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IL FOGLIO Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 EDIZIONE WEEKEND ANNO XXI NUMERO 191 quotidiano Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 - € 2,50 DIRETTORE CLAUDIO CERASA Complotto, “arma biologica” e batterio innocuo. Così il romanzo Xylella mette a nudo le fragilità di chi si fida solo delle procure S i sono espressi a favore delle misure di contenimento della Xylella fastidiosa – per la pericolosità di questo batterio all’origine del disseccamento degli ulivi in Salento – la Corte di giustizia europea, la Commissione europea, l’Autorità europea per la DI LUCIANO CAPONE sicurezza alimentare (Efsa), l’Accademia dei Lincei, scienziati internazionali e i ricercatori italiani che hanno scoperto il batterio e la malattia degli ulivi e che per questo, invece di essere premiati, sono indagati come “untori”. Persino la procura di Lecce, artefice dell’inchiesta, ha tolto il sequestro sugli ulivi che impediva l’attuazione del piano d’emergenza. Ma il Fatto quotidiano, che la sa più lunga di tutti, porta avanti un’inchiesta che ricalca le linee di quella della procura, secondo cui “non ci sono basi scientifiche per abbattere gli ulivi”. La tesi è che “non si può dire quale sia davvero la causa della morte degli alberi”, i ricercatori hanno fatto “strani errori”, le pubblicazioni scientifiche sono falsate e ciò che afferma l’Efsa non vale perché non è sottoposto al giudizio di altri esperti. Viene da chiedersi invece su quali prove si fondi l’inchiesta della procura di Lecce sui ricercatori, su quali basi si rischi di far diffondere in Italia e in tutto il Mediterraneo un patogeno pericoloso per decine di piante, con quali evidenze scientifiche il procuratore Cataldo Motta affermi che gli ulivi malati si curano con l’acqua e che in Puglia ci sono “perlomeno nove” ceppi diversi di Xylella. Ma questi sono interrogativi che al Fatto non interessano, perché l’importante è sostenere qualsiasi cosa serva a puntellare l’inchiesta della procura e le proteste popolari contro il taglio degli alberi infetti. Il problema è che per reggere questa posizione il Fatto ha scritto tutto e il suo contrario. Se oggi afferma che la Xylella non è la causa della malattia come vogliono far credere i ricercatori di Bari, solo l’anno scorso affermava l’opposto, cioè che gli scienziati avevano introdotto il batterio letale per gli ulivi. Le versioni diffuse dal Fatto sono state tante, contraddittorie e fantasiose. Una teoria diceva che sono stati i ricercatori italiani a spargere la malattia attraverso sperimentazioni di fitofarmaci. Secondo un’altra storiella, a portare e diffondere il batterio in Italia sarebbe stato un gruppo di scienziati internazionali dopo un convegno a Bari. Un’altra pista portava al Brasile, dove ci sarebbe stata una sperimentazione della Monsanto sul batterio nel progetto di ricerca Alellyx (l’anagramma di Xylella, pensate un po’). Gian Carlo Caselli scriveva che ci sono “aspetti che potrebbero andare oltre la fatalità” e sempre sul Fatto si parlava addi- rittura di “una guerra chimica o batteriologica” e della Xylella come “arma biologica”. Mancavano solo l’Isis, il Bilderberg o la Cia. Contrordine. Ora la Xylella non è pericolosa e non si sa se causa il disseccamento. Un’altra teoria sospesa nel vuoto perché, a prescindere dalla malattia degli ulivi, Xylella è un patogeno da quarantena e basta la sua sola presenza a far scattare l’emergenza: la direttiva europea sulla salute delle piante impone agli stati di adottare, una volta accertata la presenza dell’organismo e “indipendentemente dai sintomi”, tutte le misure necessarie per la sua eradicazione o per impedirne l’ulteriore diffusione. Lo ha scritto persino il prof. Giuseppe Surico, che è il consulente della procura di Lecce: “Ospitare Xylella in un territorio rappresenta una situazione di pericolo fitopatologico di estrema gravità, nell’immediato e per il futuro”. Da una parte i fatti, dall’altra il Fatto. Non mandate in pensione la ripresa FA FREDDO FISSO Il pil in Italia è di nuovo stagnante. Colpa del contesto internazionale difficile, dice il Tesoro. Vero, ma c’è di più. Investimenti e consumi non si rilanciano occupandosi solo di chi non lavora. Parlano Gallo e Giavazzi Cosa si fa se a Ferragosto non c’è nessun allarme caldo? Consigli a meteorologi e catastrofisti Roma. “Nel secondo trimestre di quest’anno, il prodotto interno lordo (pil) italiano è rimasto invariato rispetto al trimestre precedente”, ha comunicato ieri l’Istat. In aumenta. Vuol dire che alcune aziende stanno chiudendo per gli effetti di una lunga e dolorosa fase di declino, mentre altre stanno finalmente ritornando a investire. Qualcosa di positivo si è seminato e il rimbalzo DI MARCO VALERIO LO PRETE arriverà, dunque, ma potrebbe impiegare altre parole, la crescita nel nostro paese è anche due o tre anni prima di materializzarstagnante e va un po’ peggio delle attese del si con forza”. Che fare, nel frattempo? Riconsenso degli economisti (che puntavano a sponde Gallo: “Renzi per ora ha pensato soun più 0,2 per cento su base congiunturale). prattutto a come stimolare la domanda inIntanto non si ferma l’aumento in termini terna. Lo ha fatto con gli 80 euro e ora vorassoluti del debito pubblico che è arrivato rebbe insistere con le pensioni. Se però le a 2.248,8 miliardi, 7 miliardi in più di un me- imprese nel frattempo chiudono, perfino se fa. Cosa succede? una domanda interna rinvigorita sarà soddiDal ministero dell’Economia fanno sape- sfatta soprattutto da prodotti esteri”. Questa re che la frenata della crescita è dovuta a un interpretazione sul momento di transizione rallentamento globale dell’economia, peral- che staremmo attraversando è confermata tro già noto, e che il rapporto tra debito e indirettamente da una recente ricerca delpil si è comunque stabilizzato. Nessuna sor- l’Ufficio studi di Mediobanca. Concentranpresa, insomma: “Fattori di rischio geopoli- dosi su 2.060 imprese di medie e grandi ditico” come minaccia terroristica, crisi mi- mensioni, gli autori rilevano che nel 2015 gli gratoria, propensione al protezionismo e investimenti sono aumentati del 7,9 per cenBrexit “sono emersi o si sono rafforzati”. to (del 4,8 per cento nella sola manifattura), Fondo monetario internazionale e Ocse, ef- con le vendite ancora in calo seppure in mifettivamente, avevano già rivisto al ribasso glioramento. “Occorrerebbe mettere su un le stime della crescita globale. Certo è che lettino immaginario milioni di imprenditonemmeno quella attuale è una notte in cui ri, piccoli e grandi, per convincerli a rispontutte le vacche sono nere. In Germania, per dere a una domanda: a quali condizioni riuesempio, lo stesso dato del pil è stato miglio- scireste ad accelerare i vostri piani di invere delle previsioni: più 0,4 per cento da apri- stimento? Straparlare di riformicchie penle a giugno rispetto ai tre mesi precedenti, sionistiche non va in questa direzione”, cona fronte di un’attesa dello 0,2. La media del- clude Gallo. l’Eurozona è stata più 0,3 per cento. Francesco Giavazzi, economista della L’esecutivo ostenta calma, ma qualche Bocconi, dice al Foglio di condividere il senconto in tasca dovrà farselo se la crescita a so generale dei commenti arrivati ieri dal fine anno non supererà l’1 per cento, come Tesoro sull’andamento congiunturale: il ormai pare assodato. Infatti tanto più il pil contesto internazionale ha un effetto freè basso, tanto minori sono i margini di ma- nante sulla ripresa domestica. Anche per novra in termini di spesa pubblica, e questo questa ragione mercoledì scorso, in un edianche nel caso – moltoriale sul Corriere to probabile – che l’Udella Sera, Giavazzi L’ipotesi del “momento nione europea conceaveva suggerito al goda una nuova dose di verno di fare quanto cerniera”, tra imprese che flessibilità a Roma possibile per ridurre continuano a chiudere e altre sulla velocità di rienle “fonti di incertezza” tro del deficit pubbliper cittadini e investiche iniziano a investire. Ora co. Sempre il Tesoro tori internazionali. Sul ieri assicurava: “La primo fronte consisi dovrebbe riflettere solo su strategia del governo gliando all’esecutivo, come far accelerare le seconde tra le altre cose, di continua sulle riforme per la competiti“smetterla di annunvità e sulla riduzione delle tasse, acceleran- ciare riforme del sistema previdenziale sendo sul fronte degli investimenti come dimo- za indicarne i dettagli”. Ieri, intervistato dal strano le decisioni del Cipe di mercoledì”. quotidiano di Via Solferino, gli ha risposto il Nemmeno una parola, da Via XX Settem- sottosegretario alla presidenza del Consibre, sugli ennesimi aggiustamenti pensioni- glio, Tommaso Nannicini: quando parlavo di stici che invece hanno occupato buona par- contributo di solidarietà sulle pensioni alte del confronto tra governo e sindacati nel- te, ha detto, mi riferivo alla “fase due” del l’ultima settimana, requisendo inoltre buo- confronto con il sindacato sulle revisioni da na parte delle risorse accantonate per la apportare al sistema contributivo. Giavazzi legge di Stabilità del prossimo autunno. Pre- insiste: “Sul merito di quanto proposto da pensionamenti, ricongiunzioni, pensioni mi- Nannicini posso anche essere d’accordo. Ma nime, no tax area per i pensionati: com’è che il governo si metta nei panni dei pensional’Italia è stata sorpresa a discutere quasi ti, appartenenti a una categoria a suo modo esclusivamente di ciò mentre il pil si ferma- sensibile agli annunci visto che a una certa va? A voler essere maliziosi siamo di fronte età è difficile trovare nuove e diverse fonti all’onda lunga del dibattito mediatico degli di reddito: faranno forse distinzione tra faultimi mesi: dal settembre 2015 al giugno se uno, fase due e altro? Discutere del tema 2016 non c’è stata puntata di talk-show in cui senza essere specifici è rischioso, può deprinon si discutesse, con tanto di servizi e ospi- mere i consumi anche in questa fascia di poti in studio, di pensioni. A volte, tra crisi mi- polazione”. Ecco dunque un altro dei perigratoria ed emergenza terrorismo, è davve- coli che si corrono in un paese con il tasso ro sembrato che stesse per venire giù il di occupazione tra i più bassi dell’Eurozona, mondo, e tuttavia i programmi di approfon- con il pil più asfittico del continente, e in cui dimento politico sono apparsi inflessibili: di nonostante questo si continua a discettare pensioni si deve parlare. Nonostante fosse sui modi più indolori per assicurare l’uscinoto che, nella migliore delle ipotesi, i ritoc- ta dei cittadini dal mercato del lavoro: “E chi al regime pensionistico – peraltro stabi- pensare che, al netto di sperequazioni interlizzato nel 2011 con la riforma Fornero – sa- ne, dal 2011 abbiamo finalmente un sistema rebbero potuti avvenire soltanto nell’autun- pensionistico stabile anche per gli standard no di quest’anno. europei”, conclude Giavazzi. Se non è schi“Invece dovremmo discutere di come tor- zofrenia, ci siamo vicini. Perché intanto, osnare a industriarci”, dice al Foglio Riccardo servava ieri Daniele Antonucci, economista Gallo, ingegnere e docente di Economia in- di Morgan Stanley, il picco della ripresa cidustriale alla Sapienza. “Il governo si trova clica potremmo averlo già alle spalle. Da in un momento-cerniera. La produzione in- qui a tutto il 2017, se restiamo a bocce ferme, dustriale non ha ancora smesso del tutto di possiamo solo rallentare. Mandando lettescendere, eppure la fiducia delle imprese ralmente in pensione la ripresa. “Più pensioni per tutti” non fa pil D ispiace dirlo perché si offendono le migliaia di meteorologi (comunisti) che in questi anni con le conferenze sul global-caldo hanno fatto i soldi. Però ragazzi, parliaDI Contro il mito della società uguale Un libro scorretto di un filosofo polacco centra un punto cruciale dei nostri giorni: egualitarismo e dispotismo sono facce della stessa medaglia. Cos’è quel dèmone che ha tradito il liberalismo ferendo la libertà di espressione E se fosse una questione di dispotismo culturale prima ancora che una questione di correttezza politica? Ci vorrebbe un buon editore per portare in Italia un libro geniale scritto da un eccentrico filosofo polacco uscito qualche mese fa negli Stati Uniti con un publisher di successo: la Encounter Books, tosta casa editrice di tradizione conservatrice, legata alle lezioni di Irving Kristol e Stephen Spender, così insofferente al politicamente corretto da essersi rifiutata, a partire dal 2009, di inviare i propri libri alla redazione Book Review del New York Times. Il libro si chiama “The Demon in Democracy: Totalitarian Temptations in Free Societies” e l’autore del saggio è Ryszard Legutko, provocatorio professore di Filosofia antica e Teoria politica all’Università Jagiellonian a Cracovia, ex ministro dell’Istruzione della Polonia e oggi parlamentare europeo nel gruppo dei Conservatori e Riformisti. La tesi del libro di Legutko – spesso criticato in Inghilterra per essere un po’ sopra le righe sulla questione dei diritti civili – su questo punto è semplice e lineare e offre una risposta convincente, seppur sintetica, a una questione cruciale dei nostri giorni: la trasformazione della libertà di espressione, del free speech, in un fenomeno molto pericoloso da combattere con forza per evitare di alimentare le grandi fobie della nostra èra (dall’islamofobia all’omofobia). La domanda da cui parte Legutko è interessante ed è simile a quella che su questo giornale si è posta qualche mese fa la grande scrittrice americana e di sinistra Camille Paglia: come è stato possibile che la società occidentale abbia permesso che il politicamente corretto uccidesse la libertà di espressione? Camille Paglia indirizza da tempo la sua critica verso una sinistra involontariamente stalinista che “invece di difendere il vibrante individualismo degli anni Sessanta ha messo in campo un docile golpe culturale nel nome dell’uguaglianza articolato con il linguaggio accondiscendente dei diritti”. Ryszard Legutko indirizza invece la sua critica al tradimento delle élite europee e delle democrazie liberali, colpevoli di non aver contrasto a sufficienza la nascita di un mostro culturale chiamato “egualitarismo”. Secondo Legutko, ed è questa la tesi affascinante del suo libro, le democrazie liberali stanno soccombendo a un nuovo ideale utopico in cui l’individualità e l’eccentricità sono destinate a essere progressivamente vietate e in cui il politicamente corretto è destinato a spingere le società liberali verso una mo- Un cicciottello mette a nudo i limiti del pol. corr. della Disney (Gurrado a pagina due) La lezione della Pellegrini ai moralisti del Guardian sulle donne a Rio (Sciandivasci a pagina due) La Francia al test islamico del burkini. Così il culto è passato per cultura (Zanon a pagina due) La Germania di Merkel messa alla prova davanti al divieto del burqa (Cau a pagina due) L DI STEFANO CIANCIOTTA mative che favorivano l’uscita anticipata dal mercato del lavoro, e quindi di fatto il turnover occupazionale. Accelerare il sistema di flessibilità in uscita, quindi, può determinare in un mercato del lavoro segnato dall’alta quota di giovani che hanno scelto di non studiare e di non formarsi, la perdita di competenze importanti, senza che possano essere adeguatamente sostituite. Incentrare il dibattito esclusivamente sulle leve per favorire l’uscita, senza valutare le azioni di politica attiva e di formazione per incentivare l’occupabilità dei giovani può rilevarsi un pericoloso boomerang che rischia di impoverire il mercato del lavoro (articolo a pagina quattro) italiano. moci chiaro: quest’anno fa freddo ad agosto. Mai nella storia della provincia di Lodi (dove sono in domicilio coatto) abbiamo avuto 10 gradi in un pomeriggio estivo. Subito siamo corsi a svuotare i cassonetti della Caritas dove avevamo messo i piumini d’oca ogm per donarli ai poveri. Cari miei comunisti, le balle hanno le zampe corte. Migliaia di articoli del panel dell’Onu, migliaia di copertine di riviste per un allarme che non c’è. Anzi forse c’è ma non dipende da me. La prova? La Nasa ha detto che su Marte la temperatura media negli ultimi venti anni è aumentata di cinque gradi. Cosa ci accomuna a Marte? Il sole. E’ l’attività solare che può far arrivare la piccola glaciazione del Medioevo e viceversa. Certo agli U2 fa comodo dire ai concerti No CO2! Aereo privato, hotel di lusso, barche, champagne. Anche Celentano è ora che metta in pratica il loro insegnamento. Anche perché adesso si parla di “profughi climatici”. In stazione a Como ci sono tante persone e la villa di Celentano dista cinque minuti a piedi. Spalanchi le porte. Per fortuna noi democristiani non abbiamo mai creduto agli allarmi sul clima. Anche perché nei messaggi della Madonna di Medjugorje non si è mai sentito parlare di chilometro zero, commercio (segue a pagina quattro) equo e solidale ecc. Democrazia coldiretta Sogna Briatore, dorme in tenda e va per sagre. L’italiano medio secondo i sondaggi ferragostani Roma. Da un lato ci sono la crisi politica globale e quella istituzionale europea, dall’altro la crisi della democrazia rappresentativa. E’ naturale che per affrontare le questioni più impegnative si vada verso forme, se non di democrazia diretta, quantomeno di ascolto e interazione con la popolazione. Le rilevazioni demoscopiche giocano quindi un ruolo sempre più importante nelle democrazie. Ma da noi, durante le vacanze, anziché alle domande sul terrorismo, la repressione in Turchia, la crisi bancaria, le riforme, il flusso dei migranti, l’intervento in Libia, le tasse o la spending review, il dominio assoluto spetta ai sondaggi “estivi” della Coldiretti. Con Pagnoncelli e la Ghisleri in vacanza, è la Confederazione dei coltivatori diretti il principale istituto demoscopico del paese, che ci dice quale sogno esprimono gli italiani quando cade una stella: “Basta con sogni impossibili, gli italiani desiderano una casa, un lavoro fisso e un amore stabile”. “Anche in occasione della notte di San Lorenzo” 7 italiani su 10 hanno “tanta voglia di concretezza e sobrietà”. In pratica desiderano “una casa tutta loro (68 per cento), un lavoro fisso (62) e un amore stabile (51)” e voler diventare “Flavio Briatore (38 per cento) gli uomini” e “Marina Berlusconi (36) le donne”. Concretezza e sobrietà, la stessa che spinge “un italiano su 3 a chiedere la ‘doggy bag’ al ristorante”, la borsa per il cane, “un comportamento diffuso negli Stati Uniti dove è una prassi consolidata (segue a pagina quattro) per i vip”. 20 ANNI DEL FOGLIO Non si salvano i giovani incentivando i più anziani a non lavorare a produttività italiana è ferma al palo da oltre un ventennio, e nel confronto dal 1985 a oggi è nella fascia dei paesi Ue con la crescita più bassa, nonostante ci fossero nor- nocultura in cui il dissenso non viene tollerato e in cui si va via via innescando “un potente meccanismo unificante in cui le élite impongono uniformità di vedute, di comportamenti e di linguaggi in nome di un interesse superiore”. Negli anni Ottanta, in Polonia, Legutko ha visto con i propri occhi il dispotismo comunista e sempre in quegli anni ha lottato contro il totalitarismo comunista scrivendo su un famoso trimestrale di dissidenti polacchi (Arka). Alla luce di quell’esperienza, il filosofo polacco fa un passo ulteriore per descrivere il senso delle “Totalitarian temptations in free societies”. Secondo Legutko, egualitarismo e dispotismo non si escludono affatto e hanno anzi alcuni pericolosi punti di contatto: l’idea di rendere tutti i pezzi della società uguali l’uno all’altro, l’idea di eliminare ogni potenziale minaccia per la parità in tutti i settori della società e in ogni aspetto della vita umana, l’idea che in nome di un principio più alto sia giusto annullare le proprie differenze, la propria fede, la propria tradizione, per omologarsi al pensiero dominante. In estrema sintesi la domanda è questa: è accettabile oppure no considerare l’uguaglianza il punto di arrivo e non il punto di partenza di una società moderna? Ed è possibile stravolgere il concetto di uguaglianza arrivando a sostenere che il concetto di “parità di opportunità” sia da sostituire al concetto di “parità di risultati”? Pensate, dice Legutko, al principio dell’affirmative action: “Un tempo l’affirmative action prevedeva un concetto: sei favorito a entrare in università, per esempio, se sei nero. Oggi lo stesso principio è diventato uno strumento di giustizia sociale che richiede interventi coercitivi del potere statale: così il liberalismo è stato capovolto”. Ovviamente Legutko sa bene che la democrazia liberale è un sistema che consente una libertà che nessun regime totalitario può permettere (l’Iran non è come l’America, la Turchia non è come il Regno Unito, il Pakistan non è come la Germania) ma giocando sul filo del paradosso centra un punto importante: la reazione al politicamente corretto, e in particolare all’egualitarismo, oggi è l’unica soluzione naturale per proteggere la libertà dell’individuo. Non cedere al dèmone dell’uguaglianza è l’unico modo per sfuggire alle nuove tentazioni totalitarie. Perché la dittatura del proletariato, ricorda il filosofo polacco, può abolire le classi, ma la dittatura dell’uguaglianza può fare qualcosa persino di più grave: abolire le nostre anime. MAURIZIO MILANI Non vi capiterà. Ma se mai vi capitasse di andare a Berlino, e aveste soldi da spendere, l’Hotel Kempinski, sulla Unter der Linten, è il migliore. Marlene Dietrich, Charlie Chaplin, Louise Brooks, Herbert Hoover e Josephine Baker, i clienti abituali di prima della Seconda guerra. Dopo, perfino Michael Jackson scelse il Kempinski per mostrare al mondo, dal balcone della sua stanza al quarto piano, il pargolo Prince Michael II, detto Blanket. Andate perciò al Kempinski. E sfogliate nel vostro appartamento, se vi capita, la lista dei prefissi telefonici dei paesi del mondo. Ci sono tutti. Meno Israele. Scendendo dal concièrge per domandargliene il motivo, vi sentirete rispondere: “I nostri clienti sono soprattutto arabi, l’hanno preteso loro”. Israele cancellato. A Berlino. Nel 2010, l’albergo più lussuoso della città ospitò alcune scene di un film abbastanza famoso che aveva come titolo: “Senza identità”. Beh, ora ce l’ha. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30 A scrivere “cicciottelle” si viene sospesi se non licenziati. E’ successo al direttore del Quotidiano Sportivo per aver inserito la parola in un titolo su Rio2016. E’ il trionfo del fisicamente corretto. Sei anni fa, il 4 marzo 2010, la prima pagina del Foglio era dominata dalla paffuta figura di Gabby, al secolo Gabourey Sidibe, allora candidata all’Oscar per la sua interpretazione in Precius. Al tempo grasso era bello, ora invece non si può nominare. Referendum e opposizione Nel sud-est asiatico c’è un’altra estate di terrore in balìa di politica e islam La serie di bombe nel cuore della Thailandia turistica per ora senza rivendicazione. I rossi radicalizzati Undici “doppie esplosioni” Bangkok. In Thailandia la Festa della mamma coincide col compleanno della regina Sirikit, il 12 agosto. Ecco perché gli attentati avvenuti tra il mattino dell’11 e del 12 sono stati definiti “gli attacchi della Festa della mamma”. In 24 ore sono esplose bombe in diverse località turistiche. Il bilancio provvisorio è di 4 morti e una trentina di feriti, dieci dei quali stranieri (due italiani, a quanto risulta). L’attacco più grave si è verificato a Hua Hin, 250 chilometri a sud di Bangkok, dove si trova il Palazzo d’estate della famiglia reale. Altro luogo simbolo è Phuket, in particolare la zona dell’esplosione: la spiagPRAYUT CHAN-OCHA gia di Patong, un susseguirsi di alberghi, ristoranti, locali notturni e bordelli. Questa serie di esplosioni, provocata da bombe “doppie”, ossia programmate per detonare contemporaneamente, fa pensare più a un avvertimento che a una volontà stragista. “Le bombe sono un tentativo di creare caos e confusione”, ha detto il generale Prayut Chanocha, autore del golpe del maggio 2014 e attuale primo ministro. Il motivo scatenante sarebbe l’opposizione al risultato del referendum di domenica scorsa che ha legittimato il colpo di stato, segnando il passaggio a una forma di “democrazia controllata”. Gli attentati diventano così una metafora della situazione in gran parte del sud e sud-est asiatico: dal Bangladesh alle Filippine passando per Birmania e Indonesia. In tutti questi paesi caos e confusione si alternano a forme di democrazia controllata o “democratura”: uno scenario dov’è quasi impossibile distinguere tra opposizioni politiche più o meno radicalizzate, governi con pulsioni autoritarie o tentazioni di sharia, lotte tra bande, movimenti separatisti islamici e gruppi che predicano un ipotetico Califfato (Morello segue a pagina quattro) asiatico. Lo “choc cinese” Le ragioni di Trump sulla devastazione del tessuto produttivo americano. Una inchiesta del Wsj Roma. La Cina è da sempre una delle ossessioni di Donald Trump. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca in più di un’occasione ha detto che i rapporti commerciali tra Washington e Pechino sono sbilanciati, che l’invasione dei beni a basso costo cinesi ha devastato il settore manifatturiero americano, ed è arrivato a denunciare che la Cina “sta stuprando il nostro paese”. Buona parte degli economisti liberali e conservatori ha sminuito queste sparate come propaganda protezionista: non è vero che il commercio con la Cina è sbilanciato, dicevano; per ogni posto di lavoro perso, gli americani ottengono benefici di diverso tipo, come appunto un flusso costante di beni a basso costo; benefici e svantaggi si compensano e alla fine arricchiscono il paese. Questa vulgata però non ha mai convinto tutti, e non solo economisti non allineati come Peter Navarro, consigliere del biondo candidato. Alla fine ieri è intervenuto il Wall Street Journal, giornale di tradizionali simpatie repubbicane ma mai tenero con The Donald, che con una inchiesta sugli effetti dello “choc cinese” sull’industria americana ha dovuto alla fine ammetterlo: almeno su questo, almeno in parte, Trump ha ragione. Al contrario di quanto avvenuto con il Giappone, con le “tigri asiatiche”, o con il commercio con il Messico, l’onda d’urto delle importazioni dalla Cina ha distrutto una parte fondamentale del tessuto produttivo americano, un po’ per ragioni fisiologiche e un po’ per miopie politiche. E tra le fasce sociali colpite dalla Cina, il sostegno a Trump è assoluto. Il Wall Street Journal parte da Hickory, città della Carolina del nord sede di quello che era il più grande distretto di produzione di mobili al mondo. Qui, fino agli anni Novanta, la produzione sembrava al riparo dagli sconquassi della globalizzazione e la disoccupazione era sotto al 2 per cento. (Cau segue a pagina quattro) ANNO XXI NUMERO 191 - PAG 2 Papelli su Marte Il libro dell’uomo stimmate spiega la vicinanza tra le inchieste di Palermo e l’arrivo degli extraterrestri S ono qui che ripercorro la scala degli “incontri ravvicinati” dell’ufologo J. Allen Hynek per decidere su quale gradino collocare il MANI BUCATE misterioso fenomeno in cui sono stato coinvolto la mattina del 20 novembre 2015. Quel giorno, poco dopo le undici, mi sono trovato a bordo dello stesso Oggetto Volante Piuttosto Facile Da Identificare – il volo AZ 1797 diretto a Palermo Punta Raisi – in compagnia di due creature extraterrestri di più ardua classificazione, che viaggiavano però separatamente. Il primo era Bruno Vespa, che nello schema delle razze aliene proposto dall’ufologo Brad Steiger credo si possa far ricadere nel tipo Delta, sottospecie insectoids; il secondo era Giorgio Bongiovanni, il veggente di fiducia della Procura di Palermo, direttore della rivista AntimafiaDuemila, con le mani fasciate per via delle stimmate. Il tutto è durato poco più di un’ora, ero stordito e spaventato a morte, scrutavo dal finestrino per controllare se per caso vi fossero strani cerchi nel grano, mi ripetevo come un mantra che la superstizione porta sfortuna e che non dovevo attribuire a quella concomitanza nessun significato particolare; ma col senno di poi mi sento di dire che la categoria più adatta a descrivere ciò che ho vissuto è il cosiddetto CE4, incontro ravvicinato del quarto tipo – un gradino aggiunto alla scala di Hynek dall’intricata casuistica dei suoi prosecutori – ossia il rapimento di un essere umano da parte di un Ufo o dei suoi occupanti. Il termine tecnico è alien abduction. Vi assicuro che non è bello. Conosco un solo modo per superare i traumi, ed è sperperare soldi in libri. Così mi sono precipitato a comprare “Giorgio Bongiovanni stigmatizzato. L’avventura di una vita”, la biografia autorizzata scritta da Paola Giovetti per le Edizioni Mediterranee. Dopo tutto, non posso nascondere l’ammirazione per uno che ha le mani più bucate di me. Gliele ha perforate la Madonna in persona, il 2 settembre 1989 a Fatima, con due raggi provenienti dal petto, chiedendo a Giorgio (che in una vita precedente era stato il pastorello Francisco, uno dei primi spettatori delle apparizioni del tour portoghese della Vergine) di rivelare il suo terzo segreto, e parlandogli delle civiltà extraterrestri già illuminate dalla visita del Cristo. Due anni dopo, nel 1991, nella sua casa di Porto Sant’Elpidio, Gesù gli buca anche i piedi (si sa che i figli sono spesso più dispettosi delle madri), e Bongiovanni deve arrangiarsi a camminare facendo leva sull’esterno delle piante. Poi, in Uruguay, una ferita a forma di calice sul costato, e per finire una croce sanguinante sulla fronte. Mentre l’Aldilà lo crivella come un mistico gruviera, Bongiovanni si spende per migliorare l’Aldiquà, con una fitta opera diplomatica e politica che lo porta a conferire con i reali di Spagna, con Gorbaciov e con altre eminenze terrestri. Nel 1999, mentre raccoglie soldi per i bambini africani, incontra Maria Falcone, la sorella di Giovanni. Si immerge nell’ascolto delle registrazioni dei processi di mafia su RadioRadicale e capisce qual è la sua missione, oltre ad annunciare il Secondo Avvento e trasmettere i messaggi degli Esseri di luce: fondare AntimafiaDuemila, che il dottore Ingroia definirà “organo ufficioso” della Procura di Palermo. “Non sono né giudice né poliziotto”, annuncia Bongiovanni, “ma sono diventato giornalista e così combatto i mafiosi, combatto l’anticristo, le forze che vogliono distruggere la nostra anima e la nostra terra. Spiego alla gente che non devono seguire quel modello e che Falcone, Borsellino, don Puglisi sono veri e propri martiri dell’anticristo che ci tenta spiritualmente”. Martiri dell’anticristo. L’antimafia secolare preferisce parlare di martiri dell’antistato, ma pizzica la stessa corda teologica e devozionale. E così cominciamo a perder quota e a preparare il nostro atterraggio. Perché è piuttosto sconcertante constatare le sottili risonanze tra le inchieste dei procuratori terrestri e le visite degli extraterrestri al contattato siciliano, tra la promessa del redde rationem giudiziario che smaschererà l’antistato annidato nello stato e le profezie dell’Essere di luce Setun Shenar e di suo fratello Ithacar (il “reggente” di Marte) che annunciano a Bongiovanni il giorno imminente in cui “tutti saranno posti sotto giudizio divino”. Finita la lettura, non sapremmo più tracciare con esattezza il confine tra il processo palermitano e una puntata di “X-Files”. Oltretutto, il libro di Paola Giovetti si ferma al 2009; ancora poco e il contattato Ciancimino jr. rivelerà il messaggio extraterrestre noto come papello, dono della razza aliena Xerox, e consentirà alla Procura di Palermo di aggiungere un gradino alla scala di Hynek, incontri ravvicinati con “menti raffinatissime”. Nome tecnico: trattativa. Guido Vitiello C’è molto di più delle 22 pagine che stai sfogliando www.ilfoglio.it IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 LE ACCUSE DI INSENSIBILIT A’ CULTURALE PER IL FILM MOANA Un cicciottello molto criticato mette a nudo i limiti del pol. corr. della Disney E’ il contrappasso del politicamente corretto: per quanto ti sforzi di accontentare le minoranze, arriva sempre qualcuno più minoritario che si dichiara scontento. La