodo di cattività degli schiavi, i pochi europei impiegati nelle fazende, statisticamente
rappresentavano un numero insignificante e quasi sempre si occupavano dei
lavori non inerenti alla coltivazione ed il loro pagamento veniva stipulato
per giornata lavorativa o per appalto.
Le difficoltà si presentarono quando, con la fine della schiavitù, l’impiego di migliaia e migliaia di immigranti che arrivavano dall’Europa
mise in luce un grande problema, inedito fino a quel momento in Brasile
e sconosciuto ai nuovi arrivati. Bisognava raggiungere un punto di interesse comune, per la remunerazione di quelli che lavoravano nelle piantagioni di caffè.
Le esigenze richieste per ottenere un buon risultato con le piante e per
avere un buon raccolto di caffè, erano molte e varie. Per primo, l’arbusto
che dà il frutto è per se stesso molto delicato e soggetto a innumerevoli
malattie, alla siccità e alle brinate, e richiede una costante attenzione che
incomincia fin dal momento nel quale nei vivai della fazenda, dai grani
selezionati della qualità di caffè scelto, nascono le piantine che in seguito
verranno collocate nelle loro dimore.
Era necessario il tempo minimo di tre anni per ottenere il primo raccolto. Per questo motivo non era stato facile trovare la formula per compilare un contratto di lavoro che potesse destare l’interesse reale da parte
dei lavoratori, abituati in Europa a ricevere ogni anno il pagamento dei
raccolti stagionali, diversamente da qui, dove avrebbero dovuto, inizialmente, aspettare tre lunghi anni prima di vedere il frutto del loro lavoro.
Bisognava quindi che il fazendeiro anticipasse delle somme affinché
i coloni avessero il mezzo per affrontare le loro spese durante un lungo
periodo, perciò, inevitabilmente, essi iniziavano la loro attività indebitati,
visto che un giorno quei soldi avrebbero dovuto restituirli.
Un fazendeiro che avesse la ferma intenzione di fare conto sul lavoro dei coloni immigrati per poter dirigere la sua proprietà e farla diventare produttiva e con un buon margine di guadagno, non poteva lasciare in
secondo piano la manodopera, che invece doveva sentirsi stimolata al
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pensiero di poter contare in soddisfacenti risultati economici, anche se
non immediati, altrimenti avrebbe potuto abbandonare il posto per trasferirsi in altre fazende, o perfino ritornare nella Patria di origine.
Dopo varie stesure e modificazioni apportate nei contratti di lavoro,
erano arrivati alla formula del “Colonato” che riuniva una serie di benefici per le due parti: una soprattutto garantiva il colono, attraverso misure
che offrivano più sicurezza e tranquillità sul guadagno finale che sarebbe
risultato dal suo lavoro.
Con quel contratto si definivano le tre modalità di base che attribuivano il tipo di lavoro di ognuna e il rispettivo pagamento stipulato.
La prima modalità si riferiva esclusivamente alla piantagione per la
quale il sistema di calcolo era stato fissato sempre in base a mille piante di
caffè. Aveva il tempo di durata ed il prezzo definiti nel contratto di lavoro,
così come la forma di pagamento che poteva essere semestrale o annuale a
seconda dell’accordo precedentemente stipulato fra le due parti. Con la
cifra stabilita il colono sapeva su quale cifra poteva contare nell’anno, perché bastava sommare il numero delle piante di caffè che lui e la sua famiglia avevano sotto la loro responsabilità. Si esigeva dal colono e dai suoi
famigliari uno speciale impegno per quanto riguardava la manutenzione
delle piante avute in consegna, durante tutto il ciclo annuale di produzione
con la pulizia periodica fatta estirpando l’erba che nasceva fra le piante,
operazione questa che avrebbe potuto ripetersi dalle quattro alle cinque
volte nei dodici mesi. Dovevano anche colmare gli eventuali vuoti lasciati
dalle piante appassite o attaccate dalle formiche e ricollocare in sede le
piantine nuove. Anche “o alinhamento” era una operazione che si doveva
fare prima della raccolta del caffè, eliminando l’erba da sotto le piante per
facilitare il raccolto delle bacche. L’ultimo lavoro dopo il raccolto, era
quello dello spargimeno uniforme dei residui e delle foglie per formare con
esse uno strato protettivo che conservava umidità alle piante che poi, marcendo, si trasformavano in un ottimo concime. Nel municipio di Poços de
Caldas, questa operazione si effettuava fra il mese di Novembre e gli inizi
di Dicembre, un po’ più tardi che nelle pianure calde.
Non possiamo dimenticare che il clima che accompagna le stagioni in
Brasile si manifesta in forma opposta che in Italia. Quando il 21 dicembre
in Italia inizia l’inverno, in Brasile comincia l’estate. Questo nei primi tempi
ha fatto un po’ penare i coloni europei per la confusione dei mesi e del
clima. Dovettero impiegare del tempo prima di entrare nella nuova realtà,
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proprio loro che fino a poco tempo prima avevano vissuto una vita di lavoro agricolo totalmente scandita dalle date per le piantagioni e le stagioni.
L’incombenza della cura delle piante era l’unica responsabilità che
spettava ai coloni per far sì che la produzione annuale potesse essere soddisfacente; il miglior prezzo da raggiungere nella vendita del caffè rimaneva invece a carico del fazendeiro. Il rinnovo dei contratti era rivisto
annualmente nei posti che lo richiedessero, magari, per le difficili relazioni fra padrone e coloni. Nel caso del Municipio di Poços de Caldas in
generale, e nelle proprietà dei Junqueira in particolare, dopo il primo contratto di lavoro, ogni anno esso veniva rinnovato verbalmente e, se c’era
bisogno di qualche modifica con l’introduzione di piccole variazioni, lo si
faceva di comune accordo.
Il raccolto era la seconda clausola importante del contratto. Aveva la
sua modalità di pagamento basata sulla quantità di caffè raccolto dalle
piante sotto la responsabilità del colono, che si faceva aiutare in quella
incombenza da tutti i componenti della famiglia: uomini, donne,vecchi e
fanciulli che fossero validi per il lavoro. Era necessario che, una volta
maturo, il caffè venisse raccolto al più presto possibile per evitare le piogge ed anche perché esso doveva subire vari processi lavorativi prima di
venire insaccato e destinato al mercato internazionale.
L’impiego di tutta la manodopera disponibile nella fazenda accelerava il raccolto del caffè e offriva inoltre ai coloni un raggio di azione supplementare perché quelli che avevano una famiglia numerosa, dopo aver
raccolto il caffè delle loro piante, potevano accrescere le entrate aiutando
quelli che avevano figli ancora troppo piccoli per il lavoro.
Le bacche raggiungevano il punto giusto di maturazione quando la
loro colorazione da verde si trasformava in un bel colore rosso-arancio.
Erano queste che bisognava staccare dall’arbusto lasciando indietro quelle verdi non ancora mature; l’operazione non era facile perché era selettiva e la qualità del prodotto finale dipendeva proprio dal rigore con cui era
stata eseguita. Il pagamento per quel lavoro veniva pagato per “alqueire”
raccolto.
Il termine “alqueire” era usato per definire un determinato volume di
caffè ricavato dalle piante, e non aveva niente a che vedere con l’area di
terra conosciuta con lo stesso nome della dimensione di 24.200 metri quadrati, che era la misura di frazionamento usata per le proprietà terriere in
Brasile, così come l’ettaro lo è in Italia.
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Raccoglievano il caffè facendolo cadere su dei panni stesi sotto la pianta e lo consegnavano a un incaricato che lo versava in un recipiente metallico della capacità di cinquanta litri: era quello il corrispondente alla quantità di un alqueire di caffè. Contrariamente al pagamento fisso per la cura
delle piante, sul quale il colono poteva contare, il raccolto invece ogni anno
rappresentava una sorpresa per lui e per la famiglia, perché la cifra ricevuta dipendeva molto dalla quantità di caffè prodotto e dal prezzo vigente sul
mercato. In genere il caffè produceva un anno di raccolto abbondante e l’anno seguente ben più scarso, ed era soggetto a fattori climatici che a volte
causavano seri problemi alle piante.
La terza parte del contratto definiva il pagamento che veniva corrisposto ai coloni quando venivano adibiti a lavori non inerenti all’agricoltura, ma necessari per la manutenzione della fazenda. Riparazioni, costruzioni, sentieri ecc., lavori che sarebbero stati eseguiti nei periodi liberi dal
lavoro più importante dedicato alle piante. Il pagamento sotto la voce di
“Diaria” veniva indicato con valori differenti dipendendo da chi eseguiva
il lavoro, se un uomo, una donna o un bambino.
Quelle tre clausole riunite avevano creato basi solide e offerto reali
possibilità ai coloni di poter progredire migliorando le loro condizioni
economiche e nutrire la speranza di potersi comperare un giorno non lontano un pezzo di terra e guadagnare l’indipendenza.
Nei contratti di lavoro, ciò che più interessava ai coloni erano gli
accordi che riguardavano le concessioni che il fazendeiro riservava ai suoi
dipendenti. L’uso della casa con il nuovo sistema del colonato era esente
dal pagamento di affitto, però i pascoli necessari per gli animali di proprietà dei coloni, un pezzo di terra per piantare la verdura per uso familiare, una quota di latte per i bambini piccoli, erano tutte concessioni che
dipendevano non solo dalla quantità di terra posseduta dal fazendeiro ma
più ancora dal suo modo di pensare e di comportarsi.
Quando i coloni avevano la fortuna di trovare un padrone comprensivo si sentivano realizzati, perché era più vantaggioso per loro combinare
un contratto con prezzi magari un po’ più bassi degli altri pagati nella
zona, ma in compenso godere dei vantaggi indiretti che poi alla fine davano migliori risultati.
Il giorno 25 aprile 1891 Luigi Gallo sposato con Angela Fiorot, registrava nel Cartorio del Registro Civile, la nascita della figlia Augusta. Lui
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era impiegato nella fazenda Barreiro e sul libro si dichiarava “Appaltatore
di caffè”. Anche Pietro Ballarin che fungeva da testimone dava la stessa
residenza e professione. Sono questi i primi nomi di italiani, lavoratori
rurali, che appaiono sui documenti ufficiali; essi assieme ad altri connazionali lavoravano già da vari mesi per il colonnello Agostinho.
La maggior parte dei coloni rimase legata per un lungo periodo al servizio della famiglia Jiunqueira dapprima nel nucleo iniziale rappresentato
dalla fazenda Barreiro e poi col passare del tempo trasferendosi nelle nuove
fazende che andavano sorgendo, quando i giovani elementi del clan si sposavano e incominciavano la loro nuova vita con una attività in proprio.
Così è stato anche quando una figlia del colonnello Agostinho si è
sposata con Josè Affonso Barros Cobra che era un nipote del colonnello,
rimasto orfano in tenera età ed allevato da lui come un figlio. Josè Affonso
ed il suo cugino-cognato Joaquim Affonso Junqueira ebbero in consegna
la fazenda “Santo Aleixo” per dirigerla e amministrarla in società. Erano
gli inizi dello smembramento della immensa area che faceva parte delle
sesmarie dei fratelli Junqueiras. La “Santo Aleixo” confinava con la
Barreiro, sarebbe diventata una delle più ben condotte e produttive del
Municipio. Era stata comperata dal colonnello da suo nipote Joaquim
Bernardes chiamato Quimquim, nato da un figlio del primo matrimonio
del sesmeiro Josè Bernardes.
La conservazione dei libri di contabilità, iniziati il 30 aprile 1892, ha
permesso uno studio accurato sul lavoro svolto durante vari anni dai coloni, seguendo i loro passi, accompagnando la loro vita e venendo a conoscere le rispettive responsabilità che i loro obblighi comportavano. Si tratta di un documento prezioso che trasmette informazioni esatte, quasi una
radiografia di una fase storica ed eroica, con la registrazione di dati personali e ambientali, durante un lungo periodo vissuto da un considerevole gruppo di coloni italiani.
È la storia delle famiglie venete e lombarde, che per aver vissuto isolate dalla città, e sempre assieme, si sono imparentate fra loro attraverso i
matrimoni, fondendosi in tale maniera da diventare quasi un’unica grande famiglia.
Hanno formato la casta degli italiani legati al lavoro della terra che,
molto unita, ha convissuto spalla a spalla nelle varie fazende collaborando con la forza della loro presenza a raggiungere il progresso generale
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grazie al buon rendimento ed alla comprovata produttività. Non hanno
avuto premura di forzare il destino per raggiungere risultati rapidi di ricchezza e di benessere; anzi in un certo senso sono stati elementi molto
equilibrati, necessari in un paese dove tutto ancora doveva essere fatto.
Non hanno avuto l’ansietà e il desiderio di guadagnare con quella
immediatezza che invece era la molla che spingeva la maggioranza di
quelli che vivevano nei centri urbani, impegnati in una corsa alla ricchezza, stimolati dalle tante opportunità ed anche dalla fortuna, che arrideva
frequentemente a molti di loro.
Per i coloni quelle immense vastità di terre, quasi tutte ancora incolte rappresentavano la sicurezza che il loro lavoro sarebbe stato garantito
ed il mantenimento della famiglia assicurato, e finalmente nessuna nube
avrebbe potuto coprire, con incertezze o paure di altre privazioni, la visione del loro futuro.
L’abbondanza di alimenti sui quali potevano contare, era la garanzia
della crescita dei loro figli sani e robusti, ed anche il mezzo che forniva la
forza per lavorare agli adulti. Il resto era il resto. Al primo posto l’alimentazione: dipendeva infatti dalla quantità di calorie e di energie accumulate la possibilità di mantenersi sani. Venivano da esperienze provate anteriormente nella loro terra di origine dove avevano convissuto con le difficoltà ed i sacrifici, e per questo sapevano che il grande passo, perché le
cose qui fossero differenti, era già stato fatto. Non avevano mezzi economici sufficienti e nemmeno esperienza necessaria per poter incominciare
qualche impresa da soli. Perciò era inutile fantasticare, bisognava aggrapparsi alla forza e al coraggio poiché sapevano che era quello il cammino
sicuro che si era aperto per loro.
Si dedicarono al lavoro con entusiasmo per far fruttare quella terra
che giudicavano una grazia di Dio e che fino a poco tempo prima non riuscivano nemmeno a immaginare quanta potesse esistere ancora non lavorata. Si riempivano gli occhi con l’esuberanza della vegetazione e il vigore con il quale crescevano le piante. I vari nobili o i signorotti loro antichi
padroni si trasformavano in un ricordo che si andava sbiadendo. Adesso
facevano parte di un nuovo clan al comando del colonnello Agostinho,
pioniere, uomo di spiccata personalità e politico rispettato, come lo sanno
essere i buoni abitanti del Minas Gerais. Aveva tutti gli attributi indispensabili per essere apprezzato dai nuovi arrivati, e di fatto lo è stato.
Negli anni che vanno dal 1891 fino al 1915 nella fazenda Santo
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Aleixo vivevano molte famiglie di coloni veneti, a loro sono state destinate le piantagioni di caffè, in quantità proporzionale al numero di braccia che ogni gruppo familiare disponeva. Per citare alcune delle famiglie,
nel 1892 quella di Santo Piva badava a 2.420 piante, quella di Modesto
Zuccato a 3.350, di Bernardo Baldini a 1.360, di Giacinto Moras a 7.650
e quella di Angelo Dall’Ava a 1.250 piante.
La famiglia Moras era quella che aveva in consegna il maggior numero di piante e quella di Angelo Dall’Ava quella che ne aveva di meno.
Tutti gli altri elementi che componevano la colonia, badavano a una quantità variata di piante dentro la fascia sopra citata.
Questi dati sono validi dal punto di vista illustrativo, perché si riferiscono alla fase iniziale delle attività nella fazenda. Da quel momento in
poi la trasformazione fu sempre costante nella colonia e col passare degli
anni avrebbe visto i suoi elementi crescere in una continua evoluzione. Le
famiglie che avevano incominciato potendo disporre di varie braccia valide per il lavoro, col tempo si svuotavano con lo staccarsi dei figli che, sposandosi, davano inizio alla formazione di nuovi nuclei famigliari. Al contrario, andava aumentando la produttività delle famiglie che erano entrate
nella fazenda quando i bambini erano ancora troppo piccoli per poter contribuire col proprio lavoro.
Osservando il susseguire delle annotazioni scritte sui libri di contabilità della Fazenda Santo Aleixo, si può tracciare un quadro esatto delle fasi
attraversate durante il lungo periodo nel quale gli italiani vissero in quella proprietà. Prendendo i Moras, quale tipico esempio di una famiglia di
coloni veneti e seguendola durante il periodo che va dal 1891 al 1915, si
avrà modo di sapere molte cose riguardanti la loro vita, ad esempio quali
erano le remunerazioni, da quali fonti provenivano ed anche le spese per
gli alimenti, la farmacia e molte altre cose registrate cronologicamente.
Avremo in definitiva il resoconto di una famiglia molto simile nel modo
di vivere e lavorare a moltissime altre famiglie di coloni veneti che nelle
stesse condizioni e contemporaneamente stavano prestando il loro lavoro
in centinaia di fazende in vari Stati quali: San Paolo, Minas Gerais, Spirito
Santo, Rio de Janeiro, ecc.
III. Quando la famiglia Moras nel 1891 entrò per lavorare nella
fazenda Barreiro, era arrivata da pochissimo tempo dall’Italia. Era composta dai seguenti elementi: Giacinto Moras e Maria Pignat che erano i
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genitori, Giulio Moras il figlio più vecchio, venuto con la moglie
Giovanna Dall’Ava con la quale si era sposato in Italia nel 1887, la figlia
Teresa anche lei venuta con il marito Antonio Dall’Ava, che aveva sposato nel 1885 quando ancora vivevano in Italia. Seguivano gli altri figli:
Santo di 20 anni, Luigi di 18, Pasquale di 14, Antonio di 11 e una figlia di
nome Antonia della quale non esistono informazioni più precise. Un’altra
figlia, Maria, era rimasta col marito in Italia. I Moras provenivano da
Santo Odorico, una piccola frazione di Sacile in provincia di Udine nel
Veneto. Dal momento nel quale, attraverso una serie di documenti, si vengono a conoscere le attività della famiglia Moras in Brasile, il nucleo non
contava sulla partecipazione di Teresa, visto che il marito Antonio aveva
le proprie piante da accudire e neppure su quella del figlio Antonio che era
morto di febbre tifoide all’età di 12 anni nella fazenda Barreiro. Vale
anche osservare che malgrado i coloni vivessero e lavorassero nella fazenda Santo Aleixo, dai documenti risulta che quasi sempre dichiaravano
come loro residenza la fazenda Barreiro; cosa molto verosimile per il fatto
che in quel periodo, mentre stavano organizzando la società fra il figlio ed
il genero del colonnello Agostinho, una parte della fazenda Barreiro veniva usata da loro, fintanto che la nuova proprietà incominciasse a produrre. Infatti, anche la contabilità riguardante le entrate e uscite della Fazenda
Santo Aleixo è stata registrata a partire dai primi mesi dell’anno 1893, dettagliando singolarmente i nuclei familiari e il numero di piante di caffè
affidate alla loro responsabilità.
Dal 30 aprile 1892 all’inizio del 1893 le spese erano state elargite globalmente, perché fino a quel momento erano stati dati soltanto anticipi ai
coloni occupati con il trapianto del caffè, che prelevavano dai vivai per
piantarlo nei posti precedentemente scelti.
Quel periodo di attività fu indubbiamente fra i più importanti vissuti
dai coloni perché allora affrontarono la fase più difficile, sia nelle relazioni con il proprietario della fazenda, dal quale dipendevano nel modo più
assoluto, e sia anche per le loro preoccupazioni personali. Dovevano vivere momenti di angustia, con i tanti dubbi e la speranza che finisse presto
quel periodo, ma nello stesso tempo, armati di tanta pazienza perché sapevano che quella era una situazione inevitabile e accettata per accordo
anche da loro. Era il momento del tutto o niente, che poteva risolversi in
un successo oppure in un fallimento nel caso che non prevalessero la
buona fede e la fiducia reciproca.
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Durante il tempo che dovevano resistere, fino al momento del primo
pagamento per i loro lavori, i coloni alternavano le attività, dedicandosi
non solo al caffè ma piantando cereali e verdura per la sussistenza della
famiglia; facevano questo negli appezzamenti di terra concessi in uso dal
fazendeiro, negli spazi di tempo lasciati liberi dal caffè. Così, nell’attesa
di vedere il risultato finale di quella che era la loro occupazione principale e che il ciclo vegetativo facesse maturare il granoturco e gli altri seminati, i coloni continuavano a ricevere soldi anticipati per poter affrontare
le spese essenziali. Nel frattempo, per non vedersi aumentare i debiti,
assieme ad altre persone della famiglia si occupavano anche a svolgere
lavori di manutenzione necessari e sempre richiesti nelle fazende, ricevendo il compenso stipulato dal contratto di lavoro, sotto la voce “Diarias”.
Il primo figlio di Giacinto Moras a sposarsi in Brasile fu Santo, il
giorno 30 novembre 1892, prendendo in moglie Antonia Bolleta figlia di
Giordano.
È da questo momento che incontriamo la famiglia Moras sul libro di
contabilità della fazenda, alla chiusura del bilancio semestrale registrato
nel mese di agosto dell’anno 1893. Doveva restituire ancora 417$.635 reis,
come parte dei soldi avuti in anticipo: un buon risultato se si considera che
era partita, secondo le annotazioni fatte nel gennaio dell’anno 1893, con un
debito di 813.935 reis. In quei mesi, le poche spese erano state destinate
esclusivamente all’acquisto di caffè, farina di frumento, sale, zucchero e
formaggi. Le entrate compensavano largamente il sacrificio compiuto dai
componenti della famiglia Moras, con i 98 giorni di “Diarias” prestato
dagli uomini, i 6 giorni dalle donne e i tre giorni e mezzo dai bambini.
Avevano raccolto 194 alqueires di caffè e ricevuto per questo 4$000 reis
per ogni alqueire. Doveva trattarsi di caffè della confinante fazenda
Barreiro che era già produttiva, perché il caffè era stato piantato tre o quattro anni prima che nella fazenda Santo Aleixo. Avevano ricevuto anche il
primo pagamento riferente alle 7.014 piante da loro collocate in sede e
curate durante il periodo dei sei mesi scaduti il 15 agosto. Ogni migliaio di
piante veniva pagato 25$000 reis al semestre. Erano riusciti nello spazio di
poco tempo a ridurre il loro debito, scontando 396.$300 reis
Alla chiusura dei conti nel febbraio 1894, la situazione era soddisfacente perché il bilancio mostrava che il debito della famiglia Moras era
stato ridotto alla cifra di 147$135 reis. Oramai stavano andando avanti a
tutta forza; le spese sempre minime e ben controllate, limitate all’essen74
ziale. Se non erano passati in attivo era perché in quei mesi avevano comperato un cavallo che era costato 100$000 reis. Usando la loro abilità
come muratori avevano ricevuto un pagamento per aver finito la casa dei
Migot e intonacata quella dei Dall’Ava dove avevano aggiustato anche le
finestre; avevano avuto pure un guadagno di 100$000 reis per aver ingrandita la loro casa. Le piante di caffè che dipendevano dalle loro cure erano
aumentate a 7.650 unità.
Alla chiusura dei conti, il giorno 12 ottobre 1894, la situazione si era
invertita. Non soltanto avevano raggiunto il pareggio, ma avevano anche
comperato una mucca che era costata 120$000 reis e pagati 200$000 reis
a Giuseppe Guerra, un italiano commerciante in Poços de Caldas, per
acquisto di alimenti fatti nel suo negozio. Avevano speso 10$.000 reis
nella farmacia e 12$.000 reis per pagare l’assistenza a un parto.
Le entrate provenivano dalle 7.650 piante seguite e lavorate da loro
durante il periodo che andava da febbraio ad agosto e per il raccolto di 396
alqueires di caffè. Per i lavori di restauro eseguiti nella casa del colono
Baldini avevano ricevuto in contanti la somma di 60$000 reis.
Un altro figlio di Giacinto, Luigi, si era sposato il giorno 7 aprile
dello stesso anno con Amabile Maria Piva di Ferdinando.
Il periodo che aveva termine nel mese di febbraio 1895, presentava
un saldo positivo di 79$000 reis a favore dei Moras, che malgrado il controllo severo delle spese, avevano comperato un’altra mucca chiamata
“Formica” per la somma di 150$000 reis. L’entrata maggiore era sempre
quella originata dalle cure elargite alle piante di caffè durante gli ultimi sei
mesi e delle quali ricevevano allora 30$000 reis semestralmente, per ogni
migliaio. A questo punto la famiglia Moras era arrivata all’autosufficienza, produceva gli alimenti principali e non solamente per il proprio uso,
ma anche per vendere fuori. Aveva il granoturco per fare la polenta, i
fagioli, il riso, allevava maiali per lo strutto, per fare i salami e avere il
lardo. Era compito delle donne seguire il pollaio che forniva le uova e nei
giorni festivi scegliere una bella gallina da destinare alla pentola.
Avevano latte in abbondanza, si facevano il formaggio, curavano
l’orto che avevano dietro alla casa colonica e da lì raccoglievano poi una
buona quantità e varietà di verdure. In quel momento le cose stavano
andando visibilmente bene con la tendenza a migliorare, perché era arrivato il momento che le piante di caffè collocate e coltivate da loro negli
ultimi tre anni erano pronte per fornire la prima produzione.
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Agosto 1895. Quando venne effettuato il pagamento per i 549 alqueires di caffè raccolto furono pagate a loro le 7.650 piante badate durante gli
ultimi sei mesi. Malgrado una spesa di 177$500 reis per comprerare maiali, il loro credito ammontava a 400$700 reis.
Febbraio 1896. Il semestre era terminato con un saldo negativo per la
famiglia Moras che però aveva ricevuto in soldi liquidi durante quel periodo la somma di 630$000 reis. Stranamente le entrate erano state ottenute
solamente dalle “diarias” per le molte giornate di lavoro effettuato. Non si
faceva cenno dei soldi che avrebbero dovuto essere pagati per la cura delle
piante di caffè durante quel semestre.
Agosto 1896. Una sgradevole sorpresa! Quando viene fatto il pagamento per il lavoro di un anno di manutenzione della piantagione, si viene
a scoprire che i Moras sono rimasti con sole 870 piante! Sicuramente una
eccezionale brinata occorsa nell’inverno passato doveva aver decimato la
piantagione. Ciò viene confermato verificando i resoconti di altri coloni
nella stessa data. Lorenzo Pizzol che di piante ne aveva 4.771 rimaneva
con 1.850, Santo Piva da 2.400 rimaneva con 1.125 e così via…
Apparivano dunque differenze proporzionalmente maggiori o minori, a
seconda della fascia coltivata che era stata colpita dalla brinata. Lo stesso
così, col caffè raccolto in precedenza e le ore di lavoro eseguite, chiudevano nel mese di agosto 1896, il semestre con un saldo positivo di
199$940 reis, avendo anche completata la parte del pagamento relativo
all’acquisto di un maiale.
La calamità che aveva colpito quella brava gente, non era riuscita a
farla scoraggiare perché essa possedeva una grande dose di fatalismo e di
forza per sopportare le difficoltà che adesso erano meno dure da affrontare di quanto lo erano state quelle vissute fino a poco tempo prima, in
Italia. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima quella di doversi rimboccare le maniche e rincominciare tutto da capo.
Dal mese di agosto1896 al mese di agosto del 1897 poche furono le
entrate. I Moras stavano lavorando con la maggior rapidità possibile per
riporre le piante colpite dal gelo e facendo miracoli al fine di trovare
tempo disponibile, oltre a quello occupato per l’impianto, per guadagnare
il corrispondente alle 133 diarie prestate per altri lavori nella fazenda. Le
piante continuavano intanto ad essere sempre le misere 768. Solo in medicine avevano speso 111$500 reis. La famiglia stava aumentando, giacché
stavano incominciando a venire al mondo i primi Moras brasiliani.
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Novembre 1898. Il saldo positivo è di 385$330 reis, cento e sessanta
giorni di lavoro avulso, 583 alqueires di caffè raccolto e le 764 piante avevano lasciato quel saldo da ricevere, oltre ad aver intascato in soldi liquidi 420$000 reis.
Dicembre 1899. Decisamente un anno favorevole per i Moras, i loro
sforzi e sacrifici per risollevarsi dai danni subìti dalla brinata, avevano avuto
un lieto fine. In quella data, alla chiusura dei conti avevano un credito di
3:028$739 reis. La piantagione distrutta era stata ripiantata e aumentata, alle
764 piante ne erano state aggiunte altre 7.563 e questa volta per le nuove
piante era stata scelta un’area di terra dove prima piantavano la mandioca e
per la sua posizione era più protetta nel caso di nuove brinate.
Il caffè raccolto nell’ultima stagione non era stato grande cosa, solamente 365 alqueires, ma i risultati erano stati comunque soddisfacenti.
Avevano venduto mezzo maiale a Domenico Zanette e mezzo al Caselli;
avevano dato un maiale anche a quelli che li avevano aiutati a preparare
il terreno per le nuove piante di caffè. Nella farmacia avevano lasciato
66$000 reis e avevano ricevuto in soldi liquidi 1: 040$000 reis. Avevano
comperato vari chilogrammi di carne bovina e alla chiusura del bilancio
avevano ancora da ricevere durante l’anno 1900, il pagamento riferente ad
altre 5.351 nuove piante che erano state affidate a loro.
Nello stesso anno 1899, nel Cartorio del Registro Civile di Poços de
Caldas, sul libro n. 16 che va dal 16/8/1889 al 6/11/1899 ed è riservato alle
compere e vendite ed anche alle procure, si viene a sapere che Enrico
Goffi, barbiere, vendeva per la somma di 2:800$000 reis una casa localizzata nella Rua Marques do Paranà (attualmente Rua Assis Figueiredo e già
da allora, una delle più importanti della città); un immobile veniva comperato da Evangelista Zotti nel Largo dos Macacos per 500$000 reis e Carlo
Errico comperava una casa anche lui, nella Rua Marques do Paranà per la
somma di 3:000$.000 Reis. Questo per dimostrare che il capitale realizzato dalla famiglia Moras era una quantità ragguardevole di soldi da permettere l’acquisto di una buona porzione di terra da coltivare per conto proprio. Se questo non si è verificato è stato perché si trovavano bene dove stavano lavorando e non sentivano il bisogno di cambiare le cose.
Il 30 luglio 1900 ci mostra i Moras con un credito di 1:038$000 reis;
in quel frattempo avevano ricevuto in soldi liquidi la somma di
2:050$.000 reis. La chiusura del bilancio del marzo 1901 mostrava un
saldo favorevole di 2:533$.696 reis. Ultimamente il sistema di pagamen77
to aveva subìto una modifica passando i coloni a ricevere mensilmente
anziché semestralmente, per non lasciar accumulare troppo i loro crediti.
Avevano ricevuto in soldi liquidi 1:400$.000 reis e pagate varie spese
incluse quelle nei due negozi di generi alimentari, che la stessa amministrazione della fazenda liquidava, scontandola poi dal credito dei coloni.
Il raccolto del caffè aveva raggiunto in quel momento la quantità record
di 1.640 alqueires, anche la ricompensa per la manutenzione delle piante
era stata molto buona per aver raggiunto il numero di 11.948 piante sotto
la tutela dei Moras.
Il 19 gennaio del 1900 anche Pasquale Moras o Pasqualin, come era
chiamato, sposava Rosa Zanette di Domenico.
Dal novembre 1901 all’ottobre 1903, il saldo sempre in attivo registrava 1:827$.000 reis. Ricevevano mensilmente arrivando a riscuotere in quel
periodo 3:000$000 reis (Treis contos de reis). Una delle spese scontate nel
libro di contabilità si riferiva alla parte che era stata addebitata a loro per
pagare la riparazione del mulino, che si era guastato a forza di macinare il
granturco per preparare la farina da trasformare poi in polenta. Avevano
pagato la farmacia ed anche il signor Machado per la fornitura di 265$000
reis in generi alimentari consumati durante qualche mese e la loro quota di
contributo per l’edificazione di una chiesetta dentro la fazenda.
26 gennaio 1905, saldo a favore 556$750 reis. Durante tutto il periodo ricevettero 2:400$000 reis dei quali 1:200$000 in soldi ed il restante
scontato per pagare spese fatte, fra le quali gli alimenti e le medicine.
Avevano badato a 10.860 piante e raccolti 370 alqueires di caffè (poco!).
Al 15 dicembre saldo a favore ridotto: 18$000 reis. Le piante curate
10.760, raccolti 525 alqueires di caffè. In un totale di 1:610$450 reis,
720$000 sono stati riscossi in soldi, il restante copriva le loro spese, questa volta includendo latte, formaggio e carne bovina. Al prete avevano
destinato 6$500 reis per un battesimo.
Il loro lavoro aveva reso la cifra complessiva di 1:071$.900 reis distribuita fra raccolto, cura delle piante e 55 giorni di prestazioni diarie.
Dal 1905 al 1909 i dati possono essere riuniti in poche righe. Sono
stati anni di cambiamenti in seno alla famiglia Moras, Nel 1906 si erano
staccati dal nucleo principale i tre figli di Giacinto, Luigi, Santo e
Pasquale sposati da vari anni, con famiglie formate e già numerose, iniziavano il loro lavoro separatamente, assumendo la loro quantità di piante da badare entrando nella contabilità della fazenda come nuclei nuovi.
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Era una necessità dovuta all’aumento delle famiglie, e per i sempre
nuovi arrivati, che continuavano a nascere. Nel 1906 Santo aveva 8 figli,
Luigi ne aveva 5 e Pasquale 3, Giulio 2 nati in Brasile (non si sa quanti
figli aveva quando era arrivato dall’Italia). Il totale dei componenti della
famiglia Moras era di 31 persone fra uomini donne e bambini. Del gruppo iniziale, ancora registrato col nome del patriarca Giacinto, oramai
erano rimasti solamente lui ed il figlio Giulio, ma in breve anche Giulio
sarebbe rimasto solo dopo la morte del padre avvenuta il 24 febbraio
1908.
Dall’anno 1906 al 1915 i quattro nuclei che si staccarono dal ceppo
iniziale nato col nome di Giacinto Moras, presero il cammino per la propria indipendenza famigliare.
Per quanto possa interessare alla storia degli emigrati e non volendo
ricorrere a dati tecnici o statistici, rimane chiaro che la suddivisione del
nuleo iniziale non portò alcun beneficio ai vari elementi della famiglia
Moras perché, separandosi, si trovarono nella condizione più scomoda,
poiché in una fazenda di caffè il nuovo colono doveva affrontare da solo
tutto il lavoro a suo carico, senza più poter contare sull’aiuto di altri familiari, specialmente quando c’erano bambini piccoli. Fino a quando erano
rimasti uniti, il risultato finanziario era stato tanto positivo che bastava
mantenerlo per qualche anno ancora per moltiplicarlo e investire i loro
guadagni con l’acquisto di proprietà agricole, o meglio ancora comperare
beni immobili nella città che stava crescendo. Si sarebbero trovati in poco
tempo con un capitale sufficiente per cambiare le sorti di tutta la famiglia.
Già in quel momento stava migliorando la situazione di quei coloni
che dopo le dure lotte dei primi anni, incominciavano a contare sull’aiuto
importante dato dalle braccia giovani e forti dei figli oramai cresciuti con
l’aumento considerevole della produttività e conseguentemente di migliori guadagni e maggior benessere. Salvo rari ed isolati casi di giovani intraprendenti che tentavano la sorte fuori della fazenda, quelli che vi rimanevano, preferivano vivere la loro esistenza senza grandi ambizioni, ma certamente contenti di quella stabilità che presentivano duratura. Per questa
loro attitudine, pesavano molto le vicissitudini dei loro nonni e padri che
raccontavano le lotte, le difficoltà, le incertezze ed infine la delusione e la
disperazione che li aveva accompagnati fino al momento della decisione
di lasciare tutto e venirsene via dall’Italia.
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Così ognuno dei tre fratelli Moras, dal giugno 1906, anno nel quale si
staccarono dal padre per prendere il loro cammino e fino al 1915, videro
i loro bilanci individuali finire in pareggio o con discreti guadagni, continuando nella fazenda Santo Aleixo durante lunghi anni, tanto, che nel
1945-46, della famiglia Moras ancora si incontravano quattro nuclei, continuando la collaborazione con il clan dei Junqueira, iniziata dai loro vecchi più di cinquanta anni prima. I Moras presenti nel 1945 erano i fratelli
Antonio e Benvenuto ed i cugini Mario e Joaquim.