Disney ne sa qualcosa. La protagonista del nuovo cartone animato “Moana” era stata scelta con ogni cura: donna, non appariscente, polinesiana, inattaccabile anche dai più pignoli fra i permalosi. Se non che la parlamentare neozelandese Jenny Salesa, polinesiana e laburista, all’apprezzamento per la scelta di cotanta protagonista ha associato le rimostranze riguardo a un personaggio secondario: “Delude che Maui, uno dei nostri antenati storici risalenti a centinaia di anni fa, nel film appaia sovrappeso benché fosse un uomo di grande forza fisica”. La sua intemerata è stata ampiamente condivisa (poiché “la Disney esercita un notevole influsso sui nostri bambini”) nonostante le sue approssimative nozioni storiografiche riguardo alla prestanza di questo semidio che, narra la leggenda, pescò un’isola e catturò il sole. Che il partito deputato a difendere i diritti dei lavoratori si pronunci a tutela dei semidei è indubbio segno della salute socioe- conomica della Nuova Zelanda. La polemica tuttavia merita attenzione in quanto imperniata, forse inconsapevolmente, su due attività umane che hanno tormentato i filosofi da ben prima che Maui desse inizio alle proprie imprese: la fede e l’immaginazione. Se infatti la protesta di Jenny Sanesa si appunta sulla mancata corrispondenza fra il Maui storico e la sua raffigurazione nel cartone animato, allora si fonda sul rischio di offendere quei fedeli che credono fermamente che il semidio sia davvero esistito e che secoli fa pescò un’isola e catturò il sole, prestazioni che escludono a priori che potesse essere il panzone di “Moana”. In questo caso la colpa del film non sarebbe tanto di avere tradito il sembiante di un personaggio storico – come se avesse presentato un Napoleone alto e biondo – ma di avere proposto la raffigurazione denigratoria di una divinità, offensiva per chiunque ci creda. L’accusa alla Disney sembra però annidarsi nel più sottile concetto di “misrepresentation”, che può essere grossomodo reso con: raffigurare qualcuno nel modo in cui una maggioranza immagina che sia, quando invece una minoranza lo immagina diverso. I polinesiani immaginano Maui come un fustacchione e, se gli autori del cartone presumono che il grande pubblico si aspetti un buon selvaggio pacioccone, allora offendono i polinesiani. Cedendo su questo punto, la Disney sconfesserebbe il proprio passato. Personaggi riuscitissimi come Alice o Pinocchio sono stati carpiti da un immaginario collettivo locale, inglese o italiano, e trasformati in cartoni di successo planetario grazie alla semplificazione, alla caricatura, al capillare inserimento di varianti infedeli; e, nonostante l’influsso della Disney sull’infanzia, non risulta che abbiano rovinato bambini in Inghilterra o in Italia. Il sospetto che un piccolo polinesiano non sarebbe in grado di superare il trauma di un Maui con meno muscoli e più grasso è fondato su un paralogismo: la Disney viene accusata di gettare discredito su un personaggio immaginario attribuendogli una caratteristica, dei chili in più, che costituisce uno svantaggio solo nella vita reale degli adulti, molto più limitata e tediosa della fantasia infantile o aborigena. Se un semidio è un semidio, può pescare tutte le isole e catturare tutti i soli che vuole senza bisogno di andare in palestra per tenersi in forma. Antonio Gurrado “NON PARLARE DEI FIDANZATI, PARLATE DI SPOR T”. ECCO, APPUNTO La lezione della Pellegrini ai moralisti del Guardian sulle donne a Rio Roma. Con il tweet indirizzato all’utente calloggero – “Coglione, mi sono ritirata dai 100 perché mezz’ora dopo ho la staffetta 4x200 e voglio dare il massimo lì” – Federica Pellegrini non ha scritto la storia delle Olimpiadi 2016, ma di una giustizia privata non violenta sì. E si tratta, naturalmente, di una giustizia politicamente scorretta. Per spiegare quel che è accaduto, tenteremo di scrivere l’articolo seguendo pedissequamente le regole stilate da Lindy West sul Guardian per raccontare le atlete olimpiche senza scivolare nella “regressione” sessista. Per esempio, non parleremo dello stile, dello smalto, dei tatuaggi, del corpo da favola, niente di tutto ciò. Dice la West che dobbiamo parlare di sport, e di sport e basta. Ecco i fatti. A Rio de Janeiro è il 10 agosto e Federica ha 28 anni e 5 giorni. Si è appena classificata quarta ai 200 stile libero e sul suo volto si anima un meticciato emozionale fatto di incredulità e dispiacere (un commentatore del secolo scorso l’avrebbe descritta “incazzata nera”, ma oggi, secondo il Guardian, certi aggettivi vanno censurati). Federica spiega alle telecamere che era certa di conquistare il bronzo e che non è stata la testa a giocarle un brutto scherzo, minacciando di tirare cazzotti a chi la ritiene ancora così immatura da essere in balìa dello stress e del giudizio universale. Poi prende il telefono e pubblica una foto in cui si affaccia sul villaggio olim- pico come fosse un foro imperiale. Scrive che soffre, ricorda i sacrifici, la volontà, ringrazia chi le è stato vicino (secondo il Guardian, non si devono menzionare i fidanzati delle atlete o anche, più genericamente, “quelli con cui fanno sesso”). Intanto, viene diffusa la sua decisione di ritirarsi dai 100 metri. Su Twitter, l’anonimo utente calloggero le scrive: “Avresti dovuto dare il buon esempio e non ritirarti nei 100”. Federica risponde e richiama i giornalisti al buon senso: spiegherà poi che si sarebbe dovuto spe- BORDIN LINE di Massimo Bordin “A un mese dal 12 luglio, il dolore che ci spinge a cercare la verità con ogni mezzo al fianco delle vittime senza guardare in faccia nessuno.” Il governatore pugliese Michele Emiliano ha ricordato così a un mese dall’evento, come era giusto fare, il tragico incidente ferroviario nella sua regione. Un certo tipo di enfasi e di retorica non era però necessario. Per esempio “senza guardare in faccia nessuno” è una evidente rassicurazione rispetto a certe foto dove rappresentanti della procura mettevano in primo piano altre parti del corpo. Ma non è più tanto questo il problema, risolto nell’unico modo possibile cificare, nel dare la notizia della sua rinuncia ai 100 stile libero, che la motivazione era arrivare in forze alla 4x200, altrimenti “la gente che è un po’ meno dentro a queste cose può male interpretare”. In Italia, intanto, imperversa lo scandalo cicciottelle: il terreno è fertile, quindi tutti sottolineano la maleducazione di Federica e i tromboni della comunicazione tengono concistori virtuali in cui convergono su quanto opportuno sarebbe che un personaggio pubblico stesse lontano dai social network in momenti di tensione dal procuratore capo. Piuttosto, il governatore Emiliano, che è governatore pro tempore ma è rimasto un pubblico ministero, non può non convenire che il fine di un procedimento penale sia appurare i reati e le responsabilità personali. La verità è parola troppo impegnativa, come del resto il dolore, quello che porta a pensare “Non può essere vero” di fronte alla notizia di una tragedia. Ecco, quel dolore non può spingere a nessuna verità, tanto meno se cercata “con ogni mezzo”. Solo ad altri dolori. Sembra proprio un altro caso in cui parole messe in riga ordinatamente finiscano per generare inquietudini ben più serie della pruderie per una immagine femminile un po’ discinta. come il decorso di una sconfitta. Tuttavia, i milioni di occhi che guardano le Olimpiadi cercano l’impronta mortale, il rimbrotto, il cedimento che li avvicini a quei supereroi che è stupendo veder vincere ma catartico veder perdere e risarcente poter criticare. “Coglione!”, scrive Pellegrini e non può farlo perché lei è la regina del nuoto italiano e perché l’Italia la ama con tolleranza ma senza passione – e per questo la rimprovera di essere diventata una diva degli spot. Finisce che a condividere quel vademecum del Guardian su come parlare delle atlete senza tirarne in ballo culi, flirt e carattere, siano stati più gli italiani che gli inglesi, per chiedere al giornalismo di restituire i fatti, nudi e crudi e asessuati. E però Federica Pellegrini ha fatto quello che l’editoria e la politica non possono fare perché non avrebbero soluzioni di scorta, se s’inimicassero lettori ed elettori (non basterebbe prestarsi a uno spot Activia). Federica ha detto che ci sono cose nelle quali non si deve mettere il muso. Ha rivendicato il pugno, al posto dell’altra guancia. Ha detto ai commentatori da social che devono stare al posto loro. Cioè sul divano. E chissenefrega se è stata maleducata, inappropriata e poco professionale: con quel “coglione” sparato a zero, ci ha mostrato come ci si salva dalla censura e dalla soumission. L’ha mostrato pure al Guardian. Merita una medaglia d’oro. Simonetta Sciandivasci IL DIVIETO ALLA CROISETTE E LA BATTAGLIA DI CÉLINE PINA La Francia al test islamico del burkini. Così il culto è passato per cultura Parigi. L’ondata di indignazione provocata dall’organizzazione della “journée burkini” in un parco acquatico di PennesMirabeau, nel sud della Francia, ha portato, quattro giorni fa, alla cancellazione dell’evento organizzato della controversa associazione Smile 13, bersaglio di critiche veementi per le sue posizioni ambigue nei confronti degli islamisti. Ma dietro questo episodio, tutt’altro che isolato in una Francia sempre più arrendevole nei confronti delle insistenti richieste della comunità islamica, si nasconde molto più di una semplice iniziativa controversa. Per Céline Pina, ex consigliera regionale nell’Ile-de-France in quota Partito socialista (Ps), la scelta di organizzare un evento dove soltanto le donne che indossano il burkini possono partecipare è tutt’altro che ingenua. “E’ una provocazione politica. L’obiettivo: testare la resistenza della società francese colpendo i diritti delle donne. Il burkini è la versione balneare del burqa. Gli islamisti utilizzano l’alibi dell’aspetto culturale per imporre la norma cultuale, l’argomento del pudore per imporre l’invisibilizzazione delle donne”, ha dichiarato Pina al Point. Ex vicesindaco di Jouy-le-Moutier, nel Val d’Oise, Pina ha assistito da vicino all’islamizzazione di intere zone della République, ha denunciato in un libro il “silenzio colpevole” del suo campo politico, la gauche, che in cambio di voti china il capo dinanzi all’ascesa rampante del salafismo, e non è sorpresa da questo ennesimo attacco violento alla laïcité. “Il sindaco di Pennes-Mirabeau (Michel Amiel, Ps, ndr) si è battuto affinché l’evento fosse cancellato. Ma i politici avrebbero dovuto condannare senza equivoci. La pagina Facebook di Smile 13 mostra chiaramente che ci troviamo di fronte a un’associazione di militanti islamisti che rifiutano il nostro modo di vivere”, ha aggiunto Pina. Quella che i salafiti vogliono imporre è “una logica di apartheid”, ha denunciato l’ex consigliera Ps, vogliono “la separazione dei sessi, la separazione tra la donna rispettabile dal corpo negato e l’impudica in bikini. La liberazione della donna è stata raggiunta attraverso il corpo, la regressione dei suoi diritti pure”. Che l’“affaire burkini” fosse in Francia una questione identitaria rilevante e non solo una polemica di mezz’estate legata a PREGHIERA di Camillo Langone Maria Assunta, io sono qui, dalla Chiesa e dallo Stato più licenziato che assunto: i clericali mi disprezzano, siccome da cristiano credo che Cristo, tuo figlio, sia l’unica via, l’unica verità, e gli statali mi osteggiano, siccome da patriota credo che i confini siano sacri ossia inviolabili, pensa la pretesa. Maria Assunta, per pagare meno tasse vorrei esulare in Svizzera, ovviamente in Canton Ticino, stessa patria (la patria è la propria lin- un episodio a se stante, se ne è avuta conferma giovedì sera con la decisione del sindaco di Cannes, David Lisnard, di proibire il burkini sulla spiaggia della Croisette: chi contravverà, subirà un’ammenda di 38 euro. “L’ingresso in spiaggia e al mare è vietato a tutte le persone che non hanno un abbigliamento corretto, rispettoso dei buoni costumi e della laicità, delle regole igieniche e della sicurezza dei bagnanti”, ha scritto il sindaco neogollista (Les Républicains) nell’ordinanza emessa lo scorso 28 luglio e valida fino al 31 agosto. Una decisione, quella di proibire il costume islamico che lascia scoperto soltanto l’ovale del viso, “presa, alla stregua di altre, per garantire la sicurezza della mia città in un contesto di stato di emergenza”, ha dichiarato il primo cittadino di Cannes. Lisnard, uomo gua) ma diverso Stato, e purtroppo non so come fare, forse dovrei cambiare commercialista; per onorare tuo figlio che si è fatto crocifiggere per me dovrei evitare le chiese sequestrate dai preti parassiti del Vangelo, tipo il Duomo di Parma dove recentemente un maomettano ha detto che Maometto è uomo di pace, e il sacerdote assentiva (scusami se vomito). Ma scrivo tanto e concludo poco così mi limito a consegnarti la mia pochezza, la mia speranza di una salvezza a tempo indeterminato. forte dei Républicains nel Midi, aveva già deciso, dopo la strage di Nizza, di bandire dalla spiaggia borse e valigie di grosse dimensioni per prevenire la minaccia terroristica. Ora, con questa ordinanza anti burkini – che ha già trovato un emulo, Lionnel Luca nel comune di Villeneuve-Loubet –, si spinge ancora più in là: “Un capo d’abbigliamento da spiaggia che esibisca in maniera ostentata l’appartenenza religiosa, nel momento in cui la Francia e i luoghi di culto religioso sono attualmente nel mirino del terrorismo, è suscettibile di creare disagi all’ordine pubblico, disagi che è necessario prevenire”. Com’era prevedibile, non sono mancate le reazioni indignate della comunità islamica locale e di alcune associazioni che si sono dette pronte a portare il sindaco davanti al giudice per “islamofobia”. La Fédération des musulmans du Sud, tramite la sua portavoce, Feiza Ben Mohamed, ha dichiarato che “è stato compiuto un nuovo passo verso l’islamofobia e l’esclusione, Cannes che diventa una città fuorilegge grazie a questa ordinanza”. Assieme alla Fédération des musulmans du Sud, ha subito reagito il Collectif contre l’islamophobie en France, guidato dal controverso Marwan Muhammad. Quest’ultimo ha denunciato il carattere “discriminatorio” dell’ordinanza, annunciando di essersi attivato per farla ritirare, come aveva già fatto nel 2014 con un’ordinanza anti velo a Wissous, nell’Essonne. Mauro Zanon La prova di May: frodi elettorali delle minoranze La prova di Merkel davanti al divieto del burqa Roma. Nel Regno Unito, culla della democrazia, i princìpi democratici fondamentali sono stati calpestati in nome del politicamente corretto e per timore di urtare la sensibilità della minoranza musulmana. In un report presentato ieri da sir Eric Pickles, capo della commissione anticorruzione britannica, e anticipato dal Telegraph, si legge che le autorità britanniche hanno chiuso gli occhi davanti a casi conclamati o sospetti di truffa elettorale nei da parte delle comunità musulmane pachistana e bangladeshi a causa di “eccessiva sensibilità sulla etnia e la religione”. L’inchiesta è nata dal caso di Rutfur Lahman, sindaco di origine bangladeshi di Tower Hamlets, a est di Londra, che è stato rimosso dall’incarico dopo che un tribunale ha provato che aveva manipolato le elezioni e commesso vari crimini di corruzione elettorale. Dopo i casi di pedofilia della comunità musulmana insabbiati per timore di accuse di islamofobia, adesso sono 665 i casi sospetti di frodi elettorali compiuti all’interno delle comunità musulmane che secondo il report non sarebbero stati denunciati dalle autorità per timore di infrangere il clima di “coesione comunitaria” e di “correttezza politica”. In alcu- Roma. In Germania, a giudizio di molti politici cristianodemocratici, al pacchetto di misure antiterrorismo presentato giovedì dal ministro dell’Interno Thomas de Maizière manca un punto fondamentale. Le misure proposte sono di inedita durezza per gli standard tedeschi recenti, come una stretta notevole sulla sorveglianza che ha già causato dibattiti intensi (le ferite dei totalitarismi nazista e comunista e dei loro apparati di controllo e coercizione non si sono mai richiuse del tutto, e ogni riduzione della privacy in Germania è accolta con enorme clamore), un nuovo giro di vite sui migranti che non ottengono asilo e l’eliminazione della cittadinanza tedesca ai sospetti terroristi con doppio passaporto. Ma appunto, sono molti a ritenere che al pacchetto manchi un elemento: il divieto alle donne musulmane di indossare il burqa. La proposta di divieto del velo integrale rientra in un secondo pacchetto di misure sulla sicurezza avanzato al governo dai ministri dell’interno dei Länder appartenenti a Cdu e Csu, che sarà discusso con de Maizière il 18 agosto. Per i ministri locali, il divieto al burqa risponde a esigenze di sicurezza e di integrazione, e misure simili ne comunità musulmane pachistana e Bangladeshi, si legge nel report, i giovani e le donne sono spinti e a volte costretti a votare secondo i dettami degli anziani della comunità, e anche nel caso dell’ex sindaco Rahman ci sono sospetti di insabbiamento. Come scrive lo stesso sir Pickles in un editoriale apparso sul Telegraph, dopo che è stato provato ogni ragionevole dubbio che Rahman era stato eletto grazie a frodi elettorali non sono seguite altre inchieste per valutare in che modo erano state commesse le violazioni. Secondo sir Pickles, il governo inglese è “in stato di negazione”, ma questi casi di frode potrebbero arrivare a mettere in pericolo il risultato delle prossime elezioni generali. Per questo, la commissione Pickles fa una serie di raccomandazioni, tra cui un rafforzamento dei controlli ai seggi elettorali, il divieto per gli scrutinatori di parlare lingue diverse dall’inglese, maggiori poteri alla polizia per combattere i casi di intimidazione. Le decisioni spettano al governo. Il primo ministro Theresa May, che ha mostrato su molti dossier un piglio molto combattivo, si trova così per la prima volta nella nuova carica alla prova del pol. corr. (ec) sono già attive per esempio in Belgio e Francia, dove l’allora presidente Sarkozy definì le donne che indossavano il velo completo come “prigioniere dietro a uno schermo”. Anche in Germania, in alcuni casi particolari come negli stadi, il burqa è già vietato. Nel 2012, una commissione del governo tedesco aveva già giudicato il divieto di burqa come incostituzionale. Ma ora che anche la Germania è diventata bersaglio di punta degli attacchi terroristici degli affiliati allo Stato islamico, l’esecutivo deve fare i conti con un elettorato sempre più nervoso e con il fatto che il burqa è già stato usato altrove, specie in alcuni paesi africani, come espediente per attentati esplosivi.De Maizière, però, ha già detto che di un divieto totale non si discute: “Non si può vietare tutto ciò con cui non siamo d’accordo”, ha detto, e la frase puzza di timori pol. corr. La cancelliera Angela Merkel ha imbarcato il suo paese in una sfida di accoglienza coraggiosa ma folle al tempo stesso. La sfida di integrare centinaia di migliaia e forse milioni di migranti in una volta sola richiede provvedimenti decisi, che sappiano prescindere dalla tolleranza assoluta che è invalsa in occidente. (ec) La Giglia giarrettiera Tutti i giornalisti in fila per entrare nel nuovo ordine lealista istituito da Joe & Johnny Vade retro satira, ninna nanna alle coscine di pollo. Joe & Johnny – ovvero Joe Servegnini e Gianni Riotto detto Johnny – per porre rimedio all’onta sessista or- NOVE COLONNE dita da Riccardo Mannelli, reo di lesiva vignetta contro Maria Etruria Boschi pubblicata sul Fatto quotidiano, istituiscono l’ordine della Giglia Giarrettiera da non dare ai cattivi come Vincino che poi vanno a solidarizzare coi satiri e insignire infine i giornalisti buoni e leali col governo e perciò meritevoli di cotanta onorificenza. Vade retro satira, ninna nanna alle coscine di pollo. Joe mette la giarrettiera a Johnny e viceversa. Comincia così il rituale della cerimonia dove Servegnini, fiero della sua frezza bianca su frangetta da suora laica, sfoderando la gambetta dal color yoghurt a lunga conservazione, mostra orgoglioso alle telecamere del Tg1 – appositamente accorse con tanto di diretta a cura di Fritto Frittella – le tanto adorate vene varicose da sensibile romantico viandante britannico. Vade retro satira, ninna nanna alle coscine di pollo. Forte di nicchia, è al redento Tg3, finalmente restituito alla maggioranza del Pd che Johnny offre il commovente momento in cui – dalle manine fatate di Joe – riceve la Giglia Giarrettiera su cui ha versato bacini Luca Lotti, il fascinoso custode delle chiavi segrete, non certo più ambite come quelle dell’appartamento di Firenze dato in uso da Marco Carrai a Matteo Renzi, ma le uniche ad aprire i santissimi lucchetti del Giglio Magico. Vade retro satira, ninna nanna alle coscine di pollo. Joe & Johny, pur sempre rispettivamente punta di diamante del Corriere della Sera e della Stampa, superano il primo momento d’imbarazzo verso i propri giornali decidendo ciascuno diversamente sulla domanda delle domande: “Dobbiamo insignire i nostri direttori?”. Se su Luciano Fontana si va sul sicuro, ingiarrettato ad origine, con somma gioia di Joe, su Maurizio Molinari invece – il direttore del quotidiano torinese – Johnny nutre più di un dubbio, anzi, arriva a una certezza: “Non è renziano, è un convinto sostenitore di Chiara Appendino. Vade retro, vade retro…”. Vade retro satira, ninna nanna alle coscine di pollo. L’immarcescibile Johnny, una ne fa e cento ne pensa e alla cerimonia di consegna ai meritevoli dell’ordine della Giglia Giarrettiera, dalla Stampa chiama ovviamente Massimo Gramellini e lo ingiarretta ma siccome ogni volta finisce che qualunque premio, qualunque riflettore, qualunque gioia se la cucca lui e solo lui, ovvero Marcel, l’immenso Marcello Sorgi, Johnny che una ne fa, cento ne pensa e si organizza. Vade retro satira, ninna nanna alle coscine di pollo. Johnny fa come Peppa la Cannoniera. Spolvera polvere da sparo sulla propria barba sale & pepe e al suo persecutore, ovvero Marcel, gli mette alle calcagna Carlo Conti. E il direttore artistico di RadioRai – ormai, una sorta di Luca Brasi di Renzi – sa sempre il fatto suo. Vade retro satira, ninna nanna alle coscine di pollo. Johnny accarezza con studiata lentezza la propria giarrettiera, assapora già il trionfo ai danni di quello che gli soffia sempre il primo posto dappertutto – dalle direzioni nei giornali a quella del Tg1, per non dire dei libri dove Marcel fa sfracelli mentre a Johnny solo patate – sa che Carlo Conti, sotto le mentite spoglie di Capitan Findus, naviga al largo di Lipari per intercettare e tendere un agguato al Sorgi navigante tra Scilla e Cariddi ma lo spietato direttore artistico di RadioRai deve piegarsi a ben più alto comando. Vade retro satira, ninna nanna alle coscine di pollo. Offrendo ai venti di ponente e di levante un fumigante piatto di pasta ’cchi sardi, lasciando sprigionare l’irresistibile profumo, Marcel vede arrivare, scendendo sul ponte del proprio yacht, da una scaletta di cordami – scortata dai caccia bombardieri levatesi dall’aeroporto militare di Sigonella – la soave, silente e severa Maria Etruria Boschi, rapita dalla squisita prelibatezza e decisa a dare a Sorgi, ancora una volta primo, tutto ciò che vuole, qualunque cosa: “La mia banca per le tue sarde!”. Un finale scespiriano – tra le acque delle Eolie – su cui Johnny, pur consolato da Joe, non può non supplicare, ancora una volta, il sipario! PICCOLA POSTA di Adriano Sofri Quando dico che Gianni, mio fratello, è molto migliore di me, qualcuno mi prende per ipocrita, e sbaglia. La gente, anch’io, si comporta bene abbastanza spesso, ma dopo averci pensato, e magari a volte a malincuore, o per secondi fini. Mio fratello si comporta benissimo perché non gli passa nemmeno per la mente di comportarsi male. Gli viene naturale. Ieri era il suo compleanno, e sono andato a trovarlo. Io avrei esitato a lungo e poi non so se l’avrei fatto. Lui no, lui non ci ha pensato due volte e ha compiuto ottant’anni. Era la cosa giusta da fare. ANNO XXI NUMERO 191 - PAG 3 EDITORIALI IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 L’Europa non lasci a Putin il ruolo di kingmaker del medio oriente OLTRE LE RELAZIONI ECONOMICHE. GLI SCENARI GEOPOLITICI CHE SI APRONO ALLA LUCE DEL DIALOGO TRA RUSSIA E TURCHIA Quel fronte invisibile del “no” Perché il neo meridionalismo anti produttivo può colpire il referendum A l referendum si voterà nel merito o per ragioni politiche e di schieramento? Si tratta di una domanda in realtà un po’ superficiale. Naturalmente non ci sono decine di milioni di esperti di Diritto costituzionale e gli elettori che leggeranno il testo degli articoli che vengono modificati saranno un’infima minoranza. Però questo non significa che l’elettorato non farà una scelta di merito: sceglierà tra un ammodernamento dell’architettura dello stato che lo renda più efficiente e governabile e il mantenimento di una situazione confusa che rende sempre contestabile l’autorità dello stato. Indipendentemente dalle specifiche norme e dai singoli articoli, questo è il senso della scelta, che è compreso abbastanza bene dall’elettorato e sul quale si esprimeranno una maggioranza e una minoranza (non sono molti, ma qualche buon argomento non manca neppure sul fronte del no). Quindi quello che sarà decisivo è l’atteggiamento verso lo stato, le attese e le delusioni che serpeggiano nella comunità nazionale su questo versante, sempre controverso. Da questo punto di vista sembra di capire che conteranno più gli orientamenti territoriali che quelli legati a uno schieramento politico. Si può prevedere, naturalmente rischiando di sbagliare, che nel centro-nord, dove la critica allo stato è fondata sulla constatazione delle inefficienze e delle lungaggini, lo spirito pubblico sia favorevole alla riforma. Si pensa, in queste zone, che ci sia una naturale vivacità della società e dell’economia che non trova un sufficiente appoggio nell’azione dei poteri pubblici, in sostanza si crede a una possibilità di crescita basata sull’innovazione e si punta a una trasformazione dello stato che ne agevoli il pieno dispiegamento. Nonostante la campagna leghista (che attacca la riforma perché insufficiente e perché legata al successo dell’odiato governo Renzi) a nord di Roma il clima è nettamente favorevole alla riforma. Da Roma in giù, invece, il panorama cambia. Anche se il Pd siciliano vanta una gran quantità di comitati locali per il sì, i vari fenomeni di mobilitazione popolare registrati alle elezioni amministrative e locali fanno pensare che l’orientamento prevalente sia contrario alla riforma. Si va espandendo un nuovo “meridionalismo” che ha abbandonato le antiche convinzioni produttivistiche, che rifiuta gasdotti e termovalorizzatori, che si scaglia contro la ricerca petrolifera ma impedisce anche di impiantare le pale eoliche, mentre si illude di risolvere tutto con il turismo (per il quale però non si apprestano le infrastrutture moderne) e con l’assistenzialismo. Anche le manifestazioni dei docenti che rifiutano i trasferimenti, che conseguono alla riduzione del precariato, che godono di largo consenso nelle popolazioni meridionali, sono un segnale del rifiuto della razionalizzazione, che è l’elemento centrale di ogni iniziativa tesa a elevare il livello di efficienza dei poteri pubblici. La Sicilia che mantiene al governo una giunta rabberciata e spendacciona in attesa di passare la mano a una assistenzialistica dei 5 stelle, Napoli che contrasta la razionalizzazione dell’area di Bagnoli in base a una patetica rivendicazione di autogoverno, cioè di non governo, la Puglia che si oppone a tutte le strutture energetiche e innovative in base a una strana concezione arcadica e giustizialista, rappresentano una specie di triangolo della morte in cui il riformismo istituzionale rischia di fare naufragio. Lo stato maggiore della campagna per il sì forse dovrebbe concentrare gli sforzi dove il pericolo di sconfitta è maggiore, lasciando perdere la polemica con la sinistra del Pd, che non penetra nemmeno nei circoli di partito e tiene banco solo nei talk-show. Non basteranno un paio di mesi per recuperare il mezzogiorno a una visione dello sviluppo di tipo produttivo, visto che anche quando il meridionalismo aveva questo segno rischiava sempre di essere massacrato dalla demagogia di Achille Lauro o dall’assistenzialismo. Ma in ogni caso occorre provarci: è una giusta causa, e non solo per il referendum. La spirale pericolosa di Kabul La crisi istituzionale sta lasciando spazio alle conquiste dei talebani M entre lo sguardo dell’occidente è rivolto altrove, ai quadranti del medio e vicino oriente in fiamme e soprattutto al proprio interno colpito dal terrorismo islamico, in Afghanistan, luogo trascurato dal ciclo delle news più recente, il peggioramento di una spirale pericolosa potrebbe aprire nuovi fronti di rischio. Dal 2014 il paese è appeso a un fragilissimo accordo tra i due principali contendenti delle ultime elezioni, il presidente Ashraf Ghani e il “chief executive” Abdullah Abdullah, carica quasi paritetica creata a tavolino dal segretario di stato americano John Kerry per evitare che i due, che nel 2014 dichiaravano entrambi la vittoria alle elezioni, trascinassero il paese nel caos. La coabitazione tra Ghani e Abdullah non ha mai davvero funzionato, e nel vuoto di potere si sono infiltrate le forze dei talebani, che una campagna militare dopo l’altra hanno ricominciato a mangiarsi parte del paese. Scriveva il New York Times in aprile, citando l’esperto Bill Roggio, che a 14 anni dall’inizio della guerra i talebani hanno il controllo o un’influenza fondamentale su circa metà del paese, e questa è una delle ragioni che ha spinto il presidente Obama, il mese scorso, ad annunciare che lascerà nel paese molte più truppe americane del previsto alla fine del suo mandato (8.400 contro le 5.500 previste). Ora però il fragile accordo di governo sembra infine arrivato al suo punto di rottura. Giovedì Abdullah Abdullah, parlando in conferenza stampa, ha detto che il suo partner istituzionale, non ha mantenuto gli accordi presi nel 2014, lo ha isolato dall’azione esecutiva e non ha rispettato due delle principali clausole del patto patrocinato da Kerry: la riforma elettorale e l’indizione di elezioni parlamentari per la fine di settembre, rimandate a data da destinarsi. Ghani, ha detto Abdullah, è inadatto al governo. Una crisi istituzionale sembra più vicina che mai, anche perché il vecchio presidente Hamid Karzai, eminenza grigia della politica del paese, intanto lavora ai fianchi per destabilizzare il governo e, si dice, per sostituirlo. Questo non farebbe che favorire i talebani, che da mesi si stanno rimangiando l’Helmand pezzo per pezzo, infliggendo sconfitte all’esercito di Kabul. Proprio in questi giorni hanno sferrato un attacco da diverse direzioni a Lashkar Gah, capitale della regione del sud. L’occidente è comprensibilmente distratto, ma rischia di tornare presto a sentir parlare di Afghanistan. Dirlo: fuori la Turchia dagli Europei Dopo giornalisti e oppositori, colpiti i calciatori. Una provocazione N essun settore della società turca è risparmiato dalle purghe del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, nemmeno lo sport. E la conferma è arrivata ieri con la notizia dell’ordine d’arresto spiccato da Ankara ai danni della ex star del calcio turco Hakan Sükür, accusato di appartenere a un “gruppo terroristico armato”, ossia all’organizzazione che fa capo al predicatore Fethullah Gülen, considerato l’ispiratore del golpe fallito dello scorso 15 luglio. La casa di Sükür, a Istanbul, è stata sopposta a perquisizione, i suoi beni sono stati sequestrati, i suoi conti correnti bloccati, e assieme a lui è stato raggiunto dal mandato di cattura anche il padre, Selmet, arrestato ieri. Tutti gli appassionati di calcio si ricordano Sükür con addosso la maglia del Galatasaray. E’ un’icona a Istanbul ed è soprattutto il più grande goleador turco di tutti i tempi, dopo una florida carriera sportiva marcata anche da un terzo posto ai Mondiali del 2002 con la Nazionale. Prima dell’ordine d’arresto nei suoi confronti, Sükür, tre anni dopo