IV. Fin dall’inizio la vita dei coloni nella fazenda trascorreva in un
clima di collaborazione e amicizia. Una parte di essi erano parenti per
consanguineità o per matrimoni contratti quando ancora vivevano in
Italia. Certamente il gruppo destinato alla fazenda Santo Aleixo fu uno dei
più numerosi e compatti, con i suoi componenti sempre assieme fin dall’arrivo. Conducevano vita in comune e così sarebbe continuato per più di
trent’anni, mantenendosi nella stessa proprietà. Molti altri coloni, quasi
tutti provenienti dalla stessa Regione del Veneto, vivevano nella fazenda
Barreiro o in altre proprietà della stessa famiglia, ma con il passare del
tempo tanti di essi passarono a prestare il loro lavoro ad altri proprietari
di fazende, sempre dedicate alla piantagione del caffè.
La distribuzione delle famiglie che componevano una colonia veniva
decisa dagli stessi coloni con il beneplacito del fazendeiro, che vedeva in
quella scelta la sicurezza di avere nella sua proprietà un ambiente tranquillo dove sarebbe regnata l’armonia. Anche per i coloni era importante
incontrare la maniera di poter vivere nel modo più conveniente e simile a
quello che avrebbero voluto poter continuare nella Madre Patria. I primi
tempi furono sicuramente difficili e duri da sopportare, ma durarono fintanto che non si adattarono al nuovo ambiente, alla nuova lingua e al
nuovo clima, al nuovo padrone, infine al nuovo mondo.
Nella fazenda Santo Aleixo erano tre le colonie e così suddivise: la
prima denominata “colonia Maggiore”, era quella che si localizzava prossima alla casa-sede ed era la più numerosa. La seconda era la “colonia
lavapès” e la terza era conosciuta come la “colonia do Sapo” (del Rospo),
forse perché si trovava nella parte bassa della fazenda vicina a una vasta
area umida.
Suddivise nelle tre colonie fin dal 1892 vennero sistemate le seguenti famiglie: Lorenzo Pizzol, Santo Piva, Modesto Zuccato, Giacinto
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Moras, Angelo Dall’Ava, Francesco Battiston, Sebastiano Migot, Angelo
Bergamasco, Bernardo Baldini, Angelo Marcon, Giacomo Battiston,
Giovanni Archi, Antonio Placchi, Amilcare Maiocchi, Giuseppe
Malinverni, Giovanni Basso, Michele Toffolo, Pietro Zanette, Antonio
Caselli, Luigi da Re, Domenico Zanette, Domenico Cancian, Giuseppe
Marcon, Giovanni Sapilato, Basilio Basso, Antonio Cancian, Giovanni
Dedini, Cesare Cava, Antonio Dall’Ava.
A questo gruppo iniziale di persone, che trascorsero la loro vita nella
fazenda fino alla morte dei capifamiglia, si aggiunsero i figli ed i discendenti a dare continuità nel formare nuovi nuclei. Dal 1892 fino al 1915 in
quanto si erano allontanate dalla fazenda due o tre famiglie, altre se ne
erano aggiunte come quelle dei: Zangiacomi, Crivellari, Licio, Veronesi,
Boaretto, Renò, Medri, Ros, Ballarin, Marcello, Franchi, Mucciarone,
Fogaroli, Bortolotti, Rampazzo e Filippi.
Le case che trovavano arrivando nella fazenda erano ben differenti da
quelle dove quasi tutti loro vivevano prima. In Italia le abitazioni rurali
generalmente si trovavano prossime alla residenza padronale, e si includevano nel complesso degli edifici adibiti a granai, stalle e fienili o ai
depositi per gli attrezzi ecc. Erano costruzioni solide fatte di mattoni cotti
ed intonacati o in pietra viva e sassi, dipendendo dal materiale che incontravano più facilmente nella zona. D’inverno erano molto fredde e non
offrivano conforto a chi le abitava. Per questo, nella parte adibita a stalla,
quando il freddo si faceva più intenso, alla sera dopo cena si riunivano per
godere il calore emanato dal corpo e dal fiato delle mucche chiuse lì dentro. Era in quell’epoca dell’anno che nella campagna si conduceva una
vita comunitaria più intensa, perché non si poteva lavorare la terra, che in
quel momento stava godendo il meritato riposo sotto una crosta di ghiaccio e neve. I lavori agricoli avevano lasciato posto ai piccoli mestieri ed
alla manutenzione degli attrezzi nell’attesa della primavera col suo nuovo
ciclo vegetativo.
Per mesi durante le lunghe serate, chiusi nella stalla trascorrevano le
ore recitando il rosario, cantando, giocando a carte o raccontando fatti che
andavano da vicende miracolose a storie di orchi e streghe, non trascurando eventi legati alla vita reale, storici o drammatici che contenessero gli
ingredienti per interessare l’attenta platea. Durante quei lunghi periodi
vissuti assieme, ognuno dei partecipanti finiva col manifestare la sua personalità ed il suo modo di essere, assumendo dentro la piccola comunità
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il posto che gli sarebbe riservato fintanto che ad essa appartenesse. C’era
il patriarca dalle sentenze solenni e definitive, c’era lo spiritoso che faceva ridere tutti con i suoi lazzi e scherzi, c’era quello che intonava i canti e
quello che sapeva recitare le antifone e conosceva la liturgia, superato
forse solo da qualche alto prelato, e c’era anche quello che sapeva raccontare i fatti con tale realismo e convinzione da non lasciare intendere se le
lacrime che scendevano copiose dagli occhi degli uditori erano provocate
dall’emozione o dall’acre odore di urina delle mucche, che fermentava
sulla paglia dove loro, tranquillamente stese ruminavano, presenti e nello
stesso tempo estranee a quelle riunioni.
Dei veneti in Brasile, solamente quelli che si stabilirono nello Stato
del Rio Grande del Sud, dove l’inverno è rigido ed i bovini tenuti nelle
stalle, avevano coltivato l’uso dei “Filò”. Nel Minas Gerais gli animali
hanno sempre vissuto nei pascoli, liberi all’aperto, benché certe zone dello
Stato d’inverno siano fredde, lo stesso così anche di notte rimangono
all’addiaccio.
Le case che avevano costruito per i coloni nella fazenda, come misura e conforto non erano molto differenti da quelle dove vivevano in Italia,
malgrado fossero più semplici e rustiche. Il legno veniva molto usato perché nella regione ce n’era in grande abbondanza ed i mattoni di argilla
cotta e le tegole venivano preparati nella propria fazenda, la quale, come
era comune in tutte le fazende ben organizzate, possedeva una sezione
dove si fabbricavano i laterizi, ed anche una ben attrezzata segheria. Erano
a un solo piano e composte da cinque o al massimo sei stanze, le travature e le tegole erano a vista dall’interno e la suddivisione degli ambienti
limitata all’edificazione delle pareti divisorie, che raggiungevano il livello un poco al disopra dei vani delle porte, lasciando nella parte superiore
un’area libera per la circolazione dell’aria. La pianta di quelle costruzioni
era la più semplice possibile, differenziandosi poco dalle altre case coloniche costruite nelle fazende della regione.
Le piccole finestre che erano senza vetri e poche, lasciavano la casa
sempre nella penombra, il pavimento era in cotto o a volte in terra battuta e la cucina era l’unica stanza separata dalla casa da una piccola area
libera, per evitare che in fumo della legna che ardeva sul focolare, invadesse la casa. Costruite sul piano o in curva di livello, le case dei coloni
viste da lontano davano l’impressione di molti vagoni di un treno fermo,
tanto erano uguali di misura e disposte alla stessa distanza una dall’altra.
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Erano situate nei punti strategici della fazenda, vicine a qualche polla
d’acqua e prossime ai sentieri che collegavano la fazenda con i tratti di
terra coltivati a caffè. Sul fondo ogni casa aveva il suo piccolo orto recintato da uno steccato fatto con canne di bambù intrecciate. Lì piantavano
la verdura per consumo proprio od anche da vendere in città, allevavano i
maiali e le galline ed in un canto sorgeva la “casetta” che era una piccola
costruzione isolata che serviva per i loro bisogni corporali. L’acqua della
sorgente era incanalata fino ad una vasca vicina alle case e serviva a tutti.
L’illuminazione era fornita dai lumi a petrolio.
La definizione “colonia” proveniva da questi nuclei di costruzioni
che accoglievano i dipendenti, e quanto più grande era l’estensione della
fazenda e il volume del caffè piantato, tanto più numerose erano le colonie. Il criterio usato per costruire le abitazioni dei coloni era basato su un
concetto opposto a quello che gli emigranti erano abituati nel loro Paese,
ed anche a questo nuovo sistema essi dovettero adattarsi. In Italia vigeva
l’uso di riunire il tutto in un piccolo spazio territoriale, fin dai tempi quando era vitale usare questo procedimento per garantire la sicurezza non
solamente della proprietà ma anche delle loro vite, per difendersi da attacchi ai quali furono soggetti durante secoli, specialmente nei posti più isolati, quando interminabili lotte e guerre per il potere, mosse da signorotti
o scatenate da movimenti più importanti, non davano tregua.
La situazione in Brasile era tutt’altra, nessuno dei problemi esistenti
aveva la minima somiglianza con quelli sopra accennati: qui c’era spazio
a volontà, perfino troppo, al punto da non poter avere un controllo ragionevole su quella immensità di terra ancora spopolata. Il clima era favorevole alla vegetazione che cresceva con una rapidità incredibile, obbligando i coloni a sarchiare continunuamente la terra per eliminare le erbe che
potevano soffocare le piantine seminate. Quando arrivava il freddo, non
era tanto rigido come quello che avevano conosciuto in Italia: qui esso
raggiungeva il suo punto massimo durante la notte, quando il termometro
arrivava a segnare qualche grado sotto lo zero, temperatura questa che
continuava fino alle prime ore del mattino, quando con i suoi primi raggi
il sole intiepidiva l’aria, scaldandola al punto che i coloni non avevano
necessità di far uso di indumenti pesanti durante la giornata.
Non era necessario usare indumenti di lana e neppure ricorrere alla
stalla per scaldarsi col fiato dei bovini; anzi, nel Minas Gerais la stalla era
un tipo di costruzione sconosciuto per il semplice fatto che qui gli anima83
li sono sempre stati lasciati liberi nei pascoli, giorno e notte dove vivevano, si alimentavano, bevevano nei ruscelli o nei laghetti, procreavano,
dormivano ed a volte anche morivano.
L’abbondanza a disposizione di tutti e l’immensità del Brasile, sommate a un mercato di consumo ben fiacco, facevano sì che la misura dei valori fosse valutata in maniera serena ed equilibrata, tanto da permettere a tutti
quelli che ambivano condurre una vita più confortevole assieme alla famiglia, di poter coronare i loro sogni attraverso il lavoro.
Il fatalismo era l’arma più usata dai fazendeiros, abituati a dover continuamente affrontare le inevitabili avversità; essi trovavano più opportuno fare la scelta di accettarle come situazioni normali. Nel loro paese di
origine i coloni non avrebbero potuto capire una simile attitudine e ancora non si conformavano al pensiero del perché animali domestici come
mucche, buoi, e cavalli, tanto protetti e curati in Italia, qui vivevano allo
stato di totale libertà e affidati al loro destino.
Se qualche animale moriva nei pascoli durante la notte, al mattino
seguente gli avvoltoi, volando a spirale, segnavano dove si trovava la
carogna del bovino. Poteva essere una mucca che non aveva resistito a un
parto complicato o un bue morsicato da qualche urutù o cascavel che
erano i serpenti velenosi più temuti dai coloni. Anche le mucche separate
per la mungitura ricevevano lo stesso trattamento, libere pernottavano
all’addiaccio. Accatastate una sull’altra per proteggersi dal vento, al mattino venivano incamminate in un recinto dove ognuna forniva i suoi cinque, sei litri di latte rubati al vitellino che doveva rimanere legato vicino
alla madre ché, altrimenti, non avrebbe fatto scendere il latte. Tutte queste usanze differenti incontrate dai coloni nel nuovo Paese, devono aver
destato dei dubbi sulla validità del modo di procedere per allevare il
bestiame in Brasile; probabilmente non devono essersi mai convinti che
quello che avevano incontrato fosse il miglior sistema.
D’inverno le poche ore che precedevano il nascere del nuovo giorno
erano le più pericolose per le piante del caffè, nel caso si verificassero le
brinate, che erano temutissime e normalmente preannunciate da splendide giornate precedenti e notti limpidissime. Quando questo succedeva, sia
il fazendeiro che i coloni rimanevano in uno stato di agonia perché sapevano che la loro impotenza per evitare la calamità era totale.
Uno dei compiti riservati ai piccoli di casa, al mattino ben presto, era
quello di portare la merenda ai genitori e ai fratelli e sorelle più vecchi che
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erano usciti quando ancora c’era il buio pesto per recarsi al lavoro nella
piantagione di caffè. I bambini uscivano di casa caricando nel cestino
l’immancabile polenta arrostita sul focolare a legna, il salame, la terrina
con i fagioli conditi con lo strutto ed il sale, una bottiglia di caffè caldo ed
una piccola bottiglia di “cachaça”, il distillato di canna da zucchero che
sostituiva degnamente la loro non dimenticata grappa, nella funzione di
rallegrare lo spirito e scaldare il corpo.
I bambini incaricati della merenda, mezzi assonnati per essere usciti
dal caldo delle coperte poco tempo prima, si trovavano a dover affrontare
quel percorso a piedi scalzi, tutti rattrappiti dal freddo, speravano di
incontrare lungo il cammino qualche mucca che avesse appena scaricato
il residuo del suo lungo lavoro di ruminazione. Quando questo capitava,
disputavano accalorate corse che permettevano al più veloce il privilegio
di godere il premio di poter affondare i piedi dentro quell’impasto caldo e
per alcuni istanti, quasi cadere in deliquio, al sentire un gradevole calore
salire per il corpo. Erano questi i momenti pericolosi per i bambini nel
percorrere i sentieri che attraversavano la fazenda, perché correvano il
rischio di poter essere morsicati da serpenti velenosi. Fu così che la famiglia Zanette, sopranominata “Noro” si vide morire una bambina.
Inizialmente, il vino mancava ai coloni veneti, perché faceva parte
delle loro abitudini ed esso, magari in piccola quantità, era stato sempre
presente sulle loro mense.
Al contrario, il caffè in Italia era sempre stato considerato da loro un
articolo di lusso e moltissimi dei coloni mai avevano provato il suo sapore
prima di arrivare in Brasile, però non appena assaggiato apprezzarono subito quella bibita a tal punto, che i coloni arrivati già da qualche tempo dovevano prevenirli affinché non ne facessero uso esagerato.
Anche se il freddo europeo era completamente differente da quello
che avevano trovato in Brasile, dove non raggiungeva l’intensità e neanche la durata del primo, il clima invernale dell’altopiano di Poços de
Caldas non poteva essere sottovalutato. Non si capiva perché, per le
costruzioni locali mai siano state prese misure valide per isolarle dal freddo, scegliendo invece le norme usate nei posti caldi dove le esigenze
erano tutt’altre. E non erano solo le case dei coloni a non essere protette
dal freddo, ma anche le grandi abitazioni-sede, dove risiedevano le famiglie dei fazendeiros, soffrivano dello stesso difetto.
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Così fra novità e sorprese gradevoli, la civiltà contadina italiana si era
buttata anima e corpo nella nuova vita, in parte adattandosi ed in parte
introducendo piano piano le regole del gioco importate dalla vecchia
Europa e che a lungo andare si sarebbero incorporate ai costumi della
nuova Patria. Adesso le lunghe serate trascorse nelle stalle per godere il
caldo fornito dagli animali rappresentavano solamente un ricordo e tanta
nostalgia, la tradizione dei “filò” era finita per mancanza di freddo e di
stalle, e perciò bisognava usare la fantasia per riempire i vuoti che si erano
creati, sostituendoli con altre attività legate alla nuova realtà.
Dopo aver preso possesso del loro territorio nella fazenda, uno dei
primi provvedimenti che i nuovi abitanti vollero risolvere fu quello di prepararsi un posto dove potersi raccogliere in preghiera ed anche partecipare al culto religioso. Il locale sarebbe servito a far riunire anche i piccoli,
per iniziarli alla conoscenza del catechismo, ricevere la stessa educazione
religiosa che avevano avuto prima i loro genitori e prepararli a diventare
buoni cristiani. Queste preoccupazioni sono state sempre molto sentite
dagli adulti che vivevano nelle fazende, perché sapevano che era indispensabile poter ricorrere a un rifugio sicuro, quando sorgeva il bisogno
di conforto spirituale e di forza morale, per alleggerire i loro problemi, che
non erano pochi. La continuità delle tradizioni e delle abitudini vissute nei
loro posti di origine, avrebbe reso meno pesante la distanza dal paese e
dalla famiglia.
Specialmente la partecipazione attiva alle pratiche religiose li faceva
rivivere ricordi ancora recenti, quando nei loro paesi la vita, oltre che
essere scandita dalle stagioni e dal lavoro, veniva riempita dagli avvenimenti e dalle festività religiose che si susseguivano durante tutto l’anno,
con molte manifestazioni che oltre ad occuparli, li soddisfaceva e li faceva sentire spiritualmente realizzati.
I rituali specifici della Quaresima, della Pasqua, delle processioni, il
mese Mariano, la novena dei morti, le grandi messe cantate, il Natale li
facevano partecipi di una comunità religiosa attiva. Per il resto essi erano
totalmente staccati dai problemi profani, specialmente quelli dai quali si
sentivano esclusi, come nel caso della politica che non capivano, e perciò non le prestavano alcun interesse. Finché non riuscirono a costruire
una piccola cappella si riunivano nelle case ora dell’uno ora dell’altro per
celebrare i loro riti religiosi, che fin dall’inizio furono guidati dagli stessi coloni che sostituivano il prete, facendo le sue veci, giacché in quel86
l’epoca la presenza del prete nel mondo rurale era inesistente. Nella
nascente città di Poços de Caldas funzionava allora un’unica chiesa con
un unico vicario che si dedicava alla cura delle anime e non aveva la
minima possibilità di poter operare in un raggio di azione tanto vasto, per
attendere alle necessità spirituali di tutti i fedeli sparsi in quella grande
regione.
Per coincidenza i tre parroci che si susseguirono in quella chiesa proprio nel periodo in cui i coloni veneti si stavano sistemando nella regione,
tutti e tre erano italiani. Il primo, don Elidoro Mariani svolse le sue funzioni dall’anno 1895 al 1900; lo sostituì don Luigi Cappello dal 1901 al
1904 e don Giuseppe Armani dal 1904 al 1906. Fu durante la permanenza di don Cappello nella qualità di parroco che nel 1903 nella fazenda
Santo Aleixo fu consacrata una cappella, con le dimensioni di una piccola chiesa, che venne dedicata a San Giuseppe e che aveva la capacità di
contenere tutte le persone residenti nella fazenda. Era stata costruita “a
spese dei propri coloni”, come afferma Homero Benedicto Ottoni nel suo
libro “Poços de Caldas” e lo comprovano anche i libri contabili della
fazenda. Con la costruzione della chiesetta, che precedeva di qualche anno
quella costruita poi nella fazenda-madre Barreiro, i coloni avevano raggiunto il massimo delle loro aspirazioni.
V. Durante i lunghi anni di convivenza, si era reso ancora più compatto e organizzato il nucleo dei coloni nella fazenda che si andava trasformando in una vera e grande famiglia. Anche nei nuovi matrimoni,
quando i figli dei primi coloni arrivavano all’età di formare la loro famiglia, la scelta veniva fatta fra elementi della stessa colonia o delle colonie
vicine, e specialmente con la più numerosa della fazenda Barreiro, consolidando ogni volta di più il legame di parentela. Con l’unione dei figli di
compari e comari, si ingrossavano le file che andavano aumentando ogni
volta di più il numero già grande dei componenti di un unico clan.
Innanzitutto i coloni tenevano in conto il lavoro, perché era cosiderato da
loro il più importante dei doveri da compiere, seguito subito dopo dalla
ricompensa per le ore di sacrificio e fatica spese durante la giornata, con
il conforto che trovavano nella loro fede. In sostanza era dentro a questo
schema che trascorreva l’esistenza di ogni famiglia.
C’era anche la parte comunitaria alla quale partecipavano tutti, e che
prendeva un aspetto sempre più sereno man mano che i gruppi familiari
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progressivamente raggiungevano la tranquillità economica e le preoccupazioni e le ansie andavano sparendo.
Mentre i nostri si stavano adattando al nuovo ambiente, l’Italia invece stava passando la fase più acuta dei problemi che si erano creati con il
fenomeno dell’emigrazione, specialmente per le inconcludenti azioni
politiche mai affrontate e mai risolte, e per le polemiche sorte dalla reazione tra partigiani delle varie opinioni, che ancora dopo tanti anni non
erano stati capaci non solo di prendere una qualche decisione degna nel
modo di affrontare quel grave problema, ma ancora vagavano persi nel
decidere se dovessero essere favorevoli o contrari.
Approfittando di informazioni in parte veritiere, sorsero i “luoghi
comuni” che fecero diffondere storie pietose e tristi da far commiserare i
poveri coloni, usati per sostituire gli schiavi neri e maltrattati brutalmente,
dai feroci fazendeiros privi di scrupoli. Non ci sono dubbi che di casi tristi
ce ne furono e molti, dove venne usata la prepotenza e la cattiveria nei
riguardi degli italiani, specialmente nelle sperdute fazende. Se essi si
assoggettarono ai maltrattamenti è perché non conoscevano i loro diritti e
si trovavano confusi e psicologicamente inferiori davanti a un così grande
cambiamento nella loro vita e non avrebbero potuto reagire in altra maniera se non quella di rimanere traumatizzati.
E non si può dimenticare che le decisioni di un capo famiglia dipendevano dalle preoccupazioni che lo assillavano pensando alle rappresaglie
alle quali sarebbero stati soggetti i famigliari, specialmente i vecchi, le
donne e i bambini.
Certamente anche nelle situazioni più difficili, esse non ebbero una
durata lunga, perché non appena sorgeva la coscientizzazione, il gruppo
maltrattato prendeva subito i provvedimenti necessari per porre fine ai
soprusi. I coloni veneti che rappresentavano una grandissima parte dei
lavoratori destinati alle coltivazioni del caffè, per essere di indole buona e
docile soffrivano più degli altri nelle fazende, dove gli amministratori
erano disonesti o privi di scrupoli. Quella gente non era poi così coraggiosa, anzi evitava di contrattare coloni che fossero del sud d’Italia, specialmente della Calabria, perché, presi dalla paura, non volevano neanche
sentirli nominare, sapendo che quelli non accettavano neppure la metà
delle angherie sopportate dai veneti; anzi reagivano in maniera tale che
chi aveva l’incarico di comandarli non se la sentiva di irritarli o maltrattarli perché sapeva che i calabresi avevano il coltello facile.
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Ancora oggi in Brasile, dopo più di cento anni, il termine “Calabrese”
è sinonimo di gente che non scherza ed è sempre pronta al litigio. Anche
questo è uno dei tanti luoghi comuni esistenti; il fatto è che l’antipatica
fama se la sono acquistata solamente perché, comportandosi così, difendevano i loro diritti e la loro dignità.
Le irregolarità che si sono verificate nelle fazende, più che altro furono dovute a una interpretazione sbagliata da parte di certi fazendeiros, che
non avevano capito bene i reciproci diritti e doveri, i quali valevano sia
per loro che per la nuova manodopera contrattata. Tuttavia la stragrande
maggioranza dei proprietari terrieri agì in maniera umana e comprensiva,
ben sapendo che era anche nel loro interesse non perdere stupidamente dei
lavoratori preziosi. Inoltre non potevano arrischiare di crearsi la cattiva
fama di pessimi padroni, che sarebbe stata molto nociva, visto che se
divulgata, da loro non si sarebbero più presentati altri coloni disposti a
sopportare maltrattamenti.
In qualsiasi modo si voglia analizzare il rapporto iniziale tra proprietari terrieri e i coloni, e pur volendolo fare in modo imparziale, si affaccia
sempre alla ribalta la comprovata verità che chiaramente dimostra come
molte sofferenze, molte ingiustizie e molte delusioni non si sarebbero
sicuramente verificate se fossero state previste dai padri della Patria, e se
per tempo, le autorità politiche avessero preso dei seri provvedimenti. Per
questo bastava che fin dal sorgere del problema fosse intervenuta la
Madre Patria di quegli sventurati. In fondo, se era riuscita a unificarsi, il
merito era stato anche del contributo personale di quelli che avevano combattuto e partecipato attivamente, perché quel sogno potesse realizzarsi.
Con un gesto, non di gratitudine ma semplicemente di onestà per trovarsi
moralmente in debito con quei suoi figli, il minimo che doveva la Patria a
loro era il rispetto.
Il grande peccato dei governanti italiani fu quello di averli abbandonati al loro destino. È evidente che molte delle ingiustizie commesse da
fazendeiros opportunisti e prepotenti si sono verificate semplicemente
perché sapevano che qualsiasi loro sopruso non sarebbe stato soggetto a
punizione da parte della polizia locale, come pure non sarebbero stati
presi i minimi provvedimenti seri per iniziativa delle autorità consolari
italiane. Se non ci sono stati maggiori soprusi, questo lo si è dovuto solo
ed esclusivamente al senso di comprensione e intesa da parte di moltissi89
mi fazendeiros che dal primo momento seppero dare il giusto valore ai
propri coloni.
Gli italiani nelle fazende si preoccupavano di riuscire a ottenere un
pezzo di terra da coltivare per proprio uso ed anche per far pascolare i loro
animali. Non avevano un eccessivo interesse di raggiungere contrattualmente i valori più alti pagati nel mercato di lavoro, perché preferivano
usufruire dei vantaggi offerti dalla prima alternativa. Questo atteggiamento incoraggiava anche i fazendeiros ad essere ben disposti con i loro
dipendenti, visto che cedendo una parte della tanta terra disponibile e non
coltivata dentro alla vasta proprietà, a loro non sarebbe costato assolutamente niente, anzi avrebbero avuto un costo di produzione meno oneroso,
grazie all’economia che facevano pagando ai coloni un valore un po’ inferiore di quello pagato in altre fazende. In realtà quello che si verificava era
un fenomeno differente, che era passato inosservato perfino ai propri
datori di lavoro. Non potevano immaginare i fazendeiros che il pezzo di
terra che loro cedevano ai coloni per la coltivazione dei generi alimentari
e per il pascolo, era quasi sempre ben maggiore di quella che possedeva
in Italia il padrone per il quale il colono aveva lavorato.
L’interpretazione del rapporto tra datore di lavoro e colono passava
ad assumere un aspetto ben differente dal convenzionale. Non erano i
coloni dei semplici funzionari, ricompensati per la loro produttività, ma
lavoratori in proprio su terra ceduta gratuitamente. A loro volta i coloni
compensavano quel privilegio eseguendo per il fazendeiro una quantità di
lavori, che giustificavano la loro presenza nella fazenda. Davano le condizioni di un buon lucro al fazendeiro grazie alla loro prestazione di lavoro eseguito nelle piantagioni di caffè ed ancora ricevevano per quello la
loro ricompensa conforme al contratto stipulato.
VI. Evitando di fare rumore per non svegliare i piccoli, Pasqualin
uscì dalla porta che dava sul fondo della casa. Il giorno stava nascendo e
già dalle prime luci si preannunziava bello.
Scrutato il cielo non vide una sola nube che lo macchiasse e l’aria era
tersa e fresca; dai tegoloni che sovrastavano la porta cadevano le ultime
gocce d’acqua, segnando la fine delle sue preoccupazioni.
Durante la notte era stato svegliato dai tuoni e dal chiarore dei lampi,
frammisti agli scrosci di pioggia. “Porca pipa” gli era venuto subito da pensare, “sarà che avremo una giornata brutta e piovosa? Sarebbe una grande
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scalogna dopo due settimane di tanto sole e bel tempo! Giusto il giorno del
matrimonio, con tutto preparato e pronto per la festa!”
Poi, diminuendo d’intensità, lo scroscio della pioggia lo fece riaddormentare.
Il compito che tanto lo avrebbe occupato il giorno seguente, benché
fosse fra i più allegri e gradevoli, lo lasciava agitato perché era lui il
responsabile della parte festiva e dell’organizzazione del gruppo che lo
avrebbe accompagnato.
Pasqualin nella Fazenda era il “Festeiro”, ufficialmente riconosciuto
da tutti i componenti della Colonia che lo avevano scelto perché sempre
allegro, spensierato e comunicativo.
Dopo aver attraversato il breve tratto dell’aia che separava la casa
dalla cucina si approssimò al focolare per soffiare sulla brace smorta e
farla riattizzare affinché prendesse fuoco il fascio di sterpi secchi che
aveva appena collocato.
Appoggiato sul bordo del focolare mentre aspettava che bollisse l’acqua per il caffè, esaminava gli scarponcini neri ordinati da tempo al venditore ambulante turco che glieli aveva portati nel suo ultimo passaggio
nella Fazenda; erano veramente belli, se li sentiva calzare come due guanti ed anche combinavano col suo vestito scuro.
Bevuto il caffè aveva ripassato mentalmente uno ad uno i cavalieri
che avrebbero partecipato alla parte importante della cerimonia.
«Oggi faremo una signora festa, di quelle con i fiocchi!...»
Gli sposi appartenevano a due famiglie che, per il numero di elementi validi per il lavoro, godevano di una buona situazione economica nella
Colonia, erano inoltre legate di parentela con varie famiglie non solamente della Fazenda Santo Aleixo ma anche di altre Fazende vicine. Secondo
i calcoli di Pasqualin, i giovani che venivano dalle fazende Barreiro,
Espirito Santo, Lambary, e Santa Alina dovevano raggiungere perlomeno
il numero di quarantacinque.
Uscì dalla cucina evitando le ultime pozzanghere dove la terra stava
riassorbendo l’acqua. Per non dover andare a prendere il cavallo nel
pascolo all’alba, la sera prima lo aveva legato vicino a casa, così adesso,
dopo averlo sellato, collocate le bardature e stretta fermamente la cinghia
del sottopancia, indietreggiando qualche passo dall’animale, poteva avere
una visione dell’insieme.
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«Bello! – aveva esclamato – oggi noi due assieme faremo furori!»
Mentre l’animale al piccolo galoppo percorreva il sentiero che conduceva all’uscita della fazenda, Pasqualin osservava le molte migliaia di
piante di caffè che si estendevano distanziate perfettamente fra loro lungo
i pendii delle colline.
La pioggia caduta durante la notte le aveva lavate e tirate a lucido, il
verde smeraldo delle foglie avrebbe brillato appena lambito dai primi
raggi del sole.
«Sono stracariche di bacche – pensò. – Quest’anno dovremo avere un
buon raccolto.»
Di tanto in tanto doveva maneggiare il cavallo per aprire le
“Porteiras” di legno o di paletti e fil di ferro collocate per mantenere separati i vari settori della Fazenda e impedire agli animali che vivevano sciolti nei pascoli di invadere le aree coltivate.
Dopo aver chiusa l’ultima “porteira” dietro di sé e percorso il breve
tratto finale, giunse all’incrocio con la strada principale; allora scese dal
cavallo e si accostò al tronco di un Ipè per un’attesa che fu di breve durata, perché il calpestio degli zoccoli sulla terra e il vociferare dei cavalieri
si facevano sempre più vicini e nitidi.
Non appena arrivati al punto d’incontro, i giovani accolti da
Pasqualin entrarono nella Fazenda e subito furono accompagnati in uno
spazio prospiciente alla casa della futura sposa dove, lasciati i cavalli a
riposare nel pascolo, si unirono ai giovani della Colonia che da tempo li
stavano aspettando per dare inizio alla festa.
Tutti loro erano venuti assieme ai genitori dall’Italia, qualcuno già
sposato molti altri no. Erano loro i responsabili del benessere delle loro
famiglie perché, pur rispettando l’autorità paterna, avevano avuto un
ruolo importante nella decisione di emigrare, ed oggi lavorando sodo
dimostravano di averlo realizzato in pieno.
La voce chiara di Pasqualin si andava sciogliendo nell’intonare stornelli che lasciavano spazio all’improvvisazione, indirizzati alla futura
sposa in forma di augurio scherzosamente benevolo e come preludio del
clima allegro che già stava contagiando gli invitati.
«Suso bela che xe rivada l’alba, alza la testa e tira el cul in calda!
–(Alzati bella che già è spuntata l’alba, alza la testa ed esci dal caldo!)»
«Cara morosa no star a pianser tanto che de to mama ti ga da far de
manco, ti ga da far de manco de ste strope, cara morosa, fora da ste
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porte! (Cara fidanzata non star a piangere tanto se con la tua mamma non
potrai contare tanto e dovrai fare a meno anche della tua casa, su, cara
fidanzata, fuori dalle porte!)»
Nella casa della sposa il movimento era incominciato quasi allo stesso momento che Pasqualin era uscito dalla sua casa; il fumo che usciva dal
camino lasciava prevedere che qualcosa di buono si stava cucinando.
Indaffarata la madre della sposa non perdeva d’occhio le pentole sul
focolare dove cinque capponi sacrificati il giorno prima stavano cuocendo per fornire un profumato brodo sul quale si stavano aprendo larghe
macchie gialle di grasso a dimostrare che i volatili erano stati sacrificati al
momento giusto.
«Maria Vergine quanta gente, sarà che il brodo basterà per tutti?...»
Meno male che il giorno prima aveva fatto il pane, ce n’ era in abbondanza da offrire col salame e poi, in caso estremo, c’era la polenta arrostita da
servire accompagnata con la pancetta.
Si guardava intorno, e in cuor suo era molto contenta di vedere tutta
quella gioventù conosciuta lì e chiamava una delle figlie per dissipare i
suoi dubbi causati dalla vista che non la aiutava.
«Ma quello con gli stivali marron non è il figlio del compare Bepin?..
E col cappello buttato all’indietro non è Naneto Piva?» Li riconosceva
tutti ed era per lei molto piacevole passarli in rivista.
Quanti amici, pensava, quanta gente che ci vuole bene!
Anche la cachaça, il distillato di canna da zucchero, era stata provveduta con una certa abbondanza per avere la certezza di poterla offrire a
ciascuno dei cavalieri che se lo volesse, poteva anche ripetere la dose.
La sua preoccupazione proveniva solamente dal nervosismo che le si era
accumulato durante i preparativi del matrimonio, visto che la parte che aspettava alla famiglia della sposa era quella di offrire un ristoro agli ospiti al
momento in cui entrassero in casa per prendere in consegna i promessi sposi.
Aiutata dalle amiche la sposa si stava preparando: aveva finito di
indossare il vestito di stoffa grigia bordato di bianco, confezionato dalla
sarta, un dono che le era stato promesso da suo padre in un momento di
euforia per l’eccellente ultimo raccolto di caffè; le scarpe col mezzo tacco
completavano il quadro con una pennellata di eleganza.
Finalmente il sole oramai già alto nel cielo fece smuovere i cavalieri
che si diressero verso la casa dalla quale dopo una rapida sosta avrebbero
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riunito i due fidanzati per accompagnarli a Poços de Caldas, dove si sarebbero celebrati i matrimoni, civile e religioso.
Chiassosamente invasero la casa, conquistando con frasi gentili e di
felicitazione la simpatia della madre della sposa, commossa per le attenzioni che le erano dedicate.
In un momento ben opportuno incominciarono a servire le scodelle
piene di brodo fumante. I canti e l’agitazione avevano stuzzicato l’appetito a tutta quella banda di giovani impegnati a far onore a tutto quello che
era stato posto sopra la tavola. Come uno sciame di cavallette finirono
quanto era stato preparato apposta per loro, ed anche le riserve previste nel
caso in cui gli appetiti non si fossero calmati.
La confusione e l’allegria durarono per qualche tempo, aumentate
dall’eccitazione che la presenza delle amiche della sposa provocava ai
baldi giovani, i quali di tutto facevano per apparire interessanti e così
attrarre l’attenzione delle ragazze.
Dopo aver ringraziato per l’ospitalità e per il sollievo dei loro stomaci ed anche per i bicchierini di cachaça che avevano bevuto, erano pronti
a intraprendere la strada che sarebbe stata percorsa a dorso di cavallo in
un’ora e mezza circa.
Lo sposo, arrivato nel frattempo, confabulava con il festeiro per formare la carovana e dare il segnale di partenza.
I genitori della sposa non sarebbero andati insieme a Poços de Caldas
come anche quelli dello sposo, occupatissimi in quel momento con i preparativi del pranzo e la festa che sarebbero seguiti al ritorno dei figli, a
quel punto già marito e moglie.
Pasqualin con la pratica acquistata nel suo incarico, dopo aver ufficialmente ringraziato i genitori della sposa a nome di tutti i presenti, ordinava a ognuno di salire sul proprio cavallo, per poi aiutare la sposa e le
sue amiche ad arcionare i cavalli che erano stati bardati con le selle adatte a loro, affinché potessero sedersi lateralmente con le gambe unite sul
fianco dell’animale.
Andando al passo, presero il cammino che portava all’inizio della
salita, proprio davanti all’entrata principale della fazenda Barreiro. Da
quel momento dovevano seguirla fino a superare il dorsale della collina
dopo di che era solo da percorrere la lunga discesa per arrivare nella conca
del grande cratere dove il piccolo centro abitato di Poços de Caldas si
stava sviluppando e progredendo.
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Il Cartorio di Registro Civile sarebbe stata la prima tappa del gruppo;
lì il Giudice di Pace avrebbe realizzato il matrimonio con un rito semplice e breve, non trascurando di rivolgere alcune parole di raccomandazione ed augurare ai giovani sposi una vita felice.
All’uscita dal Cartorio, già in possesso del documento ufficiale, i due
non erano più fidanzati ma una famiglia legalmente costituita. Le loro
firme e quelle dei padrini erano state apposte sul libro che registrava
l’unione, compiendo così il rituale richiesto nel rispetto della Legge scritta dagli uomini.
La cerimonia più importante, quella che avrebbe completato l’unione
della coppia attraverso il rito religioso, sarebbe stata celebrata immediatamente dopo, nella “Chiesa del Buon Gesù della canna verde” localizzata
nella Rua San Paolo, dove il loro matrimonio sarebbe stato definitivamente
sigillato e sacramentato dal Prete che così formava una nuova famiglia cristiana, cosciente dei suoi doveri e timorata di Dio.
Fuori della Chiesa con il braccio del marito cingendo il suo, la sposa
raggiante di felicità, stringeva al petto un mazzetto di fiori, gioiva per il
momento tanto sognato che certamente le avrebbe lasciato un ricordo
indelebile per il resto della vita.
Che giorno differente da quelli tranquilli e uguali che lei aveva sempre vissuti nella Fazenda!
Si stava avvicinando l’ora di riprendere il cammino di ritorno. Il sole
caldo, quasi a piombo e la fame che incominciava a farsi sentire, li convinse che se volevano arrivare puntuali per il pranzo nella Fazenda, non
avrebbero potuto perdere altro tempo.
Avvicinandosi con un pacco di biscotti, uno dei giovani li offrì alla
sposa perché resistesse agli stimoli della fame fino a raggiungere casa.
Approfittando dell’esistenza di un bar nelle prossimità e non potendo
perdere quella occasione, una parte dei cavalieri si avvicinò al banco di
mescita per farsi servire una buona e rinforzata dose di cachaça che con
piacere avrebbero bevuta alla salute degli sposi, non potendo dimenticare
di versarne dal bicchiere qualche goccia sul pavimento in onore ai Santi.
Era quello un rituale comunissimo, celebrato dai bevitori specialmente nell’area rurale, più per abitudine che per devozione.
«Forza, tutti a cavallo, se non ci facciamo coraggio a prendere la strada di ritorno, quelli nella Fazenda sono capaci di iniziare la festa senza di
noi e farsi fuori tutta quella grazia di Dio, compreso il vino!»
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Spaventati da quella prospettiva, scomparvero i dubbi sul da farsi; fra
risate e scherzi presero il cammino di ritorno; al loro passaggio gli abitanti del posto uscivano dalle case per assistere a quel movimento insolito di
tanta gioventù sconosciuta, benché la distanza che separava i due mondi
ai quali appartenevano, fosse limitata da pochi chilometri di strada.
Mentre si avvicinavano alla fazenda, Pasqualin prendeva provvedimenti e dava ordini a uno degli amici affinché prendesse cura del gruppetto che sarebbe rimasto un poco indietro, mentre lui e qualche altro dovevano accelerare il galoppo dei cavalli per arrivare prima degli sposi e
avere il tempo disponibile per dare l’annuncio dell’arrivo ai parenti ed
anche per avvisare le cuoche.
«Cara madona, parecieve fora che sta par rivar la vostra niora...
(Cara signora, preparatevi fuori che sta per arrivare vostra nuora…)»
L’invito rivolto alla madre dello sposo perché si preparasse a ricevere la nuora, era servito a mettere in subbuglio tutta la casa.
I parenti stretti, zii, zie, cugini e gli amici ed invitati erano arrivati
sporadicamente ancora durante il mattino, alcuni erano giunti a cavallo o
con i calessi e molti, che abitavano vicino, a piedi.
Il numero degli invitati era andato aumentando sempre più, adesso erano
tutti lì pronti per ricevere gli sposi e augurare loro una vita lunga e felice.
Le tavole montate all’aperto, grandi e solide per resistere al peso e
contenere la quantità dei cibi che fra poco si sarebbero posti sopra, e agli
spintoni che inevitabilmente quel grande e agitato gruppo avrebbero dato;
le due panche collocate lateralmente e con la stessa lunghezza delle tavole, avevano i piedi conficcati nella terra e offrivano posto per accomodare molta gente.
Il buon odore che usciva dalla cucina, mentre aspettavano che i cibi
uscissero dal forno per arrivare caldi, lasciava tutti con l’acquolina in bocca.
C’erano le porchette arrostite, il capretto, ed i polli, ma il primo piatto poteva essere solo quello dei “cappelletti in brodo” (il piatto forte dei coloni
veneti) seguito poi da una svariata serie di portate.
Per l’occasione il padre dello sposo non aveva badato all’economia,
quello era un giorno da festeggiare, oltretutto quello che si sarebbe servito agli invitati era stato prodotto dalla famiglia, anche una buona quantità
di carne era stata comperata per fare il lesso ed il brodo speciale.
Di pane fatto in casa ce n’era tanto perché il forno a legna non aveva
smesso di funzionare durante l’ultima settimana, cucinando anche focac96
ce, pan dolce, ed altre golosità. Inoltre c’erano formaggi stagionati e freschi, i salami e i “codeghini” che cotti nel brodo si sarebbero trasformati
in un’altra specialità da servire durante il ricco pranzo che si sarebbe protratto a lungo.
I due “quinti” di vino (80 litri ciascuno) provenivano dalla “Chacara”,
una piccola proprietà rurale di Bianucci che era stato il primo a Poços de
Caldas a piantare l’uva, a vendemmiarla e trasformarla in vino, giacché da
buon Toscano conosceva a fondo quell’arte.
Il vino prodotto localmente non raggiungeva la qualità dei vini italiani, sia per la varietà delle viti, ed anche per fattori climatici. Non era
buono come il Chianti o i vini bianchi dei colli veronesi e neppure del
Pinot del Friuli, tutti vini che difficilmente i contadini veneti avevano
bevuto anche quando risiedevano ancora in Italia, perché essi erano destinati al Conte, ai padroni o al commercio.
In verità ai contadini piacevano i vini di ceppo americano, specialmente quello rosso che una volta bevuto lasciava la lingua viola ed un
sapore forte sul palato, quel vino corposo la cui robustezza contenuta in
un solo bicchiere corrisponde a quella di un’intera bottiglia di vino soave;
a loro piaceva il Clinton, vino che li faceva schioccare la lingua ad ogni
sorso e scorrere il dorso della mano sui baffoni per eliminare le goccioline rimaste infilzate sulle punte dei peli ed esclamare estasiati: «Caro da
Dio, che bon!»
I commensali riuniti già da qualche ora attorno a quella tavolata allegra, si divertivano mangiando, cantando e scherzando. Ogni tanto per
poter bere un bicchiere di vino in più si alzavano e dedicavano brindisi
indirizzati agli sposi che, a volte ridendo, altre volte arrossendo, ringraziavano commossi.
Ad un certo momento le donne incominciarono a darsi d’attorno per
sparecchiare le tavole riportando dentro casa piatti, bicchieri, stoviglie ed
i vassoi con il resto dei cibi. Anche la sposa entrò un momento nella casa
dei suoceri che da quel momento sarebbe stata anche la sua.
D’improvviso il suonatore di fisarmonica incominciò a far scorrere le
dita sui tasti dando inizio al ballo, visto che tutti davano dimostrazione di
essere pronti per quest’ultima parte della festa. L’entusiasmo per il ballo
non contagiava solamente i giovani, anche le coppie anziane non scartavano una bella quadriglia per lanciarsi e dare sfoggio della loro agilità e
bravura.
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Intanto i bambini, stanchi dal tanto rincorrersi durante il pomeriggio
quando gli adulti si stavano intrattenendo a tavola, incominciavano a dar
segni di stanchezza e di sonno.
Il buio era sceso da tempo e la festa dava segni di volersi vuotare. I
parenti e gli invitati venuti dalle altre Fazende, chi per l’età chi per la
distanza da percorrere al ritorno, prendevano il cammino verso le loro
case; rimanevano i giovani che avrebbero continuato ancora per qualche
tempo a ballare e divertirsi.
Anche i padroni di casa avevano manifestato il desiderio di ritirarsi,
e pure gli sposi, stanchi dopo una giornata intensa e agitata si preparavano a raccogliersi nella stanza destinata a loro nella casa dei genitori dello
sposo, perché lì sarebbero vissuti da quel giorno in poi, fino a quando col
passare del tempo e con la nascita dei figli, avrebbero costituito un nucleo
proprio.
Gli ultimi frizzi, le ultime frasi scherzose cariche di vino, rivolte agli
sposi, che già si sognavano nella loro stanza; e così anche gli invitati che
erano stati responsabili del successo della festa, montando i loro cavalli
stavano prendendo il cammino di ritorno.
Pasqualin li accompagnò fino all’uscita della Fazenda. Dopo averli
salutati uno ad uno mentre faceva ritorno verso casa, udiva ancora le loro
voci, un po’alterate dal vino, che allontanandosi si stavano affievolendo
sempre di più.
«Bella festa – esclamò Pasqualin – meglio di così non poteva riuscire, speriamo che i ragazzi che stanno ritornando non si perdano lungo il
cammino.»
Si mise a cantare a gola spiegata e quando al bivio tirò la briglia per
indirizzare il cavallo verso il sentiero che l’effetto del vino indicava fosse
quello che lo portava a casa, l’animale si fermò, rimase un momento
immobile, quindi riprese il cammino prendendo l’altro sentiero.
«Maria Vergine – pensò Pasqualin, – non capisco più niente: sarà che
con questo buio mi stavo sbagliando di strada?»
Diede una pacca amichevole sul collo dell’animale dicendogli:
«Grazie Pampa, grazie vecio!»
VII. La mortalità infantile nelle fazende e nella città è sempre stata
piuttosto alta, però non doveva superare di molto la media che si registrava in quegli anni in vari posti del mondo, compresa l’Italia.
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Nota triste è stata quella della quasi totale mancanza di assistenza
medica nell’ambiente rurale. Ad aprire la lunga fila dei figli di coloni,
seguita poi da molti altri, è stata Giacomina, figlia di Pietro Ballarin che
moriva nella fazenda Barreiro il giorno 26 gennaio del 1892 all’età di un
anno. La causa della morte fu attribuita ad un attacco di “bronchite capillare”. Evidentemente il medico che ha steso il certificato di morte, lo ha
fatto basandosi sulle informazioni prestate da chi era andato in città per
dichiarare il decesso.
Quella mancanza di assistenza durò molti anni, durante i quali i coloni si dovettero assoggettare alla sorte e al destino, convivendo con i propri problemi e le malattie senza mai ribellarsi o protestare. La grande dose
di rassegnazione e di conformismo che si portavano appresso, era alimentata da una Fede profondamente radicata nei loro cuori, che generava una
grande forza morale e che alla fine era la loro salvezza.
Il condizionamento assorbito e accumulato proveniva dagli insegnamenti ricevuti fin dalla più tenera età e faceva che destinassero le loro vite
alla rinuncia, assoggettandole a una completa mancanza di ambizioni e di
interessi materiali, quasi che i loro sacrifici e le stesse vite sempre tribolate fossero un grande premio riservato dal Creatore e non solamente a
loro ma a tutti i componenti della famiglia.
I neonati venivano battezzati subito, quando si notava l’improbabile
possibilità della loro sopravvivenza. Una delle malattie che più castigava
i neonati e i bambini nei loro primi anni di vita, era quella, quasi sempre
mortale, che provocava il rinsecchimento della pelle e il dimagrimento
estremo dei loro corpi; e il loro organismo veniva così debilitato che perfino la loro apparenza fisica perdeva l’aspetto umano, finendo col farli
assomigliare a delle piccole scimmie. I coloni veneti avevano tradotto nel
loro dialetto il nome di questa malattia, conosciuta tutt’oggi nell’ambiente rurale come “el mal del simioto”.
Siccome la scimmia non è un animale nativo in Italia e neppure tanto
conosciuto nei loro posti di origine, sembrerebbe valida la supposizione
che il nome di questa malattia fosse apparso dopo che i coloni avevano
visto questi animali in Brasile. Sorprendentemente invece, quando i coloni vivevano ancora nella regione veneta, tanto la malattia come il suo
nome erano già conosciute; lo conferma il dizionario del dialetto Veneto
di Giuseppe Boerio, editato a Venezia nel 1856, dove si legge: “mal del
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simioto”. Marasma, malattia che colpisce specialmente i bambini.
(Potrebbe trattarsi di disidratazione).
Nella colonia molti uomini e donne conoscevano il rituale del battesimo e lo sapevano amministrare. Quando un neonato moriva, il suo corpicino veniva collocato in una piccola cassa di assicelle, eseguita al
momento da qualche colono e veniva portato direttamente al cimitero in
città, accompagnato da due o tre uomini, uno dei quali aveva l’incarico di
raccomandare la piccola anima a Dio.
Chi nella fazenda Santo Aleixo aveva il compito di celebrare i riti
funebri era Luigi Da Re, un uomo magro e di statura non molto alta, che
possedeva una voce “che faceva tremare la terra” come affermava la figlia
Maria, di quasi novant’anni, nel ricordarlo durante una intervista. Gli
uomini si incamminavano verso la città dove nel cimitero pubblico, allora situato dove oggi sorge la Basilica, veniva sepolto il piccolo corpo nel
settore riservato agli “innocenti”. Prima però uno di loro era passato dal
medico per farsi dare il certificato di morte, da portare al responsabile del
cimitero, perché era quello il documento ufficiale indispensabile per dare
sepoltura ai corpi.
Quando invece la morte colpiva i più grandicelli, essi ricevevano un
trattamento quasi uguale a quello riservato agli adulti, perché il tempo che
avevano vissuto era stato sufficiente per lasciare dolore e rimpianto non
solo ai genitori e famigliari, ma anche a molte persone amiche. Il corpo
veniva collocato in una stanza della casa dopo essere stato lavato e vestito con la migliore roba che possedeva. Rimaneva esposto alla visita dei
parenti e dei vicini per qualche tempo, non oltrepassando le 24 ore, che
era il tempo massimo permesso dalla legge in Brasile per seppellire i
morti. Il clima tropicale del Paese aveva modificato certe abitudini lasciate in Italia; una di queste si riferiva all’uso di rimanere con i loro defunti
per più di un giorno. Quando la veglia funebre si faceva di notte, la casa
dell’estinto era aperta alle visite dei più intimi che si sarebbero intrattenuti per fare compagnia e consolare i famigliari colpiti dal lutto. Prima di
prendere il cammino verso il Campo Santo, il corpo veniva condotto nella
cappella della fazenda, dove il colono che fungeva da celebrante recitava
le orazioni, circondato dai parenti del defunto, dagli amici e tutti i conoscenti della sua ed altre colonie.
La cerimonia si svolgeva nella più spoglia semplicità e al suo termine quattro uomini, che si sarebbero alternati con altri quattro, carica100
vano la cassa con il morto dopo averla legata su due assi che avrebbero
avuto le loro estremità sorrette a spalle. Si avviavano quindi lungo la
strada che percorrevano a piedi, come ultimo segno di rispetto riservato
allo scomparso; al loro lato seguivano i cavalli che sarebbero stati usati
solo al ritorno. Dipendendo dall’età e dai rapporti che l’estinto aveva
con la comunità, variava il numero dei presenti per l’ultimo omaggio.
Cantando il “Libera me Domine” Luigi Da Re adempiva l’ultima parte
del suo pietoso incarico e assieme agli altri lasciava il Cimitero per far
ritorno a casa.
VIII. Le nascite si susseguivano con una certa frequenza perché la
maggior parte dei coloni era composta da coppie giovani, perciò in piena
fase di formazione famigliare. I bambini nascevano in casa con l’aiuto di
una o più donne molto pratiche in quella funzione, alleviavano i dolori e
trasmettevano forza morale alle partorienti. Normalmente una delle donne
più anziane e con più esperienza serviva da levatrice. Era lei che organizzava e dirigeva l’evento fino alla sua conclusione, quando, una volta separato dalla madre, avrebbe legato l’ombelico al neonato. Per questa finalità la levatrice usava un filo di puro cotone, numero 16, che era quello
usato anche per tagliare la polenta e per cucire e ricamare il corredo di
sposa alle giovani fidanzate.
Quando un neonato godeva buona salute, si aspettava finché qualcuno della fazenda si recava in città, approfittando per passare al Cartorio di
Registro Civile a registrare la nascita. Normalmente chi aveva più necessità di andare a Poços de Caldas era l’amministratore della fazenda, obbligato dagli incarichi legati alla sua funzione. Così era quasi sempre lui che
dichiarava le nascite e portava le informazioni richieste per farle trascrivere sull’apposito libro.
Quelle intermediazioni molte volte erano motivo di confusioni e lacune. La mancanza di conoscenza della lingua portoghese, unita al grado
precario di istruzione e completato dalla faciloneria usata a volte da chi
trascriveva i dati, furono frequentemente causa delle alterazioni di nomi,
cognomi, ed anche dei posti di nascita dei genitori, passati inosservati o
ritenuti irrilevanti al momento, ma che avrebbero avuto degli strascichi
posteriori quando, necessitando qualche documento, i figli già adulti si
sarebbero trovati ad affrontare delle sgradevoli sorprese. Chi andava per
far registrare, a malapena sapeva leggere e scrivere l’italiano; l’impiegato
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che doveva prendere nota dei dati sicuramente l’italiano non lo conosceva proprio, perciò doveva affidarsi al caso, sperando di aver scritto la
parola giusta. Si completava così il quadro di una situazione come minimo curiosa, che vedeva dapprima una persona che cercava di indovinare
quello che gli veniva detto per poterlo scrivere; si invertiva in seguito la
posizione, quando la persona che aveva dato le informazioni, doveva essere lei a dover fare un grande sforzo per vedere se erano state trascritte
senza errori.
Il dialetto parlato, specialmente quello dei veneti, per la forma particolare di pronunciare la lettera “s” finiva sempre col confondere le idee e
causare alterazioni rilevanti nella grafia dei nomi. I Ros, diventavano
Rossi; i Placchi, Plak; i Zuccato, Sucato; e i Moras, a volte erano Morais,
altre Morassi ed anche Morasco. Le consonanti doppie dei cognomi erano
soggette a sparire o cambiare di posto.
Dovuto al numero stragrande di veneti residenti nelle fazende, il loro
dialetto prese il sopravvento sugli altri dialetti al punto da essere adottato
anche dai coloni di altre regioni del nord Italia ed anche dai pochi originari del sud della penisola. Diventava in certo modo la lingua ufficiale
parlata da tutti ed è interessante notare che erano convinti di parlare l’idioma ufficiale della Madre Patria, visto che con tanta sicurezza lo definivano: “El Talian”.
Perfino Quintiliano, l’unico nero che viveva nella fazenda Santo
Aleixo, dovette imparare il dialetto veneto per poter comunicare col resto
della comunità e l’apprese tanto bene, che quando lo facevano arrabbiare
sapeva dire anche qualche parolaccia. Come quella volta che Giacinto
Moras, il più abile confezionatore di salami e insaccati della fazenda, si
era offerto di aiutare Quintiliano, trasformandogli il maiale che aveva allevato in tanti salami e cotechini, giacché lui non sapeva farlo. Confezionato
un salame, Giacinto glielo aveva mandato perché voleva la sua approvazione per poter continuare ad insaccare gli altri. Malgrado gli sforzi,
Quintiliano non riusciva a tagliare il salame con il suo coltello ben affilato, e non poteva certamente immaginare che la pelle, invece del ripieno di
carne tritata, per scherzo conteneva un torsolo di spiga del granturco.
Ancora fino a pochi anni fa, quegli innocenti scherzi, venivano ricordati e
commentati dagli anziani, già figli dei primi coloni che partecipavano a
quelle divertenti trovate.
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Una osservazione interessante è quella che mostra il comportamento
differente tra gli stessi italiani, quando nel registrare documenti ufficiali
dichiaravano il loro luogo di nascita in Italia. Quelli del centro–sud della
penisola si preoccupavano di dichiarare non solamente i loro nomi e
cognomi, ma anche i nomi dei posti dove erano nati e per quanto minuscoli fossero, con la massima esattezza. Quelli del nord–Italia, ma specialmente i veneti, fornivano dati approssimativi, dando come certo il nome
della città più prossima al paese dove erano nati, ma molto più spesso, il
nome della Provincia alla quale il loro paese apparteneva.
Così, su quasi tutti i documenti consultati si riscontra che le famiglie
registrate erano provenienti dalla Provincia di Padova o di Treviso, di
Verona, di Cremona o Mantova, se non addirittuta provenienti “dal Regno
d’Italia”. A volte tentavano di essere più precisi nel dare il nome della località, ma senza raggiungere alcun risultato positivo. Basta ricordare il caso
di una piccola città registrata col nome di “CHACHILE” da dove era originaria una famiglia di coloni. In Italia sicuramente non esiste nessuna
località abitata con questo nome; però, dopo un’attenta analisi della fonetica e della pronuncia nel dialetto dei veneti, è risultato chiaro che lo scrivano aveva trasferito sul libro quello che gli era stato scandito a voce e cioè
“SACILE”, una ridente città del Friuli.
IX. Osservando le firme apposte sui documenti, appare evidente che
i primi coloni e le loro donne, salvo qualche eccezione, anche se rudimentali, avevano avuto nozioni di istruzione ancora quando erano bambini in
Italia. Malgrado le poche prove rimaste, ci sono le testimonianze dei figli
che affermano come i loro vecchi sapevano leggere e scrivere, e che possedevano più di un libro, specialmente di soggetto religioso, e che si
intrattenevano spesso a leggere. La generazione più sacrificata fu quella
dei nati in Brasile, od anche di quelli arrivati piccoli dall’Italia perché
quando raggiunsero l’età di iniziare gli studi, a loro fu negato il diritto
all’istruzione. Furono, in definitiva, le uniche vere vittime della prima
fase della immigrazione.
Le cause principali che hanno causato questa grande lacuna non sono
facili da giudicare, come sarebbe temerario attribuire colpe a chicchessia
per quello stato di abbandono, perché quando si verificarono quei fenomeni, la situazione era talmente complicata e confusa da sfuggire al controllo di tutti. Neanche si possono usare termini di confronto con altri popoli
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di immigrati in Brasile per poter capire quello che è successo con le centinaia di migliaia di italiani arrivati a getto continuo in Brasile durante
molti anni, visto che le condizioni nelle quali si svolsero le emigrazioni
dei tedeschi prima, e dei giapponesi dopo furono ben differenti.
Il semplice fatto che in pochi anni una gigantesca estensione di terra,
come quella che forma lo Stato di San Paolo, grande quanto l’Italia intera, sia stata disboscata, abitata e coltivata in quasi tutta la sua superficie,
lascia immaginare l’agitazione febbrile e l’impulso che quel territorio ed
anche le aree confinanti hanno vissuto in quel periodo. Nemmeno si possono condannare i vecchi italiani di mancanza di interesse o di premura
nei riguardi dei figli, perché essi erano molto preoccupati, sapevano che
qualche cosa bisognava fare per dare una soluzione al grave problema che
li affliggeva. Realmente mancavano del tutto le condizioni ed anche i
mezzi per soddisfare la necessità di dare una buona istruzione ai loro figli.
Hanno cercato di organizzarsi nel migliore dei modi, incaricando il colono italiano che possedeva un grado di alfabetizzazione soddisfacente perché insegnasse quello che sapeva ai bambini.
Dal momento in cui le loro forze lo permettevano, i bambni dovevano aiutare i propri genitori in tutti i lavori che per quanto leggeri, rappresentavano il loro contributo prezioso ed indispensabile, affinché il nucleo
famigliare tutto unito nello stesso sforzo, potesse affermarsi e raggiungere la propria tranquillità. Siccome la situazione economica dei genitori era
ben precaria, essi non potevano pagare un salario adeguato al maestro,
affinché si dedicasse integralmente all’insegnamento. Il maestro lavorava
sodo durante la giornata occupandosi della sua quota di piante di caffè da
trattare, e solo verso sera riuniva gli alunni per iniziarli allo studio della
grammatica e della matematica. Solamente così il colono Luigi Bordin
della provincia di Padova, “sabido em leitura” (colto nelle lettere), durante vari anni ha svolto con dedizione nella fazenda Santo Aleixo il suo
ammirevole compito. Tutto quello che hanno imparato i bambini nel corto
intervallo lasciato fra il tempo dedicato al lavoro e l’ora di andare a dormire lo dovevano esclusivamente a lui. Evidentemente Luigi Bordin ai
suoi alunni poteva insegnare solamente la lingua italiana. La lingua portoghese non hanno mai avuto la possibilità di studiarla a scuola.
Durante la fase acuta dell’esodo in massa di emigranti dall’Italia, il
numero delle ammissioni nelle fazende situate nel municipio di Poços de
Caldas aumentò considerevolmente. Era quello il risultato ottenuto dalla
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massiccia campagna che era riuscita ad attrarre migliaia di famiglie di
coloni che godevano del vantaggio di non pagare il biglietto della nave per
nessun familiare, perché quella spesa era stata sovvenzionata dallo Stato
di San Paolo, come anteriormente è già stato spiegato.
Dall’anno 1891, quando incontriamo i primi coloni impiegati nelle
fazende del Municipio di Poços de Caldas, fino al 1915 ultimo anno consultato attraverso documenti ufficiali, quali: atti di nascita, di morte, di
matrimoni, di compravendita ed anche registri contabili delle fazende,
molte altre famiglie nuove si aggiunsero alle già esistenti, prevalendo
sempre i nuclei provenienti dalla regione Veneto, seguiti da quelli della
Lombardia, da vari Romagnoli, Toscani e qualche famiglia del
centro–sud. È opportuno registrare i cognomi di tutte le famiglie che
durante il periodo che va dal 1891 al 1915 hanno lavorato nelle varie
fazende, riservando le ultime pagine del libro per scrivere dettagliatamente i nomi delle rispettive fazende e dei loro proprietari come anche i
cognomi delle famiglie dei coloni impiegati in ognuna di esse, segnandone cronologicamente l’anno della loro entrata.
Nella relazione che segue non appaiono i nomi delle famiglie residenti nella fazenda Santo Aleixo per essere già state citate nelle pagine precedenti:
Ballarin, Brunacci, Bolzan, Benà, Boaretto, Benelli, Benedetti,
Broggi, Beccase, Benassi, Benetti, Benini, Broccardo, Bonifatto, Betti,
Bruschi, Barbiero, Braido, Basilio, Barzagli, Clemente, Cavini, Casali,
Crivellari, Consolini, Colombo, Ghieratto, Cassaro, Cosentino,
Casagrande, Cardinali, Denadai, Depauli, Dolcetta, Dimenio, Dall’Armi,
Deliberador, Durante, De Parolis, De Domenico, Frizzarini, Favarato,
Fasciani, Ferro, Fagnani, Farnocchia, Fierato, Fabbri, Fazzolari, Falbo,
Falze, Fiorini, Fazoli, Gallo, Guaitani, Guerra, Girardo, Giglioli, Gaiga,
Gorini, Graziani, Giammarini, Gianni, Ghigiarelli, Gentilini, Gaglia,
Gioia, Gesualdi, Ghetti, Larisi, Lappi, Lorenzetto, Loro, Merrigo,
Melloni, Mannucci, Medri, Montevecchio, Moretti, Mattavelli,
Macchioni, Marfon, Morandini, Mappelli, Meneghin, Milan, Mucciarone,
Neri, Negrini, Naldoni, Nicola, Perini, Passarelli, Poloniato, Pierangeli,
Papiani, Pellicani, Peterle, Pagin, Passoni, Parini, Rui, Ravanesi,
Reginato, Sangiorgi, Sgrilli, Samioli, Simonetto, Spillare, Spinelli,
Scaccabarossi, Tacconi, Troiani, Trevisan, Veronesi, Vincenzi, Vergani,
Visani, Vinci, Vita, Zaghetto, Zonno, Zotti, Zangiacomo, Zingoni.
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Sicuramente durante i 23 anni che dal 1891, quando si contava la presenza di pochissimi coloni, fino all’anno 1915, nell’area rurale vivevano
dai 1.500 ai 1.600 italiani e loro discendenti, in grande parte venuti
dall’Italia ed altri già nati in Brasile. La quantità era ben elevata se si considera che la popolazione globale residente nella città e nell’area comprendente il Municipio di Poços de Caldas, negli anni 1903–1904 raggiungeva a malapena i 4.000 abitanti. Le famiglie dei coloni, già composte di molti elementi, si ingrossavano ancora di più attraverso i matrimoni sempre realizzati fra cittadini italiani, contrariamente a quanto si verificava nella città, dove i matrimoni misti erano sempre più frequenti.
Nelle fazende i giovani soddisfacevano l’ingiustificata preoccupazione
dei vecchi che temevano di non riuscire a mantenere l’unità del gruppo se
essi si fossero allontanati dal Clan.
I giovani ricevevano raccomandazioni curiose, come quelle che il
nonno Paolo Zanette faceva alle sue nipoti femmine, quando vedeva che
erano arrivate all’età dell’amore e dei pretendenti. «Guardate bene – le
consigliava il nonno. – Quando volete scegliervi il moroso osservate
prima il suo dito pollice, deve essere ben grosso da spingere con forza la
carne del maiale nel “pipioto” (imbuto) per fare i salami». Oppure diceva:
«Se per caso entrate in casa di gente sconosciuta, guardatevi bene attorno,
se vedete una “stanga” con appesi i salami, i musetti, ed altri insaccati,
informatevi se per caso lì non abita qualche bel giovanotto. Se vi dicono
che sì, potete sposarlo a occhi chiusi perché è di una buona famiglia».
Mantenevano vivi i loro usi e costumi. Trovandosi completamente
isolati e non avendo contatto con l’esterno, non si rendevano conto di
quello che accadeva intorno a loro. Non c’erano scuole, non esistevano
condizioni facili di trasporto e neppure mezzi di informazione: insomma
dovettero creare un mondo tutto loro, differente ma più tranquillo e più
sicuro, in un ambiente dove non esistevano guerre e neanche la fame. I
contatti col padrone della fazenda erano mantenuti attraverso l’amministratore che fungeva da intermediario ed era responsabile del buon andamento dei lavori nella proprietà. Ai suoi ordini aveva dei funzionari col
compito di controllare se il lavoro a carico di ogni famiglia di coloni era
stato eseguito secondo le norme stabilite.
Il loro isolamento aveva molti punti in comune con quello che si trovavano a vivere nel Rio Grande del Sud, a mille chilometri di distanza, i
folti nuclei di veneti lì radicati anche se in altre condizioni, per essere tutti
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essi proprietari delle loro terre. In molte zone, anche loro quando sentivano qualcuno che non parlava il veneto si chiedevano chi poteva essere
quel “foresto”. Questo si verificava ancora, alcuni anni dopo l’ultimo conflitto mondiale del 1941– 45. Gli italiani residenti nel Municipio di Poços
de Caldas non arrivavano a tanto, sia per la poca distanza che li separava
dalla città, sia per le loro visite, che anche se sporadiche, li mantenevano
sempre in contatto con i coloni delle altre fazende.
Per la maggior parte degli abitanti dell’area rurale il recarsi nella città
era un avvenimento raro e sempre se era per un motivo indispensabile.
Poi la città cominciò a crescere con un ritmo accelerato; il progresso
offriva condizioni di vita non solo confortevoli ma decisamente gradevoli, grazie ai vantaggi che provenivano dalla presenza di tanti visitatatori
che sempre più numerosi la frequentavano, arrivando dalle grandi città
lontane, attratti dal gioco d’azzardo nei casinò e dai miracolosi risultati
che ottenevano con la cura delle acque. Per quel motivo Poços de Caldas
godeva di una intensa e movimentata vita sociale.
Una parte dei fazendeiros delle vicinanze, che vivevano nelle loro
proprietà, cominciarono a trasferirsi nel centro abitato per poter usufruire
di comodità fino a poco tempo prima impensabili, ed anche per poter far
studiare i figli nelle scuole che già funzionavano in città con un insegnamento migliore di quello che potevano ricevere precariamente nelle fazende attraverso insegnanti privati. Iniziava in quel momento la separazione
fisica fra i proprietari della terra ed i loro dipendenti con i quali avevano
convissuto per molti anni. La città offriva molte opportunità nuove e tanta
era la varietà di attività e progetti che sorgevano in continuazione, che
bastava solamente trovare chi le finanziasse. Per questo l’attenzione dei
fazendeiros che disponevano di capitali liquidi era giustificata, inoltre
l’aumento progressivo degli abitanti, che era ben visibile di anno in anno,
creava fra le tante situazioni nuove anche quella non trascurabile di non
lasciar prendere il sopravvento alle nuove correnti politiche che venivano
sempre più diffuse e proposte dai nuovi arrivati, normalmente liberi professionisti, giovani e con idee progressiste.
Fintanto che la famiglia Junqueira potè contare sul contingente di
elettori residenti nelle sue fazende, ottenne sempre eccellenti risultati
giacché i loro coloni votavano seguendo fedelmente le istruzioni ricevute,
senza porsi domande o dubbi se quello che facevano era giusto o no, visto
che a desiderarlo era il fazendeiro per il quale loro lavoravano.
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Garantivano così da vari anni il comando politico della famiglia
Junqueira.
Al contrario, la maggior parte degli italiani residenti nella città era di
tendenze progressiste e quindi appoggiava attivamente e con entusiasmo
gli avversari politici dei Junqueira. Erano essi i medici Francisco de Faria
Lobato e David Ottoni.
Però un certo movimento molto timido incominciava a verificarsi
anche fra i coloni, specialmente quelli arrivati dall’Italia fra la fine
Ottocento e gli inizi del Novecento. Una parte di essi proveniva dalla
Toscana e dalla Romagna, erano arrivati in Brasile con programmi e progetti ben definiti, aspettavano solamente il momento opportuno per iniziare una qualche attività in proprio sia nell’agricoltura o nella città.
Di quella fase sono esempi: Giuseppe Guerra, amministratore per un
periodo di tempo nella fazenda Barreiro, poi trasferito nella città per dedicarsi ad una attività commerciale. Anche Francesco de Liberatori, amministratore della fazenda Santa Alina, nell’anno 1905 lo si incontra a Poços
de Caldas nella veste di “industriale”, come lui stesso si definiva nel firmare certi documenti. La famiglia Gorini originaria di Predappio in provincia di Forlì, si preparava ad acquistare della terra da lavorare in proprio. Era composta da vari elementi tutti lavoratori e col tempo ottenne un
buon sucesso, diventando proprietaria di varie fazende di centinaia di ettari, nel Municipio di Vargem Grande do Sul nello Stato di San Paolo come
anche nello Stato del Paranà. La signora Maria, madre dei Gorini, era
legata da parentela con la famiglia Mussolini. Mentre la maestra Rosa
Maltoni Mussolini si trovava assente da casa, per esercitare la sua professione di insegnante, chi allattava il piccolo Benito suo figlio, era proprio
la signora Maria. Durante la fase aurea del Fascismo, quando anche Poços
de Caldas aveva la sua “Sede del Fascio”, non c’era riunione o adunata
nella quale, volente o nolente, la signora Maria potesse sottrarsi alla parte
di gloria che le spettava per aver tenuto fra le sue braccia il “Duce”.
I Zonno, i Villa, i Gaiga, i Baldini, i Cavini, i Naldoni e molte altre
famiglie scelsero di vivere nella città e dare inizio a piccole o medie attività sia nel commercio che nell’artigianato. Una parte dei coloni riuscì a
raggiungere anch’essa l’indipendenza attraverso l’acquisto di proprietà
terriere da coltivare in proprio.
I risultati ottenuti con le piccole proprietà non furono molto soddisfacenti perché esisteva l’ostacolo della politca agricola nazionale, che allo109
ra era tutta imperniata sulla monocultura del caffè e della canna da zucchero. Non esisteva spazio per i piccoli produttori per mancanza di una
struttura e orientamento adeguato delle piantagioni, d’accordo con la
necessità del consumo e la garanzia di prezzi competitivi. Tuttavia la terra
ha sempre compensato chi la lavorava perché produceva abbondanza di
prodotti alimentari e se non la ricchezza garantiva il benessere.