l’addio al calcio, nel 2011, aveva deciso di lanciarsi in politica, proprio nelle file dell’Akp di Erdogan. Riuscì a entrare come deputato in Parlamento, dove rimase fino al 2013, quando decise di abbandonare il partito governativo in protesta. Ora ne sta pagando le conseguenze. Già lo scorso 16 giugno l’ex calciatore è stato oggetto di un rinvio a giudizio e di una richiesta di condanna a 4 anni perché avrebbe accusato il presidente turco di essere un ladro. Ma ora Erdogan vuole andare ancora più lontano. Le purghe del leader dell’Akp hanno colpito tutte le istituzioni e gli ambiti della società turca, con circa sedicimila persone considerate vicine al leader dell’organizzazione di Gülen, che sono state incriminate e incarcerate, a cui si aggiungono gli altri seimila sospetti, attualmente in stato di fermo. Queste purghe, lo sappiamo, sono un segnale di un allontanamento di Ankara dalla sfera non solo strategico-politica, ma anche morale dell’occidente e della Nato. Forse la Turchia autoritaria che colpisce giornalisti e dissidenti non potrà essere cacciata dalla Nato. Ma almeno la Turchia autoritaria che perseguita i suoi sportivi potrà essere cacciata dagli Europei di calcio? S e i leader di Unione Europea e Stati Uniti sembrano non avere le idee chiare sulla strategia da adottare per risolvere il complicato puzzle del medio Oriente, la DI GIOVANNI CASTELLANETA* Russia di Vladimir Putin sembra invece molto convinta di quello che va fatto per giocare un ruolo di primo piano nell’area e per tutelare il proprio interesse nazionale. L’incontro “riparatore” che si è tenuto a San Pietroburgo tra Putin e Erdogan, unitamente alla visita del giorno prima del presidente russo a Baku per un vertice trilaterale con il leader azero Alyiev e quello iraniano Rouhani, sono chiari esempi della volontà del presidente russo di esercitare una funzione di powerful “broker” tra sciiti e sunniti. E’ evidente come Mosca intenda porsi come ago della bilancia in medio oriente grazie alla tessitura di relazioni positive con tutti i principali “player” dell’area, divisi tra loro dalla lotta millenaria tra sunnismo e sciitismo. Da una parte, il riavvicinamento tra Russia e Turchia è una tappa importante per ridefinire i rapporti di forza in medio oriente e soprattutto mettere pressione sulle potenze occidentali. In gioco non vi è soltanto la ripresa delle relazioni economiche bilaterali, “congelate” dall’embargo imposto da Mosca in seguito all’abbattimento del caccia russo da parte dell’esercito turco (la rimozione delle sanzioni avverrà peraltro in maniera graduale), quanto la possibilità reciproca di inviare un chiaro messaggio a Nato e Ue. Senza troppo “tatto” diplomatico, Erdogan ha segnalato nel corso delle ultime settimane a Bruxelles e Washington il proprio disappunto per la presa di posizione un po' tardiva contro il golpe del luglio scorso e, con il riavvicinamento a Mosca, alza la posta lasciando intendere che il suo potere negoziale si è accresciuto. Putin, dal canto suo, sfrutta abilmente il “vuoto” geopolitico lasciato dalle potenze occidentali, che avevano lasciato fare la Turchia nel contrastare Assad in Siria (ma con i pesan- ti effetti collaterali che purtroppo oggi conosciamo), rafforzando la sua posizione nel quadrante mediorientale. Inoltre, più sottile ma non meno importante è il tentativo sca ambisce a giocare il ruolo di stabilizzatore in Medio Oriente. Terreno di scontro principale è ovviamente la Siria e il futuro di Assad: a questo proposito, un interroga- Rafforzando i rapporti con Teheran e Ankara, i più potenti rappresentanti dell’Islam sciita e sunnita, Mosca ambisce a giocare un ruolo stabilizzatore. Riyad rischia di essere la grande esclusa di questa triangolazione: una mossa che potrebbe portare ad azioni scomposte, magari per procura russo di evitare una nuova deriva di tipo “khomeinista” in Turchia, controllando che il giro di vite successivo al tentativo di golpe non riproduca quanto accaduto quasi tivo interessante è cosa farà la Turchia, all’indomani della pace ritrovata con la Russia. Ankara cambierà atteggiamento nei confronti del regime di Damasco oppure quarant’anni fa nell’Iran dello Scià, con le manifestazioni di massa a favore del leader sciita che spazzarono via ogni vestigia dell'influenza occidentale nel paese. A complemento naturale di questa strategia vi è l’incontro dell’8 agosto con Rouhani, leader di un Iran che si ritiene deluso per non avere ottenuto i dividendi sperati dall’accordo sul nucleare raggiunto ormai un anno fa con gli Stati Uniti. Rafforzando i rapporti con Teheran e Ankara, rispettivamente i più potenti rappresentanti dell’Islam sciita e sunnita, Mo- continuerà a sostenere, più o meno apertamente, i gruppi oppositori ad Assad più estremisti il cui controllo è sfuggito allo stesso Erdogan? Le condizioni attuali sembrano perciò propizie affinché l’azione equilibratrice di Mosca possa contribuire ad un miglioramento complessivo a suo favore della stabilità nella regione. Non vanno poi sottovalutate le conseguenze sugli altri attori coinvolti. Pensiamo all’Arabia Saudita, custode dei luoghi santi dell'islam e fedele alla sua versione integralista wahabita, e agli altri stati “satelliti” del Golfo, in maggioranza sunniti. Riyad rischia di essere la grande esclusa di questa triangolazione orchestrata da Putin, che potrebbe portare anche a possibili azioni destabilizzatrici, magari “per procura”. Ma pensiamo soprattutto a noi europei e agli Stati Uniti, in questo momento prudenti più del solito e anche sfavoriti dal vantaggio competitivo sfruttato abilmente dalla Russia. Gli Stati Uniti, da qui fino alle Presidenziali, sono destinati molto probabilmente alla paralisi: se da un lato registriamo l’”imbarazzo” di Trump nella formulazione delle sue linee di politica estera (con l’annuncio di una grande apertura a Putin), dall’altro constatiamo con un filo di preoccupazione lo stallo di Hillary Clinton, preoccupata a risolvere i grossi problemi di consenso interni al Partito democratico. La campagna americana in Libia lanciata dal presidente Obama per distruggere le sacche di resistenza dell'Isis, potrebbe essere così letta come un diversivo e la volontà di apertura di un altro fronte che allenti la pressione turco-russa. Non rimane dunque che l’Unione Europea, la quale ovviamente comprende l’Italia, che non può rinunciare alla volontà di avere un ruolo importante in questa crisi, alla luce della nostra posizione nel Mediterraneo. Al di là delle questioni prettamente militari, il nostro paese può intervenire concretamente sulla questione dei migranti, che è una componente fondamentale della crisi in Medio Oriente, e su cui Erdogan fa leva per rafforzare il suo potere negoziale. Riuscire a ottenere una voce comune e decisa in ambito Ue sulla problematica migranti/rifugiati sarebbe già un primo importante passo per non lasciare alla Russia di Putin il titolo di unico “kingmaker” in Medio Oriente. * ex ambasciatore d'Italia in Iran (19921995), in Australia (1998-2001) e negli Stati Uniti d'America Il Piano B che serve all’Europa non è (più) lo stato federale AGIRE PER OTTENERE PIÙ INTEGRAZIONE CONTRIBUISCE AD ACCELERARE LA DISINTEGRAZIONE. UN SAGGIO DEL MULINO P er salvare l’unità fin qui realizzata e quella ancora possibile dell’Europa occorre allora non un passo in avanti ma un passo a lato. Occorre un piano B. CerTRA VIRGOLETTE - DI ANGELO PANEBIANCO tamente, quello che io interpreto come passo a lato è invece un passo indietro per colo che ancora coltivano l’idea di uno Stato federale europeo come meta finale. Ma non lo è per chi in quella meta non ci crede più. Il passo a latere, il piano B, per come la vedo io è l’unico modo per salvare il salvabile. (…) 1) Comincio ricordando quella variante secolare del provvidenzialismo storico che consiste nell’idea, che è stata a lungo di molti europeisti, secondo cui la storia europea procederebbe per tappe lungo un percorso tracciato o comunque prevedibile in linea di principio. Secondo questa visione, la costruzione europea avanza di stadio in stadio verso la meta finale (lo Stato federale). Poiché la meta è tracciata non occorre pensare a come mutare strategia in presenza di cambiamenti imprevisti e imprevedibili ma solo adattare la tattica alle circostanze. L’errore di molti – me compreso – quando venne adottata la moneta unica, fu di credere che l’euro avrebbe creato una pressione irresistibile a favore di più integrazione. Non è accaduto e ci siamo trovati dentro una trappola per topi: non possiamo avanzare né arretrare (abbandonare volontariamente l’euro provocherebbe molto probabilmente un tremendo danno economico, con imprevedibili conseguenze politiche). 2) Il secondo vizio d’origine è consistito nell’idea che, attraverso l’integrazione economica, fosse possibile arrivare un giorno a formare una identità collettiva europea così forte da poter competere con le identità nazionali. Non è accaduto. Tutti abbiamo identità multiple ma ciò che è sociologicamente e politicamente importante è quale delle nostre tante identità diventi C onosco troppo bene il dolore che noi figli ci stringiamo al petto, so che dura per sempre. E che ci procura nostalgie così immani da levarci perfino il pianto. Ce lo teniamo stretto, invece, e lo difendiamo da ogni assalto del cuore: questo è mio, è mio”. Lucy Barton è costretta in un letto d’ospedale in seguito a una complicazione postoperatoria che neanche i medici riescono a spiegarsi. Dopo settimane di paura e solitudine, un giorno la donna sente una voce che le si avvicina: “Ciao, bestiolina”. E’ sua madre, che dopo anni di silenzi è tornata per starle accanto. Dopo aver vinto il premio Pulitzer nel 2009 con il romanzo “Olive Kitteridge” (da cui fu poi tratta una serie tv di successo prodotta dalla Hbo), Elizabeth Strout, nel suo ultimo romanzo racconta il rapporto tra una madre e una figlia che per troppo tempo non hanno avuto il coraggio di dirsi niente. “Ciao bestiolina” le basta sentire quella voce, e a Lucy torna in mente tutto il suo passato, tutto il dolore da cui aveva provato a liberarsi. Nella casa in cui ha vissuto da bambina, ad Amgash, nell’Illinois, non c’era nessun tipo di bellezza su cui posare lo sguardo: “La vostra famiglia fa schifo” le dicevano i suoi compagni di classe, cattivi come i grandi, e avevano ragione. “Quello della solitudine era il primo sapore che avevo assaggiato”. Non se ne sarebbe andato più via; e sarebbero rimasti per più saliente di altre nei momenti di crisi. Nessuno può negare che le identità nazionali, nei momenti di crisi, oscurino la debole e precaria (ammesso che qualcosa del (G. Amato ed E. Galli della Loggia, Europa perduta?, Il Mulino, 2014)? Non è mai accaduto che si potesse formare una identità politica collettiva là do- Il progetto europeo non può continuare verso l’obiettivo di uno stato federale. L’idea della sua inevitabilità è tramontata, l’integrazione economica non ha prodotto un sentimento di appartenenza e i paesi membri sono divisi sula questione della difesa. Serve un nuovo progetto confederale genere esista) identità collettiva europea. Il nazionalismo, abbiamo potuto constatare, non si può sconfiggere. (…) Perché una identità europea più saliente di quelle nazionali non può formarsi? Per molte ragioni. Come si fa a pensare, ad esempio, che possa sorgere una forte identità politica condivisa laddove non è nemmeno possibile tracciare confini precisi come ha giustamente osservato Ernesto Galli della Loggia LIBRI Elizabeth Strout MI CHIAMO LUCY BARTON Einaudi, 158 pp., 17,50 euro sempre anche il rumore preciso del cuore quando si spezza, il pianto che toglie il fiato, suo padre e il suo Vietnam, la paura della paura. Appena aveva potuto Lucy era scappata lontano da casa, ma per fortuna non era servito a nulla. “Ciao bestiolina”. Non finisce mai niente. La mamma trascorre giorno e notte accanto al letto della figlia, senza mai allontanarsi né dormire. Passano il tempo a raccontarsi la vita, le tragedie e i fallimenti di tutti gli altri, senza accennare al loro dolore. Lucy adesso è sposata e madre di due bambine, in quella stanza di ospedale, però, si ricorda di essere prima di tutto una figlia. E che fine hanno fatto allora il quotidiano imbarazzo, tutti i biglietti mai spediti, la sensazione di guardare in faccia il sangue del tuo sangue e non avere niente da dirgli? Quando era piccola Lucy piangeva sempre; suo padre, senza neanche guardarla negli occhi, le diceva di smet- ve non fosse possibile tracciare una chiara e netta linea di separazione fra ingroup e outgroups, fra chi è dentro un certo perimetro politico e ne è necessariamente escluso. La politica, sempre e comunque, include ed esclude al tempo stesso. Una politica solo inconcludente, come nei sogni di molti europeisti, non è possibile o comunque non è mai esistita. La geografia, oltre che la storia, non ha mai aiutato da questo punto di vista il progetto di una Europa politicamente unificata. (…) Vengo all’ultimo vizio di origine (che forse è il vizio principale, quello che più mette a nudo la debolezza del progetto federalista): la questione della sicurezza. Fallita la comunità di difesa, nel 1954, la sicurezza non ha mai avuto più nulla a che fare con la costruzione europea. Maastricht ha tentato di rimediare ma ha fallito. A proposito, e detto en passant, i francesi e gli italiani sono in questo momento schierati su fronti opposti nella vicenda libica, che, come è noto, è una vicenda che mette in gioco un nostro vitale interesse nazionale. A dimostrazione del fatto che mettere le mani nazionali sul petrolio (in questo caso, della Cirenaica), ovviamente o per lo meno ovviamente per me - è molto più importante della famosa e introvabile politica estera europea ecc. Si dà il caso che la sicurezza sia sempre stata la principale causa delle unificazioni politiche. (…) Vengo al piano B, al necessario, seterla, che non c’era proprio niente da piangere. Lei provava a trattenersi ma non ci riusciva, era soltanto una bambina. “Abbi pietà di noi, abbi pietà di tutti noi”, la donna adesso lo ripete spesso. Ha capito anche lei che suo padre non era un uomo cattivo, che nessuno lo è mai per davvero. Dopo cinque giorni trascorsi in ospedale, all’improvviso la madre decide di andarsene e lo fa nello stesso modo in cui era arrivata, senza dire una sola parola. “Mi mancherai”, le sussurra Lucy, “Sì, ti mancherò”. La vita lascia sempre senza fiato. C’era stato bisogno di molto tempo e molto dolore, ma finalmente le due donne avevano capito di essere ancora una cosa semplice antica: una mamma e una figlia che ricordano di amarsi. Dopo tanti anni, Lucy Barton è una scrittrice famosa che decide di scrivere la sua storia, l’unica che ha a disposizione ed è senza dubbio una storia d’amore. Per raccontarla la donna non ha bisogno di guardare al passato, perché è tutto ancora davanti ai suoi occhi: il furgone in cui da bambina rimaneva chiusa per ore battendo i pugni sul finestrino, il desiderio che qualcuno prima o poi venisse a salvarla, gli attimi di gentilezza che possono procurare solo gli estranei. “Ci sono momenti che cerco di dimenticare, ma non dimenticherò mai”. I figli si ricordano di tutto, i genitori anche, ed è giusto che sia così. condo me, passo a latere. Una volta dismesso in quanto impossibile e persino indesiderabile un di più di integrazione politica in direzione “Stato federale”, non resta che pensare a una evoluzione in senso schiettamente confederale che, sperabilmente arrivi un giorno a gestire, con metodo intergovernativo, la sicurezza europea (per lo meno là dove non sono in gioco vitali interessi nazionali), in una co-partnership con gli Stati Uniti, a controllare i confini comuni, a preservare quel preziosissimo bene che è il mercato comune. Già oggi il metodo intergovernativo è dominante rispetto a quello comunitario. Si tratta di trarne le dovute conseguenze sul piano istituzionale. Però, ci sono due ostacoli: la path dependency, la dipendenza dal percorso, e la questione dell’euro. Sul primo punto è evidente che ristrutturare le istituzioni europee è difficilissimo anche a causa della forza inerziale che un costruzione complessa come la Unione non può non sviluppare. Purtroppo, sappiamo quale sia l’unica cosa che può sconfiggere quell’inerzia: una crisi così grave da obbligare le élite a fare profondi cambiamenti. Sfortunatamente non si vede come, a meno di un miracolo oggi imprevedibile, si possa evitare un ulteriore aggravamento della crisi europea. Si tratta di sperare che la crisi diventi una opportunità di cambiamento. Il secondo ostacolo è rappresentato dall’euro. Se ciò che ho fin qui detto è vero o per lo meno plausibile allora ne discende che ciò che serve per mettere in sicurezza l’euro, a cominciare da una politica fiscale comune, è irrealizzabile. (…) Regga o non regga l’euro, dovremo comunque passare un lungo periodo in purgatorio. (…) Non avremo mai, credo, gli Stati Uniti d’Europa. Però, forse, potremmo riuscire a dare vita, su scala continentale, a qualcosa di simile a quella prospera e potente Lega anseatica che unendo le città mercantili tedesche fu una protagonista della storia europea per alcuni secoli. IL FOGLIO quotidiano Direttore Responsabile: Claudio Cerasa Condirettore: Alessandro Giuli Vicedirettori: Maurizio Crippa e Marco Valerio Lo Prete Coordinamento: Piero Vietti Redazione: Giovanni Battistuzzi, Annalena Benini, Alberto Brambilla, Eugenio Cau, Mattia Ferraresi, Luca Gambardella, Matteo Matzuzzi, Giulio Meotti, Salvatore Merlo, Paola Peduzzi, Giulia Pompili, Daniele Raineri, Marianna Rizzini. 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ISSN 1128 - 6164 www.ilfoglio.it e-mail: [email protected] ANNO XXI NUMERO 191 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 La Giornata Finirà che il Congresso del Pd sarà su Rai3. Titolo: mozione morale * * * In Italia Al direttore - Più che un programma tv, la striscia prima del Tg3 sarà un congresso. Giuseppe De Filippi Mozione morale. CRESCITA ZERO NEL II TRIMESTRE. IL GOVERNO: I CONTI SONO STABILI. Il pil del secondo trimestre è rimasto invariato rispetto al trimestre precedente mentre su base annuale la crescita è stata pari a +0,7 per cento. Si tratta di una frenata rispetto al primo trimestre quando la variazione del pil era stata pari a +0,3 per cento su base congiunturale e dell’1 per cento su base annuale. E’ quanto ha indicato ieri l’Istat nelle stime preliminari. Il governo ha assicurato la stabilità dei conti. I capigruppo del M5s di Camera e Senato, Laura Castelli e Stefano Lucidi: “Renzi preferisce parlare di riforme istituzionali, accentrando l’attenzione sul suo futuro politico. E’ una strategia disperata per nascondere i suoi tragici fallimenti economici”. “Negli ultimi mesi sono emersi o si sono rafforzati fattori di rischio geopolitico che hanno un impatto negativo sulla crescita italiana (tra questi minaccia del terrorismo, crisi dei migranti, Brexit)”. Così il ministero dell’Economia, dopo la pubblicazione dei dati Istat. * * * L’uscita a sorpresa di Papa Francesco. Il pontefice ha lasciato il Vaticano ieri pomeriggio per incontrare una ventina di ragazze che la Comunità Papa Giovanni XXIII ha salvato dalla prostituzione. L’incontro ha fatto parte delle iniziative del venerdì per l’anno giubilare in corso. * * * Mari e coste italiani inquinati. E’ la denuncia di Goletta Verde, la nave di Legambiente che ha monitorato le coste della penisola, riscontrando aree inquinate ogni 54 chilometri. * * * Olimpiadi, nuova medaglia di bronzo per il canottaggio italiano. Ieri Matteo Castaldo, Matteo Lodo, Domenica Montrone e Giuseppe Vicino sono arrivati terzi nel quattro senza, conquistando la tredicesima medaglia per l’Italia. * * * Allarme incendi nel Salento. Due grossi incendi sono divampati ieri a Ugento e a Porto Badisco, nel territorio di Otranto. * * * Borsa di Milano. FtseMib +0,17 per cento. Differenziale tra Btp e Bund a 115 punti. L’euro chiude a 1,117 sul dollaro. Al direttore - Corrado Passera annuncia la liquidazione del suo partito. Quando scese in campo lo avevo paragonato a uno spettatore che, arrivato tardi a teatro, cerca di sedersi in una fila in cui tutti i posti sono già occupati. E’ andata proprio così. Giuliano Cazzola Al direttore - Corrado Passera ha deciso di sciogliere Italia Unica. “Non ne voglio più sapere della politica”, ha confidato a un suo stretto collaboratore. Io avevo capito, invece, che fosse la politica a non volerne più sapere di lui. Michele Magno Veni, vidi, smisi. Al direttore - Faccio mio l’editoriale del Foglio (“Il gender non è una scelta, è coercizione”) che, guarda caso, è nella stessa pa- * * * Putin manda gli S-400 in Crimea. Il governo russo ha annunciato l’invio nella penisola occupata del più sofisticato sistema missilistico antiaereo a sua disposizione, nuovo segnale dell’innalzamento della tensione tra Russia e Ucraina. Il premier russo Medvedev ha detto che Mosca potrebbe interrompere le relazioni diplomatiche con Kiev se la crisi peggiorerà. Si è dimesso ieri Sergei Ivanov, potentissimo consigliere e capo di gabinetto del presidente russo. E’ la prima destituzione a così alto livello da anni al Cremlino. * * * La dichiarazione dei redditi di Clinton. La candidata democratica ha reso pubblica ieri la sua dichiarazione dei redditi per il 2015, pratica comune tra i candidati alla presidenza. Dal documento si deduce che Clinton ha pagato un’aliquota sul reddito del 34 per cento. Trump si rifiuta da mesi di rendere pubbliche le sue imposte. Un giudice dell’Ohio ha bloccato ieri una legge statale volta a evitare il pagamento di fondi pubblici a Planned Parenthood. * * * Boom creditizio a rischio in Cina secondo il Fmi. Nel suo report annuale sulla seconda economia del mondo, il Fondo monetario internazionale ha detto che l’aumento di prodotti di shadow banking ha prodotto un boom creditizio ad alto rischio default. * * * Cooperazione Iran-Turchia sulla Siria. I ministri degli Esteri Zarif e Cavusoglu hanno annunciato da Ankara maggiori contatti per risolvere la crisi siriana. * * * Pokemon Go ha già fatturato 250 milioni di dollari nelle prime settimane dall’uscita, secondo una ricerca di YouGov. IL RIEMPITIVO di Pietrangelo Buttafuoco C’è un edificio, a Ibla – e cioè a Ragusa – adibito a campo d’accoglienza. Anzi, è “una casa d’ospitalità”. Così c’è scritto sul pavimento (deve essere un tondo del 1920) e la domanda che ci si fa visitandolo – cosa sarà mai stato nel passato? – si risolve nell’etimo di una sola radice: ospite. E ci si riferisce agli “ospitalieri”. Si torna quindi ai libri di scuola e dunque al Medioevo di eroismo, carità e testimonianza di fede. I Cavalieri Ospitalieri facevano la guerra anche per pagare la fabbrica di questo edificio che oggi – accogliendo gli “ospiti”, profughi e bisognosi di un tetto – è riprova dell’etimo. C’è una meravigliosa scalinata in pece; c’è il corridoio delle cellette pavimentato a scacchiera alla fine del quale, aprendo il balcone, arriva il paesaggio ricco di carrubi che, “ospitale”, conferma: tutto torna all’anno Mille. Al direttore - Aspettare ogni settimana il Manuale di conversazione di Andrea Ballarini sul Foglio.it è come un’apparizione prodigiosa e liberatoria. Convenirne. Marco Lorenzo Baruzzo Primo. “Dire che risolvere la questione dei rifiuti a Roma è facile come vincere al gratta e vinci senza comprare il biglietto. Di seguito deplorare il disfattismo”. Secondo. “Notare che i servizi del telegiornale sull’emergenza rifiuti (ad anni alterni a Roma o a Napoli) hanno inavvertitamente sostituito quelli sul delitto dell’estate. Trarne deduzioni sociologiche alla buona”. Concionare sul tema. Al direttore - Le mie figlie mi chiamano ciccione. Le ho licenziate. Roberto Alatri Al direttore - Non so se l’Emerito si sbaglia. Quello che so è che è diventata insopportabile la rappresentazione del centro del mondo fatta da se stessi, il vorticare intorno alle sorti del post comunismo, perduto oramai tra i rifiuti della storia l’orizzonte oltre il quale brillava il sol dell’avvenire. Fallita pure l’idea del coinvolgimento del popolo, questo sì di sinistra, dunque non comunista, nella partecipazione democratica non solo nell’economia, ma anche nella cosa pubblica, segnalato dalla disaffezione per il voto. E’ insopportabile la riproposizione all’infinito di temi superati col determinante contributo della sinistra che ha rimodellato le società moderne, con l’emersione di nuovi bisogni. E’ insopportabile che negli ambienti estremi del comunismo non ancora post, la vocazione rivoluzionaria li avvicini ai nemici dell’occidente, è insopportabile il tatticismo politico che si avvale di una compiacente informazione per abbattere l’av- versario. E’ probabile che abbia scantonato, ma Prodi, uno con la sua storia, mi fa venire in mente quello che guarda da una parte, ma mira all’altra. Comunque mi conforta il fatto che l’Emerito voglia aumentare gli iscritti al partito del sì al referendum. Marzio Patrizio Al direttore - Il buonsenso vorrebbe che la sinistra Le desse retta, ma non può. Perché la sinistra è nata per guidare le masse e la massa è impossibile guidarla con il buonsenso contro il quale possiede, fin dalla notte dei tempi, robusti anticorpi. Altro che il buonsenso popolare di cui si favoleggia. Ad esempio, ha voglia Renzi a gettare in pasto alle sue masse matrimoni gay e simili, come si buttano quarti di bue alle belve affamate, le troverà in gran parte irricettive quando si tratterà di fare scelte di buonsenso, e per cavarsi d’impaccio dovrà sperare nell’umore delle masse post berlusconiane o casaleggine, che agiranno a loro volta per pancia più che per buonsenso. Una pancia che ignora l’apologo di Menenio Agrippa, e almeno una volta su due c’azzecca. E’ la democrazia, bellezza. Mario Mauro Spalancare porte in uscita dal mercato del lavoro non salverà giovani e pil L a necessità di superare le rigidità in uscita imposte dalla legge Fornero (il cui obiettivo era quello di mettere in salvaguardia i conti del sistema previdenziale, generando – è bene ricordarlo – un risparmio nel decennio 2012-2021 di 81 miliardi di euro), ha impresso un’accelerazione significativa alla proposta del governo di introdurre un prestito ventennale per ritirarsi dal lavoro con tre anni di anticipo. L’esecutivo, come è noto, intende mettere il provvedimento per le pensioni nella Stabilità, ipotizzando uno stanziamento di circa 1,5 miliardi di euro. Sommando invece gli interventi complessivi (che includono ad esempio anche 500 milioni per il ricongiungimento gratuito e il riscatto degli anni universitari) si arriva a poco più di 3,8 miliardi. Si tratterà di scegliere quali misure privilegiare, o di aumentare gli stanziamenti in bilancio per definire l’effettivo contributo dello stato, con la conseguente calibratura delle detrazioni fiscali, per compensare la decurtazione dell’assegno anticipato rispetto alla pensione piena potenziale, soprattutto a favore dei disoccu- pati di lungo corso e dei lavoratori in condizioni particolarmente disagiate. La corsa alla pensione flessibile, come ha opportunamente analizzato di recente in un focus anche l’Ufficio parlamentare di bilancio, è condizionata quindi dalla necessità di calibrare l’aiuto pubblico che accompagnerà questa operazione. Questo elemento, osserva l’Upb, ha contribuito ad alimentare il dibattito sul canale di uscita più flessibile, anche se la maggioranza degli economisti ritiene che in generale i lavoratori anziani non sottraggano posti a quelli con meno esperienza. Soprattutto in periodi di crisi bruschi innalzamenti dei requisiti per l’uscita – come è accaduto con la legge Fornero – possono avere effetti indesiderati e di fatto ingessare il mercato del lavoro. La produttività italiana, però, è ferma al palo da oltre un ventennio, e nel confronto dal 1985 a oggi è nella fascia dei paesi Ue con la crescita più bassa, nonostante ci fossero normative che favorivano l’uscita anticipata dal mercato del lavoro, e quindi di fatto il turnover occupazionale. Accelerare il sistema di flessibilità in uscita, quindi, può determinare in un mercato del lavoro segnato tragicamente dall’altissima quota di giovani che hanno scelto di non studiare e di non formarsi (in Italia i Neet sono oltre due milioni), la perdita di competenze importanti, senza che possano essere adeguatamente sostituite. Incentrare il dibattito esclusivamente sulle leve per favorire l’uscita, senza valutare le azioni di politica attiva e di formazione per incentivare l’occupabilità dei giovani può rilevarsi un pericoloso boomerang che rischia di impoverire un mercato del lavoro, quale è quello italiano, che nei prossimi venti anni vedrà scomparire il 56 per cento delle attuali occupazioni. Il Cedefop è il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale, organismo alle dirette dipendenze dell’Unione europea. Nelle sue analisi periodiche sui trend del mercato del lavoro e sulla necessità di investire su un sistema di formazione qualificato, ha ridefinito le quote che i settori occupazionali attualmente in esercizio andranno a ricoprire nei prossi- mi cinque anni. Tutti i settori tradizionali perderanno quote di mercato. Dai trend del Cedefop l’Italia si conferma un paese sempre meno industriale e più dedito ai servizi e al terziario, dato che trova conferma nel recente aumento dell’autoimprenditorialità, cresciuta di 78 mila unità nel giugno 2016. Occorre, pertanto, formarsi e specializzarsi per competere nel mercato del lavoro del futuro, nel quale i quindicenni di oggi cambieranno dai cinque ai sette lavori, molti dei quali non sono stati ancora inventati. Si discuta di flessibilità in uscita ma si ragioni sulle modalità per rafforzare le competenze dei giovani, a cominciare dalla ridefinizione di un piano generale dell’offerta formativa che tenga conto dei cambiamenti organizzativi e tecnologici in atto sia in Italia che nel mondo. Stefano Cianciotta Docente di Comunicazione di Crisi all’Università di Teramo, autore con Pietro Paganini di “Allenarsi per il futuro. Idee e strumenti per il lavoro che verrà” (Rubbettino) Il solipsismo dei professori “deportati” contro la logica del mercato Nel mondo LA PISTA ISLAMISTA NON E’ DA ESCLUDERE IN THAILANDIA. A partire da giovedì sera una serie di attacchi coordinati ha colpito diverse località nel sud del paese, alcune delle quali note località turistiche, come Hua Hin e Phuket. Sono morte quattro persone, e i feriti sarebbero diverse decine. Il governo esclude che si tratti di atti di terrorismo e parla di “sabotaggio interno”, ma la pista del terrorismo islamista non può essere ancora esclusa. (articolo in prima pagina) gina dove sono state pubblicate le ragioni del sì. Ebbene, grido con fermezza no, per contribuire a liberarci di quelli (Renzi in primis) che per “scelta ideologica” avallono “princìpi coercitivi da imporre a tutti” com’è successo con la legalizzazione delle unioni civili e che rientrano, non dimentichiamocelo, a pieno titolo nella filosofia “gender”. Ripensateci piuttosto Voi del Foglio altro che Berlusconi. Vittorio Colavitto L a protesta inscenata da insegnanti del sud destinati a un posto di ruolo altrove obbliga a qualche considerazione sul significato del lavoro. Questi docenti, che si considerano “deportati” da chi non permette loro di insegnare sotto casa, appaiono infatti ignorare il significato del lavoro all’interno di una società basata su scambi e specializzazione. E’ giusto e comprensibile che ognuno guardi alla propria professione come a quell’ambito in cui realizzarsi. E dover trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza, senza dubbio, è molto oneroso: senza considerare che il costo della vita al Sud sia inferiore, mentre lo stipendio di un docente italiano è uguale a ogni latitudine. La ribellione che ha luogo nelle piazze di Bari, Potenza e Napoli – focalizzata sulle pretese dei docenti, e non certo sulle esigenze degli studenti – ci dice però quanto il lavoro non sia compreso nella sua dimensione propria: quale mettersi al servizio dell’altro. A dispetto dell’invadenza del potere statale (che occupa in maniera più o meno monopolistica interi settori, a partire dalla scuola), la nostra resta quella società emersa millenni fa grazie