L’uscita di una buona parte dei coloni dalle fazende, si verificò dopo
l’anno 1915. Fu in quell’epoca che un gruppo di toscani, delle tre famiglie
Barzagli, Consolini, e Benelli comperarono da Francisco Xavier da Costa
Junqueira un pezzo della fazenda Lambarì che lui aveva ricevuto come
parte di eredità dal padre. Nel contratto sono scritti i nomi dei compratori che erano: Enrico e Alfredo Barzagli, Agostino, Cesare e Ferdinando
Consolini e Giuseppe, Agostino e Giovanni Benelli. Il prezzo, pagato “in
buona moneta corrente nel paese” fu di venti contos di Reis. Nel documento vengono citate tutte le proprietà che confinavano con l’appezzamento di terra comperato, ma non viene indicata la sua misura né in metri
quadrati e neppure in ettari o alqueres. Era quello un sistema corrente
usato in quell’epoca in molte vendite di terra, quando la posizione sociale del venditore e la parola data valevano tanto quanto un documento scritto. Ma quello che era valido allora, col passare degli anni e i cambiamenti di proprietario, quasi sempre faceva sorgere malintesi che finivano col
causare dei grattacapi.
La località dove si trovavano le tre nuove proprietà era conosciuta
come “Corrego d’Anta”. Lì piantarono caffè, coltivarono cereali, e allevarono animali. I Consolini fecero un grande vigneto collocando le piantine
fornite dal vivaio di Vincenzo Viti che aveva la sua vigna nella “Chacara”
situata nella Avenida João Pinheiro dove esiste tutt’oggi. Per molti anni i
Consolini produssero vino che conservavano dentro grandi botti, in una
spaziosa cantina che occupava tutta la parte bassa della casa e poi vendevano a Poços de Caldas. Le tre proprietà erano ben dirette e produttive e
riuscirono a imporre il nome definitivo al posto dove erano localizzate,
che prese il nome di “Quartiere degli italiani”.
Ben dopo il 1915 varie famiglie di discendenti dei primi coloni,
dovendo aprirsi nuovi spazi dove sistemarsi, scelsero di farlo costeggiando il fiume Pardo, nella fascia di terra che scendendo dall’altopiano di
Poços de Caldas lungo “la serra do Selado” conduceva al centro abitato di
Botelho. In quell’area sorsero le proprietà dei Parini, Neri, Piva, Zanette e
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molti altri. Tanti usi e costumi ed anche modi di esprimersi degli italiani
rimasero in eredità al Paese che li ospitava, e incorporati al punto da far
parte dei costumi ufficiali se non di tutto il Paese, di una vastissima area
dove ci fu la loro diretta influenza, specialmente negli Stati di Rio Grande
do Sul, di Santa Catarina del Paranà, di San Paolo e dello Spirito Santo, con
penetrazione in vari fronti degli Stati di Rio de Janeiro e del Minas Gerais.
L’introduzione di molte abitudini adottate dal Brasile, sono da attribuirsi a vari popoli europei. Esempio di questo è la divulgazione e il consumo del vino, del quale non solamente gli italiani ma anche i portoghesi, i tedeschi e gli spagnoli erano maestri tanto nel produrlo come anche
nel berlo. Per quanto riguarda gli spaghetti, i ravioli, i cappelletti ecc, non
ci sono dubbi sulle origini degli introduttori e neanche del loro successo,
tanto che oggi il mercato dei più svariati tipi di pasta alimentare è tanto
vasto e diffuso quanto quello italiano.
E la Pizza? Il sindaco di San Paolo, durante una riunione nella sede
del circolo italiano di quella città ha confermato una verità nel dichiarare:
«Se si desidera assaporare il miglior caffè lo si può fare andando in Italia,
ma se si desidera mangiare la migliore pizza, questo lo si deve fare qui in
Brasile».
Così si può dire di molte altre abitudini delle quali le origini sono difficili da individuare e oramai fanno parte della vita quotidiana dei brasiliani. Un alimento tradizionale che particolarmente i veneti apprezzavano
molto e mangiavano quotidianamente era la polenta, impasto di farina di
granoturco con acqua e sale, che loro mangiavano in sostituzione del pane
e che, nei momenti più difficili, aveva sostituito proprio tutto per farli
sopravvivere. Per questo la polenta rappresentava molto ma molto di più
di un semplice cibo: essa era qualcosa molto speciale per i veneti, un sentimento di riconoscenza e gratitudine ed anche di venerazione. Perfino il
suo modo di cuocerla si svolgeva come un rituale.
È veramente curioso osservare con quale rispetto un veneto parla
della polenta, usando normalmente aggettivi e definizioni tutte superlative; eppure la polenta, se analizzata freddamente alla luce dei fatti, è solamente un impasto complementare per l’alimentazione, scarso di proteine
e privo di vitamine. Ma è sempre un grande alimento subito dopo la sua
cottura, ma anche quando è già fredda e la si taglia a fette per metterla ad
arrostire sulla griglia. Lì, sulla piastra del focolare a legna, essa si trasforma in un alimento prezioso, specialmente quando ben dorata e calda viene
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servita con grosse fette di salame nostrano e meglio ancora se accompagnata da un buon bicchiere di vino.
X. La polenta fu introdotta nelle fazende dall’istante in cui la prima
famiglia di coloni veneti vi mise piede. Era molto conosciuta e usata come
alimento in varie regioni dell’Italia dove però veniva confezionata in modi
differenti, dalla densità consistente alla cremosa, o con l’aggiunta di altri
ingredienti. La più diffusa era quella che si faceva nel Veneto, che era la
regione dove se ne consumava più che in qualsiasi altra parte. Era un alimento che costava meno del pane. Non esisteva casolare nel Veneto dove
non ci fosse una catena che scendeva dall’interno del camino per agganciare sulla sua estremità il paiolo di rame, o ancor più di ghisa, giacché il
rame era caro e pochi potevano permettersi il lusso di averlo. Il tempo
impiegato per la cottura della farina, dal momento che l’acqua già salata
incominciava a bollire a quando veniva versata pronta sul tagliere, era di
un’ora. Dipendendo da quanto era numerosa la famiglia era proporzionato anche il paiolo. Richiedeva un sforzo non indifferente da parte delle
donne incaricate di fare la polenta, specialmente quando l’impasto cominciava a diventare consistente e doveva essere mescolato senza interruzione per non farlo attaccare sulla parete del paiolo. A tale scopo, usavano un
paletto cilindrico di legno, lungo 70–80 centimetri o ben di più se il paiolo era molto grande, con una delle estremità appiattita e lo adoperavano
con due mani per farlo roteare in senso orario. Era questa un’operazione
ben faticosa ed eseguita con il corpo collocato in una posizione scomoda,
perché il movimento provocato nel mescolare faceva muovere il paiolo.
Per evitare questo, chi stava mescolando faceva pressione con un ginocchio, premendolo su di un’asse di legno che, appoggiata fra la base del
caminetto ed il bordo del paiolo, ne bloccava il movimento ed anche proteggeva la gamba dall’eccesso di calore sprigionato dalle fiamme. La
sequenza delle operazioni eseguite dal momento che l’acqua si scaldava
era la seguente: appena l’acqua cominciava a bollire, prendevano una
manciata di farina e con il pugno semichiuso, la lasciavano scorrere fra le
dita facendola cadere lentamente a pioggia sulla superficie dell’acqua,
mentre con l’altra mano continuavano a rigirare il mestolo di legno per
aiutare l’impasto a raggiungere la densità voluta. L’operazione del versare la farina di granturco era molto importante perché da come essa entrava nel paiolo dipendeva la formazione di indesiderati grumi di farina che,
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per quanto tempo si fosse prolungata la cottura, non si sarebbero più sciolti. Lo scoppio delle bolle d’aria che si formavano nell’impasto bollente
era pericoloso perché poteva far schizzare verso l’alto piccole quantità di
polenta e provocare delle brutte scottature. Dopo averla rigirata, ogni
tanto la si copriva col coperchio per lasciarla riposare e completare la cottura. La fase più complicata si presentava quando alla fine dell’operazione, già trasformata in massa uniforme, si staccava dalla parete del paiolo;
allora bisognava versarla sopra il tagliere, che era un disco piano di legno
dal diametro proporzionato alla quantità di polenta contenuta nel paiolo.
Il tagliere aveva un prolungamento fatto a uso di impugnatura, sull’estremità del quale c’era un piccolo foro che lo attraversava dove era legato il
filo di cotone che serviva per tagliare le fette di polenta. Veniva versata sul
tagliere da due donne nel caso di famiglia grande, normalmente però era
una sola persona che svolgeva l’operazione che esigeva molta pratica,
perché bisognava farlo con un solo e preciso movimento e farla cadere
ben nel centro del tagliere per non farla uscire fuori dal bordo e lasciarla
rotonda, a forma di semisfera. Lasciata raffreddare qualche minuto per
renderla consistente, veniva infine tagliata con il filo di cotone teso con le
due mani, facendolo scorrere sulla superficie del tagliere, fra il legno e la
polenta, per poi con un movimento dal basso verso l’alto trasformarla in
una appetitosa fetta.
Questa lunga spiegazione è necessaria per far capire che essa non
avrebbe potuto diventare mai un alimento popolare in Brasile. Il tempo
richiesto per la sua preparazione e la pratica necessaria l’hanno relegata ad
un numero ristretto, anche se non indifferente, di apprezzatori. La sua diffusione è stata basata più dal piacere degli adepti di assaporarla, lasciando
il compito di prepararla a quelli che realmente la sanno fare bene.
Quando i fazendeiros con le famiglie vivevano ancora nella loro
casa–sede della loro proprietà, i rapporti con i coloni erano cordiali, anche
se i più anziani mantenevano un po’ le distanze per non indebolire le
gerarchie. I bambini invece avevano libero transito nelle case dei dipendenti dove molto spesso si fermavano a mangiare perché invitati e con il
tacito consenso dei genitori, i quali sapevano che i loro figli si trovavano
in un ambiente moralmente sano, assieme a gente perbene e mangiavano
cibi saporiti.
I fazendeiros apprezzavano tanto il cibo della colonia che per ottenerlo certe volte ricorrevano perfino a qualche stratagemma. Come nel caso
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del piccolo Caio, figlio di Josè Affonso conosciuto più come capitano
Zeca, e nipote del colonnello Agostinho. Da ragazzino vivace qual era,
spaventava le donne della colonia quando appariva davanti a loro con le
braccia alzate e le minacciava tenendo fra le mani due uova tolte da sotto
la gallina che le stava covando nel cesto: «O mi date una fetta di polenta
col salame o lascio cadere le uova per terra». Le donne sapevano che si
trattava di un ricatto scherzoso, per questo fingevano di aver paura; ma
sotto sotto erano contente della richesta del piccolo che dimostrava di
apprezzare le cose buone.
Vedendo e rivedendo i rapporti esistenti nelle fazende del Municipio
di Poços de Caldas, tra padroni e coloni, tema già trattato anche in precedenza, è stato constatato il fatto che mai sono apparsi casi di ingiustizie o
maltrattamenti, come invece secondo i resoconti dell’epoca succedevano
in altri posti. Indagini ed interviste con persone anziane non hanno lasciato spazio a dubbi, quando sono sorti reclami da parte di qualcuno. Non si
trattò mai di motivi gravi come l’offesa all’onore delle donne e neanche
maltrattamenti fisici o morali inferti ai coloni. Oppressione e dispotismo
qui non trovarono posto e questo può essere confermato tranquillamente
e coscientemente senza nessun timore di sembrare partigiani o superficiali. Anzi per essere onesti, un fatto differente successe in una delle fazende dove vivevano i nostri coloni; e vale la pena raccontarlo malgrado non
sia apparso su nessuno dei documenti consultati.
XI. Fra il dico e non dico di vari italiani anziani che, mentre raccontavano il caso tentavano di diminuire la sua importanza, appariva evidente la
coincidenza delle testimonianze su quello che era successo e che loro erano
venuti a sapere attraverso i genitori che allora vivevano nella fazenda.
Nel 1908 nella fazenda Santo Aleixo, un colono scontento della sua
situazione chiese al padrone che gli venissero saldati i conti perché voleva
lasciare il lavoro e trasferirsi con la famiglia. I motivi che lo portavano a
prendere quella decisione non sono conosciuti, così come non si sa se ci
fosse stato qualche attrito antecedente tra lui e il padrone o semplicemente
se aveva deciso di fare ritorno in Italia. Quello che è successo, secondo la
ricostruzione dei fatti, è il seguente. Probabilmente dopo varie trattative che
devono averli lasciati inaspriti, alla fine erano arrivati a concludere un
accordo, che secondo le testimonianze di varie persone, aveva posto fine a
quella sgradevole vicenda. Dopo aver ricevuto quello che gli era dovuto per
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il suo lavoro, il colono che già stava provvedendo al trasloco della famiglia
e dei suoi beni, un giorno, per aver bevuto più alcol di quanto doveva,
vedendo passare il figlio del fazendeiro, si è comportato in modo sconveniente, offendendolo ed anche mettendogli le mani addosso. La reazione del
fazendeiro è stata immediata: riuniti alcuni famigliari e con l’aiuto anche di
qualche dipendente, il colono è stato preso, fatto legare e poi duramente
bastonato. Dopo di ciò sembra che il caso abbia preso una svolta seria perché, secondo la versione di chi raccontava il fatto, perfino il Console d’Italia
fu messo al corrente dell’episodio, che è stato anche divulgato nei giornali
di lingua italiana che in quell’epoca circolavano a San Paolo.
Per prima cosa tutti gli italiani anziani che conoscevano il fatto erano
concordi nell’affermare che il colono agendo in quel modo aveva sbagliato, e per questo la colpa era passata tutta dalla sua parte, anche se per caso
prima fosse stato il contrario. L’unica obiezione che veniva posta dai testimoni era il fatto che non doveva subire il pestaggio senza la possibilità di
difendersi. Insomma potevano castigarlo senza la necessità di legarlo. In
possesso di una notizia così interessante, si è voluto accertare il luogo e
altri dettagli del fatto. Così è stata scelta la collezione del giornale “Il
Fanfulla” pubblicato durante l’anno 1908 ma che già circolava a San
Paolo fin da prima del 1900, dove si era quasi sicuri di trovare le informazioni desiderate. Purtroppo, controllando pagina per pagina i giornali dell’annata, non è apparsa nessuna notizia riferente al caso, forse perché passata inosservata a causa della fretta di sfogliarli, per il poco tempo messo
a disposizione dalla cattiva volontà della funzionaria dell’Istituto Italiano
di Cultura di San Paolo. Tuttavia, mentre andava aumentando il numero
di pagine esaminate, appariva sempre più chiara la convinzione che se per
caso si fosse trovato l’articolo, esso non avrebbe avuto grande valore
come elemento chiarificatore, per la dose di esagerazione con la quale
venivano trattati gli argomenti da parte dei giornalisti.
Uno degli articoli ben evidenziati a caratteri cubitali, è quello apparso
sul “Fanfulla” del martedi 14 gennaio del 1908 e che vale la pena riprodurre: “Delitto che cagionò la straziante morte dell’onesto e laborioso colono
italiano Giovanni Campi, ucciso a tradimento da una squadra di poliziotti
ubriachi e assetati di sangue, istigati da un volgarissimo ruffiano”.
Trascorsi alcuni giorni, ecco la continuazione del resoconto di quel
terribile dramma: “Il Bertelli in gattabuia! (era lui il volgarissimo ruffiano? n.d.r) “Il feroce assassinio a Espirito Santo do Pinhal. I colpevoli a
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zonzo per la città e gli innocenti in prigione. L’opinione pubblica vuole
giustizia”. Poi come sottotitolo un’affermazione a dir poco quasi ridicola:
“Una inchiesta imparziale!”
La delusione provata nel leggere quel tipo di “imparzialità” che
avrebbero potuto usare anche per raccontare quello che era successo con
il nostro colono di Poços de Caldas, ha fatto svanire l’interesse di continuare le ricerche.
XII. Dal momento che le basi per strutturare il nuovo centro che stava
nascendo erano state già poste, la famiglia Junqueira partecipò sempre
attivamente, attenta a tutte le iniziative, evitando in questo modo la possibilità di permettere il sorgere di condizioni avverse agli interessi del Clan.
Nelle elezioni locali o provinciali, vari elementi della famiglia finivano
sempre con l’occupare alte cariche e posizioni di comando. Politicamente
era la fazione più forte, tanto che riuscì a mantenere la sua supremazia
durante molti e molti anni.
Nulla era cambiato della situazione iniziale quando il Clan aveva
dovuto affrontare i nuovi estranei che arrivavano in un numero sempre
maggiore mano a mano che la città si sviluppava.
Il colonnello Agostinho manteneva sotto controllo le sue proprietà
rurali che oramai dirigeva a distanza, perché aveva maggior interesse ad
occuparsi di impugnare le redini e guidare i movimenti nella città. Per lui
era estremamente necessario mantenere una posizione di primo piano,
forse pensando che quello gli era dovuto per diritto acquisito, per motivi
logici e di precedenza. Il semplice fatto che la città sorgeva inserita dentro
la sua proprietà, lasciava capire che il suo sviluppo, volendolo o no, era
condizionato a una buona intesa con la sua famiglia.
Manteneva buone relazioni perché il suo interesse era di agire politicamente in pieno accordo con i mandatari dell’epoca, potendo in questo
modo garantirsi un ambiente favorevole per facilitare la crescita della
città, che fatalmente si sarebbe verificata per il continuo aumentare dell’area urbana, occupata dalle nuove costruzioni.
Per raggiungere una espansione pacifica, era necessario che quella
parte del patrimonio della famiglia, rappresentato dalla vastità di terreno
che possedeva e che avvolgeva completamente la città, potesse essere
messo in vendita perché con questo, oltre che collaborare per la crescita
di Poços de Caldas, avrebbe allontanato anche la possibile ipotesi di altre
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spiacevoli espropriazioni da parte delle autorità. Valeva dunque la pena di
seguire la città in tutti i suoi passi e movimenti, prendendo molte volte
l’iniziativa per condurla dentro ai piani e agli interessi del Clan.
Dal rifornimento della legna da ardere, che arrivava caricata nei carri
condotti dai buoi, al pietrisco usato per rendere transitabili le strade del
centro che erano di terra, alla carne consumata dai cittadini, al latte fornito, ecc.ecc. la città dipendeva dalla famiglia Junqueira. Anche quando un
prete italiano, Don Luigi Cappello, parroco già da due anni nella città, nell’anno 1903, rifiutandosi di celebrare una cerimonia religiosa in occasione della festa di “San Benedito” entrò in conflitto con il colonnello
Agostinho, quel gesto gli costò caro. Malgrado lui potesse aver pensato
che il suo atteggiamento sarebbe stato accettato per essere partito da una
autorità ecclesiastica e quindi indiscutibile, non era finita così. Il colonnello, devoto di “San Benedito” e benefattore benemerito della chiesa,
sorta praticamente a sue spese per offrirla ai suoi ex schiavi, dei quali il
Santo nero era patrono, non si sa in che maniera, se attraverso l’intervento del Vescovo o chissà in quale altra forma, fatto sta che Don Cappello fu
costretto a preparare in fretta le valigie e ad andarsene dalla città.
Le iniziative e le attività cittadine del colonnello e dei suoi parenti
lasciano presumere che a un certo momento le fazende per i coloni rappresentassero sempre la loro parte affettiva perché il sentimento che li
legava alla terra era molto forte: lì erano nati tutti loro e lì vivevano perché appartenevano a una stirpe legata profondamente all’agricoltura.
Tuttavia interessi maggiori e più complessi spinsero molti di loro fuori
dalle fazende per andare a iniziare una vita urbana.
Con la presenza degli italiani nelle fazende, che oramai si dedicavano al ciclo intero della piantagione e coltivazione del caffè, apparvero
nuove situazioni e sempre vantaggiose per i fazendeiros. Per prima cosa
l’organizzazione e la capacità lavorativa dei coloni erano motivo di tranquillità per i padroni, i quali fino a qualche anno prima, anche se non avevano grandi spese di gestione, oltre al prezzo di acquisto e mantenimento
degli schiavi, in compenso non riuscivano a contare su una produttività
soddisfacente. Con la scelta dei coloni che lavoravano molto e rendevano
molto, finiva anche il problema di dover controllare di continuo la manodopera, dal momento che attraverso il contratto di “colonato” erano gli
stessi coloni interessati a produrre di più per avere alla fine dell’anno un
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reddito migliore. Era sufficiente occupare un solo amministratore a dirigere la fazenda, i suoi contatti ed i resoconti presentati periodicamente ai
proprietari bastavano a poterla seguire e orientare pur vivendo in città.
Non per questo i fazendeiros lasciavano di essere presenti nelle loro
proprietà nei momenti più importanti, come durante la fase del raccolto
del caffè o per applicare la marchiatura a fuoco dei bovini, o nei casi che
si rendesse necessaria la loro presenza sul posto. Certamente il costo della
manodopera non pesava molto se si considerano i risultati finali raggiunti. Ciò veniva riconosciuto dalla famiglia Junqueira che è stata sempre
grata e comprensiva con i suoi coloni, concedendo più vantaggi di quanti
ne usufruivano la maggior parte dei loro connazionali nelle altre fazende.
È da credere che per il fatto di doversi dedicare agli interessi che sorgevano nella città nascente, i Junqueira non erano esigenti; anzi, concedevano
una relativa autonomia ai coloni che permetteva loro di godere una
migliore situazione economica.
Se gli abitanti della città potevano alimentarsi con una grande varietà di verdure fresche, di galline, uova, fagioli, riso, formaggio e anche di
cacciagione, lo dovevano ai coloni delle fazende i quali alla domenica
mattina arrivavano al Mercato Municipale per vendere i loro prodotti il
cui guadagno era solamente loro. Siccome gentilezza si paga con gentilezza, in cambio i coloni rappresentavano un sempre disponibile e compatto
contingente di fedelissimi elettori, pronti a qualsiasi appello del colonnello Agostinho al quale essi garantivano le sue vittorie politiche sicure e
tranquille.
Nel 1915 erano già trascorsi ventiquattro anni da quando le prime
famiglie di coloni avevano messo piede nelle fazende di caffè del
Municipio, alcuni dei patriarchi erano morti lasciando ai loro discendenti
il compito di continuare il lavoro intrapreso. Anche i vecchi fazendeiros si
stavano mettendo in disparte per lasciare il posto ai loro figli. La convivenza tra fazendeiros e coloni esisteva ormai da tanti anni che fra loro si
era creato un rapporto di mutuo rispetto, e nell’ambiente rurale gli unici
cambiamenti che potevano sorgere erano quelli delle vendite di alcune
proprietà fatte dagli eredi dopo la morte dei genitori. Specialmente quando non esisteva l’interesse di continuare la tradizione famigliare, era inevitabile non solo che alcuni dei tanti eredi vendessero la propria parte,
come pure cambiassero molte cose con lo smembramento delle proprietà.
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Molte volte la divisione di una fazenda riduceva quella che era una
proprietà ideale per piantagioni intensive, in una quantità di piccole o
medie aree di terra insufficienti ed economicamente non interessanti data
la loro ridotta capacità produttiva. Quasi sempre tentavano prima il modo
di far rimanere la proprietà dentro la propria famiglia, e se non esisteva un
reale interesse o la possibilità di farlo fra gli stessi eredi, studiavano l’alternativa di vendere le varie parti a uno solo, possibilmente a un parente
prossimo e non a un estraneo.
Anche la fazenda Santa Alina che apparteneva a Antonio Texeira
Diniz, lo stravagante Barone del Campo Mistico, dove lavoravano molte
famiglie di coloni italiani, era stata venduta ai fratelli Joaquim Bernardes
e Lindolpho Pio da Silva Dias il giorno 8 marzo 1911. Attraverso quell’acquisto, ampliavano il volume di terra in loro possesso, visto che da vari
anni erano proprietari della fazenda Recreio, e con le nuove 80.000 piante aumentavano il volume già grande che possedevano. Consolidavano
sempre più la posizione della famiglia in quel settore, dedicandosi anche
ad altre attività, come l’allevamento di bovini. Si fecero conoscere per la
loro competenza nell’allevamento di bestiame, selezionando e preservando nel Paese la razza Caracù della quale ancora ai nostri giorni possiedono una grande e rara mandria. Famiglia importante e seria occupò sempre
un posto di rilievo nella comunità di Poços de Caldas col matrimonio di
Joaquim Bernardes e Lindolpho Pio con le due sorelle Mariana e Mathilde
Carvalho dando inizio alla ramificazione dei Carvalho Dias. È loro il
primo contratto di mezzadria che appare chiaro e ben dettagliato e si trova
registrato nel Cartorio del Registro Civile, celebrato tra i fratelli Silva
Dias ed i vari lavoratori italiani: Luigi e Angelo Mappelli, Vincenzo,
Angelo, Andrea, Domenico, Luigi e Augusto Passoni, Silvio Bruschi,
Giovanni, Elia e Nicola Scaccabarozzi.
La sua redazione era un esempio di competenza, prevedeva una durata di sei anni ed era basata sulle 34 clausole che definivano i doveri ed i
diritti che dovevano essere rispettati dalle due parti. Di comune accordo,
due anni dopo l’entrata in vigore, quel contratto fu accresciuto di altre
poche clausole. Un cognome abbastanza insolito appare fra i firmatari del
sopracitato contratto, quello del testimone James ZigZag. (forse un compratore di caffè inglese)
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XIII. Coinvolgendo varie nazioni europee ed anche gli Stati Uniti
d’America, nell’anno 1915 scoppiava la prima grande guerra mondiale,
che in un cortissimo spazio di tempo portava l’esercito Austro-Ungarico a
invadere una grande parte del Veneto, diventando quell’area un immenso
campo di battaglia. Era quella la Regione da dove era partita una notevole parte dei coloni che adesso vivevano nelle fazende in Brasile. Erano originari delle varie località dove la distruzione lasciata dalla guerra è stata
quasi totale: la valle dell’Isonzo, il Montello, il monte Grappa ed altri piccoli centri abitati vicino al fiume Piave, furono i protagonisti dei più violenti combattimenti che si sono scatenati. Non risulta che in quel periodo
qualcuno dei coloni residenti nel Municipio di Poços de Caldas si sia sentito con l’obbligo morale di dover andare a difendere la Patria in guerra,
mentre al contrario questo è occorso con gli italiani residenti nella città,
che ne ha visto alcuni partire per servire l’esercito italiano.
Già in quel tempo poche famiglie si mantenevano in contatto epistolare con i loro parenti in Italia; una grande parte degli emigranti aveva
tagliato i lacci che li legavano alla Madre Patria, erano partiti numerosi
nuclei famigliari completi e l’unico legame che avevano mantenuto con i
parenti rimasti era stato lo scambio di rare lettere durante alcuni anni per
poi cessare, specialmente dopo la scomparsa di quelli che con loro avevano convissuto. La guerra fece il resto, disperdendo i parenti rimasti perché
durante molto tempo furono obbligati dagli eventi bellici a vivere lontani
dalle loro case. Quando dopo la vittoria l’Italia riprese la sua vita normale, il distacco era già un fatto reale e definitivo per molti di loro.
Intanto il tempo passava, i figli crescevano e i coloni in Brasile si
erano adattati sempre di più alla vita che conducevano nelle fazende dove
si erano sistemati, e adesso anche convinti che quella sarebbe stata la loro
vita futura e il loro cammino sempre impostato sul lavoro. Solo qualche
volta la nostalgia li assaliva al ricordo del paesetto dove avevano trascorso la loro infanzia e dove avevano lasciato i loro ricordi. Allora, interpellati dai figli già brasiliani, si lasciavano andare ai racconti di cose e
momenti vissuti tanti anni prima, e le loro parole venivano seguite attentamente da una folta platea, che a bocca aperta stava ad ascoltare cose vissute non solo in epoche passate ma anche in posti inimmaginabili che a
loro sembravano sogni, come il sapere che in Italia nevicava e uno dei giochi più comuni in inverno era la battaglia che si svolgeva tra bambini,
usando le palle di neve impastate con le mani e poi lanciate come dei
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poiettili. Rimanevano stupiti anche quando ascoltavano che durante l’inverno in Italia attraversavano a piedi fiumiciattoli e stagni, perché la crosta di ghiaccio era tanto spessa che sopportava il peso delle persone, e
molti altri casi e fatti, rimasti nella mente di chi li aveva vissuti. Però
anche i ricordi andarono sbiadendo col tempo, per lasciare al loro posto
solo la nostalgia. Poi quando i figli già adulti si sposavano e formavano le
loro nuove famiglie, allora i vecchi comprendevano che le loro radici oramai si erano conficcate sempre più profonde nella nuova Terra. Sapevano
che difficilmente o mai più avrebbero fatto ritorno in Italia a rivedere
magari per l’ultima volta il posto dove erano nati.
Il motivo che li aveva spinti a prendere l’importante decisione di partire per le Americhe alla ricerca di una vita più degna, veniva confermata
adesso, con la certezza che la scelta era stata opportuna perché finalmente avevano incontrato la pace e la sicurezza, per loro e per i famigliari.
Erano veramente soddisfatti con la vita che potevano condurre nelle
fazende del municipio di Poços de Caldas. A volte avrebbero voluto fermare il tempo, affinché tutto potesse continuare sempre così. Queste affermazioni che a priori potrebbero sembrare dettate da osservazioni superficiali, sono invece frutto di una ricerca coscienziosa e imparziale condotta
sia attraverso le testimonianze trasmesse dai figli dei pionieri come pure
da indagini svolte parallelamente attraverso la lettura di documenti riguardanti le fazende.
L’unico appunto che con una certa frequenza si è sentito citare dai
figli era quello che mai i genitori diedero ascolto alle loro richieste e nemmeno condivisero le loro idee. Sia i figli venuti dall’Italia come quelli nati
in Brasile oramai ambientati, dopo aver superata la fase iniziale, avevano
le loro opinioni, i loro sogni ed anche spirito di iniziativa e per questo tentavano di far smuovere gli anziani dalla condizione di dipendenti, incitandoli a incominciare una attività in proprio, comperando un pezzo di terra
che fosse solamente della famiglia. Su questo punto i vecchi coloni erano
irremovibili, probabilmente perché non riuscivano a dimenticare la loro
vita tribolata di non molti anni prima nelle proprietà agricole in Italia, che
per colmo di sventura andava parallela alla preoccupazione causata dai
continui richiami alle armi per servire, prima eserciti di passaggio e poi,
per ultimo, quello che come forma di ringraziamento li ha fatti emigrare.
Ancora giovani essi sognavano di poter lavorare e vivere in pace e qui
in Brasile la pace finalmente l’avevano trovata ed anche in una dose ben
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superiore alle loro aspettative. Dagli ultimi anni del 1800 fino alla loro
morte vissero nel nuovo Paese come patriarchi, senza insurrezioni, lotte o
guerre, circondati dai figli che loro frenavano, perché trovavano che
sognavano troppo alto, mentre invece era necessario non arrischiare di
perdere tutto quello che avevano racimolato con tanto sacrificio, giacché
stavano così bene lì dov’erano. L’unico rammarico della prima generazione e dei figli nati in Brasile era quello di essere stata privata dell’istruzione, però non davano la colpa di questo ai genitori, perché sapevano che in
quell’epoca le condizioni per poter accedere agli studi erano pressoché
impossibili.
Ed anche per quelli che erano rimasti in Italia, incominciava gradatamente a migliorare la penosa situazione nella quale si erano trovati negli
ultimi anni. Finalmente stavano uscendo dalle difficoltà che ad un certo
momento sembrava non dovessero finire mai, ed invece si stava trasformando in un fatto reale, grazie anche allo spazio lasciato loro dalle centinaia di migliaia di connazionali che avevano scelto il cammino più arduo
e coraggioso, quello dell’emigrazione. Furono molto importanti in quell’epoca le rimesse di soldi che gli emigranti inviavano ai parenti rimasti
in Italia per aiutarli a vivere un po’ meglio. Felicemente il sacrificio al
quale si erano sottoposti molti italiani determinati a superare quel brutto
momento, stava per essere ricompensato, nel sapere che anche quelli che
erano rimasti in Italia finalmente stavano vivendo una vita più degna.
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CAPITOLO 5
GLI ITALIANI DELLA CITTÀ
I. Nella città il concetto del vivere era totalmente differente da quello che vigeva nelle fazende dove tutta la comunità si dedicava ad un unico
lavoro svolto da vari gruppi famigliari ed in funzione di una remunerazione finale che era compensativa o meno, dipendendo dalla quantità di braccia disponibili al lavoro. La competizione fra gli elementi che lavoravano
nelle piantagioni era inesistente, anzi vigeva la più completa e disinteressata collaborazione da parte di tutti, che erano sempre pronti ad aiutarsi
quando ce ne fosse stato bisogno. Questo succedeva dopo le funzioni religiose o la recita del rosario, quando al momento di congedare i fedeli, il
colono officiante metteva i presenti al corrente del caso che esigeva il loro
aiuto, normalmente qualche malattia che impediva a un capofamiglia di
poter svolgere il suo lavoro. Quando i coloni uscivano dalla cappella
ognuno di essi già sapeva cosa avrebbe dovuto fare il giorno seguente.
Nella fazenda l’aspetto collettivo era presente in tutte le attività svolte sia nel lavoro come anche nella ricreazione; il gioco del “tresette”, della
“morra” o le interminabili partite a bocce, li mantenevano sempre insieme. Quando ancora oggi si citano certi cognomi come: Cancian, Piva,
Marcon, essi rappresentano indiscutibilmente famiglie legate ai lavori
della terra, giacché tutti i componenti erano occupati in quella attività.
Al contrario, in città l’aspetto collettivo cedeva il posto all’operato di
ogni singolo elemento, il quale dipendendo dalla sua personalità e condotta
passava a occupare il suo posto nella società indipendentemente dal fatto di
appartenere a una famiglia numerosa, conosciuta o no. Una buona parte
degli italiani che si sono stabiliti in quegli anni nella città di Poços de
Caldas, al loro arrivo non avevano ancora costituito famiglia o, se per caso
erano sposati, avevano preferito arrischiare l’emigrazione da soli per poter
creare delle basi solide prima di farsi raggiungere dal resto della famiglia.
Partiti da soli e con il viaggio pagato di tasca propria, potevano godere una maggiore tranquillità per garantirsi un successo più sicuro, e soprattutto evitare di doversi assoggettare a imposizioni che avrebbero dovuto
tollerare se fossero arrivati con contratto di lavoro e viaggio pagato.
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Se non possedevano la cifra necessaria, ricorrevano a prestiti per
pagarsi il viaggio, ma volevano partire sapendo che non stavano coinvolgendo tutta la famiglia in una situazione che avrebbe potuto anche trasformarsi in una infelice avventura. Così arrivarono a Poços i Mencarini, i
Danza, i Lovato, i Sarti, i Tramonte e tantissimi altri, che dopo aver messo
piede in Brasile iniziarono le loro attività indipendenti, percorrendo gradino per gradino il cammino che li avrebbe portati a realizzare la loro vita
socialmente ed anche finanziariamente.
Nel 1895 la città di Poços de Caldas passava giorni di euforia vivendo una rapida crescita, molte delle difficoltà e contrattempi che si erano
verificati inizialmente, specialmente quando avevano incominciato a
canalizzare le acque delle sorgenti per portarle fino alle terme, già erano
stati risolti e superati da tempo. Da qualche anno era stato costruito anche
“l’Hotel da Empresa” sorto per volere della compagnia concessionaria
dell’uso delle acque medicamentose, che per clausola di contratto avrebbe dovuto garantire l’uso di una parte delle installazioni dei bagni solfurei non solamente agli ospiti dell’hotel ma anche agli abitanti della città,
che dovessero usufruirne per ordine medico. Per questi ultimi era in vigore un prezzo inferiore o anche interamente gratuito per i più bisognosi.
Anche i reclami di quelli che si erano sentiti offesi per l’esclusione dalla
concessione, che era stata data a un solo gruppo il quale avrebbe potuto
abusare facilmente della sua posizione privilegiata, andavano diminuendo
con il passare del tempo.
Il colonnello Agostinho, che era sempre il primo a ricevere l’invito a
partecipare a qualsiasi attività imprenditoriale che sorgeva nella città, evidentemente era uno dei principali soci dell’hotel. Una grande quantità di
ricchi fazendeiros, di nobili dell’Impero, di capitalisti e di ammalati che
cercavano guarigione nelle miracolose acque, movimentavano la vita
sociale della città specialmente quella notturna perché la loro presenza era
molto importante nei numerosi Casinò degli alberghi di categoria superiore e in vari altri locali destinati al gioco d’azzardo.
Vari nobili dell’Impero avevano comperato o fatto costruire le loro
case di villeggiatura in città, fra essi il Barone di Itacuruça, quello di
Itatiaia, di Ibitinga, il Conte do Pinhal, il Conte Prates, il Visconte do
Bom Retiro ed altri che trascorrevano lunghi periodi di vacanze con le
loro famiglie. Anche i nuovi Colonnelli, che sempre più occupavano
posizioni di comando nella vita politica della Repubblica, frequentavano
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la città e possedevano bellissime residenze come quella di Martinico
Prado costruita nel 1889.
Da vari anni esistevano tutte le istituzioni ufficiali che servivano per
una organizzata crescita della collettività. Nascevano nuove associazioni nelle quali si raggruppavano persone interessate a svolgere attività
collettive.
Il giorno 5 dicembre del 1895 sorgeva la prima loggia massonica a
Poços de Caldas col nome di “Stella Caldense”. Tra i firmatari del documento di fondazione, quattro cognomi erano di cittadini italiani, due di
loro residenti in città e gli altri due probabilmente venuti per assistere alla
cerimonia di inaugurazione da Saõ Joaõ da Boa Vista, che era il centro
abitato più prossimo con loggia massonica funzionante.
Dal 1895 al 1915 altri venti italiani furono ammessi nella massoneria
locale registrando con la loro adesione la continuità di una partecipazione
prestata anteriormente nella patria di origine, in quella stessa organizzazione che aveva avuto un grande sviluppo in Italia e la sua fase più attiva
nei movimenti insurrezionali sfociati alla fine con il raggiungimento della
unificazione nazionale.
Gli italiani di Poços in quel periodo svolgevano la loro attività nelle
diverse aree della vita cittadina: barbieri, sarti, calzolai, muratori, carpentieri, falegnami, carbonai. Carrettieri per trasporto di merce, panettieri e
molti commercianti formavano il grande contingente di piccoli e medi
proprietari lavorando in proprio secondo le loro capacità personali e le
disponibilità finanziarie, che consentivano di ampliare la propria indipendenza e la voglia di emergere.
C’era anche un grande numero di italiani dei quali non ci sono state
trasmesse informazioni sufficienti da poter aggiungere alle poche verificate nei documenti ufficiali, dove essi apparivano e scomparivano con la
stessa rapidità, dopo aver lasciato il registro della nascita di un figlio, di
un matrimonio o di un decesso. Appartenevano a una grande schiera di
persone che svolgevano attività legate alle esigenze di una città che viveva per ricevere e ospitare un grande numero di persone. Per il fatto di essere un centro termale e turistico dove proliferavano le case da gioco, gli
alberghi ed i ristoranti, era sempre grande la richiesta di personale specializzato in quei rami, come era il caso dei cuochi, pasticcieri, camerieri,
“croupiers”, musicisti di orchestrine per intrattenere gli ospiti e anche per
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i frequenti balli che si svolgevano nei saloni degli alberghi, senza contare
i funzionari con incombenze specifiche quanto diverse.
Quel gruppo di persone, al quale appartenevano anche molti italiani,
dovuto al tipo di lavoro che svolgeva, era fluttuante, viveva in continuo
movimento, allontanandosi nel periodo in cui la città rimaneva deserta al
termine della movimentata stagione balneare e turistica e iniziava quello
triste e monotono delle piogge. Probabilmente molti di loro arrivavano
con l’intenzione di radicarsi sul posto, ma poi rimanevano delusi con il
vuoto, la pioggia e il rigido freddo dell’inverno e per questo partivano
verso nuovi e più accoglienti lidi.
Si trattava di persone con residenza provvisoria, venute per un lavoro stagionale e perciò contrattate per il periodo della stagione turistica-termale. Questo è il motivo per il quale incontrare i loro nomi registrati su
qualche documento ufficiale è solo una traccia del loro passaggio, al contrario dei cittadini residenti che formavano un gruppo stabile e definitivo
e che avrebbero lasciato numerosa discendenza.
L’importanza che rappresentava il gioco d’azzardo, praticato su larga
scala sui tavoli da gioco dei Casinò era considerevole e rappresentava una
delle maggiori attrazioni che, oltre ad occupare un folto numero di persone impiegate per il loro funzionamento, facevano circolare molti soldi e
divulgare sempre di più la fama di città ricca e accogliente.
La vita sociale, i balli, le varie orchestre che eseguivano le ultime
novità musicali, introducendo i nuovi ritmi, la presenza dei Baroni del
caffè e dei vecchi fazendeiros, tutto ciò creava alla città l’immagine che
essa possedesse la stessa seduzione che godevano le famose località termali localizzate in Europa, con le stesse caratteristiche.
Molte persone arrivavano da altri posti per dare inizio a nuove attività commerciali orientate a servire una clientela molto ricca che frequentava la città. Aprirono gioiellerie, case di moda, bar e altri locali che però
ebbero un successo limitato perché il movimento era artificioso e la circolazione di ingenti somme di denaro si limitava a una ridistribuzione dentro al ristretto numero di persone coinvolte nel gioco. Era più frequente
che sui tappeti verdi rimanessero i gioielli di famiglia a pagare i debiti di
giocatori perdenti che vederli comperare nelle gioiellerie locali.
Antonio La Motta arrivò a Poços de Caldas nell’anno 1895 provenendo da Napoli, pieno di entusiasmo e progetti, attratto dalle informazioni
che la città aveva una grande somiglianza con il centro termale di Vichy,
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la famosa località situata in Francia. Lui che era gioielliere contava di
aprire un laboratorio per svolgere la sua attività, cosa che invece non riuscì a concretizzare. Probabilmente deve aver notato che nel mercato locale il suo ramo era saturo, almeno secondo le informazioni ottenute a San
Paolo dai suoi discendenti. Si sa che Antonio La Motta non riuscì neanche ad aprire i bauli che contenevano i suoi strumenti di lavoro, in attesa
che la moglie incinta avesse il bambino, per subito dopo trasferirsi a San
Paolo. In quella città, inizialmente lui, in seguito il figlio e finalmente i
nipoti, si distinsero sempre come abili e competenti gioiellieri.
Alcuni italiani si dedicarono professionalmente alle attività legate al
gioco e fra i più conosciuti sono i fratelli Capitanini. Nel 1895 si contavano nella città 48 cognomi di italiani che si dedicavano all’industria e al
commercio. Fra essi compaiono quasi tutti quelli dei cittadini che due anni
prima avevano firmato lo statuto della Società di Mutuo Soccorso Stella
d’Italia.
Enrico Goffi, il primo barbiere italiano a svolgere la sua professione
nella città, e Pietro Dal Poggetto che con la sua panetteria stava introducendo il pane nelle abitudini dell’alimentazione locale, furono i primi italiani a occupare cariche pubbliche nella funzione di vereadores (consiglieri municipali), privilegio che i due godevano per far parte dei contribuenti e quindi anche degli elettori. Nello stesso periodo furono eseguiti nella
città molti lavori importanti per poter permettere la sua espansione.
Il piano urbanistico della città era stato tracciato da due competenti
progettisti: il tedesco Maiwald e l’italiano Giovanni Battista Pansini e
conteneva efficaci sistemi di controllo per far rispettare le norme di una
urbanizzazione ben programmata. Furono eliminate le maggiori cause dei
trambusti ciclici che si verificavano nella stagione delle piogge e rettificate le curve sinuose dei fiumiciattoli che attraversano la città, per far scorrere velocemente l’acqua nei nuovi letti, portandola a riversarsi fuori dall’area urbana, in direzione della cascata “das Antas”. Il lavoro più difficile e lungo fu quello del trasporto dell’enorme quantità di terra da collocare nelle depressioni per riempirle e alzare il loro livello. Fu in quella attività che lavorarono molti italiani, trasportando con i loro carri trainati da
cavalli la terra, il pietrisco ed altri materiali necessari per l’esecuzione di
quella importante opera. Furono interrati anche dei piccoli corsi d’acqua
incanalandoli verso quelli di maggior portata e costruiti vari ponti.
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Molti progetti erano opera di G. B. Pansini che continuava ad essere
il più importante architetto e costruttore. Varie sue opere edificate rimangono tutt’oggi a testimoniare la sua capacità, altre purtroppo sono rimaste
sconosciute per mancanza di registrazioni o per essere state demolite.
Qualche mese dopo aver affittato la fabbrica di laterizi, il giorno 5 di
Settembre del 1884, Francesco Vigna e sua moglie Carmela Leonetti firmarono un atto di procura nel Cartorio a favore di Giovanni Callio perché
li rappresentasse nella vendita della proprietà che possedevano a
Spezzano Albanese, per la somma di duemila lire italiane. L’acquirente
era la signora Rosina Pirano. La casa era localizzata nella via della Croce,
sovrapposta a quella di Mario Stoppa e ripartita con quella degli eredi di
Andrea Stoppa e Martino Carbone. Era composta di due sale: una camera, una cucina con scala e soffitti in legno. Evidentemente Francesco
Vigna aveva bisogno di disporre di capitale liquido per investire nella sua
nuova attività; certamente preferiva quella soluzione invece di dover chiedere un prestito ed evitare eventuali problemi che potessero sorgere al
momento della restituzione.
Alcuni cittadini prestavano soldi attraverso debiti ipotecari, uno dei
più attivi era il colonnello Antonio Texeira Diniz, proprietario di uno dei
primi alberghi costruiti a Poços de Caldas e chiamato “Hotel do Nhò
Nhò”, che era poi il soprannome che il colonnello si portava appresso.
Possedeva fazende ma si dedicava anche ad altre attività, fra le quali la
manutenzione e lo sfruttamento di una casa dove si svolgeva il gioco d’azzardo, cosa che non doveva rappresentare nessun ostacolo visto che lui
copriva anche la carica di Commissario di Polizia. Doveva fregiarsi in
seguito della nomina di Barone do Campo Mistico, titolo che gli fu conferito dall’Imperatore Don Pedro II dopo la sua visita nell’anno 1886,
quando con la comitiva Imperiale era venuto ad inaugurare la ramificazione ferroviaria di Caldas, che finalmente congiungeva la provincia del
Minas Gerais con quella di San Paolo.
Se sono vere, le cause che motivarono la concessione di tanto onorata benevolenza, e che il Dottor Mario Mourão descrive sul suo libro
“Poços de Caldas, Syntese historica e cronologica”, furono alquanto banali e in certo modo incomprensibili per far meritare un tale titolo nobiliare.
Furono dovute infatti solamente al fare rozzo e spontaneo nel racconto
delle bizzarre storie ed avventure di caccia che aveva destato la simpatia
dell’illustre ospite e l’attenzione in allegria del suo numeroso seguito.
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Aveva anche aiutato assieme ad altri valorosi cittadini a far uscire dal
fango dove erano sprofondate le ruote della carrozza dove si trovava
l’Imperatore, durante il percorso che lo portava dalla stazione ferroviaria
all’albergo. Se non proprio l’ultimo, il suo fu certamente uno degli ultimi
titoli nobiliari concessi in Brasile prima dell’avvento della Repubblica.
In realtà il colonnello Antonio Teixeira Diniz era innanzi tutto un
fedele e indiscusso seguace e ammiratore del colonnelo Agostinho, ed
anche in politica una delle sue più solide colonne di sostegno. Era il “leader” attivo dello stesso Partito Monarchico al quale i due appartenevano,
era anche ricco ed intelligente, perché fin dal primo momento che aveva
messo piede nella città aveva capito che la sua forza, il successo e la fortuna sarebbero stati sicuramente garantiti se conservati nell’ombra e nelle
grazie del colonnello Agostinho, che a sua volta aveva tutto l’interesse di
proteggerlo, tenendolo sotto la sua tutela dentro al “Clan” quale ricompensa per l’appoggio che riceveva. È preferibile credere che siano stati
questi suoi ultimi requisiti, il contributo per il progresso della città e la sua
fedeltà alla Monarchia, a renderlo meritevole del titolo di Barone.
Il movimento di compravendita e delle ipoteche e procure è stato ben
significativo durante gli anni che vanno dal 1884 al 1895, presentando un
quadro ragionevolmente chiaro sulla situazione e sul comportamento
degli italiani che vivevano nella città. Giuseppe Siciliano che possedeva
due case nella rua Marques de Herval, le ipotecava per un conto de Reis
al colonnello Diniz. Come testimone della transazione troviamo il nome
di Josè Pinto de Andrade Junior che apparirà frequentemente sui documenti che si riferivano a cittadini italiani.
Michele Paladini comperava una casa mentre Maria Paladini,
G.B.Pansini e Pietro Dal Poggetto, ognuno per suo conto, nominavano un
procuratore per rappresentarli in difesa dei loro interessi per le irregolarità
pendenti con le istituzioni pubbliche di Ouro Preto, che era ancora la capitale del Minas Gerais. Oltre a questo, Pansini nomina un avvocato per dare inizio ad un’azione legale contro la Tesoreria Provinciale, sempre a Ouro Preto
per ottenere l’indennizzo di 200$000 reis relativi al lavoro prestato nell’allineamento di un terreno; firmavano come testimoni Giuseppe Prezia calabrese di Renda, che possedeva una segheria nella vicina località denominata
“Estação da Cascata”, dove negli ultimi tempi vivevano vari italiani attratti
dalla sicurezza dello sviluppo del posto che si trovava in una posizione strategicamente privilegiata.
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Nicola Longo e sua moglie Luisa Chiapparini ipotecavano una casa
mentre Saverio Pepe & Compagnia, rappresentata dal socio Raffaele
Danza, faceva una procura per l’estinzione della stessa società. Raffaele
Danza originario di Tramutola nella Regione della Basilicata si dedicava
al commercio, possedeva un deposito per la distribuizione di merce che
spediva ai clienti per mezzo di piccole carovane formate da mule le quali,
percorrendo i lunghi e tortuosi cammini del Sud di Minas, raggiungevano
i posti di destinazione. Si sposava l’anno 1896 con la giovane Saffo
Ballerini figlia di un compatriota arrivato contemporaneamente nella città,
il toscano Luigi Ballerini, di Marradi in provincia di Pescia, che lavorava
nel ramo dell’edilizia. Raffaele e Saffo davano inizio ad una delle famiglie tradizionali e stimate della città.
Nel 1891 Giuseppe Solferini, commerciante, fa una procura per ricevere dalla “Diretoria da Fazenda” (Segreteria delle Finanze) sempre a
Ouro Preto, il pagamento dell’affitto che non aveva ricevuto di una sua
proprietà che era stata usata come caserma dai soldati inviati a Poços de
Caldas nel periodo compreso fra il 21 maggio ed il 31 dicembre del 1889.
Il 14 luglio 1890 Sebastiano Pizzol compera una casa situata nella rua
“vae e volta”, (vai e ritorna) e per essa sborsa la somma di 200$000 Reis.
Quell’acquisto è stato un avvenimento inedito che si sarabbe ripetuto solamente vari anni dopo, visto che Sebastiano era uno dei coloni veneti che
risiedevano nella fazenda Barreiro.
Il 20 marzo del 1891 il Barone do Campo Mistico (aveva ricevuto il
titolo nel 1888) presta a Giuseppe Carlo Garibaldi la somma di 4.000$000
reis (quattro contos de reis) somma ingente allora. Si suppone che la
moglie di Garibaldi, Antonia Maria Diniz, fosse parente del Barone.
Garibaldi capomastro e costruttore aveva ricevuto l’incarico di eseguire
vari lavori pubblici, fra i quali quello di ampliare l’edifico adibito a
Mercato Municipale. Nel 1892 firmava un contratto di appalto per la
costruzione di una casa per 4.000$000 reis (quattro contos di reis).
Il 20 aprile 1892 il “Conte do Pinhal”, Antonio Carlos Arruda
Botelho, compera lo Chalet da Dona Esmeraldina de Lima.
Luigi Emanuele Zuanella lo stesso giorno autorizza una procura. Il 16
novembre 1892, otto anni dopo aver affittata ed in seguito comperata la
fabbrica di laterizi nel “Largo da Columbia”, Francesco Vigna la vende al
signor Josè Augusto de Sa per la somma di 5.000$000 Reis. La proprietà
confinava da un lato con un terreno del dottor Ignacio de Barros Cobra e
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quello di un cittadino sopranominato “Chico Laranjeira”, dall’altra parte
con il “Corrego Ribeirão” (fiumiciattolo); il fondo confinava con terreni
che appartenevano al colonnelo Agostinho e finalmente con la “Vala do
canal do desvio” (scavo del canale artificiale). Ancora un atto di procura
della signora Carmela Leonetti che autorizza il marito a vendere la proprietà. Da quel momento Francesco Vigna scompare da Poços de Caldas
dopo un lungo periodo di attività, certamente aspirava a maggiori successi trasferendosi a San Paolo dove le possibilità erano infinitamente più
ampie, grazie alla fase di grande progresso che stava attraversando quella
città. La supposizione viene confermata dal fatto che la tomba di famiglia
dove lui e sua moglie sono sepolti si trova nel Cimitero della
“Consolaçào” il più antico e ricco in opere d’arte di quella città.
Nella piazza Senador Godoy, di lato alla rua Junqueira, e facendo
fondo con il “Morro da Capelinha” (collina della Cappelletta), Giuseppe
Solferini affitta una casa commerciale per il periodo di dieci anni e paga
per questo la somma annuale di 1.000$000 Reis
Nel 1893 Giovanni Battista Pansini si associa a Joaquim Affonso
Junqueira e a João Affonso Junqueira per il funzionamento di una segheria mossa a vapore per fornire legname per l’edilizia ed anche per la fabbricazione di mobili. La segheria era localizzata nella fazenda denominata Moreira di proprietà di Josè Affonso; la durata della società fu stipulata per il periodo di cinque anni, possedendo G.B. Pansini il 25% delle
azioni e gli altri due soci il restante 75%.
Pietro Dal Poggetto firma una autorizzazione in nome di un avvocato perché gli risolva in forma amichevole lo scioglimento della società
della panetteria che divideva col francese J.Riviere. I fratelli Mencarini,
Bartolomeo e Francesco, comprano la parte di società della fabbrica di
pasta alimentare che apparteneva a Regolo Puccetti. Appaiono con sempre maggior frequenza compere, vendite e procure dove si trovano cognomi di italiani che firmano come testimoni. Con gli interessi annui del 24%
Carlo Darioli e Carlo Vescio ricevono 3.000$000 reis da Horacio Pio de
Souza Dias, prestito che dovrà essere restituito dopo due anni. Pietro
Canale e Teodoro Rosi prendono in appalto la costruzione di una casa,
Carlo Vescio e Carlo Darioli fanno un’altra ipoteca per 4.000$500 reis,
questa volta con il dottor Francisco de Faria Lobato e Vicente Josè
Ferreira, e gli interessi annui da pagare vengono fissati al 12%. Il tasso
ridotto della metà, rispetto all’ipoteca anteriore, probabilmente trova il
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suo motivo nella forma di prestito più amichevole che speculativo fatto
dal dottor Faria Lobato, molto popolare e stimato dagli italiani che vivevano nella città e che avevano una tendenza politica molto vicina alla sua,
tanto che lo appoggiavano in tutte le elezioni a cui partecipava e dove era
uno dei candidati più battaglieri.
Altri due fra i più ripetuti cognomi di cittadini dediti ai prestiti ipotecari, sono quelli di Sidney Monteiro dos Santos e Machado de Moraes.
Occasionalmente appaiono le firme di testimoni quali: Primo Ferro
(calzolaio), Arturo Bianchi, Attilio Capitanini, Camillo Zaghetto, Nicolò
Stella, Aliprando Rugani, Giacomo Curia e molti altri. Incominciano a
sorgere i primi attriti fra compatrioti: Alessandro Pepe autorizza con una
procura la sua difesa verso Achille Giacometti ed anche i fratelli
Mencarini delegano poteri per accusare Giacobbe dal Poggetto che aveva
promosso un’azione giudiziaria contro di loro.
Lo scrivano del Cartorio non smetteva di registrare tutte le operazioni
fatte dagli intraprendenti italiani che continuavano ad accumulare proprietà, concludere affari, formare nuove società commerciali ma specialmente
la maggior parte di essi firmare cambiali ed ipoteche. Però la stragrande
parte dei loro connazionali viveva una vita meno agitata, basata su attività
semplici dove il successo sarebbe arrivato più lentamente perché basato sul
lavoro, sulla perseveranza e lo sforzo personale. Era il gruppo di quelli che
non se la sentivano di rischiare il loro buon nome mettendolo in gioco, ed
anche per la preoccupazione di non far mancare niente alla famiglia, e neppure volevano correre il rischio di perdere in qualche pessimo affare quanto avevano economizzato con tanto sacrificio. In realtà il primo gruppo
aveva capito subito che le condizioni locali erano più favorevoli e vantaggiose quando indirizzate verso la speculazione ed il guadagno facile e
soprattutto che richiedevano il minimo sforzo per poterlo ottenere.
Avevano ancora in più dalla loro parte il vantaggio di una inflazione
perenne nata nello stesso momento in cui il paese era stato scoperto ed
incominciò a prevalere il sistema imposto dai primi colonizzatori di ricavare da esso il massimo possibile delle sue ricchezze, cosa che fu mantenuta durante vari secoli di spoliazione. Devono aver pensato a tante cose
ma certamente non alla possibilità che un giorno il paese potesse soffrire
la delusione di non aver ereditato una mentalità differente da quella che
ha sempre prevalso: quella che afferma che a coloro che lavorano non
rimane tempo sufficiente per guadagnare molti soldi.
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Il secondo gruppo poteva essere identificato come quello delle formiche operaie non semplicemente limitate al lavoro, ma organizzate con
tempo, prudenza e calma per conquistare il posto definitivo nell’ambiente che lo aveva accolto, senza traumi e incominciando così a fare parte
integrante della comunità. Così facendo rispettavano il proverbio ben
conosciuto e diffuso in tutta la penisola da dove provenivano e che per
loro era sempre stata una norma di vita: Piano piano si va lontano, forte
forte si va alla morte…
II. Gli edifici della città venivano costruiti normalmente su terreni di
estensione piuttosto grande, sia quelli destinati al commercio come quelli
per fini residenziali. La costruzione destinata al commercio quasi sempre
era molto semplice: un grande salone a un solo piano coperto da tegoloni
coloniali e con la facciata principale rivolta direttamente sul marciapiede.
Dipendendo dalle sue dimensioni aveva varie porte di accesso disposte a
distanze regolari fra loro, rispettando una norma architettonica molto
usata in Brasile, perché erano costruzioni derivate dallo stile coloniale
introdotto dai portoghesi nel paese fin dal loro arrivo, lo stesso che vigeva in tutti i possedimenti coloniali del Portogallo. Col passare del tempo
e dopo piccole modifiche imposte dall’ambiente divenne lo stile adottato
in tutto il territorio nazionale.
Su portali sovrastati da archi venivano infisse delle porte di legno
divise in due parti che quando venivano aperte durante l’orario di funzionamento introducevano il cliente direttamente a contatto con la merce
esposta. All’arrivo degli italiani ancora non esisteva l’uso delle vetrine per
esporre i prodotti offerti, e questo era dovuto al prezzo del vetro piano ed
alla difficoltà di trovarlo sul mercato locale. Tutto il vetro piano, incluso
quello per le finestre, veniva importato dall’Europa, oltre al fatto di non
essere accessibile per tutti dato il suo alto costo; era anche soggetto alla
difficoltà di trasporto trattandosi di materiale molto fragile. Per questo
arrivava in Brasile tagliato in quadrati relativamente piccoli, specialmente quando il loro destino era un posto lontano dal porto ed il loro trasporto assicurato dai muli che se li caricavano sul dorso e percorrevano distanze lunghe e accidentate. Le difficoltà erano maggiori nell’entroterra, mentre rimaneva tutto più facile per le città che sorgevano in riva al mare,
dove potevano attraccare le navi.
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Le porte dei negozi di Poços de Caldas non si differenziavano da
quelle esistenti negli abitati prossimi come São João da Boa Vista, Casa
Branca o Araras. L’unica differenza consisteva nel fatto che in quelle città
anche d’inverno la temperatura tendeva sempre al caldo, al contrario di
Poços de Caldas dove durante un lungo periodo dell’anno la temperatura
scendeva qualche grado sotto zero. Il freddo castigava più alle prime ore
del mattino ed all’imbrunire ma anche durante il giorno si faceva sentire
perché era mantenuto da tutta la vegetazione spontanea che avvolgeva la
città. Rimanere durante molte ore dentro ai negozi specialmente nei mesi
invernali doveva essere un vero sacrificio; le persone che lavoravano in
quegli ambienti non avevano nessuna protezione, quasi come se si trovassero all’aperto ed ancora con lo svantaggio di non poter usufruire del sole
che anche se era alto nel cielo scaldava un poco l’aria esterna.
Le nuove abitazioni, dopo l’arrivo dei vari architetti e capomastri
venuti in gran parte dall’Europa, incominciavano a presentare nuovi concetti costruttivi e architettonici. Le costruzioni progettate dai tedeschi o
dagli italiani avevano un’area esterna libera fra il marciapiede e la facciata della casa, per creare uno spazio destinato a giardino dove le piante
ornamentali, i cespugli e le aiuole con molti fiori davano un nuovo tocco
di eleganza agli edifici.
Le costruzioni tradizionali delle case seguivano sempre lo stesso
schema introdotto dai Portoghesi dove, anch’esse come i negozi, venivano progettate con la facciata che dava direttamente sul marciapiede. In
comune, qualsiasi fosse lo stile delle case, tutte sul fondo possedevano
una grande area di terreno con piante fruttifere locali. Con la venuta degli
europei fu introdotto il costume di collocare l’orto sul fondo delle loro
case per avere sempre disponibile la verdura per il fabbisogno della famiglia. Uno spazio veniva riservato agli alberi da frutta di origine europea,
specialmente dopo aver constatato che il clima di montagna era ideale per
una quantità di differenti varietà che erano molto apprezzate per la loro
superiore qualità. Pere, mele, pesche, prugne e fichi deliziarono i palati
degli italiani fino a quando durò quella buona fase, perché arrivarono
dalla pianura le malattie delle piante con le mosche e gli insetti e le castigarono impietosamente. Se non sono morte tutte lo si deve al grande
impegno per salvarle, ma che non ha evitato che siano rimaste così debilitate da dover esigere delle cure speciali con prodotti chimici per proteg135
gerle dall’azione delle mosche, che depositavano le larve che intaccavano
la frutta.
Un’attenzione speciale gli europei la dedicavano alle viti che erano
molto ben trattate nelle loro proprietà. Con la vigna potevano contare sul
rifornimento dell’uva da consumare in casa ed ancora in più trasformarne
una parte in vino che era apprezzato da tutti.
Il verde nei fondi delle case dove abitavano le famiglie brasiliane era
formato da alberi da frutta dove non potevano mancare gli “Abacateiros”
(avogado), le “Pitangueiras” e le “Jabuticabeiras” dai deliziosi frutti. La
città intera era avvolta nel verde che la rendeva ancora più bella ed accogliente.
Quando nel Cartorio di Registro occorreva una transazione di compera o vendita di case, essa veniva redatta in maniera totalmente differente da
come si fa oggigiorno. Il metraggio dei lati del terreno a volte veniva citato altre no, a volte si basava nella descrizione del terreno e dei rispettivi
proprietari con i quali confinava. Era molto frequente la specificazione,
come quella che può servire di esempio e che si incontra nelle pagine precedenti riguardanti l’area dove sorgeva la fabbrica di laterizi di Francesco
Vigna, all’atto della sua vendita. Altre volte davano il numero del lotto di
terreno, chiamato “Prazo”, dove esisteva già una costruzione indicandone
le sue caratteristiche principali: con cinque finestre e due porte, essendo
che tre finestre e una porta danno sulla via X e due finestre e una porta
danno sulla via J, trascurando completamente il metraggio quadrato occupato dall’area costruita.
Le piante ed i progetti delle costruzioni che furono eseguiti dalla fine
del 1800 e durante vari anni del 1900 erano disegnati su stoffa di lino.
Quelle più importanti erano molto ben tracciate e ricche di dettagli, confermando con questo che la preparazione professionale dei capomastri di
quell’epoca era equivalente a quella di molti architetti, ed ancora con la
differenza che i primi conoscevano a fondo i materiali e possedevano la
tecnica nei lavori di edilizia.
Molte costruzioni già esistevano a Poços de Caldas quando entrò in
vigore la legge che regolava le norme per la loro iscrizione sui registri
della Prefettura. Per questa ragione tutte le costruzioni sorte nella città fin
dai suoi albori, dalle più importanti alle più semplici, non avevano avuto
l’approvazione della pianta per ottenere il visto delle autorità e poi il
decreto di abitabilità. Le prime costruzioni furono fatte senza tante sotti136
gliezze estetiche e soggette a errori di localizzazione con frequenti invasioni di molti centimetri nei terreni dei proprieteri vicini, specialmente
quando l’area globale dove sarebbero sorte le costruzioni era agli inizi e
magari ancora coperta dalla vegetazione. Nelle case semplici le piccole
stanze riservate alle necessità fisiologiche e all’igiene, come d’altra parte
nel resto del mondo, non erano ancora ritenute degne di considerazione e
per questo erano costruite all’esterno in modo spartano. Già nelle residenze più lussuose, con ampie stanze e mobilia pregiata, le tante necessità
della famiglia trovavano maggior conforto ed anche ausilio negli oggetti
pregiati disponibili, quali i pitali e le sputacchiere di fine porcellana
importata e decorata con delicati motivi.
Nella periferia della città dove i terreni venduti avevano un valore
minimo, sorsero vari poderi comperati da persone che si dedicavano alla
piantagione di frutta e verdura da vendere specialmente agli alberghi, che
avevano bisogno di quei rifornimenti per servire la loro clientela.
La frequenza di un’elite culturale e di elementi della aristocrazia
nazionale fu benefica per la città, che, per rispondere alle loro esigenze, si
vide obbligata a perdere grande parte del suo aspetto provinciale caratteristico dei piccoli centri abitati dove gli elementi locali, eccetto pochi, non
possedevano una preparazione culturale e nemmeno una movimentata
vita sociale. La crescita della città una volta iniziata, ebbe un corso costante che la portò a vedere conclusi tutti i lavori necessari al centro urbano,
fino a renderlo totalmente abitabile e non solo, ma controllando che negli
spazi vuoti dei terreni dove non c’erano case, i proprietari non li lasciassero abbandonati e pieni di sterpaglie, per non offrire l’impressione sgradevole di incuria e disordine.
Era indispensabile che la città si sviluppasse armoniosamente per la
grande importanza che questo rappresentava per la sua esistenza, visto che
l’impressione favorevole riportata dai visitatori avrebbe significato un
sicuro ritorno degli stessi per molte altre stagioni; senza contare la propaganda che avrebbero fatto, diffondendo la loro soddisfazione ad altri, i
quali potevano trasformarsi in futuri nuovi ospiti conquistati dall’idea di
voler usufruire dei vantaggi offerti da Poços de Caldas.
III. Nel periodo che comprende gli ultimi anni del 1800 ed i primi
anni del 1900 una vera moltitudine di italiani si stabilì nel perimetro urba137
no di Poços de Caldas. Arrivavano ormai ininterrottamente, chiamati da
parenti già residenti in città od anche perché erano stati informati che il
posto offriva buone prospettive di lavoro. L’attività era intensa in molti
settori perciò c’era bisogno di moltissime cose, principalmente di mano
d’opera da impiegare nei numerosi progetti di opere pubbliche ed anche
nelle costruzioni private; servivano artigiani e commercianti per fornire
materiali, alimenti e tutto quello che era necessario per mantenere ben servita la città e la sua popolazione.
Tutte le regioni italiane erano presenti, però la grande maggioranza
degli italiani proveniva da tre regioni, le stesse che in tutto il Brasile erano
quelle che proporzionalmente avevano fornito il contingente di cittadini
numericamente superiore. Erano i Veneti, quelli che in Italia si dedicavano ai lavori non legati alla terra, erano i Calabresi di Corigliano Calabro,
di Catanzaro, di Longobuco e delle piccole frazioni che rappresentavano
una parte degli emigranti di quella Regione, la maggior parte dei quali si
era stabilita nella città di San Paolo, dove tutt’oggi vivono i loro discendenti, sempre uniti e continuando a coltivare le loro antiche e ricche tradizioni regionali. Erano la grande schiera dei Toscani, provenienti dalla
zona che comprende le città di Lucca, Pescia, Marradi, Montecatini ecc.,
sempre pronti a tutto, dedicandosi alle più disparate attività e possedendo
una nitida coscienza di appartenere alla Regione che aveva dato all’Italia
l’apporto del Rinascimento, i natali a Dante Alighieri il poeta massimo,
oltre ad essere la culla della lingua madre.
Dei calabresi che svolgevano le loro attività in città, oltre ai Vigna, ai
Prezia ed ai Longo già citati, si aggiungevano altre famiglie come quella
dei Scassiotti che erano arrivati dall’Argentina dove avevano vissuto qualche tempo: erano muratori ma possedevano anche vari cavalli che noleggiavano, gli Aversa, i Venafro con officina di calzolaio, i Mollo con sartoria, gli Stanziola, all’inizio barbieri e in seguito fabbricanti di cappelli da
sole, i Rocco con negozio di scarpe, i Pirillo con macelleria, gli Errico
commercianti di caffè, ed i Curia, i Durante, i Berarda, i Cosentino, i
Ranauro che a volte si firmavano con quel cognome ed altre invece Di
Napoli. La famiglia Bello aveva un negozio dove si vendevano e si aggiustavano armi. I Cardillo, che prima vivevano nella vicina Botelho, qui si
dedicavano al commercio; Giovanni Cardillo per la sua intraprendenza e
personalità era molto stimato nell’ambiente degli italiani che si rivolgevano a lui specie quando avevano bisogno di risolvere dei piccoli problemi
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e gli Aiello e tanti altri dei quali non è stato possibile accertare la provenienza.
Il gruppo dei calabresi era ben compatto e attivo e si manteneva unito
anche per i matrimoni fra corregionali, formando una parentela che li
univa ancora di più. Questo era il caso che si verificava con le famiglie
Risola, De Simone e Tramonte. Le tre si dedicavano alla fabbricazione e
commercio di latticini: la loro specialità era quella di produrre mozzarella e ricotta, un’arte che si erano portati dalla loro Regione e che esercitavano ancora quando vivevano in Italia. Ogni famiglia aveva il proprio
commercio che svolgeva separatamente ma nello stesso tempo aiutandosi
mutuamente. I Tramonte si fornivano di latte nel “Ritiro del mulino” e lo
utilizzavano per la confezione dei formaggi, mentre Michele Risola si
limitava a commercializzarli assieme a quelli prodotti da Nardo Aiello
nella fazenda Espirito Santo dove lui lavorava come tecnico per conto
della famiglia Junqueira.
Quando i coniugi De Simone arrivarono in Brasile, questo approssimativamente nell’anno 1889, portarono con loro il primo figlio nato in
Italia che allo sbarco dalla nave a Santos aveva appena tre mesi.
Inizialmente erano rimasti in quella città per le difficoltà affrontate fin dal
primo momento e vissero durante un certo periodo in una chiatta attraccata nel molo del porto. Lasciarono Santos scegliendo San Paolo per paura
della febbre gialla che decimava molte vite specialmente in quella città di
mare, dove il movimento delle navi era intenso e con esse arrivavano frequentemente malattie infettive ed epidemiche. Dopo una breve permanenza in quella città si spostarono verso l’interno dello Stato di San Paolo, in
un piccolo centro nascente col nome di “São Josè do Rio Pardo” e anche
lì rimasero poco tempo, per cambiare ancora di posto, scegliendo questa
volta la cittadina di “Espirito Santo do Pinhal” dove rimasero un periodo
abbastanza lungo visto che in quella località sono nati due figli. L’ultimo
e definitivo spostamento lo fecero nel 1905 quando arrivarono a Poços de
Caldas dove nacquero tutti gli altri figli. Come i De Simone moltissime
altre famiglie, prima di sistemarsi definitivamente in un posto avevano
voluto conoscerne altri, cambiandoli magari poi per non essersi adattati o
per non aver trovato condizioni di vita ideali.
I toscani formavano forse il gruppo più numeroso e certamente il più in
vista. Delle proprietà che si trovavano nella periferia della città, i due poderi più importanti appartenevano a toscani, uno ai Biannucci, che sono stati i
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primi a produrre ortaggi e frutta, specialmente l’uva che a Poços de Caldas
era stata introdotta da loro, l’altro podere apparteneva a Vincenzo Viti.
Quando Vincenzo Viti giunse in Brasile, assieme a lui c’era anche
Raffaele Sarti, un altro giovane desideroso di affrontare la vita ed il suo
destino nel nuovo Paese. Nella campagna toscana, in una piccola frazione
di Pescia le due case dove nacquero erano divise da un campo di grano, la
loro amicizia era nata fin dall’infanzia e le loro famiglie avevano sempre
convissuto in armonia. I due giunsero in Brasile nell’anno 1897 e trovarono lavoro nella città di San Paolo svolgendo il mestiere di panettieri.
Vedendo che con quel lavoro non avrebbero avuto un futuro promettente,
lasciarono il posto per tentare la sorte come lavoratori rurali in una fazenda localizzata nella località di Biriguì, sempre nello Stato di San Paolo, ma
anche lì rimasero insoddisfatti per il tipo di vita imposto in quella fazenda,
non gradito da nessuno dei due; per questo, dopo una permanenza di novedieci mesi, decisero di lasciare il lavoro allontanandosi di notte per non fare
più ritorno.