al commercio e alla divisione del lavoro. Ognuno di noi fa pochissime cose e per tutto il resto dipende dagli altri. Un avvocato e un elettrauto non coltivano campi né allevano animali, ma ogni giorno possono nutrirsi perché si avvalgono delle iniziative altrui: così come gli altri si avvalgono delle loro. Questa società è una società ultra-socializzata: agli antipodi rispetto all’isola dei famosi. Entro il mondo reale abbiamo tutto il diritto di cercare la nostra felicità, ma solo se ci facciamo qualcosa per il prossimo. Come proprio sul Foglio ha mostrato l’ottimo Luciano Capone, il successo di Salvatore Aranzulla (il maestro Man- zi di chi ne capisce poco di informatica) è derivato dal suo essersi messo sulle piste delle esigenze della gente: come fanno professionisti, ristoratori, artigiani. I nostri docenti non sembrano avere colto questo dato elementare e bene ha fatto Massimo Famularo, su Noise from Amerika, a usare l’arma dell’ironia per smontare le tesi di questi docenti, in guerra con “l’incultura di chi vorrebbe spedirli dove c’è bisogno di loro”. Perché è evidente che perfino in una scuola statizzata come è quella italiana alla fine bisogna cercare di imitare il mercato: portando gli insegnanti dagli studenti, e non già viceversa. Questi professori che non percepiscono il lavoro come un servizio, ma come un diritto acquisito (come se la scuola fosse per loro, e non per i giovani), sono i perfetti interpreti di una cultura antiliberale che in nome della socialità prima ha progressivamente marginalizzato il mercato e ora sembra voler perfino liquidare ogni logi- ca implicazione derivante da specializzazione e divisione del lavoro. Per giunta, mentre il mercato ci rende sempre più interconnessi con il mondo attorno a noi e ci spinge a prendercene cura, questa rivolta contro il significato del lavoro tende a isolare ogni individuo, facendone il semplice percettore di uno stipendio. Sul piano morale, le prospettive antimercato, che tendono rappresentarsi quali eminentemente sociali e solidali, alla fine si rivelano dominate un solipsismo senza limiti. “Datemi una cattedra e a vita, sotto casa, anche senza studenti”: questo sembra essere il messaggio che giunge a noi dai docenti in rivolta. Una crescente dilatazione delle pretese redistributive porta a ciò: a un mondo di egoisti in grado solo di avanzare rivendicazioni sui diritti e sull’esistenza degli altri. E disposti dare poco, pochissimo, quasi nulla. Carlo Lottieri La Turchia apre il rubinetto dei migranti, c’è tensione sulla rotta balcanica Roma. “I giorni dell’immigrazione irregolare in Europa sono finiti”, aveva detto il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, il 18 marzo scorso dopo l’accordo tra l’Unione europea e l’allora premier turco, Ahmed Davutoglu, che si era impegnato a riprendersi tutti i migranti sbarcati illegalmente sulle isole greche. In cambio la Turchia aveva ottenuto tre miliardi di euro di aiuti, la promessa che l’Ue accogliesse poi un certo numero di persone con il diritto d’asilo e infine l’accordo implicito a riaprire pienamente il negoziato sul futuro ingresso nell’Unione. Tuttavia le controversie tra Ankara e Bruxelles, in seguito al fallito golpe del 15 luglio scorso, hanno rimesso l’intesa sui migranti in discussione. Il presidente Erdogan turco, nel pieno della stretta autoritaria per punire i presunti golpisti, ha sostenuto di essere pronto a reintrodurre la pena di morte se il popolo e il Parlamento lo vorranno. Non solo: ha fatto sapere di non essere disposto al momento a rivedere la legislazione domestica anti terrorismo, giudicata troppo coercitiva da Bruxelles. Se a fronte di tutto ciò la Commissione europea non dovesse concedere la promessa liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, Ankara ha minacciato la denuncia dell’accordo di marzo sui migranti. E qualcosa in questa direzione sta già accadendo. Come dimostrano i primi dati ufficiali, il flusso di migranti provenienti dalla Turchia e diretti verso le isole greche sta lentamente riprendendo, ed è aumentato del 76 per cento rispetto al periodo precedente al fallito golpe in Turchia. Il numero dei richiedenti asilo bloccati provenienti dalle coste turche verso le isole del mar Egeo ha superato quota diecimila, mentre i migranti identificati e registrati in Grecia sono in tutto 57.098, secondo il Comitato locale per la gestione della crisi dei rifugiati. Tra questi più di 7.600 soggiornano in locali affittati dall’Al- to Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, altri 3.000 circa in strutture non organizzate e si stima che siano più di 2.300 i migranti che vivono al di fuori di qualsiasi struttura ufficiale. Per il momento, le autorità greche hanno intenzione di trasferire i rifugiati e i migranti bloccati sulle isole del mar Egeo nella Grecia continentale. Molti di loro attendono in campi d’accoglienza congestionati per le lunghe pratiche burocratiche previste per la revisione della domanda di asilo. Temendo un nuovo afflusso di rifugiati nel caso in cui Ankara annullasse l’accordo con l’Unione europea, anche i paesi balcanici e dell’Europa orientale si stanno organizzando. La Bulgaria innalza una nuova recinzione di 30 chilometri di lunghezza al confine con Grecia e Turchia. Sofia ha ricevuto 6 milioni di euro da Bruxelles per la gestione dell’emergenza migranti. La preoccupazione è che la chiusura del confine tra Grecia e Macedonia possa spingere i migranti proprio verso la Bulgaria. L’ex repubblica sovietica cerca di mantenere relazioni di buon vicinato con la Turchia, anche a causa della minoranza turca molto nutrita residente nel paese. “La sfida – ha spiegato il primo ministro di Sofia, Boyko Borisov – non è solo mantenere aperto il canale di comunicazione con Ankara, ma anche garantire che la Turchia non permetta il libero passaggio dei rifugiati”. Mentre i funzionari bulgari arrestano ogni giorno tra i 150 e i 200 rifugiati che poi vengono rimandati in Turchia, anche l’Ungheria prevede di nominare circa 3.000 nuovi agenti di polizia per gestire la pressione migratoria al suo confine meridionale con la Croazia e la Serbia. A ottobre nel paese si terrà un referendum per decidere se rispettare o meno i piani di delocalizzazione dei migranti imposti dall’Ue. Enrico Cicchetti La compagnia del no al global warming ora porta in tour il referendum (segue dalla prima pagina) E così la compagnia che porta in giro la storia del global warming, che poi è la stessa dei No Expo, No questo e No queDI MAURIZIO MILANI st’altro, ha trovato un nuovo soggetto teatrale da portare in tour a 5.000 euro a serata: il referendum costituzionale. Se fate caso sono sempre quelli a guadagnare. Speriamo almeno che a fine serata (di ca- baret) rilascino regolare fattura. Nel mio caso mi regolo così: 2.500 euro di rimborso spese, in nero, 2.500 euro fatturati. A volte a fine spettacolo butto via la fattura. Invito gentilmente l’associazione no profit che mi ha invitato stasera a fare lo stesso. Ragazzi! Non siamo qui a giocare, ma a guadagnare. Mica è semplice: un podere ecosostenibile in Toscana costa due milioni di euro. Per cui se c’è da fare la pubblicità a un prodotto che usa l’olio di palma sono il primo. L’olio di palma è la nuova moda dei comunisti. Le piantagioni di palme distruggono la biodiversità e favoriscono la CO2? Mah, a me sembra un’altra balla per fregare soldi ai comuni con i sindaci di sinistra: sono sempre loro che si fanno abbindolare da questi circhi. P.s. Ad agosto a Milano le donne anziane si lamentano per il freddo, ma la giunta e i servizi sociali dicono di non avere tempo e che devono occuparsi di un’altra emergenza. Infatti se il sindaco si occupa tutto il giorno di cercare caserme da usare come hub, non ha tempo di fare altro, anche perché pure lui deve pur mangiare e dormire. Io spendo ad esempio tutto il santo giorno a lavarmi le mani. E’ per questo che ho perso tutti gli amici. Firmato Dc Ala dura Lasagna nella doggy bag e Briatore nel cassetto. L’italiano dei sondaggi estivi (segue dalla prima pagina) Gli italiani invece se non vedono Briatore con la busta degli avanzi in mano, non chiedono la doggy bag: “Il 22 per cento ritiene che sia da maleducati, da poveracci” quindi fa bene “il 18 per cento che non lascia avanzi quando va a mangiare fuori”. “Sono circa 6 milioni i turisti che passeranno l’estate in tenda o camper sotto le stelle”, dice in un altro sondaggio la Coldiretti. E poi tutti di corsa alle sagre, perché “più di otto italiani su dieci hanno scelto di partecipare quest’anno a sagre e feste di paese”. Si tratta “di una vera e propria tendenza che è il frutto dell’esigenza di contenere le spese ma anche di ristabilire un rapporto più diretto con il cibo, la cultura e le tradizioni”, quindi una scelta sia da po- veracci sia da vip, come quella di portarsi a casa gli avanzi a casa. Che poi, molti di questi avanzi, uno se li porta in spiaggia. E qui c’è lo scoop della Coldiretti: “In testa alle preferenze per l’ora di pranzo sotto l’ombrellone c’è l’insalata di riso o di pollo o di mare (27 per cento)” che a sorpresa batte “l’ipercalorica parmigiana (8), oltre alla frittata (10) e le classiche lasagne (4) a pari merito con le polpette (4)”. E la chiama “svolta salutista”. Ne esce una bella immagine. L’italiano Coldiretti doc d’estate dovrebbe dormire in tenda e presentarsi in spiaggia con la busta degli avanzi della sagra piena di parmigiana, polpette, lasagne, frittate e insalate. Vestito da Flavio Briatore. Col mocassino sul litorale, andiamo a comandare! (l.cap.) Islam e Thailandia La nuova Costituzione sceglie il buddismo come pilastro dello stato. Miliziani e opposizione (segue dalla prima pagina) Uno scenario in cui ogni attentato è sempre in cerca di autori. Secondo molti osservatori i registi degli attacchi in Thailandia potrebbero essere i militanti islamici che da oltre dieci anni chiedono l’autonomia delle tre province dell’estremo sud. Una guerriglia che in quelle province ha provocato oltre 6.000 morti. Sino a ora gli attentati e gli attacchi armati erano rimasti confinati “laggiù”, come dicono i thai, e avevano preso di mira soldati, polizia, monaci, insegnanti: tutti i rappresentanti del potere centrale. Il referendum costituzionale potrebbe aver modificato la strategia: la nuova Costituzione accentua il centralismo ed enfatizza il buddismo quale pilastro della “kwampethai”, la thailandesità. In questo senso la scelta del giorno e di Hua Hin avrebbe un valore simbolico: colpire la monarchia e, ancor più, l’immagine della regina. Il corpo d’élite delle “Queen’s Guards” a lei fedelissimo è sempre stato in prima linea nella lotta all’insorgenza. Secondo il colonnello della polizia thai Krisana Patanacharoen “è certo che gli attacchi non sono collegati al terrorismo”. Ma l’affermazione è vaga: in Thailandia si è sempre fatta una distinzione molto netta tra terrorismo di matrice islamica – come quello diffuso nel sud delle Filippine, in Indonesia o Bangladesh – e il separatismo islamico locale. Secondo altri osservatori, la regia degli attentati sarebbe da attribuire all’opposizione sconfitta nel referendum. Un’idea che potrebbe apparire sin troppo comoda. L’opposizione è uscita dal referendum tanto frustrata quanto divisa e non sembra in grado di tale “geometrica potenza”. Se così fosse bisognerebbe pensare a un “salto di qualità”, un ritorno al passato, ai tempi della guerriglia comunista in Thailandia, più o meno in coincidenza con la guerra del Vietnam. Una guerriglia conclusa con l’amnistia del 1983, ma che potrebbe essere rimasta latente in alcuni dei leader, successivamente integrati nell’opposizione, specie tra le “camicie rosse” i sostenitori dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra. Il rosso delle camicie non aveva una connotazione politica, ma il movimento si richiamava comunque a una forma di lotta di classe tra popolo ed élite (incarnata soprattutto nella nobiltà). In quest’ottica suonano inquietanti le parole di Giles Ji Ungpakorn, attivista politico di fede “repubblicana”, autore del “Red Siam Manifesto”, accusato di lesa maestà e rifugiato negli Stati Uniti dopo il 2004. “Da Atene e Madrid sino a Bangkok la questione più importante per gli attivisti è come costruire partiti rivoluzionari indipendenti, come collegarsi alla classe operaia e come porre la lotta dei movimenti sociali al di sopra delle politiche puramente elettorali”. Sono tutte supposizioni. Come accadde esattamente un anno fa, il 17 agosto 2015, dopo l’attentato al tempio del dio Erawan a Bangkok, che provocò venti morti. I sospetti caddero in alternativa sugli estremisti islamici e sulle camicie rosse. Finché i colpevoli non furono identificati in un gruppo di uiguri, forse legato a organizzazioni criminali, che protestava contro il rimpatrio in Cina di attivisti appartenenti alla loro etnia (di fede musulmana) accusati di separatismo dal governo di Pechino. Intanto c’è già chi pensa a celebrare riti magici affinché le vittime di questi attentati, prima della prossima reincarnazione, si trasformino in un phii phrai, un fantasma vendicatore, uno spirito psicopatico che non ha pace finché non ha eliminato i suoi nemici alla stessa maniera. Massimo Morello Lo “choc cinese” 2,4 milioni di posti di lavoro persi a causa della Cina contro 2,1 creati. L’occasione di Trump (segue dalla prima pagina) Ma in quegli anni l’ascesa della Cina come potenza esportatrice ha man mano messo fuori mercato tutte le aziende locali, e nel 2010 il tasso di disoccupazione era arrivato al 15 per cento. Un boom di importazioni di questa portata non si era mai visto in ere recenti nell’economia americana, e ha scosso le convinzioni di molti economisti. Il libero commercio crea da sempre vincitori e perdenti, ma a Hickory e in centinaia di altre città americane i perdenti sono stati così tanti che alla fine è difficile scommettere sulla positività del risultato complessivo. L’economista Gordon Hanson ha detto al Journal che la competizione cinese è responsabile di 2,4 milioni di posti di lavoro persi in America tra il 1999 e il 2001. I posti di lavoro totali creati nello stesso periodo sono 2,1 milioni: il bilancio è negativo. Incoraggiare il commercio con la Cina senza proteggere i propri lavoratori è stato “un errore catastrofico”, ha detto. Trump raccoglie i cocci di questa catastrofe. Fin dal 2000, secondo alcuni studi, nelle zone più colpite dalla concorrenza cinese la politica si è polarizzata e si è fatto strada un senso di avversione fortissimo alla globalizzazione. Il risultato è che alle primarie repubblicane Trump ha stravinto in 89 delle 100 contee più interessate dal fenomeno. In quelle democratiche, Bernie Sanders ha vinto in 64. Il riflusso anti globalizzazione, frutto non di un fallimento del mercato ma della miopia politica, influenza così tutto il quadro politico. Ancora giovedì, in un discorso in Michigan, la democratica Clinton ribadiva la sua opposizione al Tpp, il trattato di libero scambio del Pacifico. Eugenio Cau ANNO XXI NUMERO 191 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 ESTATE SENZA PAROLE Frodi sintattiche, frasi-cerotto, espressioni a doppio fondo. Sillabario semi serio dei miraggi, dei luoghi comuni e dei tic linguistici della nuova (e un po’ paracula) politica italiana e vi solleverò le vendite! Col cavolo. di Salvatore Merlo Satira. Prodotto cosmetico per violenza verbale. Verrebbe voglia di augurarsi possa perdere spazi di libertà per riappropriarsi di spazi di talento (vedi sessismo). Le idee debbono trasformarsi in rappresentazioni e in sentimenti o rivestire di rappresentazioni e di sentimenti la loro nudità per potere agire sugli uomini. Devono insomma farsi parole. E la qualità delle parole è dunque lo specchio delle idee che esse esprimono in una determinata epoca, sia questa molto breve o molto lunga. Ecco allora, mentre s’avvicina Ferragosto, uno sbrigativo ma urgente e semi-serio catalogo, un sillabario di necessità, miraggi, luoghi comuni, contraddizioni, tic linguistici e paraculismi dell’estate italiana. Non parole ma talvolta parole d’ordine, truffe di significato, frodi sintattiche ed espressioni a doppio fondo, frasi-cerotto, da dove potrebbe venirne fuori che, contrariamente alla credenza più diffusa, la ragione ha un’importanza assai secondaria nella diffusione di un pensiero, o nella persuasione. Scomodo. Lo dice di sé l’epurato televisivo (vedi epurazione). In Italia più comodo di uno scomodo c’è solo il Papa. Sessismo. E’ quella cosa che se in Italia la pratica Salvini fa vomitare, ma se la fa Travaglio allora è satira, e se ti dicono che non lo è, allora tu rispondi che ti stanno censurando. Se Obama balla il tango a Buenos Aires nessuno dice che è fru fru. Ma se Maria Elena Boschi ha la gonna corta, allora le riforme diventano “lo stato delle cosce”. Militarizzata e militante, mai contro gli amici, nasce così la finta satira. E fuori dalla satira, l’equazione “gonna corta” uguale “pensiero corto” è insostenibile. Torniamo ad Adele Faccio: ti puoi occupare di referendum solo se sei castigata. Antropocentrismo (specista). “Roma Capitale è portatrice di una visione biocentrica che si oppone all’antropocentrismo specista che nella cultura occidentale ha trovato la sua massima espressione” (Virginia Raggi, 1 agosto 2016). Produzione di parole a macchina fotocopiatrice secondo posologia. Di- Olimpiadi. Quella cosa che si fa a Rio ma non si può fare a Roma. I Giochi accendono il Brasile ed entusiasmano tutti, persino i Cinque stelle, che tifano per Scomodo. Lo dice di sé l’epurato televisivo (vedi epurazione). In Italia più comodo di uno scomodo c’è solo il Papa Sessismo. E’ quella cosa che se in Italia la pratica Salvini fa vomitare, ma se la fa Travaglio allora è satira mostrazione di sincera e primitiva ammirazione per colui che sa, e usa parole difficili. Da pronunciarsi con l’aria di chi voglia sovvertire un imprecisato ordine dalle radici ma, afflitto da umbratili complessi (e da visione biocentrica), affida la scrittura del suo programma di governo a Nino Frassica. i campioni della scherma e dei tuffi, del judo e del canottaggio, purché tuttavia non accendano Roma. Qua, dice la sindaca, ci si deve occupare solo di monnezza e di gabbiani che mangiano ratti per strada, d’inefficienza di servizi e di sottosviluppo. Fino al 2024. (Co)Raggi(o). Cicciottelle. Poiché difendono il politicamente corretto e la sensibilità umana, al giornalista un po’ goffo del QN che titola “il trio delle cicciottelle” sopra la foto delle campionesse italiane di tiro con l’arco, augurano di morire infilzato da una freccia. Su Twitter, lunedì 8 agosto, lo scrivono decine di persone solitamente garbate e un po’ di sinistra, se lo augura persino una bravissima e rispettabilissima collega di Repubblica. Alla fine l’autore del titolo, Giuseppe Tassi, è stato sospeso dal suo editore, Andrea Riffeser Monti. Il rogo del politicamente corretto. Il buon gusto e l’espressione della simpatia sono cose molto soggettive. E Tassi non è Matteo Salvini, non è un arrapato di turpiloquio sessista che agita bambole gonfiabili vestite da Laura Boldrini. Ma a fare titoli ci si può trascinare in situazioni ridicole, scabrose o impensabili. Per la cronaca, anni fa, il QN, a Bologna, uscì con questo famoso titolo: “Pene più duro per i piromani”. E invece a Prato, il 30 luglio del 2012, in prima pagina: “Cinese ucciso a coltellate: è giallo”. Adesso però non è che li deve licenziare tutti. Deportazione. Tic linguistico e giornalistico che svela l’Italia pigra, satolla ma lamentosa degli anni Duemila. Dicesi “deportazione”, di quando dopo anni di precariato ti danno un posto fisso da insegnante nella scuola pubblica al nord, ma tu no, non ci vai. Meglio sbocconcellare cotognate al bar del paese e farsi intervistare da Repubblica: “A Milano? Siete pazzi. Fa freddo! Andateci voi”. Nessuno legge più Giuseppe Marotta, uno di quei terroni che giunti a Milano con la valigia di fibra e la testa piena di sogni di promozione, ebbero la forza di realizzarli anche a costo dei più duri pedaggi. Non offrivano nemmeno il posto fisso. Ne venne fuori il boom economico, ovviamente. Doping. Condizione naturale dell’uo- Fuori dalla satira, l’equazione “gonna corta” uguale “pensiero corto” è insostenibile. Torniamo ad Adele Faccio: ti puoi occupare di referendum solo se sei castigata mo moderno. Caffè, integratori, nicotina, bibite energetiche, viagra, tutti prendono qualcosa per avere successo. Lo scorso 9 agosto il nuotatore francese Camille Lacourt ha raccontato al mondo intero che il suo collega cinese Sun Yang, campione dei 200 stile libero, “il pisse violet”, fa la pipì viola. Quella sera Sun Yang ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio. L’11 agosto il marciatore italiano Alex Schwazer, che avrebbe assunto una sostanza chiamata “Epo”, è stato invece squalificato per otto anni. Qualcuno lo beccano, qualche altro no. Quelli che non beccano, poi ovviamente fanno la morale ai beccati. Epurazione (vedi scomodo). Qui si entra, purtroppo, in un terreno molto accidentato oggi che gli epurati e gli sco- Deportazione. Tic linguistico e giornalistico che svela l’Italia pigra, satolla ma lamentosa degli anni Duemila modi della televisione e della radio, i censurati catodici e delle onde medie, spuntano come i funghi dopo la prima pioggia d’agosto. In generale in Italia s’intende per epurazione un particolare stato d’animo, emotivo e psicologico, che coinvolge totalmente un giornalista o un personaggio dello spettacolo che ha perso il suo palcoscenico. Richiede molta comprensione di sé, molto tempo e grande impegno. In principio fu l’editto bulgaro. Da allora in poi chiunque venga tagliato da un palinsesto ritiene in buona fede d’essere Michele Santo- ro o Enzo Biagi, se non Piero Gobetti. Convinto dunque d’essersi battuto lui solo con decisione, in mezzo alla genuflessione generale, e contro le più truculente minacce politiche della nostra epoca, come direbbe Totò, “si butta a sinistra”. Ovviamente, come accade per le onorificenze al merito, è a quel punto un epurato a vita. Si professionalizza. Non torna più indietro. Può fare fiasco a teatro, scrivere libri che nessuno legge, ma sempre epurato resta, come gli ex deputati rimangono “onorevoli” anche quando non sono più eletti. E se non ci si sbriga a dargli presto una scrivania, una telecamera o un microfono, quello finisce che diventa pure un’autorità morale, mezzo Zagrebelsky e mezzo Che Guevara. Golpe. Parola disposta per ogni servizio, pronta per ogni viaggio, mercenaria per ogni guerra, saltellante e instancabile. E ovviamente, come tutte le parole, più se ne abusa più si sgonfia. Un tempo si usava molto contro Berlusconi. Nel 2006 Curzio Maltese ci fece un libro, in cui accusava quel diavolaccio del Cavaliere di “squadrismo culturale”, “imbecillità”, “omologazione a ribasso dei costumi”, “scempio della moralità”, “assassinio del bello”. Tutte piccolezze che, di conseguenza, avevano determinato secondo lui un “golpe democratico” o meglio “un golpe mediatico”. E qui arriviamo al punto. Poiché l’ammonizione biblica “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, come tutte le prescrizioni morali e i richiami di buon senso, è evidentemente fatta per essere ignorata, adesso è Forza Italia ad avere il pri- mato nell’uso della parola golpe. Uno come Renato Brunetta l’ha (ab)usata contro Napolitano (“con lui è un golpe infinito”), contro le agenzie di rating (“il golpe del rating”), contro Mario Monti (“il professore del golpe”), contro Pier Luigi Bersani (“se gli danno l’incarico è un golpe”). Ma è forse sulla nomina dei direttori dei Tg Rai che questa estate il prolifico deputato berlusconiano ha toccato il maximum e l’optimum: “Questo è un golpe. Renzi è come Erdogan”. E davvero sembra la caricatura di quei pezzi sulla Struttura Delta berlusconiana che nel 2011 Massimo Giannini scriveva per Repubblica. Leggete e paragonate: “11 febbraio 2011. Gli storici prendano nota. Ieri, per la prima volta, si è riunita in chiaro, alla luce del sole, la Struttura Delta. Le ‘guardie armate’ del presidente del Consiglio nella carta stampata e nella tv. E poi c’è ancora chi dice che questa non è una vera emergenza democratica”. Gufo (sin. sfiga). Chi di gufo ferisce di gufo perisce. Le parole non vogliono stipendio e si danno a chi meglio le adopera, per qualunque causa. Entrato a Palazzo Chigi il 22 febbraio 2014, Renzi indicò “gufi”, “rosiconi” e “disfattisti”. Poi, il 29 dicembre del 2014, aprì la conferenza stampa di fine anno con una carrellata di gufi, di disegnini, di slide sul pil, sulle riforme, sul Jobs Act, accompagnate dalle “gufate” dei pessimisti. A un certo punto, simpaticamente, Pippo Civati e Stefano Fassina, che criticavano Renzi, cominciarono a utilizzare la parola “gufo” per riferirsi a se stessi. Molti altri, molti giornalisti, fecero invece esercizio d’indignazione. Ma poi sono arrivate le Olimpiadi, con la visita di Renzi a Rio, accompagnata dalla rovinosa, terribile caduta del campione di ciclismo Vicenzo Nibali, che ha perso la medaglia d’oro e (momentaneamente) anche l’uso di un ginocchio. E la parola gufo, e porta sfiga, è stata allora rivolta contro il suo originale demiurgo, contro Renzi, e da quegli stessi giornalisti che prima s’indignavano. Uscito dalla gabbia della metafora, il “gufo”, il portatore di sfiga, adesso svolazza cupamente sulla macerie di un confronto pubblico sempre più violento, che coccola la grammatica dell’odio. Ma c’è anche il paraculismo. Nel film “I mostri”, Vittorio Gassman, pedone sulle strisce, si arrabbia e si ribella, si turba e s’indigna perché gli automobilisti non si fer- “Questo è un golpe. Renzi è come Erdogan”. Ecco la caricatura dei vecchi pezzi sulla Struttura Delta berlusconiana mano, ma anzi, mentre gli sfiorano il sedere con la carrozzeria, gli gridano: “A stronzo, movete, sei cecato?”. Ma poi quando Gassman sale sulla sua Cinquecento, allora sfreccia anche lui su quelle stesse strisce, mostrando le corna ai pedoni, proprio come quei giornalisti che s’indignavano per la parola “gufo”, ma poi l’hanno adottata rincarando la dose. Pokemon. Sui quotidiani italiani, in agosto: disperato tentativo di collegare i giornali ai social. Datemi un Pokemon Poveri. Parola da tutti maneggiata a innalzare una sorta di nuovo pauperismo – con tanto e tale ardore che, se non fa attenzione, pure Papa Francesco rischia di farsi oscurare la sua saggissima vocazione. Così, chiodo di pelle, t-shirt dei lavoratori dell’Ilva, e abbronzatissimo, ecco che Alessandro Di Battista quest’estate gira l’Italia francescanamente in motorino (“vado senza scorta, a spese mie, al massimo risparmio”). E allora si fa fotografare mentre riposa negli ostelli più spartani (“dico no alle riforme del trio Renzi-Boschi-Verdini ma dico sì a un letto a castello”), e prepara i suoi diari della motocicletta: “Siamo i balordi del M5s che si tagliano gli stipendi e rinunciano a rimborsi elettorali e privilegi della casta. Abbiamo donato 13 milioni ai poveri e aiutato le aziende”. Qualche settimana fa aveva detto, testualmente, in televisione: “Agli italiani manca il pane”. E insomma, lui, come il santo vescovo Martino, vuole scendere da cavallo e con la spada tagliare pubblicamente il suo mantello per offrirne metà al mendicante infreddolito ai bordi della strada. O come il beato cardinale Dusmet di Catania: “Finché avremo un panettello noi lo divideremo con il poverello”. Il poveraccismo istituzionale s’innalza a etica, l’etica a predica, la predica a ideologia. E questo travestirsi mediatico ha qualcosa di stonante, di poco autentico, di esasperatamente studiato. Meno male che c’è Renzi, direte voi. E invece no. “Se passa il referendum sulla riforma del Senato, i cinquecento milioni che risparmieremo li daremo ai poveri”, ha detto pochi giorni fa. Pure lui. E qui allora cominciamo a temere d’essere circondati. E’ un avanzare a falange macedone. Vacchi (Gianluca). Un falso-autentico sul quale alla fine si potrebbero accanire i sociologi. Ovvero di come, attraverso internet e poveri quotidiani, si può tentare di spacciare per popolare una cosa che non lo è. Sinonimo estivo di futile, o di trash. ANNO XXI NUMERO 191 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 na “res monstruosa”, qualcosa di mostruoso: così definisce la realtà capitolina l’insigne giurista Bartolo da Sassoferrato nel “De regimine civitatis”. Sembra un’istantanea della Roma di oggi, mentre risale alla metà del Trecento. Sul banco degli accusati, la “tirannide repubblicana” e la condizione disastrosa della “sede del beato Pietro”. La “cattività avignonese” del papato (1305-1376) non era stata indolore: blocco dei massicci interventi edilizi promossi dai pontefici, diminuito afflusso di pellegrini, crollo della domanda di beni e servizi assicurata dalla Curia. Petrarca paragonava l’Urbe a un’anziana matrona, dal passato fascinoso ma spossata dalle lotte intestine. Boccaccio punterà il dito sulla sua decadenza artistica e culturale. Giovanni Villani sulla instabilità dei regimi popolari dell’epoca, eredi di quella “renovatio senatus” che aveva visto la luce duecento anni prima. L’eminente medievista Jean-Claude Maire Vigueur ha scritto che a Roma “il comune nasce tardi, quando molte altre città italiane hanno da tempo conquistato la piena autonomia” (”Il comune romano”, in “Roma medievale”, a cura di André Vauchez, Laterza, 385 mineo “colpo di stato” era il frutto di una lunga preparazione. Dopo il soggiorno ad Avignone, Cola era rientrato a Roma nel 1344. Si fa subito notare per le sue doti letterarie, sorprendenti nel figlio di un taverniere e di una lavandaia. Ben presto l’intellettuale di “basso lennaio” e un po’ lunatico, che amava leggere “li antiqui epitaffi” e recitare le opere di Tito Livio, come lo descrive l’Anonimo, manifesta la sua vera ambizione: cacciare i baroni e avviare un’era di giustizia e di pace. Il programma non era originale, diversamente dalla propaganda messa in campo per divulgarlo. Abilissimo organizzatore di grandiose cerimonie e di pittoresche processioni, le sue invenzioni scenografiche mandavano in visibilio la folla. La più celebre è quella della sua consacrazione a cavaliere dello Spirito Santo nella basilica di San Giovanni in Laterano (estate 1347), dove si immerse nella vasca in cui la tradizione voleva che fosse stato battezzato Costantino. Cola non era tuttavia un politico sprovveduto. Con i suoi discorsi si era guadanato il consenso degli artigiani come dei ceti rurali dell’Agro laziale. Ma tale consenso sarà assai effimero. Abbandonato da molti seguaci per il suo sfrenato radicalismo sociale e religioso, dopo pochi mesi cade senza combattere. Alla notizia di una sommossa nel quartiere dei Tra XII e XIII secolo il Senato diventa un organo esecutivo: vigila sull’amministrazione della giustizia e delle risorse Abbandonato da molti seguaci per il suo sfrenato radicalismo sociale e religioso, Cola dopo pochi mesi cade senza combattere pp., 22 euro). Siamo nel 1143 e i romani sono in guerra contro Tivoli. Anche Innocenzo II voleva dare una lezione a una città che, durante i conflitti con l’impero, si era sempre schierata con gli antipapi. Il 7 luglio i tiburtini vengono sconfitti. Il pontefice li grazia, accontentandosi di un giuramento di fedeltà. La sua clemenza provoca però la ribellione dei romani, che irrompono nel Campidoglio dove danno danno vita a un’assemblea, il Senato appunto, e decidono di riprendere le ostilità contro Tivoli. E’ l’atto fondativo del comune di Roma. Sotto l’influenza del chierico riformatore Arnaldo da Brescia (10901155), il Senato reclama immediatamente la propria autonomia nei confronti delle prerogative episcopali. Il comune romano nasce, quindi, da una reazione alle pretese temporali della chiesa che affonda le sue radici nella riforma “gregoriana” (da Papa Gregorio VII, 1020?-1085). Separandosi dalla società romana attraverso la nomina di cardinali in prevalenza forestieri, e riservando solo a essi il diritto di eleggere il vicario di Cristo, la Santa Sede aveva avviato un processo di clericalizzazione del potere. Si era pertanto svincolata dall’invadenza delle grandi famiglie aristocratiche, ma aveva anche favorito l’emersione di un fronte laico antagonistico con la monarchia pontificia, che diventerà la forza motrice del movimento comunale. Tra il 1191 e il 1238 il collegio dei senatori (una sessantina) cambia natura: diventa un organo esecutivo subordinato al collegio generale, espressione di tutti i cittadini dotati dei diritti civili, e preposto a un vasto apparato burocratico. Ai senatori spettava di vigilare sull’amministrazione della giustizia e delle risorse comunali, sulle operazioni militari, sulla manutenzione delle infrastrutture urbane. Fin dalla sua nascita, i trattati commerciali con Pisa (1151) e con Genova (1165) ci consegnano anche l’immagine di un comune intraprendente e pienamente inserito nel circuito internazionale dei traffici marittimi e mercantili. Del resto, già all’inizio del secolo si erano sviluppate una “borghesia degli affari” – mercanti, ma anche agenti di cambio e banchieri legati alla Curia – e le associazioni professionali, che gestivano le relazioni commerciali con i principali porti del Mediterraneo, i trasporti lungo il Tevere, lo Colonna, 15 dicembre 1347 si rifugia a Castel Sant’Angelo, a cavallo e rivestito delle insegne imperiali. L’uscita di scena di Cola non detemina un arretramento del movimento popolare. Nel giro di pochi anni si riorganizza grazie anche al neutralismo di Innocenzo VI (1282-1362), ansioso di rientrare a Roma e preoccupato della rissosità dei baroni. Sono anni di profondo cambiamento della fisionomia istituzionale del comune. Nel 1358 una nuova magistratura, i Sette Riformatori (detti anche Rettori o Governatori), subentra al senatore e al capitano del popolo nel governo della città. Viene inoltre creata la Felice società dei balestrieri e pavesati: una milizia di tremila cittadini, metà armati di balestre e metà di uno scudo – il pavese – e di una spada. Balestrieri e pavesati non si sostitituiscono all’esercito comunale, i cui reparti di cavalieri e di fanti continuano a essere impiegati nella difesa delle mura aureliane dagli attacchi esterni. Sono piuttosto destinati a compiti di polizia, a espugnare i fortilizi dei baroni e a reprimere le loro scorrerie. Pur restando in sella per circa un quarantennio, il nuovo regime si reggeva su un equilibrio precario. Le lettere dei mercanti fiorentini rivelano infatti l’esistenza di due partiti che si contendevano il potere senza esclusione di colpi: i “populares” e i “nobiles”. A dispetto dei loro nomi, erano diretti dalla medesima élite di mercanti agiati e di “bovattieri” (gli imprenditori agricoli più benestanti). La scarsità delle fonti documentarie (gran parte dell’Archivio capitolino è stato distrutto dai lanzichenecchi nel 1527) non ha permesso di accertare le ragioni di questa spaccatura. Sappiamo però come Bonifacio IX (1350?-1404) l’abbia sfruttata per sbarazzarsi di una intollerabile alterità. Estate 1398: pur di impedire al capo dei “populares” Pietro Mattuzzi di riconquistare il potere con l’aiuto degli Orsini, i “nobiles” – spalleggiati dai Colonna – preferiscono consegnare la città nelle mani del pontefice con un atto formale di “resignatio pleni dominii”. Quando i capi dei “nobiles”, Pietro Sabba Giuliani e Pietro Cenci, tentano di reinsediare con la forza nelle loro funzioni i Banderesi (i comandanti della Felice Società), Bonifacio IX li fa giustiziare. Dopo due secoli e mezzo, il “libero comune” cedeva il passo definitivamente alla Roma papale. di Michele Magno U Federico Faruffini, “Cola di Rienzo contempla le rovine di Roma”, 1855 (collezione privata) MOSTRO CAPITOLINO C’era una volta il comune di Roma, con la “tirannide repubblicana”, le bande baronali e Cola di Rienzo. Finché la città non tornò al Papa sfruttamento delle saline e lo scarico delle merci sui moli cittadini. Un dinamismo economico che consente al comune, dopo aver annientato Tuscolo e Albano, di imporre la sua supremazia nel Lazio e in diverse province della Toscana e dell’Umbria. A metà del Duecento, Roma era una rispettabile potenza di rango sovraregionale. Nato in chiave antipontificia, il Senato tenta anche di sottoporre il clero alla sua giurisdizione, mettendo in discussione il principio dell’immunità giuridica e fiscale degli ecclesiastici. Fino alla metà del Tredicesimo secolo, tutta la storia del comune romano è scandita da contrasti e da patti con il papato che hanno valore di compromesso provvisorio, ai quali Ferdinand Gregorovius ha dedicato pagine magistrali. Mentre la Città e campagna devastate dalle violenze: era “l’anarchia dei baroni”. Un ceto disinteressato al commercio e alle finanze pace di Costanza, firmata nel 1183 da Federico Barbarossa e dalla Lega Lombarda, aveva già sancito il definitivo riconoscimento imperiale delle libertà comunali. E’ in questi anni che si forma un’élite aristocratica ristretta: non più di una dozzina di famiglie che si erano arricchite facendo incetta dei beni ecclesiasici. Sono i cosiddetti “barones Urbis”. Da allora il gruppo sempre più potente dei lignaggi baronali si stacca dalla nobiltà “minore”, la quale continuava tuttavia a distinguersi nettamente dal resto della società per censo e stile di vita. Al comune dei “mercatores” e dei “milites” succede così il comune dei Savelli, degli Orsini, dei Colonna, dei Cenci, dei Caetani, solo per citare i nomi più noti. Forniti di cospicue proprietà nel Lazio, avevano investito il grosso delle proprie fortune nell’acquisizione di terre e castelli, come dimostra il caso dei Caetani. Dopo l’ascensione al cardinalato di Benedetto, il futuro Bonifacio VIII (1230-1303), il casato poteva vantare la proprietà di latifondi che dalla tomba di Cecilia Metella sull’Appia si estendevano fino ad Anagni e Sermoneta. Un espansionismo duramente avversato dalle altre famiglie patrizie e in particolare dai Colonna. La rappresaglia di Papa Caetani non si fa attendere: nel 1299 Palestrina, principale residenza dei Colonna, viene rasa al suolo. Si apre così quella turbolenta fase della storia romana che è stata chiamata “anarchia dei baroni”. La “Cronica” dell’Anonimo Romano, il biografo di Cola di Rienzo (1313-1354), narra con dettagli raccapriccianti lo spettacolo desolante di una città e di una campagna devastate dai saccheggi e dalle violenze delle bande baronali. Nel 1342, nel corso della sua ambasciata ad Avignone, lo stesso Cola non aveva esitato a proclamare, al cospetto di Clemente VI 1291-1352), che “lli baroni de Roma so’ derobatori de strade: essi consiento li omicidi, le robbarie, li adulterii, onne male; essi voco che la loro citate iaccia desolata”. Erano insomma insaziabili e feroci predatori, simili ai “lioni, lopi e orzi”. Secondo Rigueur, il linguaggio ha toni biblici, ma il ritratto è attendibile. Per lo studioso francese la spiegazione delle atrocità baronali va cercata nel carattere del tutto peculia- re di un ceto incurante della legalità perché disinteressato al commercio e alla finanza, in quanto ricavava la maggior parte del proprio denaro dalle proprietà fondiarie e immobiliari. Inoltre, assalire su una strada consolare un convoglio di mercanti fiorentini o depredare nel porto di Ostia una nave napoletana, non era considerato scandaloso da un ceto indifferente alla sicurezza dei trasporti. Per altro verso, sostituirsi alla giustizia capitolina nei quartieri dove stazionavano le sue clientele, alle quali forniva protezione e servizi essenziali (la stufa, il forno, la cisterna), era considerato naturale da un ceto i cui membri si fregiavano dell’appellativo di “magnificus vir”. Nonostante il loro strapotere, i baroni non hanno però mai tentato di modificare l’assetto istituzionale del comune. D’altronde, la struttura topografica dei rioni e delle contrade consentiva ai clan signorili di controllare sia l’elezione dei delegati ai consigli sia il reclutamento delle milizie comunali. Nel 1328 sarà proprio un barone, Giacomo Colonna detto Sciarra, a guidarle in una clamorosa vittoria contro l’esercito guelfo capeggiato dal fratello del re di Napoli. Autore del famoso “oltraggio di Anagni” ai danni di Bonifacio VIII (1303) e esponente di spicco del partito filoimperiale, senatore autorevole e carismatico condottiero, la sua carriera politica è l’esempio più eclatante del doppiogiochismo di alcune figure della grande nobiltà romana. Pur non rinunciando a svolgere un ruolo cruciale nelle contese interne al suo ceto di appartenenza, Sciarra riesce a farsi apprezzare come “vertuosissimo barone” dal popolo, tanto da esserne nominato capitano nel 1327. L’istituto del capitanato risaliva al 1254, ed è coevo alla costituzione del consiglio dei “Tredici Buoniuomini” (rappresentanti dei tredici rioni della città) e alla riforma delle corporazioni delle arti e dei mestieri. Il loro artefice, il senatore Brancaleone degli Andalò, le aveva concepite per ampliare la partecipazione alla democrazia comunale dei ceti artigiani e mercantili. “I Romani si levarono a romore e feciono popolo”, annota Villani nella “Nuova Cronica” alludendo ai sommovimenti sociali che instaurano i regimi popolari anticipati dalle riforme di Brancaleone. Dal 1305 al tribunato di Cola di Rienzo saranno almeno cinque. Nel cinquantennio che precede la brutale scomparsa della sua autonomia, il comune romano raggiunge il punto più Il doppiogiochismo di alcune figure della grande nobiltà. La riforma delle corporazioni e i nuovi regimi popolari alto della sua parabola, arginando l’arbitrio baronale e, dopo la parentesi “rienziana” (a chi legge non sfugga la prima vocale...), consolidando le sue istituzioni. A prima vista, l’ascesa di Cola al potere non differisce granché da quella dei leader popolari che lo avevano preceduto. Il 19 maggio 1347 i suoi partigiani si riuniscono sul Campidoglio, disarmano le guardie e convocano per il giorno successivo un parlamento di tutti gli “uomini liberi”. Come da copione, il parlamento l’indomani conferisce a Cola pieni poteri e il titolo di Tribuno. Beninteso, l’apparentemente ful- ANNO XXI NUMERO 191 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 LA LAPA ASSASSINA Prima arrivò la Cinquecento e fu tutto un bel vedere festoso e luccicante. Poi venne la terribile Moto Ape, che non fece morti né feriti ma scombussolò muli e contadini L’auto che Calogero Parrinello, detto Lilluzzo, barbiere e uomo di mondo, aveva prenotato a Catania era una Cinquecento: “L’ultima trovata della Fiat”, diceva. L’avrebbe pagata 495 mila lire di Giuseppe Sottile F ocu granni. Era il grido straziato delle madri, delle mogli e dei padri dei picciotti ammazzati sull’uscio di casa. Era un fuoco grande perché grande era il messaggio che avvampava dentro quella morte. E perché torvi e appuntiti erano i significati che l’alfabeto della mafia disegnava su quel cadavere, su quel sangue, su quelle lacrime. “Focu granni”, fu per una notte intera il grido di Giuseppina Mazzola, la madre di Paolino Riccobono, ucciso a 13 anni nelle campagne di Tommaso Natale. Il padre era un latitante irrequieto, un ca- Avevamo poco più di tredici anni e vivevamo in un paese piccolo piccolo, sminuzzato tra i Nebrodi e le Madonie ne senza padrone, un mulo senza testale. La mafia non lo sopportava e gli scrisse un pizzino per dirgli, tutto ciò che gli doveva essere detto. Paolino, con gli occhi di bambino sigillati dalla morte, era l’immagine ossificata di quel discorso senza parole. “Focu granni, focu granni”. La storia. Molti anni dopo ci avrebbero spiegato che quella era stata un’epoca felice e che l’Italia era diventata finalmente un paese moderno come l’America, perché c’era un televisore che entrava in ogni casa e in ogni casa si vedeva un Carosello. Ma in quella estate del 1957, quando arrivò anche da noi la Cinquecento, io e mio cugino Filippo, del vasto mondo della storia non sapevamo granché. Avevamo poco più di tredici anni e vivevamo in un paese piccolo piccolo, incaramellato sul costone di una montagna come un presepe lasciato a metà, senza madonnuzze e senza bambinelli, ma con tanti pastori in carne e ossa che erano poi i nostri padri e i nostri zii. Magari si fosse chiamato Macondo; almeno saremmo finiti tra le pagine di un libro. Invece si chiamava Gangi, era sminuzzato tra i Nebrodi e le Madonie e non aveva nessuna epopea da raccontare. Da quelle trazzere e da quei tornanti non era transitato né il Duce né il Re, ma solo il prefetto Mori, inviato in Sicilia per rastrellare banditi e briganti. Come in tutte le scuole della piccola e grande Italia, la signorina Serafina Vadalà, maestra elementare, ci aveva doverosamente insegnato che il “nostro amato” presidente della Repubblica si chiamava Giovanni Gronchi, e che il Santo Padre, prima di diventare Pio XII, rispondeva al nome terreno di Eugenio Pacelli. Sul finire della scuola ci aveva anche detto, ma tanto per regalarci un baluginio di ricreazione, che la Juventus aveva vinto il campionato di calcio. Ma noi lo sapevamo già perché giocando a culoradente nel cortile di San Cataldo, palleggiavamo con le illusioni, anche con l’illusione di potere un giorno imitare Omar Sivori o John Charles. Per il resto, se proprio si voleva vivere un momento di felicità, non avevamo che da correre nel salone di Calogero Parrinello, detto Lilluzzo, barbiere e uomo di mondo, che era appena rientrato dall’America, dove si era fatto i piccioli. Era tornato in Sicilia con una moglie bellissima, di nome Maggy, che sembrava fatta di miele, tanto era bionda, e aveva subito impiantato uno “shop” tale e quale a quello che i suoceri, d’origine pugliese, gli avevano messo su a Garfield, nel New Jersey, come Lilluzzo, il barbiere, era appena rientrato dal New Jersey e ci incantava. “Anche noi possiamo diventare come i miricani”, diceva regalo per il matrimonio. Aveva una radio grande grande e pure il giradischi, Lilluzzo. “Sentimi a ’mmia”, diceva, “anche noi nati in questa minchia di paese possiamo diventare come i miricani”. E così dicendo adagiava sul piatto una canzone di Frank Sinatra che rintronava dalla Stradagrande fino alla Matrice. “Troppa modernità”, commentava agrognola la maestra Vadalà. Che pure amava ascoltare Gino Latilla con “I tulli tulli tullipan” e, il giovedì sera, si spingeva fino alla sala parrocchiale per vedere Mike Bongiorno e lasciarsi ipnotizzare da “Lascia o raddoppia”, dai quiz e dalle vincite milionarie. Lilluzzo invece si incantava e ci incantava. Perché aveva visto l’altra metà del mondo e ogni tanto diceva parole sconosciute a noi e anche alla maestra Vadalà. Narrava della prima “car” acquistata subito dopo il suo arrivo negli States e mio cugino Filippo domandava se era vero che dentro quelle macchine così lunghe “uno ci poteva dormire e mangiare”. Poi ci raccontava di un’altra “car” argentata, comprata da un suo amico napoletano di Brooklyn, un certo Frank, che aveva pure il tettuccio che si apriva e si chiudeva, a seconda del sole o della pioggia. E mio cugino Filippo gli chiedeva come mai avesse deciso di tornare in Sicilia e di lasciare in America tanto ben di Dio. Ma lui non era largo di risposta. Pronunciava la parola “family”, poi la parola “destiny” e non accettava più discussioni. Chissà. L’unica certezza era che prima o poi Lilluzzo un’altra automobile se la sarebbe comprata. “Un po’ di money mi è rimasta”, diceva mentre appoggiava la testa di Filippo al muro per meglio definire la sfumatura dei capelli. “E quando me la compro vi porto a Catania, per farvi vedere da vicino il vulcano dell’Etna. Chiediamo il permesso ai vostri genitori e partiamo. Se la macchina ha il motore come si deve, in sette ore andiamo e torniamo”. Molti anni dopo ci avrebbero spiegato che in quell’epoca – l’epoca dei favolosi anni Cinquanta – c’era stato il miracolo economico e che con la Fiat 600 era cominciata la cosiddetta motorizzazione di massa. Ma nell’estate del ’57, il gelato costava dieci lire e mio padre diceva sempre che domenica me lo avrebbe comprato, a patto però che io dessi ogni santo giorno uno sguardo ai libri; anche se era tempo di vacanze e la maestra Vadalà mi aveva promosso con un solo sei e poi tutti sette e otto. Molti anni dopo ci avrebbero anche spiegato perché e per come l’industrializzazione rimase a Nord e gli emigrati partivano sempre dal Sud, ma nell’estate del 1957 noi, io e mio cugino Filippo, eravamo ancora lì, ammaliati dalla Millecento strapuntinata che apparteneva a Don Rosario Milletarì, il padrone del pastificio, e che dietro aveva un sedile sul quale potevano viaggiare comodamente tre persone. O dalla “Giardinetta”, lucida di legno e metallo, con la quale il figlio di Don Rosario scendeva ogni giorno a Catania e tornava carico di scarpe intomaiate e inscatolate in quel di Varese e di vestiti già lesti e buoni, confezionati in quel di Prato. Roba che si vendeva come il pane e che scivolava da una mano all’altra come l’olio, a dispetto delle diffidenze della maestra Vadalà, donna di saggezza e preveggenza, che in quel “dannato manufatto” adocchiava un pericolo per la sopravvivenza di ogni sarto e calzolaio. Povera maestrina di paese: chi mai l’avrebbe ascoltata? Un lunedì di fine agosto – perché da che mondo è mondo di lunedì i barbieri sono chiusi e vanno in giro per diletto – Lilluzzo prese la corriera alle sette del mattino e partì per Catania. Il mercoledì successivo, quando io e mio cugino andammo per tagliare i capelli, ci disse che aveva prenotato una macchina nuova di zecca, più piccola della Seicento ma capace anch’essa di trasportare quattro persone. “L’ultima trovata della Fiat”. L’avrebbe pagata 495 mila lire. “Per me appena 350 dollars”, contabilizzò cercando di spiegarci il mistero del cambio. L’aveva scelta di un colore celeste, “ celeste come una pennellata di cielo”, e aveva dato come anticipo l’equivalente di duecento dollari in contanti, il resto a rate. “Se vogliamo essere come i nostri friends americani non possiamo vivere senza possedere almeno una car”, diceva. Il giovedì, anche se non avevamo capelli da tagliare, siamo ripassati dal salone. E c’era tanta gente. Non parliamo del sabato successivo, vigilia di festa. Tutti dal barbiere, per barba capelli e shampoo, e tutti a parlare della differenza tra la Cinquecento e la Seicento. Affari d’oro, per Lilluzzo. “Money chiama money, se dimostri di essere ricco il business arriva”, commentava furbastro il futuro proprietario della Cinquecento. “Anche questa car ha il tettuccio apribile. E’ un poco più piccolina di quella che avevo a Garfield ma il sole ci entra dentro lo stesso. Come in America, paisà”. E se è vero che il sole non conosce padrone, figurarsi la sventura. Dopo i giorni allegri e luccicanti della Cinquecento, ci ritrovammo tutti, piccoli e grandi, a mirare e rimirare nel sagrato della Matrice una nuova e ardimentosa impresa dell’industrializzazione: la Moto Ape. Bella, capiente, comoda e soprattutto versatile. Proprio così: versatile. Ce lo spiegava, con il suo italiano ricco di scuola e doposcuola, Don Peppino Ferrarello, che sette anni prima era emigrato a Torino come magazziniere in cerca di lavoro alla Fiat, ed era tornato con la certezza di essersi già ar- ricchito. In effetti era riuscito a mettere quattro piccioli da parte ma con quei soldi non si era comprato una Cinquecento; e neppure la Seicento. Poiché si sentiva già “uno del Nord, ma con la mente sempre rivolta verso il nostro amatissimo Sud”, aveva preferito – così diceva, sbandierando il cuore ai quattro venti – “dare ai paesani la possibilità di liberarsi dalla schiavitù dei muli”. Madresanta, e che voleva dire? Noi, piccoli e grandi, che stavamo lì sul sagrato a mirare e rimirare la Moto Ape, strabuzzavamo gli occhi con lo stesso allampanato stupore con cui la domenica guardavamo il parroco di San Cataldo mentre impastava parole e ragionamenti per dimostrare come il pane e il vino diventano, in un solo momento, corpo e sangue del Signore. “Ma che ci hanno fatto di male i muli?”, chiedeva mastro Ignazio Faranna tornando al discorso terreno della Moto Ape, che tutti noi, grandi e piccoli, chiamavamo già, mescolando apostrofi e assonanze, semplicemente Motolapa. Anzi, la Lapa. Mastro ’Gnazio aveva coi muli – ma anche con gli asini o con le giumente – un rapporto di fratellanza. Di mestiere faceva ’u vardunaru. Costruiva cioè quelle selle rustiche, i basti da soma appunto, che consentivano ai contadini di trasportare, con sacchi e bisacce, le masserizie che la terra pietrosa di quelle montagne riusciva sempre a dare. La ricchezza per noi del paese era tutta lì, in quel poveraccissimo frumento che al mulino si pesava nella bascuglia ma che tutti noi, piccoli e grandi, preferivamo invece misurare a salme, a tumuli e a mondelli. Aveva prenotato una macchina nuova di zecca, più piccola della Seicento, ma capace anch’essa di trasportare quattro persone Già a maggio, quando si avvicinava la stagione del raccolto, mastro ’Gnazio preparava la roba. Scendeva a Palermo, dai fratelli Marino in via Cagliari, traversa della monumentale via Roma, e comprava tutta la merce, dalle corde al pellame, che gli sarebbe poi servita per armare al meglio ogni benedetto mulo e far sentire ricco e borghese ogni contadino, ogni mezzadro, ogni gabellotto, ogni bracciante. Perfino i muzzunari, chiamati così perché erano talmente poveri che non esitavano a raccogliere i mozziconi delle sigarette ab- bandonati ai bordi delle trazzere. Mastro ’Gnazio gli addobbava il basto e i finimenti. Gli incapricciava con i giummi codiera e pettorale, gli ornava la cavezza e intrecciava la cima della redina, per evitare che si sfilacciasse, con una sofisticatissima “testa di turco”. E il conto? Non se ne parlava nemmeno. Dopo il raccolto, quando il frumento, pulito e trebbiato, era già nei sacchi, i contadini passavano dalla bottega e pagavano a salme e tumuli, a secondo dei lavori che gli erano stati fatti. Certo, non era l’età dell’oro, perché c’erano giorni che non si vedeva lustro e per mangiare c’era il solito pane e tumazzo. Ma, con l’aiuto di qualche sogno e di Mastro ’Gnazio di mestiere faceva ’u vardunaru, costruiva cioè i basti da soma. Finché il lavoro crollò, e decise di emigrare qualche fantasia d’amore, si riusciva a campare. Si pensi che mastro ’Gnazio, nell’anno precedente all’arrivo della Lapa, era arrivato ad approntare una cinquantina di basti. Due anni dopo, quando i contadini si erano liberati uno dietro l’altro della schiavitù dei muli e nelle campagne saettavano le tre ruote, la produzione, chiamiamola così, crollò al miserabile numero di cinque basti per altrettanto sperduti clienti. Fu allora che Mastro Ignazio Faranna, di anni cinquantasette, manifestò alla moglie – pacatamente, dolorosamente – la ferma intenzione di emigrare. Forse al Nord, forse in Svizzera, forse addirittura in Germania. La donna fece finta di non sentire. Poi, quando il pianto si era raggrumato nel petto, sibilò: “Focu granni”. Non c’era sangue, non c’erano lacrime, non c’erano morti ammazzati e non c’era di mezzo la mafia. Ma il fuoco era grande lo stesso. ANNO XXI NUMERO 191 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 a più grande sfida tecnologica del nostro tempo è capire cosa piace alla gente. Tutta la costruzione commerciale di internet si basa sullo scoprire i nostri gusti, e trasformarli in denaro, sotto forma di pubblicità venduta agli inserzionisti o di prodotti. I miliardi di dollari che ogni anno entrano nelle casse di Facebook, di Google e di Amazon nascono così: migliaia e migliaia di ingegneri e informatici trascorrono giorno e notte a cercare di capire cosa piace a chi usa i rispettivi servizi. Pensate a Facebook: ha perfino un tasto apposito. Ogni volta che clicchiamo “Mi piace” sotto a un post di Facebook appare un pollice all’insù (o una faccina, da qualche tempo) e tutti possono vedere che abbiamo apprezzato le foto delle vacanze di Veronica o il link alle ricette dei brownies al caramello. Esprimiamo un giudizio di valore primordiale, simile a quello di un bambino che accetta o rifiuta la pappa, e degli algoritmi sviluppati da migliaia di ingegneri sono lì a registrare, come bravi genitori, se la pap- una macchina: tutte le settimane Spotify regala qualcosa di nuovo ai suoi utenti, stabilendo un meccanismo di attesa e ricompensa che alla lunga crea dipendenza. Sembra un piano perfetto, che finora sta sgominando i tentativi “umani” di tutti gli altri concorrenti e che nella guerra tra il musicologo e l’algoritmo vede in netto vantaggio quest’ultimo: tecnologia all’avanguardia applicata a una comprensione raffinata del sistema dei bisogni umani applicati alla musica. Ma quasi niente di tutto questo è farina del sacco di Spotify. Le tecnologie innovative e le loro applicazioni rivoluzionarie sono il frutto del lavoro di Echo Nest, una startup che Spotify ha comprato nel marzo del 2014 e che costituisce un team indipendente all’interno della società. Echo Nest è stata fondata da due ingegneri del Mit di Boston pazzi per la musica. Uno, Brian Whitman, negli anni Novanta e con il nome di Blitter suonava “intelligent dance music”, usando i computer per gli arrangiamenti. L’altro, Tristan Jehan, aveva inventato la James Brown Machine, un programma che analizzando le canzoni di James Brown ricreava perfette riproduzioni dei brani del grande soulman. I due fondarono Echo Nest nel 2005, in un periodo in cui il paradosso della scelta mu- Spotify, colosso della musica in streaming, ha appena lanciato la sua seconda playlist algoritmica, con canzoni uscite da poco Non manca una piccola dose di imprevedibilità. Le tecnologie sono di Echo Nest, una startup comprata da Spotify nel 2014 pa ci è piaciuta o meno, per poi sottoporci un’altra pietanza. Visti dal lato meramente commerciale, l’algoritmo di Google nel suo motore di ricerca e quello di Facebook nel suo social network non sono altro che questo: tentativi di far combaciare nel miglior modo possibile i gusti degli utenti con le offerte degli inserzionisti. Su internet, ogni singolo clic è un “mi piace”. Guardare un video su YouTube è un mi piace (il servizio proporrà da quel momento dei video simili), mandare una mail è un mi piace (la mail di Google graziosamente ci ricorda quali sono i contatti più frequenti), soffermarsi tre secondi su un video di Facebook è un mi piace (Facebook la conterà come una visualizzazione completa: bastano davvero tre secondi). Ogni singola canzone che ascoltiamo in streaming su internet è un mi piace. Per questo, trovare una tecnologia che riesca a distillare in forma definitiva il gusto di ciascun utente, un algoritmo che sappia unire i puntini tra tutti i miliardi di “mi piace” significa trovare il sacro Graal di internet. E finora nessuno è stato capace di trovare una formula migliore di quella di Spotify, la startup svedese di musica via streaming che da diversi anni si è lanciata nella creazione della perfetta alchimia. Spotify vive di pubblicità (poco) e di abbonamenti (tanto), e ha bisogno che i suoi abbonati continuino a pagare perché sanno che lì, e non sulle decine di servizi di streaming concorrenti e magari più blasonati, si trova la musica migliore del mondo. Qui sorge il primo problema: come trovarla? Viviamo nell’età dell’abbondanza. Forse non dell’abbondanza economica, intaccata dalla crisi, ma certamente in quella della cultura. Ogni anno sono stampati più libri, filmati più lungometraggi, registrate più canzoni, inaugurati più show televisivi dell’anno precedente, e ogni volta un nuovo record è infranto. L’èra di internet ha contribuito a democratizzare la creazione, la distribuzione e la fruizione dei prodotti culturali, e oggi siamo afflitti dal “paradosso della scelta”, come lo ha definito lo psicologo Barry Schwartz. Possiamo leggere così tanti libri, vedere così tanti film e ascoltare così tante canzoni che non sappiamo più quali scegliere, o scegliamo con la paura di esserci persi qualcosa di bello e importante, e finiamo per non essere mai soddisfatti del- sicale era già acuto: i servizi di download pirata avevano riempito i computer degli utenti di un’enormità di musica che nessuno ascoltava. Nel 2014 Spotify mise le mani su Echo Nest per creare, a detta del ceo Daniel Ek, la migliore piattaforma di intelligenza musicale sul pianeta. Per Whitman, Jehan e i loro 70 dipendenti pagò appena 100 milioni di dollari, un affare eccezionale visti gli ottimi ritorni. I vecchi uffici nei sobborghi di Boston dove Echo Nest è nata sono stati ribattezzati Spotify Boston, e il vecchio team lavora ancora lì, nelle stesse stanze, indipendente. Tutte le grandi novità lanciate da Spotify negli ultimi due anni dipendono in qualche modo da Echo Nest, non solo le playlist algoritmiche, ma anche gli strumenti per ascoltare musica mentre si corre, o la playlist Fresh Finds, che agli algoritmi aggiunge il contributo umano scandagliando i blog e le recensioni musicali per proporre le migliori nuove uscite divise per genere. Per millenni, a partire dai pitagorici, la filosofia si è chiesta cosa sia il bello musicale, e se esista una regola universale che definisce ciò che è armonioso alle nostre orecchie. E’ possibile trovare un canone dell’estetica musicale, o una formula matematica che decida una volta per tutte perché certa musica è bella e altra no? La filosofia, e dopo di lei le neuroscienze, sono state costrette a usare un metodo ermetico nella ricerca della bellezza musicale: un’unica soluzione, un’unica formula, o un unico insieme di soluzioni. Gli ingegneri di Echo Nest hanno potuto permettersi di usare un metodo quantitativo: grazie alle loro tecnologie, possono creare una mappa dei gusti di decine di milioni di persone. E’ un business miliardario, perseguito da tutte le grandi compagnie tecnologiche, ciascuna nel suo campo e con risultati spesso raffinatissimi. Ma è anche un’impresa meravigliosa. Un giorno, forse, qualcuno avrà il tempo e la capacità computazionale di mettere insieme le mappe del gusto musicale di decine di milioni di persone, che nel frattempo magari saranno diventate centinaia di milioni, tutte accolte dal grande orecchio algoritmico, e creare per davvero una enciclopedia completa del gusto musicale del genere umano in forma matematica. I pitagorici apprezzerebbero. Twitter @eugenio_cau di Eugenio Cau “La musica è una pratica occulta dell’aritmetica, nella quale l’anima non sa di calcolare” (Gottfried Wilhelm von Leibniz) L Una volta c’era il proprietario del negozio di dischi che dava consigli per la scelta. Nella foto, John Cusack in “Alta fedeltà” di Stephen Frears (2000), dal romanzo omonimo di Nick Hornby IL DJ ALGORITMO Capisce i vostri gusti, vi indica le canzoni che vi piaceranno (anche appena uscite). E’ una macchina, fa meglio del vostro miglior amico le decisioni prese. Poter scegliere tra infinite possibilità non ci rende davvero liberi, al contrario ci paralizza. Per essere liberi, o quanto meno per sentirci tali, dobbiamo restringere il range delle nostre scelte. Un tempo, a farlo, era un altro essere umano. Il proprietario del negozio di dischi, un amico che ci consigliava un libro o che registrava un’audiocassetta dalla radio. Per consumare cultura, abbiamo bisogno di raccomandazioni, consigli, proposte. I grandi distributori di cultura digitale – teniamoci in questo caso sulla musica – si sono trovati davanti a una scelta esiziale quando i loro utenti hanno chiesto loro una soluzione al paradosso della scelta perché non sapevano su quale canzone Il paradosso della scelta: possiamo leggere così tanti libri e ascoltare così tanta musica che non riusciamo a deciderci apporre i loro mi piace. Pandora, un servizio di radio via streaming oggi sul viale del tramonto, assoldò circa dieci anni fa un esercito di musicologi professionisti (il requisito era che ciascuno avesse studiato composizione e storia della musica per almeno cinque anni e avesse ottenuto un diploma nel campo) per ascoltare la musica e consigliarla agli utenti. L’anno scorso, presentando Apple Music, il produttore leggendario Jimmy Iovine fece una difesa spassionata della sensibilità umana, e dentro al servizio di streaming di Apple un gruppo relativamente ristretto di persone sforna decine di playlist selezionate a mano per venire incontro al favore degli utenti. Spotify ha deciso di far fare tutto questo lavoro alle macchine. Lo scorso fine settimana, Spotify ha annunciato il lancio della sua seconda playlist algoritmica, Release Radar (da ora RR), dopo il lancio