Da quello che raccontava più tardi al nipote Nello, risulta che il proprietario della fazenda era un italiano. Prima di abbandonare il posto i due
si erano messi in contatto con Biannucci che da tempo abitava a Poços de
Caldas ed era parente anche se lontano di Vincenzo. Volevano sapere se
c’erano buone posibilità di lavoro nel caso si fossero spostati in questa
città. Alla risposta positiva i due non ci pensarono due volte, prendendo il
cammino di Poços de Caldas dove arrivarono nell’anno 1899.
Oltre al podere che Vincenzo possedeva sulla fascia di terra racchiusa fra i binari della ferrovia ed il fiume che scorreva in basso, parallelo ad
essi, era anche socio di una panetteria situata nella strada più importante
della città, assieme a Raffaele Sarti e Antonio Togni conosciuto anche
come Antonio panettiere. Raffaele Sarti aveva trovato lavoro inizialmente nell’“hotel da Empresa” fintanto non gli si fosse presentato qualche
cosa di più interessante. L’aspettativa non fu vana visti i risultati positivi
che andò accumulando con il passare degli anni. Si è sposato ed ha avuto
vari figli. Sia Vincenzo Viti che Raffaele Sarti hanno sempre risieduto a
Poços de Caldas.
Fra i toscani arrivati da più tempo, i fratelli Francesco e Bartolomeo
Mencarini si dedicavano al commercio ed erano molto stimati ed apprezzati dai connazionali. Francesco, che visse più a lungo di Bartolomeo, partecipava attivamente tanto alla vita sociale come a quella politica della
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città; erano originari di Monte Carlo in provincia di Lucca. Possedevano i
due una fertilissima fantasia specialmente usata quando dovevano scegliere i nomi dei loro figli i quali si chimavano:”Cherreta”, “Etrurio Metastasio
Metrullo”, “Ismenia Good Pantilla”, “Alfa Omar”, “Archimede Terrore
Giocondo” “Federico Confucio” e “Pasqua Aurora Rosa”.
Toscani erano anche i Parini, i Bianchi, i Rosi, Teodoro e Primo nati
a Sagromino in Monte nel distretto di Capannori, Lucca. Erano arrivati in
Brasile nel 1886 assieme al padre. Inizialmente si fermarono nella città di
San Paolo a lavorare come muratori nell’imponente costruzione quale era
il palazzo Imperiale che nasceva nel quartiere di “Ipiranga”, sul posto
dove era stata proclamata l’indipendenza dal Portogallo. Per la costruzione del palazzo fu impiegata la manodopera di moltissimi italiani.
Teodoro aveva 18 anni quando giunse in Brasile nel 1889, e ritornò
in Italia per servire l’esercito. Rientrò poi in Brasile nel 1893 assieme alla
moglie Rosa che aveva sposato in Italia; qui raggiunse il fratello Primo
che nel frattempo era venuto a stabilirsi a Poços de Caldas ed era proprietario di un Albergo che aveva il suo nome ed era molto frequentato dai
commessi viaggiatori che venivano a vendere i prodotti delle fabbriche di
altre città, per questo era più conosciuto come l’Albergo “Dos Viajantes”.
Teodoro continuò con la sua professione di muratore, i due fratelli lasciarono molti discendenti.
I fratelli Incrocci, Ferruccio e Marco, erano sarti e sarto era anche
Orsi. Gli Alessandri ed i Nanni fabbricavano e commerciavano il carbone
di legna, Rugani costruttore, Gianni, Del Sarto e Fantozzi, albergatori, i
Bonini, Nastrini e Fazzi orologiai, con negozi di moda. Gli Sculamiglio, i
Venturini ecc. ecc.
Anche il gruppo dei veneti era ben numeroso: uno dei primi arrivati
era Emanuele Luigi Zuanella di Gemona nel Friuli, capomastro, costruttore e progettista di grande capacità che anteriormente aveva lavorato in
Russia. Fu sempre molto ricercato per la sua comprovata abilità come lo
dimostrano ancora oggi le piante ed i progetti esistenti negli archivi della
Prefettura. Aveva disegnato anche la pianta della nuova sede della
“Società di Mutuo Soccorso Stella d’Italia” che doveva sorgere in un terreno nella “Rua Minas Gerais”, uno dei posti centrali della città, ed era
stata approvata dalla prefettura nell’anno 1913. Era una pianta molto bella
dove prevaleva un grande salone a forma di ferro di cavallo, studiato per
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le assemblee dei soci e le riunioni civiche ed anche dove si sarebbe potuto allestire spettacoli musicali o teatrali.
La sede non fu mai costruita non tanto per mancanza di fondi, ma per
la nuova situazione che si era creata con la grave crisi economica che
aveva colto tutti di sorpresa al momento di iniziare i lavori, crisi che
sarebbe sfociata nella prima grande guerra mondiale in Europa. Al
momento di gettere le fondamenta, i materiali che venivano scaricati: mattoni, sabbia, pietre ed altro, finivano con l’essere utilizzati da qualche
socio che li chiedeva in prestito per essere aiutato, giacché era rimasto
senza mezzi economici per ultimare la propria abitazione. Per questo i
soldi destinati per la sede, furono spesi per far uscire vari soci dalle impreviste difficoltà. In quel momento il presidente della Società di Mutuo
Soccorso era Crispino Caponi di professione calzolaio, nato a San
Clemente di Caserta nella provincia di Napoli, arrivato a Poços de Caldas
nel 1895, dopo aver vissuto un anno in Argentina.
Emanuele Luigi Zuanella dopo il 1915 si trasferì a San Paolo dove
ottenne molto successo continuando la sua professione di architetto
costruttore. Lorenzo Scatolin era di Taro di Soligo, Nicola Giangrande
della provincia di Venezia, Luigi Veronesi di Montagnana, Ercole Maran
di Este, Natale Frusato di Candian, tutti e tre della provincia di Padova.
Della stessa provincia erano anche Giovanni Tedesco, Giuseppe Bressane
calzolaio, Gaetano Digro ed i fratelli Frison. Eugenio Miglioranzi,
Giovanni Gonzo, Gerolamo Boratto e Giacobbe Del Vecchio erano della
provincia di Verona, mentre Alessio Borinato, Angelo Parison e
Domenico Montevecchio provenivano dalla provincia di Vicenza.
Antonio Pigon, che per molti anni fu l’amministratore del cimitero della
città, Gentile Sparapan muratore e fanatico cacciatore di pernici, Giorgio
Giglioli e Vincenzo Discorio della provincia di Rovigo. I Ros provenivano da Treviso. Molti altri potrebbero allungare la lista perché, dal momento che erano arrivati i primi italiani fino al 1915 (anno nel quale terminano le ricerche per questo studio) perlomeno 350 famglie avevano fissato
la loro residenza nella città di Poços de Caldas.
IV. Il battito delle imposte che la signora Carmela aveva appena spalancato, richiamò l’attenzione del venditore ambulante, fermo col suo
biroccio lì vicino e che in quel momento stava misurando attentamente il
latte da versare nel pentolino di ferro smaltato datogli da una assonnata
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cliente. La casa della signora Carmela, una delle varie che si trovavano
nella via Rio Grande do Sul, era a un solo piano. La facciata larga pochi
metri, con due finestre e la porta d’ingresso che davano direttamente sul
marciapiede, era totalmente sproporzionata rispetto alla lunghezza del terreno che occupava, un vasto orto dietro alla parte edificata. Il giorno che
spuntava si lasciava prevedere splendido e la strada già piena di luminosità, dove predominava il tono giallo-rosato del sole che si stava alzando
nel cielo dopo essere sbucato da dietro i colli che fino a quel momento lo
avevano tenuto nascosto. Si facevano sempre più frequenti i rumori delle
ruote e lo sconquassare delle carrozze e si confondevano con il battere
degli zoccoli ferrati dei cavalli; Poços de Caldas incominciava un altro
giorno di vita al quale non tutti vi partecipavano dal suo inizio. Nei casinò i “croupiers” sfiniti per la lunga notte stavano contando e restituendo i
gettoni al cassiere, anche lui sognando il momento di andarsene a casa a
dormire. Gli ultimi giocatori ritardatari si erano raccolti da poco nelle loro
camere d’albergo. Alcuni, colti dal sonno, cullati dalle musiche udite
mentre attraversavano la notte seduti ai tavoli da gioco ed anche dal torpore che li faceva fluttuare nei residui dello champagne francese ingerito.
Altri si sarebbero finalmente addormentati malgrado l’ansia, l’illusione e
la speranza di avere maggior fortuna quando, poche ore dopo, ritornando
ai casinò ed al gioco avrebbero ricominciato tutto da capo.
Era l’altro lato della vita che si conduceva nella città, quella inventata apposta per far felici o per distruggere i privilegiati, le persone importanti, i ricchi…
Le strade adesso si erano riempite di rumori ed anche il vociferare
diventava sempre più intenso. Dall’officina del maniscalco che si trovava
all’angolo del quartiere, non molto distante dalla casa di Carmela, uscivano i primi battiti del martello sulla ferratura che, arrossata dalla forgia e
trattenuta da una lunga tenaglia, veniva modellata nella misura dello zoccolo del cavallo, che pazientemente con la zampa trattenuta dalle braccia
del maniscalco, aspettava di essere ferrato.
Il posto dove sorgeva la casa non si era sviluppato molto benché la
sua localizzazione fosse buona, però la continua crescita dell’abitato che
si irradiava dal centro della città come una macchia d’olio, sicuramente in
breve tempo, espandendosi sempre di più, avrebbe finito con l’incorporarlo. Anche le altre case di quella strada erano quasi tutte a un solo piano ed
abitate da Italiani; solo a pochi quartieri di distanza sorgevano le terre
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incolte dove le staccionate demarcavano il confine e impedivano l’uscita
degli animali sciolti nei pascoli. Quel posto era conosciuto come “la cancellata del Petrecca” perché era da lì che incominciavano le proprietà di
Vincenzo Petrecca, dove svolgeva la sua molteplice attività, come la fabbricazione di mattoni per costruzione, ed anche dove radunava i muli
destinati al trasporto delle merci. Queste bestie, dopo aver riposato ed
essersi nutrite con l’erba fresca dei prati, riprendevano la strada riunite in
gruppi più o meno numerosi dipendendo dalla quantità di merce da vendere o dal raggio di penetrazione del venditore. Durante la permanenza
degli animali, il loro carico veniva collocato in un baraccone apposito.
Alla partenza, il primo animale veniva condotto dal venditore ambulante
che già gli era salito in groppa e impugnava una corda con la quale si faceva seguire dagli altri muli, ognuno caricato con due cestoni, uno per lato,
pieni di mercanzia. Per la lunga fila serpeggiante che formavano, andando per strade e sentieri un mulo dietro all’altro, erano conosciuti col nome
di “Cometa”, perché di fatto ne ricordavano il formato.
Erano circa le sette e mezza del mattino, ed anche Alfonso, il marito
di Carmela, era uscito di casa da tempo per andare ad aprire il piccolo
locale nella via Junqueira dove si era istallato con la sua officina di calzolaio. Lì trascorreva gran parte della giornata aggiustando scarpe e stivaletti per le signorine della società di Poços, collocando tacchi e mezze suole
e fischiettando motivi di romanze nei momenti in cui la bocca gli rimaneva libera dai chiodini che frequentemente tratteneva fra le labbra da dove
li tirava uno ad uno per conficcarli nel cuoio.
Non era esattamente il destino che si era sognato quando aveva deciso di emigrare, però sperava molto che le cose sarebbero cambiate, specialmente vedendo i figli crescere con prospettive migliori di quante ne
aveva avute lui alla loro stessa età. Loro avevano frequentato la scuola, ed
erano forti e robusti, Carletto si stava distinguendo nel suo primo impiego nella falegnameria di Ponteprimo il quale, oltre che compatriota, era
anche un grande amico. Anche la figlia Elvira ultimamente aiutava la
famiglia portando a casa i soldi guadagnati imparando la professione da
una buona sarta che godeva di una numerosa e scelta clientela.
Durante il giorno Alfonso usciva qualche volta dal suo negozietto per
andare a rinvigorarsi con qualche piccolo sorso di grappa: lo faceva anche
per scaldarsi, specialmente d’inverno quando gli si indurivano le dita dal
freddo, proprio quelle che dovevano trattenere i chiodini. Andava anche
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nel salone dove i Pasculli lavoravano in proprio come barbieri per scambiare qualche parola, ma veniva via senza fermarsi se per caso scorgeva
seduto sulla poltrona qualcuno dei tanti personaggi importanti che dominavano la scena politico-economica e sociale della città, quale il Barone do
Campo Mistico, il colonnello Agostinho o il maggiore Cobra con i quali
non simpatizzava, perché lui apparteneva alla fazione politica contraria
capeggiata dal dottor David Ottoni, del quale era grande ammiratore.
I Pasculli erano sempre informatissimi su tutti gli ultimi avvenimenti
importanti già avvenuti o che stavano per succedere, perché ne venivano a
conoscenza fra una pennellata di sapone e un colpo di rasoio, mentre gli
illustri clienti conversavano fra loro. Alfonso apparteneva anche alla
Società Stella d’Italia e non mancava mai di partecipare alle riunioni dove
si incontrava con molti amici. Contava anche sulla possibilità di qualche
entrata extra, proveniente dall’unica debolezza di Carmela, che senza esagerare nella quantità, investiva tutti i giorni qualche spicciolo nel gioco del
“Bicho” (gioco dell’animale) che corrispondeva al gioco del lotto in Italia,
solo che il primo viene estratto quotidianamente ed anche possiede una
complicata combinazione di gruppi e numeri che si riferiscono a vari animali. Con quel gioco Carmela aveva realizzato qualche piccola entrata
utile al bilancio familiare
Affacciandosi alla finestra per vedere se João, il figlio più giovane
che era andato a comperare il pane stava arrivando, Carmela aveva fatto
un cenno al compare Pasquale che in quel momento stava passando col
suo carro trainato dal cavallo in direzione del deposito di legname, dove
andava a ritirare delle tavole per il costruttore Maywald. Con uno strappo
alle redini don Pasquale fece fermare il cavallo per salutare la comare e
scambiare con lei alcune parole ed avere anche notizie della famiglia,
visto che da qualche tempo non si vedevano ed era questa una buona occasione per aggiornarsi sulle ultime novità.
«Buon giorno, dona Carmela!»
«Buon giorno, mastro Pasquale!»
«Che si dice, comare Carmela… quali sono le ultime notizie che
abbiamo, cosa mi raccontate di bello?»
«Di bello, bello, niente, compare; ma grazie a Dio e alla protezione
della Madonna Aquiropita stiamo tutti in salute e quando c’è la salute c’è
tutto. Ma ditemi voi, don Pasquale, come sta la mia comare Angelina della
quale non ho notizie da tempo? Sta meglio del suo mal di schiena che
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tanto la fa soffrire? E la Ernestina ? Oramai deve essere ben prossima la
nascita del suo primo figlio! E dall’Italia avete avuto più notizie?...»
«La settimana scorsa abbiamo ricevuto una lettera della sorella di
Angelina che ci dava notizie sulla gente del nostro paese, e sì!... Laggiù le
cose continuano a non andare bene, loro sperano sempre che possano
migliorare. Nei giorni che scriveva, varie famiglie avevano lasciato il
nostro paese tutte dirette in Brasile... Chi sono?... I Lamoglia i Ripola, i
Tallarico, gli Scabbia ed altri conoscenti; anche mia cugina Assunta è partita assieme ai figli piccoli per raggiungere il marito che già vive e lavora
a San Paolo. Mi pare che pochi alla volta, se ne vadano via tutti. Anzi,
prima che me ne dimentichi, è morto mio zio Costantino che era anche
padrino di vostra sorella. Un incidente gli ha fatto perdere la vita quando
stava raccogliendo i fichi dall’albero e la scala gli è scappata da sotto i
piedi facendolo cadere. Aveva tentato di aggrapparsi ad un ramo ma quello si è spezzato e lui è precipitato battendo la testa. Pover’uomo aveva
compiuto da poco ottantatre anni…»
«Madonna Santa! Che disgrazia mi state raccontando, compare
Pasquale! Mi sono venuti i brividi con questa notizia.»
«Per dirvi il vero, comare, Angela aveva avuto un sogno premonitore
qualche notte prima che ci arrivassse la lettera con la notizia. Vedeva la figura sbiadita di un anziano che si dibatteva in cima ad una scala, mentre una
muta di cani feroci tentava di raggiungerlo, ma lui aggrappato a un ramo
faceva uno sforzo tremendo per resistere, e allungava il collo nel tentativo
di evitare la caduta. Poi Angela si è svegliata senza conoscere il finale del
sogno e molto agitata ha ripetuto varie volte: Cose brutte, cose brutte sono
successe, Madonna mia aiutateci…»
«Ma cosa mai mi state raccontando, mastro Pasquale!. Questa vita è
proprio una valle di lacrime, bisogna avere tanta rassegnazione e tanta
fede e contare sull’aiuto della nostra Madonna Aquiropita… Ma la vita
continua, salutatemi la comare e ditele che un giorno di questi andrò a
farle visita.»
«Sarà riferito, comare Carmela! Ricordatemi a don Alfonso, mio
grande amico. Che buoni occhi vi vedano! Arrivederci...»
Mentre la carrozza si allontanava, dandosi schiaffetti sulle guance,
Carmela esclamava fra sé: «Gesù, Gesù, il vecchio è rimasto appeso su un
ramo: “scimmia”… Nel sogno faceva uno sforzo e tirava il collo: “struzzo”… E sinceramente, con ottantatre anni in bilico su una scala! Con tutto
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rispetto: “somaro”… E vuoi sapere un’altra cosa? Ci metto assieme anche
il “cane”!...».
Poi, ad alta voce: «Francesco! Francesco! Ma quante volte devo chiamarti prima che mi risponda? Vai di corsa da Nunzio e giocami “venti
reis” nei gruppi di testa della scimmia, dello struzzo, del somaro e del
cane, perché non posso perdere per nessun motivo questo suggerimento
che mi è stato mandato dal cielo…»
V. Francesco camminava di malavoglia in direzione alla Piazza
Senador Godoy, per compiere l’incarico che gli era stato affidato. Più che
un’incombenza, era un ordine perentorio quello che aveva ricevuto da sua
madre, e lui non poteva sottrarsi perché sapeva quanto era importante che
fosse portato a termine. Quando aveva sentito la madre chiamarlo ripetutamente, lui si trovava nell’orto, appostato dietro alle piante dei pomodori, in agguato, tenendo sotto la mira della fionda il gatto della vicina che
durante la notte gli aveva mangiato il merlo, proprio quando quello stava
imparando a cantare la prima parte del “Va pensiero sull’ali dorate” insegnatogli con tanta cura dal nonno del suo amico Pedro. Quell’interruzione
brusca ed imprevista lo aveva proprio indispettito, così adesso camminava dando calci su tutto quello che gli capitava fra i piedi e ripetendo:
«Sempre io, sempre io!...» E brontolando, reclamando, sparando improperi in dialetto calabrese, il cui significato per fortuna non conosceva bene
ma che sentiva ripetere sempre dal padre nei momenti critici, quando si
arrabbiava tanto da diventare paonazzo in volto e con gli occhi stralunati.
Gli era passata da poco la rabbia della sera prima, per il castigo che
aveva ricevuto. Aveva ancora indolenzito e arrossato l’orecchio che il
padre gli aveva preso ben stretto fra le dita mentre lo trascinava nell’orto
per fargli vedere che le piante non erano state bagnate a dovere, e mostrargli che era stata passata solo una spruzzatina superficiale d’acqua. A prova
di questo, il padre infilava il dito indice sprofondandolo nella terra delle
aiuole e tirandolo fuori bello asciutto. «Hai visto? Guarda bene se il mio
dito è bagnato... No? Pensi che io sia nato ieri? Vergognati!!!» e continuava a torcere l’orecchio a Francesco che si era rassegnato al suo destino che
sarebbe stato quello di avere un orecchio più lungo dell’altro. Ma che
colpa aveva lui se solamente all’ultimo momento si ricordava della sua
incombenza pomeridiana che era quella di bagnare le piante e la verdura
dell’orto di casa?
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Anche il giorno prima aveva dovuto correre come un matto interrompendo a metà il gioco che stava disputando con gli amici, e che colpa
aveva lui se invece dei quindici secchi d’acqua era riuscito a versarne
solamente quattro per mancanza di tempo? Era proprio scocciato per la
continua persecuzione che lo stava castigando, ma al tempo stesso voleva
capire perché i suoi genitori, quelli dei suoi amici e di molti altri conoscenti italiani, erano sempre così agitati, pieni di idee, di progetti e lavoravano tanto come se avessero paura di sentirsi mancare la terra sotto i
piedi. A volte con i suoi coetanei e amici, figli di italiani quasi tutti nati
come lui in Brasile, commentavano sulla stramberia dei loro genitori, specialmente su quelle sfuriate tanto caratteristiche del popolo italico, ma non
erano venuti a capo di niente, forse perché era troppo presto per poterlo
capire. Con i loro pochi anni di vita e per appartenere alla prima generazione brasiliana, sapevano solamente che dentro a quel sistema alquanto
confusionario avrebbero dovuto convivere per molto tempo. Perciò tutto
quello che potevano fare, quando ritenevano che i loro genitori avessero
oltrapassato i limiti, era di reclamare con rassegnazione: «Oh!
Italianada…».
VI. Adesso l’arrivo degli italiani andava crescendo a Poços de
Caldas. Ormai arrivavano da molti posti. La famiglia Cagnani venuta
direttamente dall’Italia possiede informazioni precise annotate su un
foglio conservato fino ad oggi. Caterina Zauli, sposata con Carlo Cagnani
registrava le seguenti informazioni: “1897. Partiti da Genova il 22 ottobre
1897 col vapore “Attività”, arrivati a Rio de Janeiro il 15 novembre e
diretti all’emigrazione Mariano Procopio il giorno 16 dello stesso mese.
Partiti da Mariano Procopio il giorno 26 novembre diretti a Poços de
Caldas, per richiesta del Barone do Campo Mistico”.
Si viene a sapere così che il viaggio in nave era durato venticinque
giorni e che il vapore “Attività” era lo stesso che veniva citato sul giornale “Estado de São Paulo” del 4 marzo 1897 in una propaganda della società “La Veloce navigazione italiana”, in cui si informava che la nave
“Attività” agli ordini del comandante Duce, salpava da Santos il giorno 20
di marzo. Carlo Cagnani veniva da Dovadola località situata a 21 chilometri da Forlì nella Romagna, e ha svolto la sua attività nel nascente centro vicino a Poços, conosciuto come “Stazione della cascata”.
I molti Italiani che avevano scelto quel posto promettente rimasero
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delusi perché la crescita si limitò alla stazione ferroviaria e alle poche
costruzioni iniziali, arrivando ai nostri giorni con l’aspetto di un villaggio
dimenticato nel tempo. All’esterno della stazione esiste ancora il grande
deposito di ghisa fusa per contenere l’acqua, venuto dall’Inghilterra,
assieme a tutto il materiale ferroviario che allora forniva al Brasile. Il
deposito sospeso sopra un traliccio metallico è ancora pieno d’acqua come
ai tempi che doveva fornirla alle locomotive quando arrivavano sfiatate
per lo sforzo compiuto dopo l’interminabile salita, ricaricandole per produrre l’ultima forza vapore che le avrebbe portate a destino nella stazione
di Poços de Caldas.
Ai nostri giorni l’eccesso di acqua trasborda dal deposito cadendo
ininterrottamente e le galline razzolano tra i ciuffi dell’erba che cresce
anche fra i binari quasi inutilizzati. Anche le case sono le stesse costruite
quando pensavano che sarebbero state l’inizio dell’espansione. Il posto
paesaggisticamente è meraviglioso per le bellezze naturali che lo circondano e lo fanno sembrare avvolto in un’atmosfera magica che lascia capire come solamente un qualche fenomeno strano e incomprensibile abbia
potuto fermarlo nel tempo e nello spazio.
Lì vi hanno abitato i Pellegrinelli che erano della provincia di
Bergamo, le famiglie dei Loro, dei Prezia già accennati, che in quel posto
possedevano un mulino per macinare il granturco, oltre a una segheria
mossa a vapore dove preparavano le tavole ricavate dai tronchi degli alberi forniti dalle foreste fitte e esuberanti dei dintorni. C’era anche Nicola
Camillo funzionario della compagnia “Mogiana” proprietaria della rete
ferroviaria. C’erano i Tassi, i Gasparini, i Boratto e c’era anche Domizio
Cavini che conduceva il suo negozio: un misto di bar, farmacia e vendita
di generi alimentari, localizzato proprio di fronte alla stazione ferroviaria.
I dieci fratelli Cavini erano arrivati in Brasile assieme ai genitori nel
mese di dicembre del 1897. Il viaggio lo avevano fatto in una nave francese e la loro destinazione era una fazenda di proprietà del maggior piantatore di caffè dell’epoca, il tedesco Shmidt, dove avrebbero lavorato,
dopo di essere passati nella “Hospedaria dos emigrantes” insediata nella
città di Juiz de Fora, istituita in quell’epoca nel Minas Gerais per accogliere gli emigranti in quello Stato, ma che ebbe una breve durata perché prevalse il disinteresse da parte dei fazendeiros mineiros, di accogliere e utilizzare il lavoro di emigranti europei nelle loro proprietà.
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Quando i componenti della famiglia Cavini scesero dal treno per
essere giunti a destinazione, pensavano che qualcuno starebbe stato ad
aspettarli per portarli nella fazenda. Ma non trovando nessuno, dovettero
dormire sistemandosi in qualche maniera nella stazione ferroviaria e solamente il mattino successivo apparve l’amministratore della fazenda per
incamminarli e dare alcune istruzioni. Quella mancanza di considerazione iniziale non fu gradita dai Cavini che già per altri motivi si portavano
appresso una buona dose di orgoglio e di rivolta, caratteristica di una
buona parte degli Emiliani e Romagnoli. La loro Regione aveva attraversato dei momenti storici che erano serviti solo ad inasprirli, avendoli
obbligati a sopportare durante tanti anni l’oppressione imposta dallo Stato
Pontificio che li dominava e aveva fatto di quella Regione ed anche delle
vicine Marche un’area di grande dominio ecclesiastico, dove tutte le cariche importanti ed i benefici erano riservati al clero. La Romagna che faceva parte dello “Stato Pontificio” dovette subire tutti gli arbitrii che erano
norma sia di governo come di vita pubblica. I romagnoli che, fra i cittadini italiani, compongono culturalmente una delle fasce più preparate e politicizzate della penisola, non potevano quindi accettare di essere sottoposti
contro la loro volontà a una situazione contraria a quella che loro desideravano e che era l’indipendenza dalla Chiesa in una Italia unita.
Avevano appoggiato attivamente tutti i movimenti che stavano preludendo le lotte per l’unificazione della nazione, aderito e partecipato ad associazioni che potevano essere solo clandestine, perché considerate fuori
legge e perciò perseguitate. Ad esempio la Società dei “Carbonari”, nata da
un gruppo di massoni dissidenti che si proponeva di coscientizzare le classi più colte, sulla necessità di unirsi lottando per il trionfo dei loro ideali. Il
gruppo dei Carbonari della Romagna denominato “dei Guelfi” è stato soppiantato in seguito, ed anche il resto degli altri movimenti segreti, dal nuovo
gruppo che stava nascendo col nome di “Giovane Italia” fondato da
Giuseppe Mazzini, un repubblicano convinto, che contribuì in modo determinante a realizzare l’unificazione dell’Italia. Nel susseguirsi delle trasformazioni che si sono verificate nella loro Regione e giunti alla conclusione,
i romagnoli già scontenti col papato e la Chiesa, videro infrangersi anche i
loro ideali decisamente repubblicani quando alla fine si trovarono, senza
volerlo, sudditi di un Re che lo era diventato “Per grazia di Dio e volontà
della Nazione”.
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Nel piccolo centro di Dovadola in Romagna, sotto il portico di uno dei
palazzi più antichi, a pochi metri dalla sede del Municipio, una lapide collocata nell’anno 1905 conferma e ricorda la partecipazione di quei cittadini, presenti in tutti i movimenti che hanno preceduto l’unificazione della
Patria. Fra un centinaio e più di nomi dei reduci delle Patrie battaglie, appaiono i cognomi dei familiari degli stessi Cagnani e Zauli che hanno scelto
ad un certo momento il Brasile come seconda Patria. Avevano lottato per
l’Italia nel 1848 Battista Cagnani e Saverio Zauli, nel 1860 Francesco
Cagnani e nel 1866 Giuseppe Cagnani e Ferdinando Zauli. In buona fede
avevano dato quanto possedevano di migliore, la loro gioventù, i loro sogni
e le loro vite, ma il risultato finale non è stato soddisfacente per loro, che
sono rimasti sempre avversi al papato alla Chiesa ed anche alla famiglia
Savoia. Ancora molti anni dopo l’unificazione, quando il treno Reale nei
suoi spostamenti doveva attraversare la Romagna, Sua Maestà evitava di
apparire al finestrino perché sapeva che da quelle parti i desiderati applausi erano sostituiti da insulti e lanci di sassi.
Dopo aver rinunciato di fermarsi nella fazenda che li aveva richiesti, i
Cavini continuarono il viaggio in treno scegliendo come destinazione
Poços de Caldas. La famiglia era composta dai genitori: Carlo Cavini e
Rosa Rossi e dai dieci figli: Leonardo e la moglie, che hanno fatto ritorno
in Italia dopo una breve permanenza in Brasile, Agostino che è rimasto scapolo, Teresa anche lei venuta dall’Italia già sposata e ha sempre vissuto col
marito Giovanni Casali in una fazenda, impegnati nella coltivazione del
caffè, Domizio, chiamato in famiglia Emilio, che si è sposato in Brasile
nell’anno 1898 con Francesca Naldoni figlia di Ferdinando, Giovanni
Antonio che nel 1903 si è sposato con la cugina Maria figlia di Domenico
Cavini, Domenica che si è sposata con Carlo Maran figlio di Ercole nel
1904, Federico che si è sposato nel 1905 con Angela Milan figlia di Luigi,
Michele sposato nel 1906 con Paradisa Pistoresi di Lorenzo, Annina che si
è sposata nel 1908 con Raffaele Sarti di Vincenzo, Elvira che si è sposata
nel 1911 con Ernesto Zuanella figlio di Emanuele Luigi.
Cesare l’undicesimo figlio arrivò in Brasile dopo gli altri perché
quando la famiglia era partita, lui stava prestando servizio militare nell’esercito italiano in Africa, durante la fase nella quale l’Italia era impegnata in un tentativo di conquistarsi una colonia. La numerosa famiglia si
è imparentata con tanti elementi della comunità italiana della città, diventando una delle più rappresentative. Gli uomini si dedicavano a varie atti151
vità dal commercio alla costruzione, alla falegnameria ed altro e sempre
in piena armonia fra loro.
Furono i fratelli Cavini, tutti assieme, impegnati a modificare il percorso del fiumiciattolo che adesso corre parallelo all’avenida Francisco
Salles; a questo scopo utilizzarono molta terra scavata e caricata nelle carrette o anche sulle spalle fino a portare a livello della strada una collinetta che sorgeva fra la stazione ferroviaria ed il palazzetto del Conte Prates,
dove si trova oggi la sede delle “Guardie Mirim”. Con il compenso ottenuto per quel lavoro i Cavini acquistarono dei lotti di terreno nella stessa
avenida Francisco Salles dove poi edificarono le loro case. Appena arrivati a Poços de Caldas avevano lavorato nella fazenda Matão di proprietà
di Luiz Junqueira il cui amministratore era Fortunato Vinci, che loro conoscevano da molto tempo quando ancora vivevano in Italia. Il tempo di permanenza in quella fazenda fu molto breve perché ad essa preferirono le
opportunità di lavoro offerte dalla città.
Domizio prima di sistemarsi nella località della “stazione della cascata”, aveva aperto un bar nella vicina città di São João da Boa Vista dove
si soffermò fino a pochi giorni dopo dal giorno in cui, mentre stava pranzando nel retrobottega e la moglie lo sostituiva momentaneamente per
attendere gli eventuali clienti, entrò uno dei più influenti fazendeiros della
zona appena sceso dal cavallo ed ebbe l’infelice idea di fare oltre che l’uomo galante anche lo spiritoso con la giovane e bella Francesca dicendole:
«Che peccato una così bella ragazza sposata con un “calcamano”!»
Appena detto questo, senza capire cosa gli stava succedendo il fazendeiro si trovò steso per terra fuori dal bar e con Domizio inginocchiato vicino che stringeva in pugno un parallelepipedo e solo il pronto intervento
delle persone che avevano assistito alla scena, riuscì a calmarlo e a farlo
desistere di sbatterglielo sulla testa. Poi per evitare possibili rappresaglie
Domizio preferì cambiare arie trasferendosi nella “stazione della cascata”.
Lì sono nati quasi tutti i figli, e lui ha progredito negli affari, ma per essere un uomo dinamico e di larghe vedute, disturbava gli interessi di varie
persone influenti che si sentivano lese nei loro interessi, così si è trovato
ad affrontare difficoltà e problemi che sono diventati seri quando volendo
estrarre e vendere minerale di zirconio dei giacimenti locali, si scontrò
frontalmente con individui politicamente importanti che gli causarono
molti dispiaceri.
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I Cavini erano molto stimati e rispettati nella città. Una delle costruzioni che i fratelli hanno portato a conclusione lavorando tutti assieme, è
stata la casa costruita nella fattoria di Vincenzo Viti, avendo incorporato a
essa una parte destinata a cantina dove, dentro a grandi botti, il vino rimaneva a una temperatura ideale per la sua maturazione e conservazione.
Hanno fatto quella costruzione con molta maestria e parallelamente hanno
saputo trasmettere quell’atmosfera tutta speciale che si respira nelle vecche fattorie in Italia, dove proporzioni e spazi sono perfetti e dove ogni
cosa trova il posto giusto. Certamente hanno voluto costruire la cantina
basandosi sui disegni di quelle che già conoscevano nelle campagne della
Romagna o della vicina Toscana.
La parte anteriore del grande vano era destinata alla prima parte del
processo per la preparazione del vino, con l’istallazione del torchio per
pigiare l’uva e il focolare per sciogliere lo zucchero da collocare in una
parte del mosto, per aiutare la sua fermentazione. Questa innovazione era
stata introdotta dai nuovi arrivati perché il momento del raccolto dell’uva
coincideva con la stagione delle grandi piogge e di un forte abbassamento di temperatura nel Sud del Minas Gerais per cui il vino non può raggiungere un grado di maturazione ideale. Nella stessa area si trovava
incassato in una parete il forno per cuocere il pane, una bilancia e un tavolone di legno massiccio per attendere i clienti o selezionare durante la settimana i fichi, gli asparagi, le pesche e tutti gli altri prodotti della fattoria.
Attraversando il grande arco che divide il salone in due ambienti, si accede alla cantina propriamente detta, dove le grandi botti piene di vino sono
sistemate in due file frontali e leggermente distanziate dalla pareti. Una
parte dello spazio centrale è occupato ancora oggi dai tralicci che sostengono i resti delle canne di bambù che venivano ricoperte con un letto di
foglie di gelso per nutrire i bachi da seta. Era in questa fattoria che alla
domenica pomeriggio si riunivano molti degli uomini italiani per giocare
una partita a carte, bere un buon bicchiere di vino e scambiare quattro
chiacchiere per tenersi al corrente degli avvenimenti; si sedevano attorno
a grandi tavoli rustici collocati sotto una copertura di tegole e travature a
vista, sostenute da solidi pilastri di mattoni. Lì per moltissimi anni hanno
trascorso i loro pomeriggi domenicali, poi uno ad uno sono andati sparendo per riunirsi definitivamente nel cimitero non molto lontano; ma ancor
oggi, nella parte ancora rimasta della fattoria “Guarany” si ha la netta sen153
sazione che il tempo si sia fermato al momento in cui l’ultimo dei vecchi
italiani anche lui ha spostato la seggiola per allontanarsi per sempre…
Un’altra famiglia italiana attiva a Poços de Caldas era quella che
aveva come capostipite Eugenio Miglioranzi sposato con Bianca
Franchini. Lui la moglie e i tre figli si stabilirono in una vasta area localizzata alla periferia della città che confinava con la fattoria di Vincenzo
Viti e faceva fronte con la strada che segue parallela al fiume mentre il
fondo accompagna il pendio della collina dove su un terrapieno erano stati
stesi i binari della ferrovia; sulla destra confinava con il Macello
Comunale che dava il nome alla località ancora totalmente disabitata e
conosciuta come il “Bairro do Matadouro”. I Miglioranzi erano originari
della città di Verona e si trovavano a Poços de Caldas fin dal 1898, anno
nel quale Eugenio appare come testimone nel testamento fatto da
Fortunato Bolisani. Quando la figlia Maria si sposò nell’anno 1899 con
Giacobbe Del Vecchio, i due figli maschi che in seguito avrebbero aiutato molto il padre erano ancora molto giovani: Amedeo aveva sedici anni
e Giuseppe quattordici. Furono in seguito gli esecutori di un lavoro molto
importante come la rettifica del percorso di un lungo tratto del corso d’acqua, partendo dal punto in cui i Cavini avevano già concluso nel centro
della città e da lì continuare il suo percorso per indirizzarlo in linea retta
verso la periferia, eliminando tutte le curve che il fiume formava nella
parte piana e pantanosa, sempre soggetta a sgradevoli inondazioni. La correzione del letto del corso d’acqua nella spianata che riceveva anche le
acque che nascevano nelle pendici delle colline circostanti richiese un
lavoro molto impegnativo perché nella sua larghezza era un’area ben estesa che arrivava da un lato del fiume fino ai bordi dei pascoli più alti dove
sarebbe sorto poi il quartiere della Vila Cruz e dall’altro lato raggiungeva
la zona in lieve ascesa dove avrebbe funzionato poi il “Posto Zootecnico”
(Attuale country Club) e l’orto Municipale. Alla conclusione dei lavori
l’acqua seguiva il suo corso senza più intoppi e correva lungo la valle fino
a immettersi in un altro fiume per dirigersi verso la “Cascata das Antas”.
Anche il Macello e tutta l’area che lo circondava, dove posteriormente sorse il campo di golf, era soggetto a frequenti inondazioni. I
Miglioranzi in quel posto possedevano altri appezzamenti di terra che
hanno venduto a vari cittadini italiani fra i quali i Bolleta, Gallo, Graziani.
Nel 1914 comperarono un terreno nel centro della città dal Maestro Guido
Rocchi italiano di Parma, amico e coetaneo di Arturo Toscanini col quale
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aveva studiato musica nella stessa Accademia. Rimase con la moglie in
Brasile dopo aver partecipato a una serie di opere liriche nel Teatro
Municipale di Rio de Janeiro, dove Toscanini aveva iniziato la sua grande carriera come direttore d’Orchestra. Il Maestro Rocchi era un personaggio celebre, un esimio violoncellista e un grande conoscitore di musica con un passato professionale molto ricco sia in Italia come in Brasile,
dove occupò cariche importanti nell’insegnamento della musica
nell’Accademia di San Paolo, conquistando il rispetto e la stima di tutti
quelli che erano legati all’ambiente musicale.
Tanto lui come la moglie Teresa Carini risiedevano a Poços de Caldas
già da qualche anno, però abitavano in case separate a causa dei loro temperamenti.
Di personalità complessa Teresina Carini, che aveva trascorso l’infanzia a Fontanellato dove il padre era amministratore dei Marchesi di San
Vitale e lei compagna di giochi delle marchesine nel castello, era una
donna molto intelligente, tormentata dalle ingiustizie sociali che quando
ancora abitava a San Paolo l’avevano portata a partecipare a tutti i movimenti esistenti e fare comizi in difesa della classe operaia, promossi specialmente dagli anarchici e dai socialisti. Già molto controllata dalla polizia politica, il sindaco di Poços de Caldas Francisco Escobar, di idee
socialiste e suo amico, la convinse a trasferirsi in questa città e durante i
molti anni che vi ha vissuto non consta che abbia partecipato alla politica
anche perché non esistevano attriti sociali rilevanti visto che le caratteristiche turistico-termali, e l’esiguo numero di abitanti la esentavano dai
gravi problemi che invece esistevano nei grandi centri industriali.
La signora Teresina che era arrivata assieme al marito in Brasile nell’anno 1890 non ebbe figli e morì all’età di ottantotto anni nel 1951.
Altri italiani che sono stati responsabili dei molti lavori importanti
eseguiti nella città, i Gesualdi, Garibaldi, Rosi ecc, hanno pavimentato
strade, costruito importanti edifici pubblici e lanciato ponti.
Una fase di lavoro abbondante fu raggiunta quando il Municipio
portò a termine i lavori di bonifica delle tre località pantanose che stavano ritardando la crescita dell’abitato. Le opere furono provvidenziali per
quelli che già possedevano o avevano potuto investire un piccolo capitale
con l’acquisto di un cavallo e una carrozza da trasporto, da usare per guadagnare un po’di soldi trasportando terra e sassi ritirati dalle poche elevazioni che sorgevano nel centro dell’abitato e che una volta rase al suolo,
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con il materiale estratto furono riempiti gli avvallamenti fino a livellarli
concludendo un doppio e vantaggioso guadagno di spazio.
Vari italiani si impegnarono in quell’attività ed anche molti dei loro
figli, aiutando a trasportare manualmente la terra estratta con dei carretti,
che spingevano con la sola forza delle braccia. Evitando l’ozio, rendevano felici le loro madri per i soldi che portavano a casa, che per quanto non
fossero molti, servivano sempre ad arrotondare il bilancio familiare.
VII. Fatta eccezione per gli italiani della città che commerciavano in
proprio, o avevano professioni ricercate, per gli altri la vita non era un
mare di rose specialmente se erano salariati o esercitavano attività artigianali disputate in uno spazio saturo e soggette alla concorrenza, come nel
caso dei barbieri, calzolai, sarti ecc. La maggior preoccupazione era causata dalla paura di vedersi mancare il lavoro, specialmente al sentore dell’arrivo di una delle tante crisi economiche che creavano seri problemi e
portavano molte famiglie a indebitarsi. Molte donne avevano accompagnato i loro uomini in Brasile convinte che il cammino dell’emigrazione
era il più giusto, altre con la speranza che i loro mariti incontrassero finalmente la tranquillità e la pace con un lavoro garantito e giustamente remunerato. Quando tutte loro si trovarono a dover affrontare la realtà in un
paese nuovo e sconosciuto dimostrarono quanta era la forza che avevano
e quanto il coraggio per resistere alle immancabili avversità.
Il nuovo ambiente richiedeva dai molti immigrati un impegno non
comune di forza di volontà e di tolleranza, specialmente quando essi arrivavano in età avanzata al seguito della famiglia; per loro era più difficile
adattarsi al sistema di vita incontrato nel nuovo Paese. Come piante adulte
sradicate dal suolo e trapiantate in un altro posto, così si sentivano gli
anziani. In Italia avevano vissuto la primavera e l’estate della loro esistenza, restava adesso solo il sogno e la speranza di conquistare un sereno
autunno. Le loro radici erano affondate tanto profondamente nei loro paesi,
quanto quelle delle vecchie quercie nei boschi: per questo il trapianto non
sarebbe mai riuscito a farli ritornare al loro antico e completo vigore.
Per molti la partenza fu dolorosa e difficile per l’angustia causata al
pensiero di dover trovare un nuovo cammino da percorrere giusto al
momento in cui contavano invece in un prossimo meritato riposo, dopo tanti
anni di lavoro e di sacrifici. Coltivavano la speranza che qualcosa di miracoloso potesse succedere, ma in fondo sapevano che la realtà era ben altra
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e che non avrebbero raggiunto niente di ciò che sognavano, senza l’impegno da parte di tutta la famiglia, in una tenace e perseverante vita di lavoro
e specialmente con una economia fatta a costo di qualsiasi sacrificio.
Era l’ultima opportunità che restava loro per riuscire a mettere da parte
un piccolo gruzzolo che più tardi servirebbe come fondamenta sulla quale i
loro figli avrebbero continuato a costruire. Il sogno dorato di raggiungere
rapidamente la ricchezza e l’abbondanza rimaneva solamente un bel sogno,
ma non per questo lo disprezzavano, perché serviva di sprone e li caricava di
energia. Fin dal momento della sua partenza, l’emigrante sapeva che sarebbe stato lui la vittima principale e che avrebbe pagato anche peccati che non
aveva mai commesso. L’ammirevole e commovente decisione di partire
verso l’ignoto rappresentava l’ultimo e grande atto di coraggio compiuto non
pensando a se stesso, ma alla famiglia e specialmente ai figli piccoli, i quali
se lui non avesse presa quella dolorosa decisione, non avrebbero avuto un
futuro migliore di quello vissuto dai loro genitori sempre dibattuti fra guerre, incertezze, miseria e grandi difficoltà. Correvano un rischio che valeva la
pena affrontare, avevano vissuto troppi anni dalla parte dei deboli e degli
oppressi, e quell’ultimo strappo finale arrivava come una liberazione.
Lasciavano i loro vecchi, i fratelli i parenti ed i luoghi della loro
infanzia e dei ricordi imbarcandosi su un piroscafo che li avrebbe portati
incontro a una immensa avventura, che loro avevano voluto trasformare
in un fatto naturale, spoglio di quasiasi drammaticità perché era il risultato di decisioni discusse e prese, pensate e analizzate in seno alla famiglia,
che aveva assunto il primo atteggiamento di indipendenza, quando definitivamente tutti avevano detto: adesso basta! Anche per questo, i figli
venuti assieme dall’Italia e dopo, anche quelli nati in Brasile, quando raggiungevano l’età della ragione, furono sempre molto affettuosi con i propri genitori sapendo che era stato per il loro bene che essi avevano affrontato dei grandi sacrifici.
Le figlie, in particolare, si sforzarono sempre di capire i loro genitori, particolarmente il padre per il quale la stragrande maggioranza di esse
nutriva un vero culto; cercavano di stargli vicino, comprenderlo, donandogli qualche momento di pace col loro affetto e appoggio. Sentivano che
per alleggerire il trauma sofferto dai genitori, era indispensabile l’apporto
del loro aiuto, e quando le necessità lo esigevano, agivano come mediatrici sempre pronte a intervenire per salvaguardare la pace della famiglia.
Conciliavano, giustificavano, perdonavano dando appoggio alla madre
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perché trovasse forza per sopportare quando a volte l’ambiente di casa
diventava teso. Piangevano nascostamente quando con il cuore stretto,
qualche sabato sera, vedevano arrivare il padre accompagnato dagli amici
che ancora si trovavano in condizione di camminare e lo riportavano a
casa perché aveva esagerato nel bere. A quel tempo, l’uso degli stupefacenti era limitato a poche persone appartenenti a una classe di elite; per i
comuni mortali, per quelli che non lo avevano come vizio, l’alcool serviva a volte come una fuga, una breve parentesi che li lasciava liberi dagli
interminabili e sempre stessi problemi che martellavano le loro teste. Era
una soluzione biasimevole, ma così lo stesso molto frequentemente usata,
e per i motivi che la provocavano, amaramente sopportata.
Ma non solo di lotte e privazioni era segnata la loro vita, c’erano
anche i momenti tranquilli e buoni, quando la famiglia trascorreva periodi sereni, quando le malattie davano una tregua ed il lavoro era sufficiente a garantire le entrate necessarie per non far mancare il cibo in casa, per
poter pagare l’affitto puntualmente e mandare i bambini a scuola. Quando
poi qualche soldo poteva trovare il suo posto nell’apposito cassetto che
fungeva da cassaforte domestica, quello diventava l’angolo dei sogni e il
deposito della speranza, ed era un bellissimo segno premonitore di giorni
migliori.
Il passaggio dalla fase delle difficoltà a quella di un nuovo stato
sociale diventava sempre più frequente nel gruppo degli italiani residenti
nella città; era un momento indefinibile per tante famiglie, che per lungo
tempo si erano dibattute nelle difficoltà. Era un momento magico che
poteva sorgere all’improvviso quando nel condire l’insalata la madre tratteneva la bottiglia dell’olio mantenendola inclinata e lasciandone scendere più dell’usuale, poteva occorrere anche nel negozio di generi alimentari, scoprendo che poteva comperare un chilogrammo di zucchero senza
pensarci perché aveva i soldi per pagarlo come pure poteva comperare le
scarpe nuove per il figlio piccolo che si stava preparando alla cresima,
senza dovergli far indossare quelle del fratello maggiore. Erano tante piccole vittorie che si andavano aggiungendo ad altre ancora, ed era l’avviso
che la fase delle vacche magre stava arrivando alla fine.
Poi come sempre succede e come tanto bene lo dice anche il proverbio che conoscevano già in Italia: “Soldi fanno soldi e debiti portano debiti”, la loro vita prese un nuovo corso, si erano ambientati ed erano anche
più sicuri di se stessi e di come orientare i loro progetti futuri. Altre entra159
te di soldi che arrivavano grazie al contributo dei figli che lavoravano
fuori, creavano le condizioni di organizzare una amministrazione familiare che permetteva di ammobiliare la casa, completarla con tutti gli utensili domestici e trasformarla definitivamente da come si presentava inizialmente, quando era tanto poco quello che possedevano, da sembrare più un
accampamento di zingari che una residenza familiare. Sicuramente molte
famiglie non raggiunsero il benessere che normalmente godevano i loro
compatrioti che si dedicavano al commercio che permetteva a loro l’accesso a ulteriori benefici, anche se molti di essi superflui. Lo stesso così
quasi tutti gli immigranti italiani di Poços de Caldas, pure in minor dose,
riuscirono a godere il risultato positivo della loro venuta.
I figli crescevano e l’ambiente che li circondava non era più composto da estranei, visto che attorno ad essi col passare degli anni si era creata una fitta schiera di conoscenti e amici che li faceva coscienti che ormai
avevano conquistato il diritto di appartenere a quella nuova comunità,
viva e attiva.
Anche certe preoccupazioni che prima assillavano le donne, adesso
avevano lasciato il posto a uno stato d’animo più calmo e disteso, la burrasca peggiore era passata, così anche le disperate implorazioni alla
Madonna si erano andate trasformando in ringraziamenti per grazie ricevute. Avevano più tempo da dedicare ai figli e a se stesse, potevano permettersi il lusso di usare uova, zucchero e burro per preparare anche dolci
e ciambelle. Alla sera, sedute sulle loro seggiole fuori della porta di casa,
onorando una tradizione tanto cara agli italiani di allora, partecipavano
alla riunione collettiva realizzata all’imbrunire per chiudere con chiavi
d’oro un’altra giornata lavorativa.
Quelli erano momenti dedicati solo alle cose amene, venivano diffuse le novità e sussurrata qualche notizia piccante, correvano i pettegolezzi, ma per tutto ciò erano perdonabili, perché potevano essere sicuramente donne forti e decise, ma in fondo non erano fatte di ferro. Che fossero
più tranquille e riposate lo si poteva notare dal modo di parlare più ricercato anche quando si riferivano ai figli .
«Non so, comare Amabile, la mia piccola Teresa sta tossendo molto,
potreste darmi il nome dello sciroppo che ha fatto tanto bene a vostro
figlio Michele?»
«Non era Michele che aveva la tosse, ma Antonio il più piccolo!»
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«Come? Ma non è Michele che ha l’età del mio Giuseppe? I due non
sono nati lo stesso anno che è nato il principino Umberto?»
«No, comare, Michele è due anni più vecchio. È nato fra le principessine Iolanda e Mafalda.»
«Ah, sì! avete ragione, ma sapete che quando la mia Marietta che è
nata quattro mesi prima della principessina Giovanna, è caduta dal seggiolone...»
La nuova realtà che si propagava assieme al benessere, faceva diminuire contemporaneamente anche la distanza che le separava da Elena di
Montenegro, Regina d’Italia e le portava a parlare dei principi di Casa
Savoia, come se fossero parenti stretti.
VIII. Ci fu un momento nel quale gli immigrati scopersero che
venendo via dall’ Italia, si erano portati assieme qualcosa di più che i loro
scarsi bagagli, ma per molto tempo non avevano capito cosa poteva essere. Solamente quando la situazione economica cominciò a dare segni evidenti di miglioramento, finalmente, anche se un po’ in ritardo, capirono
che cosa stava mancando per realizzare completamente la loro vita in
Brasile. Finita la prima lunga fase di adattamento, sentivano adesso la
necessità di ricostruire le loro identità assopite durante quel periodo.
Scopersero il cammino che li avrebbe portati a comprovare le loro origini,
nel paese dove erano nati, ricco di storia, tradizioni e cultura. Per questo
consultarono in Italia organizzazioni specializzate in quel tipo di ricerche.
Molti, anzi moltissimi italiani scrissero a quelle società inviando la cifra
richiesta per condurre una ricerca sulla storia della propria famiglia.
Rimanevano in fiduciosa attesa di una risposta che mai li deluse perché
immancabilmente confermava la loro certezza, cioè quella di appartenere
a una antica e nobile famiglia di pura stirpe italica. A Bologna avevano
capito perfettamente che il maggior desiderio, il sogno di molta buona
gente, specialmente quella che aveva emigrato, non era una cosa tanto difficile da soddisfare per lasciarla felice e contenta: il tutto ad un prezzo
accettabile.
Il documento magico compilato in quella città arrivava per riempire
di gioia il cuore di molti italiani e non solo in Brasile ma anche in innumerevoli altri paesi del Pianeta. Veniva elaborato da una organizzazione
che si intitolava “Blasone Italiano” ad un costo che non doveva essere
molto alto, visto il grande numero di richieste che riceveva. Venivano
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quindi recapitate via postale le due pergamene all’interessato che così
veniva posto a conoscenza della storia e delle gloriose gesta dei suoi antenati. Le due pergamene erano artisticamente arricchite da una decorazione di ricci e svolazzi dorati su fondo rosso che incorniciavano, in una, lo
stemma di famiglia riprodotto nei suoi colori originali con le spiegazioni
scritte sul fondo, dichiarando che tutte le informazioni erano state estratte dalla Regia Biblioteca Nazionale di Roma, l’altra conteneva tutti i dati
riferenti al lignaggio e alle origini della famiglia sottoposta alle ricerche
che neanche a farlo apposta, iniziava sempre così: “La storia di questa
nobilissima e antichissima famiglia ha avuto origine ecc. ecc”. Quando
poi a volte, per quanta buona volontà usata nelle ricerche non trovavano
dati rilevanti da raccontare agli interessati allora apparivano affermazioni
che si riferivano agli antenati come:”Gente di rara umiltà, però meritevole, mai ha sollecitato onori o cariche che li collocassero in alta e chiara
evidenza, malgrado esserne altamente degni, in vista della vita esemplare
che conducevano.” Ma con tutto ciò, il blasone non glielo avrebbe tirato
nessuno. Per i nostri, quello che c’era scritto sulla pergamena che si riferiva alla storia della famiglia era importante, speciamente la data che
segnava l’ascesa alla nobiltà, però il loro vero interesse veniva riversato
allo stemma della casata che visibilmente era la prova indiscutibile della
loro appartenenza alla classe nobile.
Per tale scopo veniva collocato in una cornice di legno dorato e appeso sulla parete più in vista della casa, occupando il posto d’onore fra il
ritratto dei nonni, il quadro del Sacro Cuore, la foto della famiglia Reale,
l’immagine di Giuseppe Garibaldi e posteriormente quella del Cavaliere
Benito Mussolini.
Non risulta che la ditta distributrice dei diplomi e degli stemmi abbia
giammai agito scorrettamente, visto che le informazioni fornite a chi le
sollecitava, erano state tirate dai ricchi e ben forniti archivi che raccoglievano i dati ed i simboli araldici, potendo scegliere in quella immensa
quantità di materiale disponibile, gli elementi utili che sicuramente coincidevano con i desideri degli interessati.
La funzione dell’organizzazione “Blasone Italiano” oltrepassava i
suoi limiti prefissi che erano solo quelli di informare; forse gli stessi idealizzatori di quella “fabbrica di sogni” mai avrebbero immaginato quanti
momenti di allegria e gioia stavano regalando ai loro compatrioti all’estero. Si stava chiudendo il ciclo che avrebbe raggiunto il suo apice al sug162
gellarsi con la vittoria finale, quando specialmente le famiglie venute dal
Meridione d’Italia, avrebbero visto realizzarsi l’ultima grande ambizione,
quella della laurea ottenuta da qualcuno dei giovani della famiglia, che
riempiva di felicità tutti, prima fra essi la madre, che poteva gridare: «Mio
figlio Dottore! mio figlio Dottore!...»
IX. Poços de Caldas continuava a crescere dentro uno schema urbanistico ben definito. Era tanto ancora lo spazio disponibile da occupare che
le costruzioni potevano rispettare la proporzione del loro volume lasciando molto posto al verde e alle piante; ma oltre a quello gli amministratori
andavano correggendo anche gli eventuali errori che erano stati fatti inizialmente, introducendo modifiche che miglioravano anche la parte estetica della città. Si definiva ogni volta di più la sua fisionomia nel vedere
come si stava sviluppando l’area commerciale orientata lungo tutta
l’estensione della Rua Paranà (attualmente Assis Figueredo) mantenendo
il commercio popolare, sempre nella stessa strada ma oltre il ponte dove
si localizzava il vecchio Mercato Municipale. Da sempre i migliori negozi furono aperti nel tratto che inizia all’angolo della Avenida Francisco
Salles e si estende fino alla Rua Junqueira. Le strade trasversali di quel
tratto della rua Marques do Paranà sfociano tutte in un grande spazio che
in seguito si sarebbe trasformato in una bella piazza con parco, e anche
loro erano occupate da negozi che si alternavano con residenze private.
Sul lato che faceva fronte alla grande area ancora semi occupata, inizialmente venne costruito l’Hotel da Empresa ed in seguito sorsero nuovi
alberghi, casinò, ristoranti, case di moda, farmacie.
Posteriormente in quello spazio vennero costruiti il Palace Hotel, le
“Thermas” Antonio Carlos”, il Palace Casino e un vasto e ben alberato
parco, che completava il quadrilatero centrale della città. Il Cimitero si trovava allora in una delle estremità della strada principale dove sorgevano
poche case, ma stava per essere disattivato perché con la città che si sviluppava sempre di più e le nuove case si spingevano verso la periferia, in
poco tempo si sarebbe trovato imbottigliato nel centro dell’abitato Fu
quindi rifatto sul versante della collina che scende verso l’Avenida João
Pinheiro, subito sotto la linea ferroviaria della compagnia Mogiana, questo nell’anno 1908.
Nell’area rimasta disponibile con il trasferimento del Cimitero, del
quale terreno era proprietaria la Chiesa, il Vescovo di Pouso Alegre fece la
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donazione di 3.200 metri quadrati di esso affinché in quel posto venisse
edificata la Basilica che ancora mancava nella città. Chi firmò il documento di trasferimento fu il parroco di allora Don Giuseppe Armani il
giorno15 aprile 1908. Quell’evento segnava anche la fine della funzione
di Chiesa Principale attribuita fin dagli albori della città alla minuscola
Cappella “do Bom Jesus da Cana Verde”; ma per quasi due anni ancora,
fino a quando non fu terminata la costruzione della Basilica, le cerimonie
liturgiche furono celebrate in quella chiesetta già troppo piccola per contenere il grade numero di persone che si erano stabilite a Poços de Caldas.
Don Giusepe Armani era nato il 9 giugno del 1835 a Caprino
Veronese in Provincia di Verona. È una località che si trova nella fascia di
terra fra il Lago di Garda ed il Fiume Adige. Dopo la sua ordinazione
sacerdotale fu inviato a svolgere la funzione di coadiuvante e poi di
Parroco nel piccolo centro di Ferrara di Monte Baldo dove rimase per 15
anni, In quell’area montagnosa si estraeva il famoso marmo rosso di
Verona, che allora rappresentava l’attività più importante di tutta la zona.
Don Giuseppe, che aveva una grande passione per l’ingegneria, progettò
una macchina per lavorare il marmo, la quale pur essendo stata patentata
e provata da un gruppo interessato per la sua utilizzazione, non ebbe il
successo sperato e quindi venne dimenticata. Dopo una permanenza nel
paese di Appiano, partì dall’Italia unendosi ai Missionari di San Carlo di
Piacenza, che orientati da Monsignore G.B. Scalabrini, avevano come
finalità l’assistenza spirituale da elargire alle centinaia di italiani che già
si trovavano all’estero.
Arrivò nella nuova terra di missione dopo essere sbarcato a Rio de
Janeiro nel 1888 e svolse il suo Apostolato in varie località fra le quali la
città di San Paolo, dove risiedevano molti dei suoi ex parrocchiani.
Nel 1890 fu nominato parroco nella città di Mogi Guaçu nello Stato
di San Paolo, per sostituire un altro prete italiano che aveva dovuto abbandonare il posto per essersi trovato coinvolto in un clamoroso caso finito
con un omicidio.
Un giorno, mentre Don Armani stava osservando dei lavori di scavo
che stavano portando alla luce l’urna di una antica civilizzazione indigena, notò con stupore che l’argilla scavata in quel posto era altamente plastica e malleabile. Gli venne allora l’idea di utilizzarla per produrre mattoni e tegole e anche di chiamare a quello scopo non solamente i suoi
familiari rimasti in Italia ma anche altri conoscenti del suo paese, che
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sapeva desiderosi di voler tentare la fortuna attraverso l’espatrio. Il pastore di anime si confondeva ancora con il sognatore e mancato ingegnere,
lasciandosi trascinare dall’entusiasmo per affrontare un nuovo progetto.
Poco tempo dopo arrivò il fratello Francesco con la sua famiglia ed assieme anche la sorella Giuseppa sposata con Giuseppe Martini, chiamati per
aiutarlo.
Dopo aver studiato senza successo la formula per fabbricare le tegole
conosciute come “Francesi”, per poterle sostituire a quelle che fino a quel
momento arrivavano importate ed anche perché prevedeva che sarebbe
stato un grande affare l’essere fra i primi a collocarle sul mercato, dopo
anche troppi tentativi inutili, per insistenza dei familiari e dei collaboratori Don Armani dovette rinunciare al suo progetto.
Deluso per tanto lavoro perduto Don Armani chiese alla Curia il suo
trasferimento nella città di Campinas dove rimase per breve tempo per poi
passare nella città di Poços de Caldas compiendo la sua missione di
Parroco che svolse dal 1904 al 1908, quando la sua avanzata età lo costrinse a ritirarsi nuovamente vicino a Mogi Guaçu e ai familiari, con i quali
visse gli ultimi anni della sua vita, venendo a mancare nella vicina città di
Estiva all’età di 75 anni nel 1910.
Il cognato Giuseppe Martini divenne il fondatore e proprietario della
maggior fabbrica di prodotti ceramici di Mogi Guaçu rimanendo per molti
anni al comando di quel settore. La semente lanciata da Don Armani aveva
finalmente prodotto un risultato certamente ben al di sopra delle sue
migliori aspettative, perché oggi Mogi Guaçu possiede un parco industriale ceramico a livello internazionale tanto nella produttività come nella
eccellente qualità dei suoi prodotti.
L’Hotel Mundial che in seguito avrebbe cambiato nome passando a
chiamarsi Hotel Rex è sorto in uno dei posti più centrali e valorizzati della
città quale era la Piazza Senador Godoy. Chi lo fece costruire fu l’intraprendente Biagio Varallo che poi ne divenne il direttore. La data nella
quale per la prima volta veniva registrata la presenza di quel dinamico italiano, originario della provincia di Avellino in Campania, risaliva all’anno
1897, quando in un documento del Cartorio del Registro Civile appariva
un suo atto di procura, redatto perché avesse inizio una causa di perdita e
danni contro un tale Francesco Capapreta. Da quel momento la sua presenza sarebbe apparsa frequentemente in una grande quantità di transazio165
ni, comperando, vendendo, ipotecando terreni, case e locali, diventando
un importante uomo d’affari con realizzazioni soddisfacenti specie nel
settore alberghiero ed anche dello spettacolo, essendo stato lui il proprietario del cinema Radium. Fu socio in molte attività, però la sua opera più
brillante fu realizzata durante la fase aurea con la presenza massiccia di
villeggianti e dei frequentatori delle Therme ed anche per il moltiplicarsi
dei Casinò, dove il gioco d’azzardo faceva scorrere fiumi di soldi. Aperse
un locale chiamato “Gibimba” che in poco tempo divenne famoso, anche
se rispettando il linguaggio burocratico trascritto sui registri del
Municipio, veniva definito come: “Una attività di terza classe”.
Nei suoi cento metri di lunghezza riuniva: la sala da gioco, il bar, il
caffè-concerto e il ristorante, il tutto in una sequenza senza nessuna divisione eccetto quella che, sul fondo, separava l’ambiente dove si esibivano
distinte signorine, sicuramente scelte proprio da Biagio, che aveva oltretutto il dono di saper organizzare e offrire ai suoi clienti quanto di meglio
esisteva nel campo delle attrazioni e degli spettacoli. Che fosse stato un
ambiente di terza classe lo si può confermare anche attraverso i nomi di
alcuna delle prestigiose artiste contrattate per animare le agitate notti del
Gibimba. Erano esse: “Lolò Tantan” “Florinda Caxambù e la “Mery
D’Utra” che oltre al successo personale nella loro arte, avevano anche la
fama di possedere un fascino irresistibile, che lacerava i cuori sia dei giovani imberbi, sia dei maturi colonnelli del caffè, o dei vecchi gagà.
Il Gibimba disputava la clientela con il Grande Hotel che possedeva
una struttura con decorazione moderna e sofisticata per l’epoca e una
apparecchiatura che offriva il maggior conforto e divertimento ai suoi frequentatori, con la sua ampia e accogliente sala da gioco, con orchestrine
selezionate e sempre presentando artisti famosi. Nell’annesso Teatro, il
“Polyteama”, forniva un servizio impeccabile di spettacoli teatrali e cinematografici.
Nell’anno 1915 Biagio Varallo era proprietario di dieci immobili regolarmente registrati sui libri del Municipio. Degli italiani che vivevano nella
città era quello che più ne possedeva, infatti delle 935 proprietà esistenti in
quell’anno un quarto di esse si trovava nelle mani di italiani i quali ne possedevano 234, distribuite fra 137 elementi della colonia. Le rimanenti 719
erano distribuite irregolarmente. Basta ricordare che 187 proprietà appartenevano a solamente a 10 persone. Ventuna erano di Agostinho de Barros
Cobra, dodici di Alziro Monteiro dos Santos, tredici di Bento de Carvalho,
166
undici di Cristiano Ozorio de Oliveira, sedici di Francisco de Faria Lobato,
otto di Ildefonso de Souza, otto di Josè Fereira de Assunção, ventuna di
Otto Piffer, quindici di Manoel Josè dos Santos, venti di Reinaldo
Amarante, quattordici di Silvio Monteiro dos Santos, undici di Umbellino
Rosa da Costa, e diciassette appartenevano a Vicente Ferreira.
Biagio Varallo pertanto fu un uomo che ottenne grande successo negli
affari, che sono stati tanti e forse per questo, fra gli altri, qualcuno non fu
molto chiaro. Era venuto in Brasile assieme al figlio Pasquale, ma sua
moglie rimase sempre in Italia come lo dimostrano le tante procure che
autenticava attraverso le autorità italiane, quando autorizzava il marito a
effettuare qualche affare. Non è riuscito a coronare il suo sogno di vedere
il figlio Pasquale con il diploma di “Dottore”. Biagio Varallo è morto alla
veneranda età di ottantadue anni. Oggi una strada della città porta il suo
nome.
X. Dopo il lungo periodo di siccità, timidamente arrivavano le tanto
attese prime piogge. Era questo il segnale che il periodo invernale stava
per finire e la raccolta del caffè, se già non terminata, stava per concludersi anch’essa.
Benvenuta perciò l’acqua, estremamente necessaria per riporre l’umidità nella terra a questo punto già secca. Le sorgenti erano arrivate al limite minimo della loro portata, lasciando uscire un misero filo d’acqua al
posto del getto che durante molti mesi aveva fluito abbondantemente.
Anche gli alberi lungo le strade erano diventati marron per la polvere fine
e impalpabile, che sollevata dal vento si depositava sulle loro foglie.
Finalmente era arrivato Settembre! Molti degli uomini italiani, specialmente quelli che risiedevano nella città, aspettavano ansiosamente questo
mese, che riservava a loro una fase gradevole nella loro vita, perché
appartenevano al numeroso gruppo degli apprezzatori di funghi. La grande estensione dei pascoli già ridotti a ciuffi di erba secca, erano stati messi
a fuoco perché i fazendeiros trovavano che con quel sistema risolvevano
vari problemi. Il primo era la pulizia dell’area che, per la mancanza di
braccia disponibili, solamente il fuoco avrebbe potuto renderla pronta per
il momento in cui sarebbe rispuntata l’erba novella. Altro motivo, erano le
ceneri risultanti dall’incendio, che servivano per accrescere di potassio la
terra molto acida ed ancora perché lungo il fronte delle fiamme, sempre
controllato da un gruppo di uomini che seguivano il suo avanzare, veni167
vano eliminati una grande parte di Urutus, Cascaveis, Coral, tutti serpenti velenosissimi sempre numerosi e pericolosi nei grandi pascoli incolti.
Le basse spianate, dove il terreno era tufoso e umido ed anche soffice erano i posti più sicuri dove spuntavano i funghi che tanto deliziavano
il palato degli italiani. Erano conosciuti dai locali come: “Cappello di serpente” perché secondo quanto affermavano i nativi (che ignoravano fossero commestibili) era fra i ciuffi d’erba dove crescevano i funghi che i
serpenti si riparavano dal sole. Al momento in cui si manifestavano le
condizioni ideali per la nascita dei funghi, ossia con il calore del sole che
faceva evaporare la terra dopo uno scroscio di pioggia, gli italiani già
pronti per la ricerca indossavano un indumento al rovescio, perché dicevano che portava fortuna, e partivano prendendo tutte le precauzioni perché non volevano essere visti dagli altri, che sarebbero venuti a conoscere i loro posti segreti, giacché ognuno voleva mantenere il suo solo per sé.
Nei fitti boschi in Brasile non crescono i funghi al contrario dell’Europa
dove se ne incontrano in grande quantità e varietà. Per fortuna i funghi
apprezzati nella zona dove vivevano gli italiani erano tutti mangerecci e
facevano parte della famiglia dei Porcini.
XI. Quando Ercole Policarpo Maran sbarcò nel porto di Santos aveva
quarantacinque anni. Era il giorno 23 Gennaio del 1887. Lo accompagnava la famiglia composta da sette elementi: la sposa Maria Schiavo di 44
anni e i figli: Carlo di 16, Giuseppe di 12, Angela di 7, Febronia di 5, Luigi
di 4 e Caterina di 2. Assieme a loro avrebbe dovuto partire per il Brasile
anche la madre di Ercole, Caterina Scudela di 68 anni, ma sul passaporto
collettivo il suo nome è stato cancellato con una lunga linea tracciata con
un lapis, lasciando chiaramente intendere che all’ultimo momento deve
essere accaduto qualche imprevisto che ha fatto modificare i piani della
famiglia. Erano partiti da Genova per attraversare l’Atlantico con il piroscafo “France”. Dalle informazioni ottenute dai discendenti, sembrava
che l’anziana signora fosse morta nel porto di Genova mentre la famiglia
aspettava l’ordine di imbarco. Invece da un documento trovato nel
Municipio di Este in Provincia di Padova, dove Ercole ha vissuto dal 1860
fino alla data della sua partenza e dove gli è stato rilasciato il passaporto,
si poté rilevare che Caterina Scudela era viva, perché nell’anno 1891 si
trasferiva da Este per andare ad abitare a Villafranca in provincia di
Vicenza. Chi invece non appare più nei documenti è la figlia Caterina di
168
due anni di età, dando credito all’ipotesi che ci sia stato un malinteso, causato dal fatto che nonna e nipotina avevano lo stesso nome e la nonna
all’ultimo momento abbia desistito di seguire la famiglia.
Ercole è nato a Montecchio Precalcino, Provincia di Vicenza nel 1842.
All’età di 18 anni si è trasferito a Este dove nel 1865 sposava Maria
Schiavo; dal matrimonio sono nati dodici figli, sette dei quali morti in tenera età; solo Gioacchino, che è stato quello che più ha vissuto, è morto a tredici anni. Di professione Ercole era falegname e benché si distinguesse nell’arte di lavorare il legno, in quegli anni difficili per tutti doveva trovarsi in
difficoltà anche a mantenere la famiglia. Come se già non fossero bastati i
problemi causati dalla situazione politico-economica dell’Italia, si aggiunsero degli imprevisti, come le alluvioni che devastarono il Veneto nel 1882,
con lo straripamento di fiumi e torrenti, fra i quali il Brenta, il
Bacchiglione, l’Astico, il Guà e l’Agno, spazzando via tutto e seminando
distruzione e miseria. Sono caduti ponti, si sono perdute case e raccolti e
dopo il rientro delle acque nei loro letti, molte delle centinaia di campi di
terra fertile sono riaffiorati totalmente coperti di detriti e sassi trasportati
dalla furia della corrente. Si ridussero così anche le possibilità di lavoro per
molta gente, visto che gli sforzi ed i pochi soldi disponibili venivano
impiegati per riparare i danni, recuperare la terra, e ricostruire quello che
si era perduto. A Este, nel 1886 Ercole abitava in via Santo Stefano, la stessa dove, quasi per ironia, si stavano scoprendo durante alcuni scavi, tombe
e lapidi funerarie romane risalenti al primo secolo dopo Cristo, ricche di
oggetti preziosi che documentavano l’esistenza in quel posto di una antica
società altamente civilizzata, in completo e totale contrasto con la realtà di
quel momento che trovava un popolo disfatto, deluso e povero e sempre
più disposto a scegliere il cammino dell’emigrazione.