un anno fa di Discover Weekly (da ora DW). Entrambe funzionano così: una volta alla settimana, in due giorni diversi (il venerdì per RR, il lunedì per DW), Spotify propone a ciascun utente una playlist personalizzata di 20-30 nuove canzoni che a giudizio dell’algoritmo potrebbero piacergli. Nel caso di DW l’algoritmo sceglie tra tutte le canzoni disponibili, mentre RR pesca soltanto dalle ultimissime uscite. In tutti e due i casi, il risultato è stupefacente. Ogni lunedì, come ha scritto Victor Luckerson in un bel post su Medium, i social network si riempiono di ascoltatori esterrefatti perché Spotify sembra conoscere i loro gusti musicali meglio del fidanzato o del migliore amico. Il funzionamento di DW è già stato raccontato. Spotify costruisce un profilo del gusto di ciascun utente attraverso le canzoni ascoltate in precedenza, e miscelando adeguatamente i dati di ascolto con un algoritmo. Poi confronta il profilo utente con quelli di altri utenti simili e con le playlist che questi hanno compilato manualmente. In pratica, sceglie per noi canzoni che persone simili a noi hanno già scelto per se stesse. Questo processo si chiama “filtraggio collaborativo” ed è usato da molte compagnie digitali per aiutare gli utenti a risolvere il paradosso della scelta: ti aiutiamo a decidere mostran- doti le decisioni di altre persone simili a te. Spotify è inoltre in grado di comprendere entro certi limiti il linguaggio naturale (quello parlato dagli umani; non è per niente scontato che una macchina lo sappia fare, anzi: è una delle sfide maggiori della ricerca odierna) per interpretare i titoli delle canzoni e delle playlist. Infine, usa tecnologie di deep learning, vale a dire macchine addestrate dall’uomo a riconoscere pattern simili nell’enorme mare dei big data. Il risultato (l’ha mostrato Quartz in un articolo recente) è che dal profilo di ogni utente è prodotta una specie di blob colorato con chiazze di diversa intensità, come una cartina geografica altimetrica, che rappresenta l’insieme dei gusti di ciascuno: il sacro Graal del commercio via internet. Release Radar aggiunge un livello di difficoltà all’azione dell’algoritmo, perché deve comporre una playlist partendo da canzoni nuove, che quasi nessuno ha mai ascoltato e giudicato. Il problema è notevole: puoi conoscere perfettamente i gusti di una persona, ma come abbinarli a qualcosa che non hai mai sentito? Le canzoni nuove non sono ancora in nessuna playlist, il filtraggio collaborativo non può funzionare, c’è bisogno di qualcuno che ascolti la nuova musica e decida se è adatta o meno all’utente. A suo tempo, Pandora usava un esercito di esperti umani. Spotify fa ascoltare le canzoni agli algoritmi. Le capacità delle tecnologie di deep learning di Spotify sono così avanzate che le macchine riescono ad analizzare una canzone, capire di che genere è e se corrisponde o meno ai gusti di un certo utente. Si può dire che le macchine hanno le orecchie, e capiscono la musica che sentono. L’altro elemento esaltante delle playlist algoritmiche di Spotify è che sono a loro modo creative. Sarebbe relativamente facile, una volta compresi i gusti di un utente, proporgli canzoni appiattite sul suo profilo, ma gli algoritmi di Spotify sono stati dotati di una piccola dose di imprevedibilità che spesso sorprende anche il melomane e solletica la voglia di ascoltare di più. Questo senso della scoperta, e la ricorrenza continua e settimanale di playlist sempre nuove, sono i due meccanismi di psicologia comportamentale che rendono le playlist di Spotify tanto accattivanti. RR è Da Facebook ad Amazon, il tentativo di far combaciare nel modo migliore i gusti degli utenti con le offerte degli inserzionisti uscita solo da una settimana (venerdì è uscita la seconda playlist personalizzata), ma DW ha circa 40 milioni di iscritti (gli utenti complessivi di Spotify hanno da poco superato i 100 milioni), e da sola ha più ascoltatori di buona parte dei servizi di streaming concorrenti. Il fatto, come ha spiegato Bas Grasmayer su Medium, è che avere una playlist personalizzata ogni lunedì (e adesso un’altra ogni venerdì: la scelta dei giorni non è per niente casuale) è un’interazione, è come avere un amico che ti registra una musicassetta nuova ogni settimana, e poco importa se l’amico è ANNO XXI NUMERO 191 - PAG V IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 COSI’ CROLLA UNA CIVILTA’ Denatalità, aborto, celibato, divorzio, malthusianesimo: ecco perché è finito l’Impero romano Lo storico francese De Jaeghere racconta l’epoca del disincanto che tiene di mira l’occidente rima fu Montaigne, che nel freddo inverno del 1580 a Roma si guarda intorno e riflette sulla “grandezza infinita” soffocata sotto quei ruderi. Poi Piranesi e Goethe, che si soffermano davanti alle rovine del Foro romano, alle occhiaie vuote del Colosseo, all’immensità delle Terme di Caracalla. Due secoli dopo, davanti a quella stessa maestà indistruttibile, fu Edward Gibbon a interrogarsi sui motivi che portarono alla fine del maggior impero della storia, a descriverne il rapido declino e l’agonia. Passano altri due secoli e uno storico inglese, Michael Grant, individua le somiglianze fra Roma e l’occidente: i ricchi, come allora, enormemente ricchi, che si distaccano dal tessuto sociale; la borghesia che perde ogni capacità di resistenza; la burocrazia che si estende in modo incontrollabile; la classe politica che vive isolata dai sentimenti delle masse. Le orde dei barbari, i fantasmi delle province periferiche, le ville dei senatori egoisti, i fragori degli scontri religiosi e razziali passano ammonitori, costantemente tenendo di mira il presente. L’idea del declino occidentale spiegato attraverso la storia di Roma non è affatto nuova. Dopo la Prima guerra mondiale, un insegnante tedesco pre- leti e pozioni magiche, periodi di astinenza, impacchi o beveroni a base di noce di galla, di ferola erubescente, di artemisia, di scorza di melograno, di polpa di fico secco. “Nel II secolo l’aborto, che fino ad allora veniva praticato per far sparire bambini nati da amori clandestini, si estese a grande scala tra le coppie dell’alta società. L’infanticidio di una creatura non riconosciuta dal padre non veniva punito dalla legge. L’omosessualità era diffusa”. Se lo spopolamento venne aggravato dalle epidemie di peste scoppiate ai tempi di Marco Aurelio e di Claudio II, oltre che dai cinquant’anni di guerra e di distruzioni del III secolo, questo tuttavia non fu solo la conseguenza della crisi dell’impero, “ma anche lo specchio di un disincanto, il frutto di un materialismo che portava a ritenere la famiglia una forma di schiavitù, il bene comune una chimera e la felicità di vivere senza obblighi, invece, come il fine supremo dell’esistenza”. Per dirla con Papa Benedetto XVI, “il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando”. Michel De Jaeghere spiega ancora che “i privilegiati praticavano un malthusianesimo che garantiva loro di soddi- Per Tainter fu colpa della burocrazia, mentre per Papa Ratzinger fu del “disfacimento degli atteggiamenti morali” “Il tasso di fertilità a Roma scese a 1,8 figli per donna”. Poco più di quello dell’Europa di oggi (1,5). Un welfare ante litteram maturamente in pensione di nome Oswald Spengler aveva pubblicato il primo volume di uno dei libri più influenti del secolo, “Der Untergang des Abendlandes”, tradotto come “Il tramonto dell’occidente”. Un testo accantonato nella seconda metà del secolo, troppo turgida la sua prosa, troppo acceso il suo debito nei confronti di Nietzsche, troppo evidente la sua influenza sui nazisti. Poi, fino al crollo dell’Unione sovietica, gli storici si sono concentrati su quello che lo storico britannico J. M. Roberts ha chiamato “Il trionfo dell’occidente”, in un libro pubblicato nel 1985. Vi è stata poi la consolidata tradizione liberal espressa da Gore Vidal nel suo “Declino e caduta dell’impero americano”, il rischio che gli Stati Uniti potessero fare la fine di Roma, la paura che le istituzioni repubblicane potessero essere danneggiate da una presidenza imperiale. Adesso Roger-Pol Droit, classe 1949, accademico francese e filosofo di fama internazionale, affronta l’argomento in uno strepitoso saggio di copertina della rivista Le Point, dove campeggia l’immagine di Roma in rovina. “Francia, Belgio, Germania, si moltiplicano gli attacchi terroristici”, scrive Roger-Pol Droit. “Mentre aumenta il numero delle vittime, l’impotenza e la fragilità della nostra civiltà, la sua usura e il suo declino, hanno cominciato a perseguitarci”. Ovunque ci sono segni di frattura: “I jihadisti hanno condotto l’assalto contro le libertà delle democrazie laiche. Le nostre paure sono innumerevoli: pandemie, invasioni, cambiamenti climatici, veleni alimentari, estinzione delle specie… Il caos e le lacrime occupano l’immaginario collettivo, ormai saturo di confronti simbolici. Forse un giorno parleranno di noi come si parla dei dinosauri: un universo strano, andato, inghiottito. Non appena ci guardiamo indietro, che spettacolo! Civiltà scomparse hanno lasciato dietro di sé macerie, capolavori e domande per lo più senza risposta”. Roger-Pol Droit fa l’esempio di otto civiltà perdute, oltre a Roma. Come la Mesopotamia, il territorio dell’Iraq moderno, dove più di tremila anni prima di Cristo la civiltà sumera aveva inven- sfare la propria arte di vivere, i contadini evitavano gravidanze che li avrebbero fatti vivere nell’imbarazzo, le masse urbane li imitavano per preservare il livello di vita che veniva loro assicurato, senza eccessivo sforzo, dagli aiuti e dalle distribuzioni statali”. Una serie di leggi d’ispirazione cristiana tentò, nel IV secolo, di rilanciare la demografia: con impedimenti al divorzio, multe per la rottura dei fidanzamenti, repressione degli stupri, dei rapimenti, dell’omosessualità, dell’adulterio, senza che in apparenza si ottenesse alcun risultato. “Si stima che il tasso di fecondità delle famiglie aristocratiche non fosse superiore a 1,8 figli per donna, nel IV secolo”. Appena un po’ meglio di quello dell’Europa di oggi (1,5). Michel De Jaeghere conclude indicandoci Roma come un monito: “Possiamo stare tranquilli davanti allo spettacolo della nostra prosperità senza precedenti, delle nostre tecnologie sempre più sofisticate, di un mondo le cui connessioni virtuali danno l’illusione dell’onnipotenza. Possiamo persuaderci del fatto che i sintomi che annunciavano la caduta dell’Impero romano di occidente si erano manifestati in modo chiaro ai loro contemporanei. Che le élites del V secolo (la generazione degli ultimi Romani che fu testimone del sacco di Roma e della perdita della sua potenza) avevano presagito che avrebbero vissuto grandi avvenimenti, che il destino li aveva scelti per assistere all’affondare del più grande impero mai esistito sotto il cielo. Che non soffriremo alcun male finché non noteremo nessuno dei segnali che avevano fatto intuire loro il disastro. Non è così, però. I contemporanei della fine dell’impero romano, infatti, rifiutarono di crederci per tutto il tempo in cui riuscirono ad afferrarsi alle loro chimere. Roma ci serve da avvertimento”. Edward Gibbon nel suo capolavoro sul crollo dell’Impero romano indica il ruolo decisivo giocato dall’islam, che prima diede un colpo mortale al ramo d’occidente avanzando in Francia fino a Poitiers (732), e che poi fece crollare quello d’oriente con la presa di Costantinopoli (1453). Siamo al terzo capitolo di questa saga? di Giulio Meotti P Thomas Cole, “La distruzione dell'Impero romano” (particolare), 1836 (New York, Historical Society). Il dipinto, allegorico, è ispirato al sacco di Roma del 455 a opera dei Vandali tato la scrittura, i contratti commerciali, e altri fattori chiave del progresso. “Rivolte e rovesci militari possono essere la causa della sua morte”. C’è la storia di Creta, l’isola del re Minosse, che “ha visto una fiorente civiltà i cui palazzi, scritture, metallurgia, ceramica e terracotta, affreschi e raffinatezza non hanno smesso affascinare Arthur John Evans. Le ragioni della sua scomparsa sono controverse e i terremoti non sono più considerati una spiegazione sufficiente”. Ci sono gli Olmechi del Messico: “Le cause della loro scomparsa rimangono sconosciute”. Si passa dagli Etruschi ai Nabatei di Petra, la capitale scavata nella roccia. Per arrivare al regno Khmer: “Questo vasto impero sembra essere crollato sotto una combinazione di eccessiva burocrazia, immigrazione e impoverimento del suolo”. E per concludere con gli Anasazi in America (“sappiamo solo che i loro villaggi furono abbandonati molto tempo prima dell’arrivo degli europei) e l’Iso- Da Toynbee a Grousset, l’idea che le civiltà non muoiono per omicidio ma per suicidio, “quando perdono la ragion d’essere” la di Pasqua nel Pacifico: “Abitata, fiorente, poi abbandonata per ragioni che sono ancora oggetto di discussione”. Le civiltà muoiono dall’esterno o dall’interno? Questo è il quesito più affascinante e riguarda anche l’occidente contemporaneo. “La loro scomparsa è il frutto di aggressioni esterne (guerre, disastri naturali, epidemie) o la conseguenza di una erosione interna (decadimento, incompetenza, scelta disastrosa)?”, si chiede Roger-Pol Droit. Arnold Toynbee, nel secolo scorso, è stato irremovibile: “Le civiltà muoiono per suici- dio, non per omicidio”. Questa formula dello storico britannico, autore di uno studio monumentale di storia in dodici volumi, pubblicati dal 1934 al 1961, è diventata celeberrima. Lo studioso francese René Grousset ha sviluppato la stessa idea: una civiltà è distrutta dalle proprie mani. “Nessuna civiltà viene distrutta dall’esterno senza essersi innanzi tutto essa stessa deteriorata, nessun impero viene conquistato dall’esterno senza essersi precedentemente autodistrutto”, scriveva Grousset. “E una società, una civiltà non si distruggono con le proprie mani che quando hanno cessato di capire la loro ragione d’essere, quando l’idea dominante intorno alla quale si erano dianzi organizzate ridiventa loro estranea”. Nel 2005, Jared Diamond, professore di geografia presso l’Università della California, nel suo libro “Collapse” indica cinque fattori principali di mortalità delle civiltà, in testa il cambiamento climatico. E’ il caso dei vichinghi, che in Groenlandia prosperarono per quattro secoli, prima di degenerare rapidamente, fra violenze e carestie, rimanendo infine vittime della loro insipienza. C’è invece chi, come l’americano Joseph Tainter, autore del celebrato saggio “The Collapse of Complex Societies”, sostiene che a causare il crollo delle civiltà, come Roma, siano sistemi istituzionali sempre più costosi, la svalutazione monetaria, il debito pubblico, la tassazione e l’eccessiva regolamentazione. “Ogni civiltà ha la tendenza a credersi eterna”, scrive Roger-Pol Droit. “Non prevede la fine, tranne la nostra”. Roma, per esempio, non ha mai pensato che il suo regno si sarebbe estinto. Le generazioni hanno visto un mondo che si stava disintegrando, ma per secoli, nonostante lo scricchiolio, l’edificio sembrava immortale. “Ci sono solo tre possibili ipotesi”, conclude il filosofo francese. “Il più ottimista in cui ci si illude che la nostra sopravvivenza sia altamente probabile. Il più pessimista: la nostra terra un giorno non lontano sarà fredda come la luna. L’ipotesi più plausibile è che i nostri attuali stili di vita periranno, ma tutto il resto vivrà. Come al solito”. Un altro storico francese, Michel De Jaeghere, direttore del Figaro Histoire, nel suo libro di seicento pagine “Les derniers jours”, gli ultimi giorni, spiega che la vera grande causa della caduta dell’impero fu l’implosione demografica. Il volume è stato appena tradotto in italiano dalla casa editrice Leg, nella bella traduzione di Angelo Molica Franco. De Jaeghere spiega che “a partire dal Terzo secolo il declino demografico divenne evidente”. Non ci fu soltanto la “peste antonina”, che imperversò sotto Marco Aurelio e Commodo. La crisi economica, l’insicurezza, il brigantaggio, scoraggiarono la natalità, che smise di garantire anche il semplice rimpiazzo delle generazioni. In Gallia la popolazione era regredita del venti per cento. “Le famiglie erano fragili e poco feconde. Il concubinato rimaneva la norma, il divorzio era frequente, la mortalità elevata. Le province di frontiera del Reno e del Danubio (Rezia, Norica, Pannonia, Mesia) avevano una densità di popolazione bassissima; per questo avrebbero esercitato sui barbari che vivono dall’altro lato del confine un’attrazione irresistibile. La perdita della pietas si tradusse, da dopo l’apogeo dell’Alto Impero, in uno spopolamento che avrebbe avuto un grande peso sui destini del mondo romano. Se si arrivò a reclutare i barbari nell’esercito, a donare loro delle terre, se si cercò di imprigionare i popoli sotto un giogo fiscale, amministrativo e finanziario, fu in gran parte perché il censo ogni cinque anni costringeva le autorità a constatare che la popolazione romana diminuiva di continuo, persino nelle provincie non esposte all’invasione e alla guerra”. L’archeologia porterà alla luce cimiteri in luoghi dove due secoli prima esistevano alcuni dei più prestigiosi edifici della vita urbana. “L’impero d’occidente non aveva più una popolazione sufficiente e quindi meno ricchezze per affrontare lo sforzo sovrumano che richiedeva, in termini di uomini e di denaro, la difesa del suo vasto territorio e delle sue lunghissime frontiere”. Augusto aveva promulgato delle leggi contro i celibi (riguardavano solo i cittadini romani, quindi in sostanza solo la popolazione italiana). Lucano aveva descritto, sotto Nerone, la desolazione di un’Italia in cui “pochi abitanti vagano per le strade deserte di antiche città”. La crisi demografica accasciò l’impero nei primi due secoli della nostra èra: “Nell’età dell’oro dell’Alto Impero, all’apogeo della civiltà. Il divorzio era diventato una pratica comune tra le éli- “Il frutto di un materialismo che portava a ritenere la felicità di vivere senza obblighi come il fine supremo dell’esistenza” tes alla fine della Repubblica, sotto l’influsso dei costumi ellenistici”. La contraccezione era praticata in tutta la scala sociale: “Galla – scriveva Marziale in uno dei suoi Epigrammi – vuole essere soddisfatta ma non vuole figli”. “Qui – dichiarava un contadino di Crotone nel ‘Satyricon’ di Petronio – nessuno cresce bambini perché se si hanno degli eredi naturali non si viene invitati ai banchetti, né agli spettacoli, si è esclusi da ogni piacere e si vive in tristezza tra la feccia”. Le fonti letterarie ci informano della varietà dei metodi utilizzati: amu- ANNO XXI NUMERO 191 - PAG VI IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 Dipinti che diventano icone di Angiolo Bandinelli C’ è un quadro, nella moderna vicenda artistica degli Stati Uniti, che si colloca centralmente nell’immaginario di un comune cittadino del grande paese – l’uomo della strada o, se volete, l’uomo massa, qual che sia il toponimo – inteso anche come luogo dello spirito – di sua residenza, una città o un paese tra la California e il Minnesota, la Florida e il Texas, il Washington District o Philadelphia. Ogni americano quel quadro lo ha visto almeno una volta e in una dozzinale riproduzione – se non ha potuto ammirare l’originale custodito al MoMA. Anche se non lo capisce, di sicuro lo rispetta. Forse ne prova soggezione. E’ l’“American Gothic”, capolavoro di Grant Wood. Una icona di ecce- I due contadini del quadro di Wood, angustamente isolati nella loro cornice: dietro di loro si avverte il sapore del vuoto zionale forza evocativa, per l’americano medio appunto, per quanto poco egli possa sapere della storia del suo paese, del suo mitico, irripetibile Ottocento, del Middle West con la sua epopea. L’artista dipinse il piccolo olio (74,3 x 62,4 cm) nel 1930, nel pieno della Grande depressione. Come altri capolavori contemporanei – i “Nighthawks” (i “Nottambuli”) di Edward Hopper, un “dripping” di Pollock, una qualche “cover” di magazine disegnata da Norman Rockwell, oppure le “Campbell Soup” o una “Marilyn Monroe” di Warhol – fa emergere quel che batte nel cuore profondo degli States. Nell’immaginario dell’uomo medio americano c’è un’altro quadro di valenza simbolica appena un passo indietro rispetto all’olio di Grant Wood. E’ la tempera dipinta da Andrew Wyeth nel 1948 dal titolo “Christina’s World”, “Il mondo di Cristina”. Wyeth (19172009) è stato un artista noto e apprezzato, di vigoroso istinto realista e di buona pennellata, ma il resto dei suoi lavori non ha la magia di questo, subito assurto ad icona non meno rappresentativa di quella di Wood: una donna, anzi una ragazza, giace, riversa a terra di spalle, in posa contorta e innaturale, su un prato in pendio. Il prato è bruno rossiccio, forse è coperto di papaveri ma spoglio, non ci sono alberi. La ragazza protende spasmodicamente la mano sinistra, come se stesse chiamando e chiedendo aiuto, verso una grigia casa di legno che si staglia sull’orizzonte con a fianco due altri piccoli edifici, il “barn” e due “dependances” di quella che immaginiamo possa essere una “farm” come tante ce ne sono nelle immense “prairies” che si stendono tra Atlantico e Pacifico. I due quadri, assai diversi l’uno dall’altro, sembrano avere un’unica fonte di ispirazione. Di cosa parliamo? Di solitudine, direi. I due contadini, i “farmers” raffigurati nel quadro di Wood, sono angustamente isolati nella loro cornice e dietro di loro si avverte il sapore, per dire, del vuoto: di sicuro non frequentano amici, i loro più vicini conoscenti abitano a distanza di miglia all’altra estremità di immensi campi di mais, devono provvedere da soli a tutte le esigenze della vita quotidiana, campano delle risorse della magra agricoltura che l’uomo cura col suo forcone a tre punte mentre lei cuoce nel suo “oven” una torta di mele o di mirtilli o fa fermentare una discreta birra casereccia (ne sono sicuro, ne faceva anche, in Inghilterra, mia suocera, moglie di un farmer scozzese). Non sbaglio troppo se dico di trovare uno stesso sentimento di solitudine – di una (in)quieta solitudine – nelle due opere. La tempera di Wyeth non è frut- L’AMERICA E IL CORAGGIO DI SPECCHIARSI NELLE PROPRIE SOLITUDINI “American Gothic” di Wood, la tempera di Wyeth, le tele di Hopper: nella vastità dei paesaggi o nel vuoto di una highway, diversi modi per leggere una condizione e per sentire quello che batte nel cuore profondo degli States to di invenzione, di fantasia. la Christina che vi è rappresentata è Anna Christina Olson (3 maggio 1893-27 gennaio 1968), una giovane affetta da una grave malattia neurologica, la sindrome di Charcot-Marie-Tooth, che nella maggior parte dei casi si presenta come una perdita di tono muscolare e della sensibilità al tatto, in particolare alle gambe al di sotto del ginocchio. La protagonista del quadro è evidentemente impossibilitata a muovere gli arti inferiori e per questo si trascina sul prato, invocando aiuto. Pare che il pittore avesse scorto Anna Christina in quel drammatico atteggiamento da una finestra della sua casa di vacanze, situata vicina alla casa degli Olson, nel Maine. Grazie al quadro, la modesta, anonima casa è divenuta una sorta di museo, uno dei tanti “National Historic Landmark” visitati, immaginiamo, da folle di intimiditi e rispettosi turisti. Quando venne esposto a New York, il quadro passò inosservato dalla critica, ma venne subito acquistato da Alfred Barr, fondatore e direttore del MoMA, per poco meno di 2.000 dollari. Da allora la sua notorietà è vastissima, ne fa menzione un personaggio di un racconto di Stephen King e ha ispirato la scena di “Forrest Gump” in cui Jenny scaglia sassi verso la casa della sua infanzia. Giudicando con il metro di una normale critica d’arte (almeno sugli standard europei, in America le cose Andrew Wyeth, “Christina’s World”, 1948 (New York, Museum of Modern Art). La giovane rappresentata è Anna Christina Olson (1893-1968), che era affetta da una grave malattia neurologica vanno diversamente) non diremmo che il quadro, come del resto quello di Wood, presenti caratteristiche eccezionali. E’ di un realismo solido ma senza slanci, che dà sul naturalismo. Cos’è dunque che ha impresso questa non eccelsa pittura nell’immaginario collettivo dell’americano medio? Anche qui, molto probabilmente, il senso di angosciosa, disperata solitudine evocata dall’immagine. E’ un caso (non, certamente, il solo) nel quale l’immagine fa aggio sulla qualità artistica dell’opera; questa può essere mediocre ma l’immagine in sé è così carica di significati e allusioni da imporsi autonomamente, facendo attribuire all’opera valori che altrimenti non le spetterebbero. La questione certamente interessa i critici d’arte, ma saranno sopratutto i sociologi a scandagliarne i significati riposti. La “folla solitaria” e le varie rappresentazioni che riguardano l’uomo di città. Il ritorno, spesso impossibile, alla natura La cultura sociologica contemporanea ha indagato a lungo il tema della “folla solitaria” (titolo di un celebre saggio di David Riesman del 1950) promuovendo una infinità di interpretazioni riassumibili, più o meno, così: “L’uomo di oggi, l’uomo della civiltà di massa, della tecnologia esasperata, dell’individualismo privo di valori comunitari, ecc., è destinato a una pervasiva e opprimente solitudine: anzi, la modernità in sé, la società – o meglio, la folla – contemporanea ha come suo destino e orizzonte quello di una ‘alienazione’ che porta a una solitudine priva di speranza”. Le varie, ma convergenti e analoghe rappresentazioni riguarderanno sempre l’uomo di città, l’urbanizzato che vive in una delle sterminate anonime periferie, in un “suburb” delle grandi metropoli americane o comunque dell’occidente (e l’aggettivo “suburban” ha, come secondo significato, quello di “noioso”, “insignificante”). Ma attenzione: nei due quadri di cui stiamo parlando l’angoscia della solitudine colpisce figure che si muovono in contesti del tutto diversi e opposti da quelli descritti da Riesman: l’uno come l’altro quadro rappresenta un paesaggio agricolo, comunque campagnolo, evidenziato nell’uno dal forcone, nell’altro dal “barn” che campeggia nello sfondo. Per la sociologia, e per contrasto, solo grazie a un ritorno – spesso impossibile – alla natura, alla casa, al “barn” dei padri, l’uomo della solitudine urbana di massa – americana come europea – potrebbe ritrovare la felicità e l’amore per la vita: nel celebre film “Giungla d’asfalto” (“The Asphalt Jungle”, 1950) il protagonista, piccolo sfortunato gangster di periferia, ferito mortalmente nel corso di una fallita rapina in banca, cerca – febbricitante e morente – di tornare nella fattoria dell’infanzia, per abbracciare il cavallo bianco che pascola nel prato dietro una steccionata, non meno bianca. Ovviamente il suo estremo desiderio è destinato, anche simbolicamente, a rimanere inappagato, l’uomo cade a terra, agonizzante, sarà il cavallo ad avvicinarsi, per brucare l’erba nella quale giace il corpo inanimato. Non c’è contraddizione: il capolavoro di Wood capitava al momento giusto. L’anno prima, il 1929, aveva visto scoppiare la Grande Depressione. La “recovery” rososeveltiana, la Tennessee Valley Authority, il dirigismo kelseniano al posto del “rugged” capitalismo, ecc., avrebbero ingranato alquanto tempo dopo. L’America fiduciosa e pionieristica entrava in crisi, al posto del suo esplosivo urbanesimo si diffondeva un rigurgito ruralista, subito divenuto nutrimento per una letteratura populista presto famosa anche in Italia, con i suoi ANNO XXI NUMERO 191 - PAG VII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 Steinbeck, Caldwell o James M. Cain. In quel clima, il quadro assunse il ruolo di icona significativa, rivelatrice di un profondo travaglio di valori. Intorno al quadro si agitavano interpreti, analisti e guaritori, veri o presunti, ben più autorevoli di Wood. Il più autorevole di tutti era, forse, il critico, giornalista e scrittore Henry L. Mencken (1880-1956). Grande polemista, Mencken versò acidi corrosivi e veleni sul provincialismo dell’America profonda, una società a suo avviso votata alla “emotional and aesthetic starvation”, una miserabile inedia estetica ed emozionale. Affondava il coltello in piaghe già aperte da un bel po’ di scrittori insofferenti delle “middletown” e della loro insufficienza culturale. Il massimo pittore della solitudine della società urbana americana è no può salvarsi. L’uomo di Hopper non sfugge a questo destino, la coppia di Wood è consapevole della sua condizione e la vive, se non con fierezza, con una silenziosa dignità. Quella coppia vive parcamente, ma non è povera, sa che il suo rude lavoro la salverà comunque, anche dal male. Forse, il senso della solitudine dell’uomo americano ha la sua origine nella meditazione sulla profonda, immensa vastità di quei paesaggi sconfinati che egli vede intorno a sé, del tutto ignoti all’europeo. La solitudine del paesaggio naturale e quasi incontaminato dell’America profonda, il vuoto nel quale si distendono le highway (mia moglie, che da giovane attraversò l’America in automobile, osservava in una lettera alla madre che puoi percorrere “four days of driving and all the same Per l’europeo, la solitudine è una condizione dello spirito positiva e desiderabile. L’eremita e Rousseau, che ama la passeggiata solitaria La vastità degli orizzonti: un paesaggio che nella teologia e cosmologia protestante è privo di peccato, innocente Edward Hopper (1882-1967). Forse già sulla sua opera si potrebbe fare un ricerca semantica, una esegesi sui due termini, “solitude” e “loneliness”, che nella lingua inglese distinguono due aspetti diversi se non contraddittori di quel sentimento (che il nostro “solitudine” non riconosce). I suoi personaggi, che sia la donna nuda dinanzi alla finestra nella stanza da letto o i due “nighthawks” assorti dinanzi al loro caffè o birra nel “diner”, sono dei solitari, profughi disperati della civiltà delle macchine e della sua tecnologia disumanizzante. Sono scenari di solitudine (“solitude” o “loneliness”?) anche le sue strade e case immerse in una luce straniante. Però Hopper è in qualche modo in sintonia anche con i due pittori del- road, all straight endless and flat…”, “quattro giorni di viaggio, e sempre la stessa strada, sempre diritta, piatta e senza fine…”) prende davvero allo stomaco. E’ la solitudine che si colora di angoscia nella celebre sequenza di “Intrigo Internazionale” (“West to North”, 1959) in cui Cary Grant viene fatto oggetto di un tentativo di omicidio, perpetrato con tecnica insolita mentre lui è in attesa di qualcuno, nel mezzo di un paesaggio sterminato di campi di mais che si perdono all’orizzonte. Analoga solitudine filtra dalle pagine di “Winesburg, Ohio”, capolavoro narrativo di Sherwood Anderson (1919), capofila di una lunga serie di opere letterarie che esplorano il mondo dei farmer del sud profondo, del west lontano e smisurato. Edward Hopper, “Nighthawks” (particolare), 1942 (Art Institute of Chicago) Lontano da tutti, questo il terreno della vera libertà (in Europa anche una via per raggiungere Dio). E se si soffre, c’è sempre il riscatto offerto dal lavoro la solitudine della campagna, Wyeth e Wood. Nell’immaginario americano c’è forse sempre una inconscia consapevolezza della solitudine umana, una solitudine che non dipende dal dramma sociale del capitalismo, rugged o no, ma è diffusa ed eterna. La solitudine dell’europeo ha una diversa fenomenologia. Possiamo azzardare parta dal celebre motto latino: “Beata solitudo, sola beatitudo” (“beata solitudine, sola beatitudine”) che ci ammonisce come solo separandosi dal mondo e dagli altri sia possibile trovare una autentica tranquillità (“beatitudo”) dell’animo. La forma originale è “O beata solitudo, o sola beatitudo”. Siamo al “redi in te ipsum” agostiniano, che prevede – per dire – la lettura silenziosa, a bocca chiusa, tutta interiorizzata. Come dire, la solitudine, per l’europeo, è condizione dello spirito positiva e desiderabile, diversamente da quella concepita dall’americano quale lo vediamo rappresentato da Hopper, da Wood o da Wyeth. La solitudine dell’europeo può essere, come in Petrarca, una magica condizione dello spirito che si isola dalla comunità umana per raggiungere un