In Brasile la famiglia Maran si è stabilita nella città di San Paolo, perché Ercole e il figlio Carlo avevano trovato lavoro come falegnami, nella
gigantesca opera del Palazzo Imperiale, in fase di costruzione nel quartiere di “Ipiranga” totalmente spopolato in quell’epoca. La loro residenza si
trovava nella zona di confine fra i quartieri del “Paraiso” e della “Vila
Mariana” dove vivevano molte famiglie italiane. L’anno nel quale la famiglia Maran si trasferì a Poços de Caldas, secondo informazioni dei familiari, risale al 1890 dopo tre anni dall’arrivo in Brasile. Ufficialmente il
cognome Maran appare per la prima volta nel libro del registro civile della
città nell’anno 1897, in occasione del matrimonio di Angela, la figlia di
169
Ercole, che all’età di diciassette anni sposava il connazionale Silvio Della
Santina di venticinque anni, figlio di Domenico, abitante a San Paolo
nello stesso quartiere dove avevano vissuto anche i Maran.
Anche se Ercole Maran non appare fra i fondatori della Società di
Mutuo Soccorso Stella d’Italia nel 1893, lui poi sarebbe stato sempre presente come socio, ricoprendo anche cariche direttive. È quasi certo, perciò, che a quell’epoca non doveva risiedere ancora a Poços de Caldas. La
sua presenza può quindi risalire a partire dall’anno 1894.
La seconda figlia, Febronia, a 18 anni sposava nel 1900 Giuseppe
Pavesi di 27. Nel 1904 a 33 anni Carlo (o Carletto come meglio era conosciuto) sposava in seconde nozze Domenica Cavini di 20 anni. Carletto si
era sposato a San Paolo durante il periodo che con tutta la famiglia viveva in quella città. Lì sono nate tre figlie; alla nascita della quarta, già abitando a Poços de Caldas, perse prima la creatura e dopo pochi giorni
anche la moglie Martina Ghedini, vittima di setticemia. Nel 1904 anche
Giuseppe di 30 anni sposava Domenica Venturini di 19 anni e nel 1915
Luigi di 32 anni sposava la diciassettenne Genoveffa Lovato. Di Caterina
più nessuna notizia.
Ercole era un uomo di alta statura, un buon professionista, ed era
istruito perché sapeva leggere e scrivere molto bene ed anche sapeva suonare la fisarmonica con grande abilità. Ha posseduto pure una fabbrica di
“Polvere di Caffè” come affermano i documenti che si trovano in
Municipio. Si è distinto soprattutto per la sua condotta esemplare, godendo della fama e rispetto da parte di tutti ed aggiungendosi il merito di aver
avuto una famiglia attiva, sempre pronta a contribuire con l’onesta operosità dei suoi componenti al progresso della città, unendo la sua presenza
alle molte altre tradizionali famiglie italiane esistenti a Poços de Caldas.
Ercole morì all’età di 84 anni nel 1926.
XII. L’altro Policarpo della colonia italiana apparteneva a una famiglia originaria del Lazio ed esattamente a un piccolo paese col simpatico
nome di “Campodimele” in Provincia di Latina. I genitori che si erano sposati a Caserta arrivarono dall’Italia nell’anno 1887. Assieme sono venuti i
figli fra i quali Policarpo, allora di appena quattro anni essendo nato il 28
ottobre 1882. Il cognome della famiglia inizialmente fu registrato nella sua
giusta grafia che è Zincone, ma con il passare del tempo e per distrazione,
al momento della trascrizione su qualche documento, è passata ad assume170
re la forma attuale Zingoni. Salvatore Zincone e Irena De Parolis, i genitori, quando vennero in Brasile, prima di stabilirsi definitivamente nel
Municipio di Poços de Caldas, abitarono per un anno nella città di San
Paolo. Assieme ai Zincone era venuta anche la famiglia di Vittorio De
Parolis, parente di Irena. Nel Municipio di Poços de Caldas le due famiglie
si stabilirono nella fazenda Boa Vista dedicandosi per molti anni alle attività agricole. Policarpo ha vissuto fin dall’infanzia in quell’ambiente,
distinguendosi per l’intelligenza che lo faceva molto apprezzare dai figli
del proprietario della fazenda che mantenevano con lui un rapporto di amicizia, specialmente il Cacà del quale era compagno nelle frequenti battute
di caccia, quando inseguivano gli animali che in grande quantità vivevano
protetti nella foresta. Il suo compito era quello di provvedere il necessario
per la fabbricazione delle cartucce; per questo doveva recarsi frequentemente a Poços de Caldas a fornirsi di polvere da sparo e pallini di piombo.
Ad un certo momento Policarpo si rese conto che la vita che stava conducendo non corrispondeva esattamente alle sue aspirazioni e desideri.
Capiva che il tenore di vita spensierata che stava sfruttando un giorno
avrebbe potuto finire e lui continuando così stava correndo il rischio di trovarsi in un futuro molto prossimo, con un pugno di mosche in mano. Il
Cacà avrebbe ereditato la fazenda dal padre, mentre lui non possedeva nessuna garanzia se non quella assicurata dal suo lavoro. E non poteva dormirci troppo sopra per non rimanere preso in una trappola. Lasciò quindi la
fazenda per tentare la sorte in città. Otto Piffer, uno dei Tedeschi che vivevano a Poços de Caldas, in quel momento stava costruendo il “Grande
Hotel” ed il “Theatro Polyteama” nella Avenida Francisco Salles.
Policarpo, trasportato dall’entusiasmo dei suoi giovani e sognatori venti
anni, si impiegò in quella costruzione lavorando come muratore per qualche tempo, fino al giorno in cui cadde dall’impalcatura del tetto fratturandosi una gamba. È stata quella la prima e ultima volta che si cimentò nel
mestiere di muratore. Dopo aver pensato seriamente al suo futuro arrivò
alla conclusione che valeva la pena mantenere i piedi ben piantati al suolo;
aperse allora una macelleria in uno dei box nel Mercato Municipale e da
quel momento iniziò la sua ascesa economica. È diventato un commerciante conosciuto, proprietario di un ben fornito negozio di generi alimentari e
distributore dei vini prodotti dai Consolini nel loro vigneto che avevano nel
“Bairro dos italianos” o “Corrego d’Antas”. Nel 1914 sposò Settimia
Ghigiarelli, che risiedeva nella stessa zona dei Consolini e dei Benelli, le
171
tre famiglie Toscane che avevano fondato quel posto. I Ghigiarelli avevano trascorso in Argentina il periodo di oltre un anno, ma poi preferirono
ritornare in Brasile. Policarpo ebbe vari figli, il primo dei quali è nato il 26
dicembre del 1915 ed è stato battezzato col nome del nonno paterno
Salvatore, già tradotto nel portoghese Salvador.
XIII. La situazione spaventosa nella quale si dibatteva l’Europa intera nei mesi finali del 1914 lasciava preoccupati e perplessi gli italiani residenti nelle città e nelle fazende, con le notizie ogni volta più insistenti
sulla inevitabilità di un prossimo conflitto armato che avrebbe coinvolto
molte nazioni. Infatti, dopo meno di un anno dall’inizio delle prime ostilità, anche l’Italia il 24 maggio del 1915 si alleava alle altre potenze e
dichiarava guerra all’Impero Austro-Ungarico, dando inizio a un lungo e
triste periodo di privazioni e sofferenze e avendo una parte del suo territorio usato come campo di battaglia, dove si svolsero sanguinosi scontri
fra eserciti che si disputavano metro a metro lo spazio da conquistare al
costo di molte giovani vite. Anche dal Brasile vari emigrati partirono per
arruolarsi nell’esercito italiano come volontari. Per il grande numero di
giovani italiani che vivevano in Brasile, è stata insignificante la quantità
di quelli che si sono presentati all’appello.
Quelli che erano emigrati negli anni 1880-90 e già avevano figli e
nipoti brasiliani, sentivano che la loro Patria adesso era quella che li
aveva accolti, offrendo lavoro e la possibilità di poter realizzare i loro
sogni. Rimane ben inteso che il diritto all’integrazione se lo erano guadagnato con la loro perseveranza, superando le avversità, lavorando sodo
e impegnandosi in una lotta che durò molti più anni di quanto avrebbe
potuto durare qualsiasi conflitto bellico. Nella loro guerra avevano combattuto ora per ora, giorno dopo giorno, sudando e sacrificando, dovendo
mangiare spesse volte il pane impastato dal diavolo, senza mai fuggire o
retrocedere di un solo passo davanti alle innumerevoli avversità incontrate nel loro cammino. La distanza non aveva fatto assopire il loro sentimento verso la Patria, anche se per loro era stata più matrigna che Madre,
ed era un bene per loro godere di quel confuso sentimento che spesso li
riempiva di nostalgia, che era poi quella del paesello natio, degli amici
d’infanzia, del campanile, della Primavera, delle processioni, e non certamente quella delle aringhe salate o della pellagra. Col tempo però il
loro comportamento nei riguardi della Madre Patria si è gradatamente
172
modificato, adattandosi alle nuove esigenze imposte dallo stesso ambiente dove adesso vivevano. Seguivano sui giornali le notizie sul conflitto
mondiale ed erano molto preoccupati, specialmente i Veneti, perché era
nella zona dove loro erano nati che gli eserciti si combattevano accanitamente. Si entusiasmavano alla notizia di vittorie e si avvilivano quando
capitavano gli insuccessi. Per molti il generale Luigi Cadorna, comandante supremo dell’esercito italiano, era un grande condottiero, per altri
invece avrebbe dovuto essere sostituito da un comandante più giovane e
abile. Durante accalorate discussioni manifestavano le loro opinioni
polemizzando fra amici, sugli avvenimenti e fatti che accadevano nella
loro Patria di origine.
Il lungo tirocinio, nel processo di adattamento, aveva raggiunto ottimi risultati perché si era svolto spontaneamente senza paure o dubbi di
tradire l’Italia e per il rispetto e la riconoscenza che dovevano dedicare
anche al Brasile. Viaggiare e attraversare l’Oceano, mettersi in una avventura che solo prometteva come fine l’ignoto, affrontare nuove sfide che
solamente loro da soli dovevano risolvere, questa fu la scuola di vita che
li ha resi grandi e ha fatto vedere loro il mondo attraverso un altro prisma,
che non lo dipingeva tanto meschino e monotono come quello che avevano vissuto fino a poco tempo prima.
Il rapporto di molti genitori con i propri figli nati in Brasile, a volte
fu difficile perché li portò ad affrontare situazioni ben delicate. Di fatto,
se il desiderio era quello di farli coscienti della loro ascendenza iniziata in
un Paese civilizzato e colto, nello stesso tempo non dovevano influire esageratamente con opinioni o affermazioni, obbligandoli a sentirsi dire continuamente quanto era piena d’incanto la loro Bella Italia, come si mangiava bene nella Bella Italia, che bella gente c’era nella Bella Italia, e
magari dopo aver fatto notare la differenza peggiorativa delle stesse cose
di qui. Era la maniera più sicura per farli entrare in conflitto con i propri
figli, brasiliani di nascita, che per conoscere solo quello che offriva il loro
Paese non gradivano tali critiche. Nel normale e inevitabile scontro, sempre esistito fra le generazioni, poteva capitare nel corso di una esaltazione patriottica da parte di un genitore, sentirsi dire dal figlio: «E perché non
sei rimasto là a goderti tutti i vantaggi nella tua adorata Italia?...».
Ma non per questo la convivenza nelle famiglie italiane ha lasciato di
trascorrere serena e armoniosa e basata sul mutuo rispetto, superando tutti
gli ostacoli, progredendo e facendo studiare i loro figli. Erano passati molti
173
anni dal lontano 1904 quando fra i pochissimi alunni di un collegio privato, per la prima volta appare il cognome di uno studente italiano, il piccolo Ottorino Danza citato per essersi distinto negli studi. Altre scuole sono
sorte e parecchi insegnanti italiani hanno contribuito molto per l’istruzione
dei ragazzi, figli di emigranti. I professori Trevisan, Torquato de Lorenzo
con la sua scuola “Anita Garibaldi” e Casella furono fra i più attivi. Adesso
gli italiani stavano accelerando il passo, determinati più che mai, a concludere il lungo e tortuoso cammino che avevano scelto per raggiungere il loro
destino.
XIV. 5 luglio 1914. Nel Cartorio del Registro Civile di Poços de
Caldas, viene redatto un contratto di debito dove appare nella veste di
creditore il “Capitano João Cardillo” con la somma di 10.000$000 reis
(dieci contos di reis) che dovrà ricevere dopo sessanta giorni, più l’aggiunta degli interessi, dovendo essere utilizzata quale forma di pagamento, la consegna di 2.000 arrobas di caffè (3.000 kg.) spolpato, pronto e
insaccato.
È questa la prima volta che viene attribuito a un cittadino italiano il
titolo onorifico di “Capitano”. È un bel segno indicativo dei cambiamenti che si stanno verificando ed anche dell’ingente capitale che disponeva
João Cardillo.
Le ultime notizie che arrivano alla fine dell’anno 1914, anche se preoccupanti per l’Europa, sono promettenti invece per gli italiani in Brasile,
perché qui si vive in pace. Ancora un passo avanti è stato fatto, altri passi
si sarebbero aggiunti in seguito, a volte riducendoli altre accelerandoli, ma
sempre con la fermezza e la convinzione di chi sa di aver assunto la
responsabilità di lasciare dietro di sé le orme dei suoi passi nelle pagine
della storia: la storia degli Ammirevoli italiani di Poços de Caldas, del
Brasile o di qualsiasi parte del mondo dove essi hanno versato gocce del
loro sudore.
174
Jornal da Mantiqueira
Domingo 6 de novembro 1988
Poços de Caldas Brasile sezione: Arte, Cultura & Cia
Traduzione in italiano dell’articolo dello scrittore Jurandir Ferreira
sul libro: “Os Admiraveis italianos de Poços de Caldas” di Mario
Seguso
Gli ammirevoli italiani di Poços de Caldas possono rappresentare gli ammirevoli italiani dell’intero Brasile. Questo lavoro del
signor Mario Seguso, realizzato con serietà, con intelligenza e
pazienza, in una lunga ricerca su documenti pubblici e interviste
personali e principalmente condotto a termine con appassionata
affinità, trattandosi di un argomento con il quale l’autore si identifica
in molti modi, è un lavoro che viene ad occupare nella nostra letteratura uno spazio significativo che ancora non era stato riempito.
Corrisponde a un ben concluso studio di sociologia del lavoro agricolo italiano in terra brasiliana, benché nello stesso tempo siano
fatte delle annotazioni dello stesso genere nell’area cittadina. Nella
prefazione lo scrittore dice che non si è lasciato trascinare da pretese letterarie, ma la mancanza di queste non hanno impedito che
scrivesse un libro da causare invidia a molti letterati. Il talento, che
decide nelle arti, produce indipendentemente dalle pretese o corsi
universitari. L’italiano Gabriele D’Annunzio si vantava di non commettere errori di francese, lingua nella quale si sono consacrati tanti
stranieri, però l’italiano Mario Seguso non dice che non sbaglia col
portoghese e con rispettosa modestia chiama don Adelmo Arantes
Rosa per verificare il vernacolo. Ne è risultato un linguaggio spoglio
di pretese ma colorito, chiaro e molto efficace, con evidenti segni
personali dell’autore. Non ho visto gli originali, ma voglio credere
che il reverendo padre non sia entrato se non con un tanto di Acqua
Santa grammaticale. E che fosse stato lui, il reverendo, un revisore,
un occasionale collaboratore in quel lavoro, niente da far meraviglia
ad alcuno. La cooperazione di Francesco Escobar nel libro “Os
Sertões” in nessun momento ha messo in dubbio l’autorità e la glo177
ria di Euclides da Cunha.
Quello che si trova di meritevole e essenziale nel libro di Mario
Seguso è il suo proprio, genuino e personale ingegno. Lui viene a
collocarsi allo stesso livello degli storiografi della nostra città di
Poços de Caldas, come il pochissimo conosciuto Fortunato Rafael
Nogueira Penido e Mario Mourão o Homero Ottoni. Chissa se meritando anche di essere classificato in una posizione più alta, dovuta alle sue connotazioni internazionali, i suoi paralleli e confronti fra
due civiltà, due etnie , due patrie, per i suoi profondi diametri
umani. Dopo di “Teresina Etc” che il professor Antonio Candido de
Mello e Souza ha pubblicato nel 1980 niente è apparso se non “Gli
ammirevoli italiani di Poços di Caldas”. L’eccellente lavoro del professor Antonio Candido tratta principalmente la storia di una tipica
socialista italiana, la signora Maria Teresa Carini nata a
Fontanellato in Reggio Emilia nel 1863, una “personalità vulcanica”
secondo il suo illustre biografo, la quale ha vissuto a Poços de
Caldas dal 1910 fino alla sua morte nel 1951. È questo libro un
notevole esercizio di informazioni e di ricerche sugli italiani eminenti che sono venuti a installarsi in Brasile e che ne descrive le loro
attività intellettuali e politiche. Il libro del signor Seguso ritratta gli
immigranti italiani nelle loro congiunture biologiche, economiche e
sociali, nei loro propositi elementari di adattarsi alla geografia, agli
usi e costumi dei tropici ed in essi sopravvivere e vincere. Con questo hanno contribuito a cambiare in meglio il verdeggiante paese di
“macunaima” dei “meticci” e dei colonnelli.
L’autore scrive con ricchezza di particolari, con abile percezione delle circostanze, a volte romanzate ma sempre condotte con
una visione critica più britannica o gallese che italiana. Sorprende
la sua conoscenza su tutto ciò che si riferisce alle origini strutturali del posto che ha visto nascere la città delle acque e la città operosa e industriale di oggi. Molto insegna, molto informa e molto
assorbe lo spirito del lettore. E, come può capitare in questa o in
altre opere, si incontra qualche pagina meno perfetta che sarà
destinata a essere rivista in una prossima edizione.
Nel suo insieme è un grande libro di deliziosa lettura, un volu178
me originale e unico, degno degli applausi di tutti i brasiliani.
Mancava forse a Poços di Caldas una strada, mancava forse un
monumento che ricordasse il merito di quel grande popolo fra noi.
Adesso già non sono necessari né strada né monumento. In questo libro la carta e l’inchiostro si trasformano nel marmo e bronzo
delle commemorazioni. Questo libro evocherà, celebrerà e manterrà perenne la memoria della gente italiana che ha aiutato come
nessun’altra a erigere dal suolo una città indicata come una delle
più perfette del Brasile. La sua lettura mi ha incantato.
Jurandir Ferreira
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Elenco dei cognomi degli italiani residenti a Poços de Caldas
in ordine di data di registrazione nei documenti ufficiali
Anno 1884 – Francesco Vigna – Andrea Filardo
Anno 1885 – Giuseppe Siciliani – Giuseppe Allara – Angelo Bonvicino – Basilio
Pertini – Benedetto Pellici
Anno 1886 – Michele Paladini – Giovanni Battista Pansini
Anno 1887 – Pietro Dal Poggetto
Anno 1888 – Luigi Prezia
Anno 1889 – Nicola Longo – Saverio Peppe – Raffaele Danza – Vincenzo Basilio
– Pietro Dinucci – Alessandro Maré – Carlo Monge – Domenico Rebeque
Anno 1890 – Sebastiano Pizzol – Teodoro Delfino
Anno 1891 – Giuseppe Carlo Garibaldi – Vincenzo Petrecca – Nicola Amalfi –
Giuseppe Solferini – Fortunato Gorrasi – Alfonso Parini – Riccardo Pironato
– Camillo Zaghetto
Anno 1892 – Francesco Mencarini – Enrico Goffi – Pietro Bianucci – Emanuele
Luigi Zuanella – Agostino Cerchiai – Corrado Giuntoli – Giuseppe Agostini
– Alessio Ferraris – Benvenuto Patteroni – Mansueto Puglia – Luigi Dupanda
– Felice Galeazzi – Umberto Mircolongo – Torello Taviani – Nicolò Stella –
Angelo Orlandi – Baldassare Franco – Pietro Perillo – Felice Ralangi –
Federico Bianchetti
Anno 1893 – Tommaso Merlo – Felice Ghilardi – Nazzareno Donzelli –
Francesco Zanelli – Rocco Guazzelli – Attilio Cinquini – Luigi Bacco –
Lorenzo Darioli – Primo Ferro – Giovanni Ponteprimo – Alessandro Ruza –
Solone Scala – Giuseppe Arcangeli – Arturo Bianchi – Teodoro Rosi – Attilio
Capitanini – Vincenzo Panari – Luigi Balbia – Andrea Fortunato – Pietro
Giorgetti – Luigi Ballerini – Carlo Girolami – Vincenzo Judice – Regulo
Puccetti – Achille Giacometti – Antonio Nespati – Giacinto Bernardo – Pietro
Tallone – Carlo Montanelli – Angelo Driussi – Aladino Orlandi – Francesco
Martinelli – Carlo Vescio – Silvio Della Santina – Giovanni Salvucci
Anno 1894 – Vitaliano Marino – Francesco Alvisi – Bernardo Orsi – Brezzo
Casali – Antonio Chiado – Oreste Bonelli – Onesino Torquati – Enrico
Berlinari – Giovanni Salomone – Amedeo Pierini – Alessandro Arcipreti –
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Pasquale Carbone – Pietro Bonadero – Angelo Emiliano – Vittorio Flaminio
– Antonio Gomirato – Pietro Valtriani – Alessandro Piccolo – Stefano Testa –
Albino Casella – Pantaleone Stanziola – Giovanni Belelli – Pietro Canali –
Eugenio Coraini – Giovanni Marampelli – Ferruccio Incrocci – Antonio
Legnaro – Roberto Milani – Antonio Pelicciari – Domenico Silvestrini –
Gioacchino Jacono
Anno 1895 – Luigi Cecchini – Amilcare Gianelli – Giacomo Beliato – Ernesto
Amadio – Giuseppe Manone – Carlo Errico (Henrique) – Jacopo Alessandri
– Angelo Nanni – Lorenzo Scattolin – Nicola Gatti – Vincenzo Mandarini –
Pietro Monguzzi – Antonio Pandolfo – Agostino Piovesan – Gesualdo Rugani
– Antonio La Motta – Nicola Zangrando – Giacomo Curia – Luigi Veronesi –
Alfonso Scassiotti – Alessio Borinato – Alessandro Ranga – Napoleone Villa
Anno 1896 – Raffaele Furchi – Luigi Felizia – Giovanni Braz – Achille Righetto
– Antonio Pardini – Federico Santolia – Alfonso Mazzotti – Agostino Buda –
Domenico Rocco – Crispino Caponi – Angelo Gianni – Oreste Lupetti
Anno 1897 – Massimo Boggio – Paquale Vergani – Giovanni Barbon – Rodolfo
Togni – Evangelista Pellegrinelli – Giuseppe Guerra – Antonio Benozzati –
Pietro Del Sarto – Francesco Grazia – Narciso Bonini – Alessandro Arruga –
Carlo Cagnani – Giovanni Durante – Contardo Emanuelli – Ercole Maran –
Giorgio Pavesi – Antonio Pigon – Emilio Possenti – Gentile Sparapan –
Vincenzo Tivoli – Antonio Balestri – Biagio Varallo
Anno 1898 – Antonio Nigra – Vittorio Paschero – Nicola Straface – Valentino
Chinate – Leonardo Aiello – Arturo Cavazzoni – Paolo Berarda – Gerolamo
Boratto – Domizio Cavini – Natale Frusato – Carlo Rotunno – Giovanni
Tedesco – Gustavo Marcaccini – Stefano Mazza – Eugenio Miglioranzi –
Artidoro Modesti – Ferdinando Naldoni – Angelo Pizzini – Eduardo Zotti
Anno 1899 – Dante Garavello – Eugenio Pagin – Giuseppe Lauria – Isidoro
Cobatto – Pietro Brunelli – Arturo Sala – Andrea Grazia – Telemaco Arrigucci
– Attila Artioli – Giacomo Satti – Francesco Fantozzi – Luigi Puig Visconti –
Cesare Pistagi – Roberto Guelfi – Antonio Dianda – Emanuele Troyano –
Giovanni Gonzo – Vittorio De Parolis – Salvatore Zincone – Bruno Luciano
– Giuseppe Bressane – Luigi Zapparoli – Geronimo Todescato – Pasquale
Donadio – Angelo Cappelli – Vincenzo Viti – Gioacchino Vizzotto –
Domenico Rizzo – Canz Conci – Francesco De Liberador – Giacobbe Del
Vecchio – Delmo Poppi – Giuseppe Saettone – Enrico Sangiorgi – Raffaele
Sarti
182
Anno 1900 – Giorgio Giglioli – Gaetano Marcante – Roberto Rebosti – Pietro
Valentin – Nicola Aversa – Ernani Ambrogi – Angelo Parison – Antonio
Buscia – Pasquale Gesualdi – Nicola Sozzi – Emilio Zanovello – Gaetano
Digro – Mariano Cestaro – Annibale Manfredini – Giovanni De Stefani –
Vincenzo Discorio – Braz Massari – Luigi Rotondari – Luigi Orlandi
Anno 1901 – Francesco Cerpoloni – Gio Batta Finelli – Eufemio Nastrini –
Giacomo Pasculli – Francesco Tamburi – Felice Scolari – Francesco Zannoni
– Ferruccio Fazzi – Antonio Suppo – Luigi Ghetti – Domenico Fagnani –
Germano Nastri – Edoardo Pastori – Santo Bertozzi – Filippo Casadei – Carlo
Cascella – Enrico Osti – Francesco Mannini – Mario Dossi Pallini
Anno 1902 – Carlo Giuseppe Occhiena – Umberto Sculamiglio – Ricardo
Annoni – Luigi Tacconi – Luigi Gianmarini – Raffaele De Luca – Francesco
Olio – Raffaele D’Angelo – Candido Ridolfi – Giuseppe Belloggi – Federico
Venturini – Pietro Gianotti – Antonio Maretti – Pilade Mengali – Bruno Tucci
Anno 1903 – Pietro Batta – Raffaele Pastore – Domenico Montevecchio –
Giuseppe Broccardo – Silvio Salvadori – Enrico Melzo – Giuseppe Dalmo –
Alvise Visentini
Anno 1904 – Luigi Rosina – Padre Luigi Cappello – Rosario Virga – Vito
Pomarico – Constantino Giorgi – Augusto Lovato – Pietro Mantovani – Carlo
Monte – Pietro Pierantonio – Giovanni Battista Pinola
Anno 1905 – Vincenzo Cardillo – Salvatore Finotti – Pietro Gaglia – Natale
Beccaro – Romano Avanzi – Nunzio Galise – Antonio Mattavelli – Francesco
Lio – Giovanni Poggetto – Giulio Tassi – Saverio De Simone – Ernesto Trotta
– Gaetano Nicodemo – Luigi Peterle – Pietro Ratta – Giovanni Cardinali –
Carlo Milara – Giuseppe Castellani – Ottavio Vernacci – Enrico Rizzieri –
Vincenzo Centola – Pietro Rosa – Pancrazio Corradi – Antonio Diotisalvi –
Giuseppe Depiaggio – Giovanni Battista Gerini – Michele Risola
Anno 1906 – Luigi Santi – Pietro Ranauro – Luca Frediano – Raffaele Gugliotti
– Innocente Papiani – Giuseppe Blaschi – Carlo Mazza – Francesco Piccinini
– Paolo Contiero – Alfonso Tramonte – Tommaso Venafro – Pietro Pascoli –
Michele Antonelli – Cherubino Borelli – Nicola Camillo – Alfonso
D’Ambrosio – Francesco Fresati – Luigi Gasparini – Giovanni Lorenzini –
Marcio Metidieri – Lorenzo Pistolesi – Giuseppe Trezza
Anno 1907 – Emanuele Ferrari – Angelo Gilberto – Settimo Spini – Agostino
Zono – Battista Bresaulo – Giuseppe Pallini – Andesio Bernia – Francesco
Matanò
183
Anno 1908 – Giovanni Ferron – Clemente Cheberle – Nicola Fazzini – Geronimo
Caniato – Vittorio Frison – Stefano Brunacci
Anno 1909 – Michele Russi – Mario Comissi – Giuseppe Capanna – Inazio
Curcio – Antonio Beltrame – Giovanni Arnise – Pasquale Cunico – Carlo
Mussolini – Adolfo Pieve – Adolfo Prospero – Domenico Sarubbi
Anno 1910 – Mario Caruso – Domenico Pandolfo – Carmelo Scabbia –
Guglielmo Martini – Luigi Nucci – Angelo Gambini – Alessandro Gaspari –
Remo Lunardi – Pietro Dalla Rosa – Angelo Maretti – Bernardo Sgilli – Nilo
Rochetto
Anno 1911 – Gennaro Ferrara – Domenico Clemente – Antonio Loro – Giuseppe
Guglielmucci – Pasquale Pallagano – Beino Audizio – Alberto Marini –
Cesare Andracoli – Luigi Zampieri – Antonio Nuzza – Luigi Pavan
Anno 1912 – Giuseppe Ippolito – Vincenzo Mollo – Giovanni Mancini –
Sabatino Sanprini – Giovanni Carletti – Alfonso Falchetta – Luigi Infante –
Giulio Beni – Francesco Miniscalco
Anno 1913 – Felice Di Lorenzo – Saverio Perri – Antonio De Stefano –
Innocente Raspante – Teodoro Cerri – Vincenzo Tepedino – Marco Bidoni –
Pietro D’Este – Giovanni Biliano – Nicola Cosentino – Emilio Sabaini –
Giulio Michelotti – Francesco Ceci – Florindo Cinelli – Pasquale Corona –
Raffaele Forni – Nello Giusti – Francesco Sergio – Nello Viti
Anno 1914 – Giuseppe Merola – Giacinto Denubilo – Giovanni Salvatore –
Alessandro Pasquini – Antonio Mannini – Antonio Calderaro – Lorenzo
Acciari – Gildo Gibin – Innocenzo Brunetti – Umberto Zanni – Guglielmo
Barbieri – Enrico Bellini – Fioravante Moro – Angelo Pieracci
Anno 1915 – Francesco Riccioni – Alfonso Bartoli – Benedetto Tassinari – Ivo
Sandry – Severino Fabbri – Pietro Zilli – Giuseppe Ghirlanda – Giulio
Ciancaglino – Vincenzo Grandinetti – Guido Neofiti – Giusto Marcelli –
Innocenzo Benetti – Roberto Andrea – Giovanni Braghetta – Giovanni
Franzini – Antonio Latronico – Emilio Severini
184
Elenco dei cognomi delle famiglie italiane residenti
nelle fazende del Municipio di Poços de Caldas
con la data di iscrizione nei documenti ufficiali
Fazenda Barreiro – Proprietario Coronel Agostinho da Costa Junqueira
1890 – Pizzol
1891 – Ballarin – Gallo – Finelli
1892 – Bolleta – Piva – Denudai – Depauli – Moras – Bregamasco
1893 – Frizzarini – Betti – Zono – Veronesi
1894 – Guaitani – Dolcetta – Pierini – Grande
1895 – Villa – Dimenio – Vernier
1896 – Favarato – Vincenti – Plachi – Toffolo – Neri – Basso – Negrini – Merrigo
– Marcon – Sacconi
1897 – Brunicci – Rui – Vergani – Guerra – Melloni
1898 – Girardo – Sangiorgi – Clemente – Bolzan – Bordin
1899 – Rossi – Boareto – Fasciani – Passatelli
1900 – Giglioli – Gorini – Gaiga
1901 – Mancuso – Graziani – Ferri – Benetti – Fagnani – Pizzolglio
1902 – Dedini – Baldini – Poppi - Dilani – Parini
1903 – Larice – Cavini – Naldoni – Poloniato – Rossetti
1904 – Pierangeli – Gianmarini – Manucci
1905 – Papiani – Polegano
1906 – Cardinali – Medri – Pellicani – Montegvecchi – Petrecca
1907 – Visani – Farnocchia – Zotti
1909 – Moretti
1910 – Sgrillo
1911 – Gianni
Fazenda Santo Aleixo – Proprietario Major José Afonso de Barros Cobra
1892 – Pizzol
1893 – Piva – Zuccato – Moras – Dall’Ava – Migot – Baldini – Bregamasco
1894 – Battiston
1895 – Marcon – Vernier
1896 – Archi – Placchi – Maiocchi – Malinverni – Basso
185
1897 – Toffolo – Zanette – Caselli – Da Re – Cancan
1898 – Finelli
1899 – Grazia – Dedini – Sapilato – Espitaletti
1900 – Gianmarini – Mucciarone
1903 – Borinato – Baldini
1904 – Pagliuso
1905 – Zangiacomi – Crivellari
1906 – Cava – Lucio
1907 – Boareto
1910 – Nunzio
1911 – Montevecchi
1912 – Caselli
Fazenda Boa Vista – Proprietario Manoel Andrade Junqueira
1897 – Durante – Brasso – Spinelli – Barbiero – Troiani – Zangiacomi
1898 – De Parolis – Casentino – Fazzolari – Gioia – Gesualdo
1899 – Zincone
1900 – Viola
1902 – Falbo
Fazenda Lambari – Proprietario Capitão Joaquim Cândido Junqueira
1891 – Samioli
1892 – Benà
1893 – Zaghetto
1896 – Vinci – Tacone
1897 – Ranavesi
1898 – Cavini – Benelli – Consolini
1900 – Lappi – Benedetti – Casali – Ghigiarelli – Broggi – Moretti
1901 – Montarecchio – Crivellari – Fierato – Mattavelli
1902 – Becasse – Dall’Armi – Benassi – Falze – Brogli
1904 – Barzagli – Gentilizi – Fabbri
1905 – Benetti
1906 – Chieratto – Gaglia – Brunetti
1907 – Zincone – Graziani
1910 – Parini
Fazenda Espirito Santo – Proprietario Capitão José Afonso Junqueira
1895 – Boareto
1898 – Benini – Lorenzetto – Simonetto
1901 – Crivellari – Merrigo
1902 – Fazoli – Benetti – Moretti
1904 – Vinci – Poterle
1905 – Reginato
1908 – Marchioni
Fazenda Santa Alina – Proprietario Barao do Campo Místico. Nel 1911 passò
di proprietà ai fratelli Lindolfo Pio e Joaquim Bernardes da Silva
1891 – Bonifatto
1894 – Broccardo
1896 – Pagin – Spilare – Poloniato – Marafon – Morandini
1898 – Fiorin – Cassaro
1899 – Troiani – De Liberator
1903 – Crivellari
1904 – Spinelli
1910 – Bruschi
1912 – Mapelli – Passoni – Nicola – Scaccabarossi
Fazenda Cachoeira – Proprietario Pio Ozorio
1894 – Braido
1896 – Meneghini
1897 – Trevisan – Milan – Ghetti – Loro
1901 – De Domenico
1909 – Bolzan
1911 – Casagrande
Fazenda Bela Vista (antiga Fumaça) – Proprietario Barao do Campo Místico
1898 – Colombo
1910 - Basilio
Fazenda Recreio – Proprietari F.lli Lindolfo Pio e Joaquim Bernardes da Silva
1898 – Fracasso
1903 – Zangiacomi
1904 – Chiaretto
187
Fazenda Aparecida – Proprietario Major Luiz Augusto de Lodola
1900 – Valentin
Fazenda Ventania – Proprietario… ?
1904 – Bruschi
1907 – Passoni
Fazenda Coritiba – Proprietario Antonio de Andrade Junqueira
1896 - Mucciarone
188
INDICE
Prefazione
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 3
Capitolo 1 – Fondazione della città di Poços
de Caldas e arrivo dei primi
immigrati italiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Capitolo 2 – Arrivo dei primi coloni italiani
a Poços de Caldas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 27
Capitolo 3 – Causa dell’esodo degli italiani
dalla patria e nascita della Società
di Mutuo soccorso “Stella d’Italia” . . . . . . . . . .
» 39
Capitolo 4 – I coloni italiani nelle fazende . . . . . . . . . . . . . . .
» 59
Capitolo 5 – Gli italiani della città . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 123
Jurandir Ferreira: “Os Admiraveis italianos de Poços
de Caldas” di Mario Seguso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 177
7
Da: Jornal da Mantiqueira - 6 Nov. 1988
Elenco dei cognomi degli italiani residenti
a Poços de Caldas in ordine di data di registrazione
nei documenti ufficiali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 181
Elenco dei cognomi delle famiglie italiane
residenti nelle fazende del Municipio
di Poços de Caldas con la data di iscrizione
nei documenti ufficiali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 185
Finito di stampare
nel febbraio 2007
C.F.P. s.n.c. - Limena (Pd)