momento di estatica, inebriante felicità (“Solo e pensoso, i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti…”), oppure, leopardianamente (e pascalianamente), istante rivelatore di quel sublime rapporto che è l’insuperabile distanza tra la propria piccolezza e l’infinito. L’uomo deve mantenere, o scoprire, un recesso dell’anima dove possa esse- re se stesso, senza riserve o condizionamenti. Solo in questa solitudine potrà conoscere la vera libertà (Montaigne?). Ancora: è in una solitudine come questa che l’eremita o il mistico raggiunge Dio: Dio si manifesta nei luoghi isolati, non necessariamente impervi, ma comunque deviati dal consueto viavai dei traffici umani. E anche Rousseau, se ricordiamo bene, ama la passeggiata solitaria. La solitudine di stampo europeo avrà anche i suoi momenti degenerati- vi: e avverrà quando il filosofo Heidegger condannerà la vita massificata, urbana – condizionata dalle tecnologie più pervasive – come vita “inautentica”, votata al “chiacchiericcio”, mentre la sola vita “autentica” sarà di colui che saprà vivere l’essere-per-la-morte, una condizione che esalta il suo solitario solipsismo. Non credo che l’artista americano, quello delle solitudini, voglia rappresentare qualcosa di simile: per lui la solitudine è triste, certamente, ma non determina la rivolta esistenziale. Forse, richiederà una birra o un whisky in più, ma l’americano sa che l’American Way of Life offre vantaggi compensativi assai validi: altrimenti come si potrebbe parlare di “American Dream”, mito persistente e inattaccabile anche nei momenti più tristi, quelli delle depressioni sociali e personali? La solitudine dell’europeo è un fenomeno tutto culturale, giunge alla fine di una ricerca, di una vocazione stimo- lante e purificante, quella dell’americano ha profondità antropologica. La prima ha della fruttuosa e creativa esperienza mistica e monastica (benedettina?), la seconda ha introiettato il senso di dejection che è al centro dell’antropologia protestante, quella per la quale l’uomo non ha possibilità di salvezza, di riscatto, se non facendo leva sulle sue capacità, nell’ambito del concorso sociale. Alla fine, nella e con la società in tutte le sue durezze, l’america- Cole, Catlin, Homer: la scoperta di un altro Ottocento L a vicenda della cosiddetta “Hudson River School” è ancora poco nota in Italia e in Europa, dove ai pittori americani del XIX secolo si dà scarso rilievo. Posseggono da tempo loro lavori, in Europa, il Museo ThyssenBornemisza a Madrid, il Musée d’Orsay, il Musée du Quai Branly e – credo – il Louvre a Parigi. Per la critica d’arte europea, il XIX secolo ha un suo acme artistico necessario e imprescindibile attraverso il quale, come attraverso la cruna dell’ago biblico, nasce la modernità: ed è l’impressionismo europeoparigino (magari arricchito e sollecitato dall’arte giapponese di Hokusai, non certo dall’americano Winslow Homer). A un critico europeo il nome di Wyeth, o anche di Wood, non dice quasi nulla. Per lui, l’arte pittorica americana esplode, a parte l’eccezione Hopper, nel secondo Dopoguerra, con il “dripping” di Jackson Pollock, l’espressionismo astratto di Rothko, il “pop” di Warhol e compagni, una tecnica o – meglio – una forma d’arte riconosciuta come tipicamente americana. Da allora, addirittura, quest’arte conquista il centro della scena mondiale, ma per il secolo precedente, almeno fino a ieri si poteva tranquillamente ignorare l’esistenza di una pittura d’oltreatlantico. Del resto, Walt Whitman nel 1871 scriveva che “l’America non ha fatto moralmente e artisticamente fino a oggi nulla d’originale”. E invece l’arte americana del XIX secolo ha una sua individualità e una sua riconoscibilità che ne fanno un fenomeno importante nella storia dell’arte mondiale, anche a prescindere dagli ottimi Sargent e Whistler, indecisi se essere americani o europei. Senza considerare l’eccentrico caso di Audubon (1785-1851), l’allievo di David divenuto famoso per la raccolta di 435 disegni di uccelli americani, pittori della “Hudson River School” come Thomas Cole, Jasper F. Cropsey, Albert Bierstadt, Frederic E. Church e Thomas Moran, assieme con quelli del cosidetto “movimento luminista” (John Kensett, Fitz Henry Lane) , a George Catlin e I suoi ritratti di primitivi aborigeni americani o anche, infine, i realisti Thomas Eakins e Richard C. Woodville, William M. Harnett, John F. Peto et John Haberle, illustrano adeguatamente un rinnovamento originale della paesaggistica e della natura morta, portandoci al centro di un periodo cruciale nella formazione dell’identità storica degli Stati Uniti. L’identità che possiamo dire americana era, per questi artisti, fondata su tre temi specifici, “la scoperta”, “l’esplorazione” e “l’insediamento”. Romantici ed emersoniani , rappresentavano paesaggi nei quali l’essere umano e la natura coesistono pacificamente. Dinanzi al ritratto del “Capo indiano” (1845-46) di George Catlin è ovvio pensare che solo un pittore di quel paese avrebbe potuto dipingerlo. Lo stesso si dica della foto del “Capo Sioux” (1870) di Alexander Gardner. La storia degli Stati Uniti è anche la conquista di territori sconfinati dove vivevano popolazioni indigene purtroppo sterminate dall’uomo bianco. Quell’epopea poco gloriosa tutti l’abbiamo conosciuta, più che dalla pittura, dal grande cinema di John Ford, e si identifica tout court con la straordinaria fortuna del genere western, a cominciare da “Ombre rosse”, (“Stagecoach” , 1939). Questo successo planetario ha contribuito a far conoscere il Nuovo mondo e la sua sanguinosa storia, chi ne ha pagato è stato l’appannamento di una pittura che ha momenti originali ma ignoti al Vecchio mondo, all’Europa. Un pittore come Winslow Homer (1836-1910) è, secondo i canoni critici europei, difficilmente collocabile, lo si direbbe al più un eclettico influenzato via via da artisti realisti o impressionisti, senza un suo preciso volto. Visse per un anno a Parigi, e lì conobbe le opere degli impressionisti, cogliendone l’attenzione per la luce naturale e la pittura dal vero ma senza subirne in modo diretto l'influenza. Nel 1881 si trasferì per due anni in Inghilterra, sulla costa del Northumberland, per dipingere i pescatori e le loro famiglie. Nel 1883 si ritirò a vivere nel Maine, a una trentina di metri dall’Atlantico. Qui prese a dipingere le sue monumentali scene di mare. Per alcuni critici del tempo queste immagini, spesso di drammatici eventi, "have the weight and authority of classical figures", “hanno il peso e l’autorità di figure classiche”; secondo un autorevole giornale, Homer va collocato "in a place by himself as the most original and one of the strongest of American painters.", “in una posizione tutta sua, come il più originale e uno dei più forti pittori americani”. Nonostante l’attenzione positiva della critica, Homer non raggiunse la popolarità e celebrità del suo contemporaneo John Singer Sargent, con il suo linguaggio tanto più comprensibile, “europeo”. Homer vendette poco e tardi. Oggi, è difficile dimenticare l’impressione di forza etica e di empatia con la natura che ci viene dai suoi quadri. Forse non in lui, ma in pittori come lo stesso Pollock è forte un’attenzione costante all’arte “indigena”, primitiva; cosicché si potrebbe ben riconoscere la presenza e la validità di un filone artistico “americano”, con le sue lontane origini e le sue più moderne e rivoluzionarie tendenze. Ma, come per la filosofia, l’arte americana è in fondo ancora considerata come “periferica” rispetto al corso “hegeliano” della storia dell’arte, almeno nell’accezione europea e occidentale. (a. b.) La grandiosità del paesaggio naturale dei boschi e delle pianure del Middle West può essere però anche portatore di un messaggio di fiducia. E’ un paesaggio che nella teologia e cosmologia protestante è mondo di peccato, innocente. Lo è in Thoreau o in Emerson , o nei quadri degli artisti della cosiddetta “Hudson River School”. Emerson è il primo grande filosofo americano, anche se assorbe alle più svariate correnti di pensiero: il romanticismo inglese e tedesco, il neoplatonismo, il kantismo e addirittura l’induismo. Come esponente massino della corrente del cosidetto “trascendentalismo”, Harold Bloom lo considera “la figura centrale nella cultura americana”. Emerson attinge l’intuizione di una natura dinamica, pervasa dallo Spirito divino che è Energia vivente e operante attraverso gli individui. Il regno dell’uomo e quello della natura sono manifestazioni del Divino e quindi non sono contrapposti. Non c’è opposizione fra naturalità ed eticità per chi sappia riscoprire in sé, attraverso un pensiero e un’azione infaticabili, quell’“anima superiore” (Over-soul), che in sé include tutti gli esseri viventi spronandoli a superare ogni limite interiore ed esteriore. Da questa coscienza nasce la “fiducia in se stessi” di cui Emerson fu assertore fervidissimo e che trasmetterà alla intera cultura americana, a partire dai pittori della celebre scuola. Niente di Leopardi, ovviamente: sarà “The American Way of Life”. Ma quanto di lui resta nella tempera di Wyeth o nelle tele di Hopper? ANNO XXI NUMERO 191 - PAG VIII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 nche se siete arrivati al mare tre giorni fa con la prima ondata dei vacanzieri agostani, vi sarete accorti che le ragazze sono meno svestite dell’anno scorso e che le signore non hanno l’ansia di mettere in mostra le fatiche di un intero inverno di Pilates. Per le stradine delle isole del sud e i caruggi liguri circolano meno pance nude e quasi zero cropped top, cioè le micro t shirt e i bolerini a pelle che lasciavano scoperto l’ombelico e che che nei dieci anni in cui sono stati di moda tutti avevano imparato a comprare in ottimo inglese. Da questa estate sono stati sostituiti da caftani leggerissimi, di certo un po’ scollati ma comunque lunghi fino ai piedi, lanciati da Valentino e Alberta Ferretti e poi imitati da tutti a scendere di prezzo e qualità di tessuto fino ai modelli a pochi euro di H&M, esauriti in pochi giorni. In costume da bagno, le ragazze (e anche i ragazzi) stanno esclusivamente in spiaggia. Il comune di Alassio, che pochi anni fa emanava ordinanze per il rispetto della decenza e del decoro attorno al celebre muretto, pochi giorni fa ha multato il padrone di due mucche che scendevano a mare la sera a godersi la brezza, per dire. Se non indossano caftani e lunghi abiti da figlia una celebrità), la Gran Bretagna (Bubblegum Hijab&Romy Ahmed). Fra le influencer presenti compariva Lalla Mariah al Idrissi, la modella inglese con lo hijab e il piercing al naso scelta da H&M come testimonial lo scorso inverno per la campagna “close the loop” insieme con una modella amputata, un sikh, un transgender, in una evoluzione Terzo millennio delle storiche pubblicità Benetton contro i pregiudizi. Sarà stato perché il tema portante di questa edizione della rassegna era l’“armonizzazione con la moda mainstream”, o perché, dopotutto, le tendenze dello stile occidentale continuano a imporre i propri canoni al mondo, ma nessuno o quasi fra i capi portati in passerella sarebbe stato respingente per noi eredi dell’estetica di Gianni Versace. Fra le collezioni proposte non sarebbe stato difficile ravvisare la lezione di Tom Ford prima maniera, oppure di Miuccia Prada o di Alessandro Michele: il lamé dorato delle gonne a pieghe era giusto un po’ più lungo, forse anche più ricco e pesante; le camicette a maniche lunghe probabilmente avevano lo stesso fiocco annodato al collo di quelle attuali di Gucci. Però sarebbe stato impossibile capirlo sotto il hijab che avvolgeva la testa delle indossatrici. Il punto essenziale di questa differenza, di questa moda modesta che per In topless sono rimaste soltanto le starlettine della tv e figure marginali della mondanità. “Le volgarette non piacciono più” Una moda seduttiva perché comoda e perché generosa nei confronti della nostra golosità e degli anni che passano dei fiori modello Talitha Getty a Marrakech anno 1967, le ragazzine portano jeans “flare” (è incredibile quanto il lessico comune della moda aiuti a imparare l’inglese), cioè il modello a zampa d’elefante delle nostre mamme negli anni in cui sfilavano per le strade chiedendo divorzio e aborto con noi nel passeggino ancora però vestite di piquet bianco a punto smock. Insomma, a farsi fotografare in topless sono rimaste solo le starlettine della tv e qualche figura marginale della mondanità o della politica romana. I “carini” si vestono. Rosy Biffi, patriarca della famiglia più in vista nella vendita di moda a Milano da quasi quarant’anni, giura di non aver venduto neanche un paio di shorts quest’estate. “Le volgarette non piacciono più”, sentenzia nel lessico iniziatico del Quadrilatero. Di certo, è un po’ presto per parlare di tendenza pudore; per quanto riguarda le più giovani non mi azzarderei neanche a ipotizzare “una nuova consapevolezza del corpo”, come fa Andrea Panconesi di Luisaviaroma, la boutique di Firenze diventata un impero da cento milioni di fatturato grazie al web e a un’accorta politica di promozione con i blogger. Per il momento, mi limiterei a parlare di moda del momento che peraltro, se copre il punto vita e le gambe, scopre molto le spalle: “Le ragazze di oggi hanno décollété molto più tonici rispetto a quelle di un tempo, dunque adattissimi a essere mostrati”, osserva sempre la Biffi, forse dimentica che nel secolo per eccellenza degli omeri esposti, il Diciannovesimo, le donne non praticavano quasi neanche il croquet, avevano spalle spioventi e tendevano a morire di tisi. Non ci sono però dubbi che, quasi impercettibilmente, il clima stia cambiando e che il giro d’affari in crescita esponenziale della cosiddetta modest fashion fra le donne di fede cattolica, oltre che fra le islamiche e le ebree ortodosse, inizi a trovare qualche plausibile giustificazione anche nell’occidente che ha abbandonato il velo femminile da almeno tre secoli. Del tutto sconosciuta fra le più giovani, fonte di dilemmi fra noi figlie delle donne che scendevano nelle strade in corteo e che per decenni abbiamo equiparato i centimetri di pelle scoperta all’autoaffermazione, la modest fashion, vagamente traducibile in italiano appunto come “moda pudica” (per noi la molti versi non è neanche così disomogenea, così lontana rispetto a quella che indossiamo ogni giorno tutte noi che non pratichiamo alcuna ortodossia e siamo cresciute con Elisabeth Badinter e Simone de Beauvoir a interrogarci sulle libertà garantite al nostro sesso e il lungo cammino percorso per ottenerle, è proprio questo: il velo, il capo coperto. La moda modesta è una moda seduttiva, perché comoda, perché generosa nei confronti della nostra golosità e degli anni che passano. Ma ci fa paura. Tante di noi indossano i capi comodissimi di Martino Midali, certamente halal, oppure le forme a uovo di Issey Miyake; talvolta esagerano pure in stratificazioni e sciarpe e tacchi bassi nella ricerca di una legittimazione intellettuale che ritengono impossibile ottenere con uno stiletto di Manolo Blahnik e che forse tale è perché, tutto sommato, il velo, il “capo coperto” che san Paolo prescrive alle donne nella Prima Lettera ai Corinzi e Tertulliano il misogino impone, è ancora troppo vicino alla nostra cultura, le imposizioni vestimentarie atte a prevenire l’istinto predatorio del maschio di cui scrivono i moralisti medievali troppo recenti, perché non si provi repulsione all’idea di coprirci la testa e l’irrefrenabile impulso di togliere lo hijab dal capo delle donne islamiche che incontriamo per strada, nelle aule delle università e nei convegni. Possiamo anche coprirci fino ai piedi con le abaya di Dolce&Gabbana, indossare i guanti di rigore in Arabia Saudita e un turbante alto fino al cielo come Wanda Osiris. Ma non possiamo neanche immaginare di farlo per costrizione o per precetto. La “moda modesta”, pudica, a cui facciamo riferimento oggi è solo e forse l’ovvio rimbalzo tecnico a due decenni di scosciature. La testa “libera e bella” delle pubblicità di poco successive all’abbandono dei cappelli e dei foulard, la chioma scossa come una criniera come e quando ci paia opportuno farlo, è un dato non negoziabile, ed è ancora per questo che in noi laiche occidentali, l’apparizione di una donna velata crea quello che la medievista Maria Giuseppina Muzzarelli, nel suo nuovo saggio “A capo coperto” definisce “turbamento”: perché nessuna di loro ci convincerà fino in fondo di non essere stata indotta a metterlo. Pudore sì, ma solo quando e se ne abbiamo voglia. di Fabiana Giacomotti A Un momento della Modest Fashion Week del maggio scorso a Istanbul. Le stiliste invitate provenivano da tutto il mondo (foto LaPresse) LA MODA MODESTA Un’estate tendenza pudore. Niente più shorts e pance nude: adesso i “carini” si vestono (senza diktat, però). Scoperte solo le spalle modestia ha significati apparentabili alla mediocrità), è il segmento della moda attualmente a più elevato tasso di sviluppo: fattura circa 260 miliardi di euro, e gli analisti prevedono che toccherà i 500 miliardi nel 2019. Non pensate che la moda modesta, o pudica che dir si voglia, equivalga necessariamente ai gomiti e alle ginocchia coperte prescritte per le ebree ortodosse insieme con il tichel o lo sheitel, cioè il foulard avvolto attorno al capo e la mezza parrucca, oppure con lo hijab o la abaya delle musulmane, ancorché firmate Dolce&Gabbana, che in questi mesi La modest fashion tra le donne di fede cattolica, oltre che tra le islamiche e le ebree ortodosse: un fatturato di 260 miliardi in crescita stanno lanciando la seconda collezione di abbigliamento halal dopo il clamoroso successo della prima, andata a ruba da Harrods a Londra, a Parigi e a Monaco di Baviera, cioè nelle città dove rischio terrorismo e presenza islamica sono ugualmente forti. Il dato rilevante è che molte donne, anche cattoliche, iniziano a non essere del tutto convinte che l’empowerment femminile passi per il culone oliato di Kim Kardashian o per l’inguine al vento di Bella Hadid all’ultimo Festival di Cannes, fisico a parte e che ovviamente pochissime possono sfoggiare simile al suo. Anche noi donne occidentali laiche che osserviamo con imbarazzo le ormai tante donne con lo hijab che incontriamo per strada e che abbiamo gridato allo scandalo quando, pochi giorni fa, l’ex presidente dell’Unione delle comunità islamiche italiane si è espresso a favore della poligamia, “come diritto civile equiparabile alle unioni gay”, iniziamo a sentirci più a nostro agio se un uomo ci guarda diritto negli occhi e non direttamente nella scollatura. Lo scorso giugno, un gruppo di studentesse della Sapienza che partecipavano a un concorso internazionale di design e di posizionamento di marketing per un nuovo marchio di abbigliamento in denim promosso da Isko e Swarovski si sono presentate alla giuria, presieduta da un iconoclasta della moda come François Girbaud, con un progetto di modest fashion che comprendeva gonne lunghe e svasate, cappe in jeans, pantaloni larghi diametralmente opposti rispetto a quelli che avrebbe progettato il team di soli quattro anni fa, per la prima edizione del concorso. Solo uno studente su dodici, se ben ricordo di origine svedese, ha portato in concorso una linea di capi aderenti; ha vinto una studentessa di San Francisco che aveva rivisitato il grembiule indossato dai cercatori d’oro sopra i jeans. Qualche anno fa, il grembiule sarebbe stato l’unico capo di abbigliamento proposto e il modello avrebbe sfilato a culo nudo modello Kardashian. Nessuno dei partecipanti sem- brava aver notato la profonda differenza con le proposte degli anni precedenti. Dichiaravano di aver fatto “quel che si sentivano”, e quel che sentivano è che la donna, o l’uomo, insaccati e inguainati nei vestiti sono quanto di più lontano dallo spirito di questi tempi. In questa sorta di controriforma estetica strisciante, di cui avvertiamo al tempo stesso l’esigenza e il pericolo, rientra il tema non secondario del peso. Il peso ponderale, si intende. Anche volendo escludere le credenze religiose, la maggior parte della popolazione femminile occidentale non solo non assomiglia affatto a Bella Hadid, ma si è anche stancata di dover sottostare al diktat della taglia, cioè di quella particolare firma di coercizione estetica che le islamiche trovano equiparabile, se non peggiore, all’imposizione del niqab: “Grazie Allah! Di avermi salvata dalla taglia 42”, ironizzava Fatima Mernissi, la grande sociologa marocchina scomparsa nel 2015, sull’“harem occidentale” che impone alle donne il canone della magrezza e ogni sorta di limitazioni per ottenere l’approvazione maschile e, in generale, della società. Mushky Notik and Mimi Hecht, il duo di giovani ebree hassidim di Brooklyn che qualche anno fa ha fondato il brand di moda Mimu Maxi, apprezzatissimo dalle ragazze islamiche e per questo fonte di molti scontri fra le due comunità (nel 2014, l’account instagram di Mushky e Mimi venne violentemente attaccato per aver ripostato l’immagine di una blogger musulmana che indossava un loro vestito: i quotidiani anglosassoni ci imbastirono sopra una polemica di una settimana) non ritengono per esempio che lo stile abbia qualcosa a che fare con la pelle nuda o tantomeno con “la sensualità che è qualcosa di sacro, dunque di intimo e personale”. Per noi occidentali cresciute fra Thierry Mugler e Gianni Versace, la sensualità è un gioco molto più variegato e sottile, pubblico anche, rispetto a questa dicotomia dogmatica, ma è pur vero che, se questi o i capi della designer ultracattolica americana Charity Una controriforma estetica strisciante: la maggior parte della popolazione femminile occidentale stanca del canone della magrezza Jewell Walter venissero proposti con uno styling appena meno lezioso, potrebbero sembrare appetibilissimi anche a noi che nei primi anni Novanta evitavamo di sederci per tutta la serata pur di non mettere in mostra gli slip sotto le minigonne che, per l’appunto, si definivano “inguinali”. Lo scorso maggio, in una Istanbul non ancora sconvolta dal colpo di stato apparente contro Erdogan, è stata organizzata la Modest Fashion Week: le stiliste invitate provenivano da tutto il mondo, compresa l’Australia (Amalina Aman), gli Stati Uniti (Melanie Elturk, ANNO XXI NUMERO 191 - PAG IX IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 L’INCREDIBILE MINO DA ANGRI Mitizzato o ridicolizzato, molto invidiato. Chi è davvero Raiola, il re del tavolo nel calciomercato on si capisce il perché, o forse si capisce troppo bene, ma molti nel pallone pretendono di guardare ancora Mino Raiola dall’alto in basso. Per pedigree. Per look. Quindi, nell’ordine, sentirete e leggerete sempre – sempre – due cose. La prima: “Il cameriere che diventò milionario”. Che potrebbe essere la storia di molti, ma con lui è un cliché che si alimenta di continuo. Serve a mantenere le distanze e un certo livello di disprezzo, mascherato da ammirazione per la scalata sociale ed economica. Poi conta poco che in realtà fosse il figlio di un proprietario di un ristorante-pizzeria che aiutava i genitori. Mino contribuisce alla mitologia: “Quando scrivete che facevo il pizzaiolo, sbagliate. Facevo il cameriere”. E ogni volta la questione torna, come punto di partenza di ogni ragionamento, con tutti i non detto che si porta dietro. La seconda: “Parla otto lingue, tutte male”. Il che non è vero, o quantomeno nessuno di quelli che l’hanno scritto, lo scrivono e continueranno a farlo, lo può sapere direttamente perché non s’è mai vista una conversazione individuale oppure conviviale che si sviluppa come un esame di lingue e letterature straniere. Semplicemente è stata presa una sua frase quella pancia enorme, sembrava uno dei Soprano. Dovrebbe essere un agente quella specie di gnomo ciccione? E quando ordinammo cosa credete, che arrivò un piattino di sushi con avocado e gamberetti? No, arrivò una valanga di roba, cibo per cinque, e lui divorò tutto come un dannato”. Attorno a Ibra ruota molta della fortuna e della mitologia di Raiola. Ogni cambio di squadra è stato un colpo per il calciatore e per l’agente. E Zlatan ne ha cambiate sette. Uno di questi, quello dall’Inter al Barcellona è stato fondamentale anche per la costruzione del personaggio e della mitologia sul terzo punto della sua biografia che non può mancare: le commissioni. Nell’accordo che consentì l’arrivo di Ibra al Barça, il club si impegnava a versare all’agente un compenso di un milione e duecentomila euro l’anno fino alla scadenza del contratto del calciatore con il club. Succede da anni che le squadre paghino commissioni ai procuratori eppure pare che le abbia inventate Raiola, con tutto quello che questo significa. Perché sulle commissioni si regge anche la sovrastruttura di negatività che sormonta il calcio globale. La verità è che Raiola, per il calcio è il personaggio del decennio. E’ stato lui a trasformare definitivamente il procuratore in protagonista. Ha preso il suo ruolo e l’ha fatto Porta a casa cifre mostruose: quest’anno viaggia sui 50 milioni. La metà è la base annuale che realizza, il resto si chiama Pogba Ibrahimovic: “Con quella pancia enorme, sembrava uno dei Soprano”. Ogni cambio di squadra, un colpo per tutt’e due vera ed è stato ampliato il senso: “Parlo molte lingue, la peggiore è l’italiano”. Ecco, questo non manca mai. Ogni cosa di una certa dimensione scritta o detta su Mino Raiola, parte da qui e spesso qui arriva. Perché anche se sono più di vent’anni che gira tra le stanze dei presidenti e dei direttori sportivi dei più grandi club calcistici europei e da dieci anni è di fatto il principale (o uno dei due) protagonista delle trattative più importanti del calcio mercato, il punto uno e il punto due sono il condimento succulento della sua storia. Che viene raccontata sempre, senza eccezione, con quel tono di stupore che si deve alle vicende surreali o semireali. Come a dire: ecco l’incredibile che si materializza. Più affari milionari fa, più il tono dello stupore aumenta. Perché è un registro di comunicazione facile e immediatamente comprensibile, specie nelle estati di lettura distratta: l’uomo che non aveva niente e che ha tutto, l’intelligente ma rozzo italiano emigrato che porta a casa cifre mostruose. L’ultima parte, quella sulle cifre, è indubitabile: quest’anno si viaggia sui 50 milioni. La metà (25 milioni) è la base annuale che ha realizzato in media nelle ultime stagioni, il resto ovvero l’altra metà è l’effetto della cessione di Paul Pogba alla Juventus. Il che permette di arrivare al terzo punto fermo della narrazione raiolana: le commissioni. Provate a leggere, o ad ascoltare: anche in questo caso non c’è un racconto che non passi attraverso la fenomenologia delle “provvigioni” che riesce a rimediare ogni volta che un suo calciatore si sposta da una squadra all’altra. Il tema è decisamente più ostico e più tecnico rispetto a quello del cameriere e quello delle lingue, per questo è terzo in classifica. E però unito agli altri due crea un gigantesco effetto di invidia sociale che è la vera cifra del racconto che gli altri fanno di lui. L’equazione è più o meno questa: era un cameriere, non sa parlare, ma guadagna quanto una multinazionale. La sintesi produce sostanzialmente due effetti: o Raiola viene mitizzato o viene ridicolizzato. Non esistono gradini che ti portano da un punto all’altro. Alto o basso, mai alto e basso insieme. Invece è proprio lì che sta Raiola. Il quale non si racconta praticamente mai. Una delle rare volte in cui l’ha fatto è stato di recente con Malcom Pagani per Gq. Ne è venuta fuori un’intervista di quelle da tenere da parte: uscire dall’ombra delle stanze in cui si fanno gli affari e l’ha messo di fronte alla telecamera. Un Don King senza i capelli dritti e gli occhiali, ma con la stessa capacità di fare show a ogni dichiarazione. E’ il re del tavolo: si siede e alza il prezzo. Con la squadra di provenienza e con quella che è interessata al suo giocatore. Il mestiere è questo, in fondo: fare in modo che il suo assistito venga pagato di più, cosicché anche l’agente aumenti i suoi compensi. La semplicità dell’ovvio che per paradosso complica l’estate e anche l’inverno di tifosi, allenatori, compagni, avversari. Perché i procuratori alimentano passioni e tensioni, fanno entusiasmare e deprimere. “Ogni soluzione è possibile”, dice Raiola dei suoi ragazzi. Non ci sono certezze. “Il mio lavoro non è portare tutti qui o lì. Non sono un tassista. Gestisco gente di cui sono orgogliosissimo che non è mai uscita dalla provincia. Il mio mestiere è aiutare le persone a trovare la loro dimensione. Con i ragazzi non ci sono contratti. Basta una stretta di mano. Ci troviamo e ci capiamo, però se non ci capiamo più, poi, liberi tutti. Adesso gli chiedono tutti: come ha convinto Pogba? “Mi cercò lui. All’inizio non ero neanche andato a incontrarlo perché mi sembrava una perdita di tempo. Mi svegliò un amico: ‘Mino, stai sbagliando’. Gli diedi retta. Lo vidi giocare e mi innamorai. Non stavo sbagliando, stavo compiendo un delitto”. Cento milioni e passa per la Juventus, 13 all’anno per 5 anni calciatore, 25 a lui. La misura del delitto oggi è questa. E’ la dimensione di ciò che molti hanno tenuto sotto traccia, però. Perché il problema non è Raiola, quanto non credere in ciò che si ha. Pogba era allo United a costo zero. Oggi è l’investimento più caro della sua storia e allo stesso tempo della storia del calcio. Raiola è per paradosso, la soluzione: senza di lui, forse Pogba tagliato dal Manchester United a 19 anni sarebbe finito semidimenticato. Allora chi ha ragione? Gli dicono e gli diranno sempre che non c’è nessuno al mondo che un monumento come Alex Ferguson odia più di lui. Perché portando Pogba alla Juve Mino dimostrò che anche i monumenti sbagliano: “Ferguson dice di non aver mai odiato nessuno tranne me. E’ un grande complimento. Se non hai nemici non hai lavorato bene. Le cose normali le fanno tutti. Io muovo l’aria. Muovo i sogni. E ogni tanto faccio incazzare qualcuno”. di Beppe Di Corrado N Mino Raiola con Paul Pogba, quando il giocatore vestiva ancora la maglia della Juventus. E’ stato Raiola a trasformare definitivamente il procuratore in protagonista (foto LaPresse) “Ai calciatori domando: ‘Vuoi diventare il più pagato o il migliore?’. Se rispondono ‘il più pagato’ gli indico la porta. Il pittore che dipinge un quadro per denaro e non per passione non lo vende. I soldi sono molto importanti, ma se li insegui non arriveranno mai e con il tempo finisci per capire che c’è sempre qualcuno più ricco di te”. Frasi così nella vulgata del Raiola che nessuno conosce e che tutti fanno finta di conoscere non gli vengono mai attribuite. Piuttosto viene da pensare che dica il contrario. Perché il pregiudizio rende schiavi molti di quelli che si avvicinano alla sua storia. Come se non ci fosse l’idea di raccontarlo, ma quella di rivelare ciò che gli altri pensano di lui. Ovvero che è il prodotto del calcio degenerato, senza più limiti e senza più regole. Eppure i limiti e le regole ci sono, nel pallone, come nella vita e nel lavoro di Raiola. Uno che ha passato una vita accanto a colui che sempre per la stessa vulgata dovrebbe essere il suo peggior nemico, cioè Zdnenek Zeman. Si sono conosciuti a Foggia, la città della moglie di Mino. Il tramite della loro amicizia fu un calciatore, comunque, Bryan Roy. “Si trovò ad allenarsi nel parcheggio: ‘Ma dove mi hai portato?’. Poi cambiò idea. Lo adoravano, gli dedicavano i cori: ‘Abbiamo un angioletto Dall’Italia all’Olanda: “Se toglie la parte criminale, la casetta sembrava il set del ‘Padrino’. Ragù, salami, spettacolini” biondo / adesso è diventato nero / segnerà presto per noi / si chiama Bryan Roy’. A Foggia mi trasferii per un anno. Con quel genio di Casillo e con Zeman diventammo amici. Fumavamo, scherzavamo: ‘Zdenek, tu di calcio non capisci veramente un cazzo’. Un giorno, con il campionato fermo per le nazionali, partono tutti e parto anch’io. Resto due giorni ad Angri e poi torno da Zeman: ‘Ciao mister, come stai?’. Silenzio. Gli offro una sigaretta. Lui è tirchissimo e accetta, ma non mi rivolge la parola: ‘Oh, ma che cazzo hai?’. ‘Dove sei stato? Se lasci Foggia mi devi avvertire, non conosci tavole della legge?’. ‘Hai bevuto ieri sera, mister? Io non sono un calciatore e tu non sei dio, faccio come voglio’. ‘O sei nel gruppo e rispetti le regole o sei fuori e te ne vai’, rispose. Ci pensai. Aveva ragione. Gli chiesi scusa. Gli ho voluto veramente bene. Ci siamo un po’ persi e mai veramente ripresi. Anni fa, con un colpo pazzesco, presi la procura di Nedved. Glielo andai a dire e sbiancò. Gli rodeva che avessi trovato un giocatore ceco e temeva che qualcuno potesse dire ‘Zeman ci guadagna’. Mi disse: ‘Lo devi lasciare stare’, gli risposi che non ci pensavo nella discutemmo e gli promisi di portarlo alla Lazio. Un giorno Zdenek mi telefonò in piena trattativa: ‘Tu sei pezzo di merda, non hai rispettato parola’. Per un equivoco con l’intermediario, Nedved rischiava di andare al Psv. Risolsi la grana e Pavel approdò a Roma. Zeman ne decise arbitrariamente lo stipendio: ‘200 milioni per ragazzo sono più che sufficienti’. Il resto della rosa guadagnava il quadruplo, litigammo e non ci parlammo per mesi. L’ingiustizia la sanò Zoff. Un signore. Come Cragnotti. Uno che non mi faceva sentire che lui era il re e io una merda”. Nedved è stato la svolta, ma non è che prima fosse l’ultimo dei capaci. La storia nasce in Olanda, si sa. E si lega molto con il punto uno del racconto che gli altri fanno di lui e che invece Mino, from Angri passando per Haarlem, racconta così: “Da Angri, capitale mondiale del pomodoro pelato, i miei si erano spostati in Olanda, ad Haarlem, in cerca di fortuna. Annunziata Canavacciuolo, mia madre, era l’ambizione e l’orgoglio. Mio padre Mario l’idealismo. Si compensavano. Vivevamo con uno zio panettiere e se toglie la parte criminale, la casetta sembrava il set del ‘Padrino’. Ragù, salami, spettacolini. Il periodo più felice della mia vita. I miei aprirono il ristorante Napoli, aperto 24 ore al giorno. Volevano rieducare gli olandesi: ‘Il cibo fa schifo, insegniamogli a mangiare’. Papà rientrava alle 4 del mattino, non lo vedevo mai, decisi di dargli una mano. Servivo ai tavoli e pulivo. Un giorno si presenta un cliente. E’ vestito male e sembra sporco. Non mi muovo. Sento la voce di papà: ‘Mino’. Non mi muovo. Ripete. Scatto. Era meglio non contraddirlo. Era dolce, ma sul lavoro si trasformava. Certe cose rimanevano tra noi. Se volava uno schiaffo, mi avvertiva: ‘Se ti lamenti con mamma ti do il resto’. Mi accorgo che quel cliente ha scelto la bottiglia più costosa e dico a papà: ‘Sei sicuro che possa pagare?’. Non alza neanche gli occhi dal giornale: ‘Mino esistono due tipi di clienti. Il cliente e il cliente. Stappa il Sassicaia e sbrigati’. Lo straccione era ricchissimo. Fu una lezione. Non giudico mai dalle apparenze, non mi vesto in giacca e cravatta come mi insegnò il mio professore di storia. In un ristorante cresci in fretta. Impari a prenderti le tue responsabilità. Oggi quando un affare fallisce non penso mai ‘è colpa degli altri’, ma sempre ‘è colpa mia’”. Avrebbe voluto fare il calciatore, Mino. L’Olanda era un bel posto dove farlo: “Ora sono grasso, ma ero forte. Smisi e pensai di diventare avvocato. Qualche esame di Legge l’ho anche sostenuto. Su certi aspetti legali ancora oggi non ascolto nessuno. E comunque l’Olanda c’entra molto con questa storia e con il suo successo, per molte ragioni. Una di queste è che è un posto dove accadono cose che altrove non possono succedere, sia per motivazioni storiche e culturali, sia per il fatto che in fondo numericamente è un piccolo Paese che ha sempre avuto bisogno delle intelligenze altrui. Quindi Mino, chiuso con il campo, diventò prima responsabile delle giovanili dell’Haarlem (squadra più vecchia d’Olanda), poi direttore sportivo della prima squadra, dopo aver convinto il presidente. Leggende e racconti incrociati dicono che ogni venerdì il presidente andasse a cena al ristorante della famiglia Raiola e che Mino, tra il serio e il semiserio gli dicesse più o meno così: “Di calcio non capisci niente”. Una volta la risposta fu: “Allora provaci tu, ti affido la squadra”. L’idea di fare il procuratore gli era già venuta. Aveva fondato una società di mediazione, la Intermezzo, nome non bellissimo quanto efficace. Per un po’ di tempo riuscì a tenere in piedi entrambe le cose, fino a un accordo con il sindacato calciatori olandese che stabilì che l’Intermezzo fosse l’unico soggetto autorizzato al trasferimento dei calciatori olandesi all’estero. Accadeva così già da tempo, nei Paesi Bassi. Prima di Mino, come ha ricordato Fulvio Paglialunga, c’erano Coster Cor e Apollonius Konijnenburg, che “con Piet Keizer (il primo calciatore olandese della storia ad aver ottenuto un contratto da professionista, con l’Ajax) avevano la Interpro, la società che aveva venduto Van Basten alla Fiorentina – secondo i retroscena più gustosi – nel 1986 (ma i viola fecero scadere l’opzione per dissidi interni e si chiuse con il Milan un anno dopo). E Coster Cor non era un qualunque faccendiere, ma un ricchissimo ex commerciante di diamanti e suocero di Cruijff, essendo padre della fotomodella Danny. Raiola comincia a mettersi di traverso, intuisce la possibilità di fare affari: l’Ajax, allora, prendeva giocatori dalle giovanili delle altre società a un parametro basso e poi li vendeva all’estero, Mino prima propone a Ferlaino di far comprare l’Haarlem dal Napoli, per fare la stessa operazione, poi ha visto tramontare tutto e ha cominciato a muoversi da solo, fino all’accordo con il sindacato”. La prima operazione vera in Italia fu “In un ristorante cresci in fretta… Oggi quando un affare fallisce non penso mai ‘è colpa degli altri’, ma sempre ‘è colpa mia’” proprio quella con che portò Roy al Foggia, seguita di lì a breve dal primo trasferimento importante, quello di Bergkamp e Wim Jonk all’Inter. Poi l’apertura all’estero con Nedved, poi il colpo vero, ovvero la procura di Zlatan Ibrahimovic. Che ha raccontato così il loro incontro: “Avevamo un tavolo prenotato lì, ma non sapevo che tipo di persona cercare, immaginavo un tizio in completo gessato con un orologio d’oro ancora più grosso del mio. Ma che razza di individuo era quello che entrò dopo di me? In jeans e T-shirt Nike e con ANNO XXI NUMERO 191 - PAG X IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 ric T. Bell, matematico che nel lontano 1937 diede alle stampe, in America, un libro che continua a essere ristampato ancora oggi in tutto il mondo, non perdonò mai Blaise Pascal, grande matematico oltreché filosofo del Seicento, di aver disperso il suo immenso talento per la matematica per inseguire la filosofia e in particolare, incredibile a dirsi, per dedicarsi a Dio. Il libro è “I grandi matematici” (“Men of Mathematics”) e se c’è un matematico dei 33 raccontati da Bell che il suddetto prende a pesci in faccia, bene, questi è per l’appunto Blaise Pascal. Di fronte alla scelta di Blaise di chiudersi nell’Abbazia di Port-Royal a 31 anni (ne camperà appena 39, inseguito dalle malattie sin dalla fanciullezza) per dedicarsi alla filosofia e alla teologia, dopo aver abbracciato il rigoroso credo giansenista, Eric T. Bell non riesce a trattenersi e lo descrive come “un matematico di genio che, abbandonandosi alle sue inclinazioni, è stato spinto verso ciò che oggi si chiamerebbe nevropatia religiosa, per cui si torturò a lungo e si dette a na meglio, secondo il vostro uzzolo, come si sarebbe detto una volta, perché dati oggettivi da prendere in considerazione non ce ne sono, cosicché tana libera per tutti. E allora? Cosa aggiunge Pascal a tutto questo, alla probabilità, alla concezione della probabilità soggettiva e a quella della probabilità oggettiva (che lungi dall’escludersi l’una con l’altra si completano a vicenda, e francamente non si capisce tutto l’azzuffarsi accademico tra i sostenitori dell’una e dell’altra)? Aggiunge sostanza, sostanza nel concepire, nel pensare la probabilità. Nella scommessa di Dio Pascal non calcola. Usa la probabilità, parla di probabilità, ma non calcola alcunché. Che deve calcolare? Potrebbe assegnare una sua probabilità soggettiva all’esistenza di Dio, e sarebbe indubbiamente il 100 per cento. Ma non lo fa perché se lo facesse non ci sarebbe scommessa. Dice anzi che “siccome c’è uguale probabilità di vincita e di perdita” ci conviene puntare sull’esistenza di Dio perché se vinciamo vinciamo “un’infinità di vita”, e non c’è niente che possiamo mettere sul piatto della scommessa che possa neppure lontanamente equilibrare l’in- La celeberrima scommessa sull’esistenza di Dio, che fu stroncata da Voltaire e Diderot, anticipa la teoria dei giochi Con la scommessa, Pascal ci chiede di accettare l’incertezza. Il pensiero probabilistico è l’arma che dà forma a questa accettazione speculazioni senza profitto su controversie settarie”. Mentre si “lasciò distogliere” dalla “creazione della matematica della probabilità” che, sempre secondo Bell, Pascal condivide con Fermat. E’ curioso che proprio il matematico Eric T. Bell non sia riuscito a rintracciare nei “Pensieri” di Pascal – il culmine della sua riflessione filosofico-morale, opera ancora capace di parlare agli uomini – anche la vetta del suo pensiero filosofico-matematico. Del resto, non è stato l’unico a non averne colto questo aspetto. Certo si tratta di filosofia matematica, ma Pascal getta fondamenta culturali più profonde della probabilità proprio parlando di Dio. Solleva la probabilità dal suo calcolo, ne fa una disciplina e una scienza proprio perché riesce a immetterla in una dimensione filosofica e culturale che non avrebbe assunto se fosse rimasta, come minacciava, puro calcolo e teoria schiacciata sul calcolo combinatorio. Celeberrima è la sua scommessa sull’esistenza di Dio, ancora oggi abbastanza poco compresa e certamente la più importante di quelle “speculazioni senza profitto su controversie settarie” cui si riferisce il Bell. Riepiloghiamola, ricorrendo alle stesse parole del filosofo-matematico. Pascal parte da un duplice assunto: che – primo assunto – l’esistenza (come l’inesistenza) di Dio non può essere provata dalla ragione umana e che – secondo assunto – per il fatto stesso di vivere l’uomo è costretto a scegliere (anche quando non ne ha piena coscienza) tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se Dio non ci fosse. La decisione da prendere, afferma Pascal, è scommettere sull’esistenza di Dio, in quanto “se vincete guadagnate tutto, se perdete non perdete nulla”. Pascal definisce questa conclusione in termini di probabilità, secondo questo ragionamento. “Siccome c’è uguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c’è uguale probabilità di vincere e di perdere. (…) Ma qui c’è effettivamente un’infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito” (“Pensieri”, 233). Siamo all’interno di un gioco partico- finito che c’è sull’altro piatto. Pascal ci chiede, con la scommessa, di accettare l’incertezza, espressa in termini di probabilità, più essenziale e profonda, più umana che possa esserci. Ma di accettarla predisponendoci ad essa in modo intelligente, così da poterne ricavare il massimo vantaggio. Accettate l’incertezza di quel che sarà, ma fatelo in modo intelligente, questo ci chiede Pascal. E nel chiederci questo ci dice altresì – ed è qui il centro filosofico-matematico del suo pensiero sulla probabilità – che la probabilità è il metodo che “accetta l’incertezza”. E’ solo accettandola, e dopo che sia stata accettata, infatti, che l’incertezza può essere definita, calcolata, affrontata. Nell’incertezza crescente di un mondo sempre più complesso, la probabilità si rivela il metodo scientifico più efficace. Sono talmente tante le variabili in gioco in questo mondo, nelle nostre vite, nelle relazioni tra gli uomini, nei rapporti tra le comunità statuali ed etniche, in quello che succede e che sarà, che nessun calcolo che pretenda di considerare tutto – ogni variabile e ogni relazione tra le variabili – è più possibile, che solo e soltanto ricorrendo a dosi più o meno cospicue di probabilità, di considerazioni e valutazioni fondate sulla probabilità, si può approdare a risultati apprezzabili. Accettare l’incertezza non è soltanto inevitabile, dunque, è intelligente, è razionale, concede un vantaggio. E la probabilità, il pensiero probabilistico, è l’arma che dà forma scientifica razionale a questa accettazione, quella che ci prepara tecnicamente ma anche culturalmente all’incertezza e ci permette di fronteggiarla. La probabilità è il metodo che accetta l’incertezza, cosicché di fronte alla scienza che ricerca la verità, che non chiede e insegue niente di meno della verità oggettiva (pur se falsificabile in senso popperiano, nel senso che quella verità può essere sottoposta alla verifica e alla smentita suggerita da nuovi dati di fatto, elementi, conoscenze che entrano in gioco), la probabilità è sempre lì a ricordare che l’incertezza, lungi dall’essere eliminabile, è costitutiva di quel che siamo e del nostro universo. Che non si può fare altrimenti che accettarla. Ma con intelligenza. E con il giudizio di una scienza, di un metodo, la probabilità, che accettandola, si getta nell’impresa di indagarla e rappresentarcela senza infingimenti, cosicché non possa sorprenderci e sconfiggerci. Almeno non senza che prima abbiamo provato a resisterle e senza che qualche volta riusciamo pure a vincerla. di Roberto Volpi E Blaise Pascal. Nei “Pensieri”, culmine della sua riflessione filosofico-morale, anche la vetta del suo pensiero filosofico-matematico IL DIO MATEMATICO L’equivoco su Pascal e il suo genio per i numeri sprecato. In realtà filosofeggiando di fede ha fatto della probabilità una scienza larissimo nel quale lo scommettitore che punta sull’esistenza di Dio ha una convenienza massima, la massima possibile: “Un’infinità di vita infinitamente beata”. La scommessa pascaliana, che anticipa in effetti la teoria dei giochi, fu stroncata senza pietà da Voltaire e Diderot che la definirono bassa e puerile e cinicamente utilitaristica, quando non addirittura una “mostruosità logica”. Va da sé che è stata screditata quando non irrisa fino ai giorni nostri. Scommettere sull’esistenza di Dio in base al concetto che c’è tutto da guadagnare e niente da perdere? Messa così la cosa, in effetti, sembra piuttosto sciocca e puerile e decisamente opportunistica. Punta su Dio, tu che non sai da che parte stare, punta su Dio perché non hai niente da perdere e tutto da guadagnare (sottinteso: se vinci). E questa sarebbe dunque la religiosità, la fede, il grado di convinzione che un rigorista del calibro di Pascal chiedeva ai suoi simili perché riuscisse- Nelle azioni che compiamo, in tutte le decisioni che prendiamo non facciamo che immettere valutazioni in termini di probabilità ro a meritarsi il paradiso? Il centro della questione per i tanti critici anche odierni di Pascal non sta, si badi, in quel “tutto da guadagnare” bensì in quel “niente da perdere”. Non si perdona al filosofo-matematico quel reclamizzare, se mi si passa il termine, il niente da perdere cui si andrebbe incontro a scommettere su Dio. Qui è l’opportunismo, nel niente da perdere, anche nell’eventualità che, se Dio non esistesse, si perdesse la scommessa. Troppo facile, accusano i tanti critici: se si vince si vince un’infinità di vita, se si perde non si perde un bel niente. E do- ve vanno a finire allora l’autenticità del sentimento religioso e il senso della responsabilità personale? Ma se leggiamo bene Pascal e i suoi pensieri scopriamo che cosa davvero egli intende con “niente da perdere”. Niente da perdere secondo la sua concezione di questa vita e dell’altra, niente da perdere secondo il metro delle sue idee morali, della sua coscienza. Votarsi a una vita terrena pia e casta? Rinunciare ai beni terreni? Alle passioni eccessive? Tutto e non niente da perdere, per chi se ne sbatte dell’aldilà, per chi non ha dubbi e sceglie il qui e ora, l’hic et nunc, e pure per chi, soppesando le alternative con cuore e ragione, opta per la vita terrena, con tutto quel che può presentare e offrire, senza lasciarsi condizionare da alcuna aspettativa trascendente. “Che avete da perdere? Queste pratiche [religiose, di devozione] vi portano a credere, perché placano le passioni che sono il vostro grande ostacolo”, dice Pascal per controbattere alla possibilità che di là non ci sia nulla, nessun Dio, nessun Paradiso. Avete scommesso su Dio e perso, ma avrete pur sempre vissuto una vita pia, devota, buona. Non avrete comunque da lamentarvi, avrebbe potuto aggiungere Pascal. Non lo ha fatto, ma senz’altro lo avrà pensato. Occorre onorare la scommessa, ecco quel che è chiaro del ragionamento pascaliano. E onorarla significa vivere una vita pia, devota buona. Facile? Per Pascal, ma non certo per tutti. Cosicché la scommessa ci appare ben più equa di quanto non appaia agli occhi di Pascal. Per lui è scommessa squilibratissima, perché lui non sente il sacrificio di una vita pia, devota, buona, mentre il premio che lo aspetta, e di cui è sicuro, gli appare immenso. Ma mica tutti sono Pascal. Ma se l’aspetto più propriamente morale e religioso della scommessa pascaliana è troppo spesso equivocato, l’a- spetto della concezione della probabilità che si affaccia, con forza, dalla scommessa su Dio di Pascal è pressoché ignorato, quasi che questo secondo aspetto non meritasse considerazione per essere, diversamente dal primo, privo di novità e interesse – immerso com’è, oltretutto, dentro una scrittura e un’atmosfera così lontane dal linguaggio e dalla forma della matematica. Ma intanto, chiediamoci, che cosa fa la probabilità? Calcola. Se ci pensate bene non fa altro che questo: calcola le probabilità che vengono assegnate a eventi che debbono ancora verificarsi. De Finetti, il grande matematico probabilista italiano non era così convinto che esistesse. “La probabilità: chi è costei?”, si chiedeva in modo volutamente provocatorio. “Prima di rispondere alla domanda è certamente opportuno chiedersi: ma davvero ‘esiste’ la probabilità? e cosa mai sarebbe? Io risponderei di no, che non esiste”. Salvo poi aggiungere: “Mah! Potrei anche dire, viceversa e senza contraddizione, che la probabilità regna ovunque, che è, o almeno dovrebbe essere, la nostra ‘guida nel pensare e nell’agire’”. La probabilità regna ovunque, nel senso che in fondo in tutte le azioni che compiamo, in tutte le decisioni che prendiamo non facciamo che immettere, anche quando non ce ne accorgiamo, valutazioni in termini di probabilità. Ma ognuno le fa a modo suo, queste valutazioni, non c’è dunque una probabilità oggettiva, ci sono molteplici modi – tanti quanti sono gli uomini, in fondo – di fare valutazioni probabilistiche su quel che sarà. Vero. Ma questo è solo un aspetto della probabilità. E De Finetti naturalmente era il primo a saperlo. Se lancio una moneta per aria si presenterà sempre una faccia, e non due o nessuna, e dunque la probabilità tanto di “testa” che di “croce” sarà comunque di un mezzo – 0,5 – mai 0 o 1. Se i modi di presentar- si di un evento possono essere calcolati con esattezza matematica non c’è niente che tenga: siamo nel campo della probabilità oggettiva e qualcuno potrà pure distaccarsene, fregarsene o ignorarla, ma ciò non toglie che ci sia e che sia quella. Se si mettono al mondo due figli è più probabile che siano un maschio e una femmina e non due maschi o due femmine per la buonissima ragione (probabilistica) che l’evento due maschi e l’evento due femmine hanno un solo modo di presentarsi che possiamo indicare con MM e FF a seconda che trattasi di due maschi o di due femmine. Ma l’evento un maschio e una femmina ha due modi, due possibilità, di presentarsi: MF o FM, nel primo nasce prima il maschio e poi la femmina, nel secondo prima la femmina e poi il maschio. Cosicché i due figli possono presentarsi secondo queste quattro possibilità: MM, MF, FM, FF. Risultato: la probabilità di avere un maschio e una femmina è pari a 2 su 4, ovvero a 0,5, Se si mettono al mondo due figli è più probabile che siano un maschio e una femmina e non due maschi o due femmine quella di avere due maschi è pari a 1 su 4, ovvero a 0,25, così come è di 1 su 4, ovvero di 0,25, quella di avere due femmine (con il totale che fa 4 su 4, ovvero 1, ovvero ancora la certezza, dal momento che una di queste possibilità si verificherà sicuramente). Ecco la probabilità oggettiva, andatele pure contro, ma lo fate a vostro rischio e pericolo, perché questa probabilità si basa sulle modalità/possibilità che hanno gli eventi di presentarsi. Se invece volete calcolare la probabilità che vi capiti di vedere un Ufo o di incontrare un morto vivente, uno zombi, beh, fate un po’ come vi tor- ANNO XXI NUMERO 191 - PAG XI IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 SPETTATORI PER UNA SETTIMANA NUOVO CINEMA MANCUSO scelti da Mariarosa Mancuso EQUALS di Drake Doremus, con Kristen Stewart, Nicholas Hoult, Guy Pearce, Jacki Weaver IL DRAGO INVISIBILE di David Lowery, con Bryce Dallas Howard, Oagles Begley, Robert Redford arebbe stato un incontro interessante, fuori da questo film. Kristen Stewart era la ragazza innamorata del vampiro vegetariano – solo sangue animale, mentre i vegani della serie “True Blood" bevono sangue sintetico – nella saga “Twilight”. Nicolas Hoult aveva recitato con il cappello peruviano in “About a Boy - Un ragazzo” (da Nick Nornby, con Hugh Grant) ed era lo zombie carino di “Warm Bodies”, divoratore di cervelli per fame e per amore dei ricordi altrui. In questo film, tutto bianco e azzurrino – siamo una totalitaria società di eguali con uniformi e scarpette più eleganti delle solite distopie – sono un Romeo e una Giulietta assai impacciati (e dire che hanno contro l’intera società, con guardie e scienziati). I sentimenti sono fuorilegge, se per caso si ripresentano sono considerati una malattia da curare, con l’isolamento e metodi brutali. Quanti film abbiamo già visto, con questa trama? Innumerevoli, trattasi infatti di un classico della fantascienza riproposto di continuo, variando spezie e salsine. A memoria, son tutti film più interessanti di “Equals”, che riduce gli elementi al minimo, e vanta un regista più interessato agli spazi che ai personaggi. S N LA NOTTE DEL GIUDIZIO - ELECTION YEAR di James DeMonaco, con Elizabeth Mitchell, Frank Grillo N iente più 4 luglio, niente Festa del Ringraziamento. I Nuovi Padri Fondatori d’America hanno istituito la Notte del Giudizio: dodici ore di impunibilità per tutti i delitti. Anche le idee migliori degenerano, e in questo terzo film una candidata alla presidenza vuole abolire la fatale nottata (nel prologo le hanno massacrato la famiglia). A parte le questioni personali, le statistiche indicano molti morti tra i poveri, i barboni, i neri e gli ispanici. I Nuovi Padri Fondatori negano, e minacciano il “dove andremo a finire, un pilastro della nostra cultura crollerà” (anche il turismo: una banda di russi attacca in costumi e maschere da George Washington). Vanno a messa per celebrare “la notte che salvò il paese”, e vista non tutti vogliono giocare pulito contro la bionda abolizionista (più spesso chiamata “la stronza”). “Election Year” risulta perfettamente sintonizzato con Hillary Clinton candidata, e i conservatori che come Donald Trump issano cartelli e maschere con lo slogan “Make America Great Again”. La struttura è solida, i riferimenti politici gustosi, i colpi di scena azzeccati, il ritmo frenetico. Non è che capiti spesso. EL ABRAZO DE LA SERPIENTE di Ciro Guerra, con Jan Bijvoet, Brionne Davis, Luigi Sciamanna, Nilbio Torres 1001 GRAMMI di Bent Hamer, con Laurent Stocker, Ane Dahl Torp, Magne Håvard Brekke, Dinara Drukarova F ilm di interesse etnografico, girato in Colombia con un bianco e nero così splendente che sembra l’abbiano lucidato. Come gli addominali dell’indigeno, che porta al collo un pendente fallico e trasuda fierezza. Tranne poi aiutare non uno ma due antropologi, a distanza di qualche decennio, in cerca della yakruna, pianta che guarisce e provoca allucinazioni (il trip, verso la fine del film, è girato a sgargianti colori). L’orgoglio indio si abbatte più volentieri sugli indigeni venduti all’uomo bianco, il nostro invece se ne sta in posa plastica da diorama, e appena sente il rumore di una canoa – peggio se il motore di una barca – si ritira dietro le frasche. “L’unica cura è imparare a sognare”, annuncia, poi cede e presta aiuto, con pappette mediche ed esercizi spirituali. Non manca la scena con i ragazzini che prendono in giro l’antropologo, inetto ai loro occhi. Da accoppiare – per un po’ di ironia che qui latita – con “Euforia” di Lily King (Adelphi). I nomi nel romanzo sono cambiati, per proteggere i colpevoli, ma si tratta di Margaret Mead e del suo secondo marito Gregory Bateson (con il primo marito ancora tra i piedi, e gli indigeni dispettosi). Q GHOSTBUSTERS di Paul Feig, con Kristen Wiig, Melissa McCarthy, Kate McKinnon, Chris Hemsworth LIGHTS OUT - TERRORE NEL BUIO di David F. Sandberg, con Maria Bello, Gabriel Bateman, Teresa Palmer LE SORELLE PERFETTE di Jason Moore, con Tina Fey, Amy Poehler, Kate McKinnon, Maya Rudolph I P F on è che lo hanno rifatto per la moda dei remake. Lo hanno rifatto perché l’originale del 1977 – “Elliot e il drago invisibile”, un misto di attori, effetti, speciali, canzoncine diretto da Don Chaffey – poteva solo migliorare. Per dire, il drago era verde con due alucce rosa, e rosa era pure il ciuffo alla Donald Trump (aveva la capacità di rendersi invisibile ma non la usava mai abbastanza). Lo suggerisce Flavorwire, con qualche ragione. I fan non hanno protestato. Come nessuno si era scomodato – con slogan del tipo: “Nessuno tocchi Ghostbusters” – per il brutto remake in 3D e live action di “Il libro della giungla”: gli animali disegnati dalla ditta Disney prima maniera erano una gioia, gli animali zoologicamente corretti fabbricati al computer dalla Disney seconda maniera sono uno spreco. Per Mowgly hanno preso un attore-sosia, con un sovrappiù di antipatia, e l’orso Baloo – pare fatto con un tappeto pulcioso – canta le stesse canzoncine. Il “Drago invisibile” anno 2016 cambia anche un po’ la trama. Un vecchio forestiero – Robert Redford con le rughe a ragnatela – racconta favole. Un ragazzino nei boschi vanta un drago per amico, ma nessun altro riesce a vederlo. adorabile Adam Sandler è stato davvero valorizzato solo da Paul Thomas Anderson in “Punch-Drunk Love”. Funzionava benissimo anche in coppia con Seth Rogen nel film di Judd Apatow intitolato “Funny People”. il regista Tom McCarthy, il regista costruì un film addosso a Peter Dinklage molto prima che fosse scritturato come Tyrion Lannister in “Game of Thrones”. Un po’ on the road. Un po’ non è mai troppo tardi per cambiare vita. Stesso tema di questo film, girato prima di “Il caso Spotlight”, giornalisti contro preti pedofili Adam Sandler lavora come ciabattino, nella bottega di famiglia (ebraica) da varie generazioni (siamo nel Lower East Side, e dove se no?). L’aria malinconica diventa terrore quando prova le scarpe di un cliente, si guarda allo specchio, e vede la faccia del cliente (“prima di giudicare qualcuno devi camminare un miglio con le sue scarpe” dice il saggio, e via con il realismo magico). Mr Cobbler coglie l’occasione per farsi un giretto da figo, un altro da nero, un altro ancora da genitore morto (mentre lo spettatore fa i suoi sbadigli). Un po’ poco, per fare il verso alla frase di Spider-Man: “Un grande privilegio comporta grandi responsabilità”. Se ne parlava anche al supercinefilo Festival di Locarno. Giovani critici arrivati da mezzo mondo per un workshop – ottenuto dichiarando la propria passione per i film del tailandese Apichatpong Weerasethakul o per l’italiano Pietro Marcello con il bufalo parlante di “Bella e perduta” – al minimo pretesto svoltavano verso “Suicide Squad”. Per stupirsi davanti ai record (326 milioni di dollari già in cassa, se ne prevedono altri 60 nel prossimo fine settimana Usa, mentre la Cina manca all’appello causa censura). Per lamentarsi di non essere stati invitati all’anteprima blindata. Per dire che è solo marketing, essendo il film perfino più brutto di come viene dipinto dai critici americani. Per dire che Margot Robbie sta sulle copertine truccata da Joker, con le cosce e la lingua di fuori, che brutta faccenda (erano così concentrati sui suoi calzoncini che hanno dimenticato l’altra femmina del film, Clara Delevingne vestita da strega) I fan del fumetto targato Dc Comics – il film di David Ayer è una battaglia nella guerra che schiera la dinastia fumettistica, al cinema alleata con Warner Bros., contro la Marvel di “Spider-Man” – volevano far chiudere “Rotten Tomatoes”. Sito che si limita ad aggregare recensioni, e a tirare le somme: il film non arriva a cinque punti sui dieci a disposizione. Su “Metacritic” (altro sito, non ancora molestato dai maniaci che pretenderebbero ottime critiche, non bastano gli incassi, alla faccia dei “guilty pleasure”) il voto dei critici arriva a 40, neppure la sufficienza sui 100 a disposizione (garantita invece dal pubblico che lascia i suoi giudizi). Chi sale sopra la media ha solidi motivi: “Un dito medio alzato all’indirizzo dei compassati supereroi”, scrive il critico di Usa Today. E’ opinione abbastanza diffusa che il trailer sia migliore del film. Esce oggi, 13 agosto, con coraggiosa rottura della noia estiva (o forse è soltanto prudenza: il pubblico di riferimento si muove su internet con destrezza, sa come procurarsi le ghiottonerie quando le vuole). In effetti il trailer è piuttosto riuscito – per i censori: c’è Margot Robbie pettinata con i codini che guarda una pistola come avrebbe potuto farlo ai suoi tempi Mae West. Trama: serve una squadra davvero capace, contro la solita minaccia che spazzerà via l’umanità, i supercriminali vengono fatti uscire dalle galere. Missione compiuta e sarà grazia ricevuta. Il fumetto risale al 1959, l’idea verrà riciclata splendidamente in “1997: Fuga da New York” di John Carpenter. Solo un avanzo di galera come Jena Plisskin può salvare il presidente degli Stati Uniti, precipitato nel carcere di massima sicurezza che occupa tutta l’isola di Manhattan. Se progettassero adesso un remake, magari con un presidente donna, probabilmente la poveretta verrebbe abbandonata al suo destino nella fossa dei leoni. ragazzi degli anni 80 sputano sul remake di “Ghostbusters”. Non l’aveva ordinato il dottore, però tra i produttori c’è Dan Ackroyd, acchiappafantasmi sarcastico con i disturbatori: “zecche, avete a malapena i soldi per la connessione a internet”. Non era neanche necessario girarlo con quattro donne. Ma il regista ha la sua crociata: dimostrare che le femmine possono far ridere e far incassare quanto gli uomini (che tenerezza, si parla ancora di donne e di uomini, non di supereroi o di supereroine, mentre Wonder Woman è già su tutte le copertine, con un anno d’anticipo sull’uscita del film). Fanno ridere, ma non sempre, e certi scambi veloci son massacrati dal doppiaggio. Per esempio, il colloquio per l’assunzione del segretario - uno scemissimo Chris Hemsworth che inciampa, non sa rispondere al telefono, e porta occhiali senza lenti così non si sporcano. La caccia ai fantasmi rifà il vecchio film. L’ingegnera Kate McKinnon è la più bella e la più brava. La nera Leslie Jones fa parte dell’operazione nostalgia: era ugualmente inutile il nero Ernie Hudson nel film originale. Forse anche ugualmente ridicolo, ma allora non c’erano i social e la passò liscia. aura del buio? E’ un terrore che condividiamo con i nostri antenati che si aggiravano nelle foreste, spiega A. Alvarez in “Night” (bellissimo saggio dedicato alla notte, secondo la poetessa Emily Dickinson “la parte migliore del giorno”). Uno spaventoso corto di tre minuti messo su YouTube, e il finora sconosciuto svedese ha attirato l’attenzione di Hollywood. Da qui il lungometraggio, un po’ stiracchiato e basato sulla stessa idea. Con la luce accesa tutto è normale, appena spegni l’abat-jour, o anche il lampione in strada, una forma tra l’umano e il mostruoso appare. Accendi la luce, e scompare. Spegni di nuovo la luce e la sagoma si avvicina. Non è proprio come “Paranormal Activity” – che succede di notte in casa tua?, metti in funzione una telecamera e vedrai chi nella notte arriva a tirarti via le coperte del letto. Ma con più attenzione ai personaggi e alle svolte del racconto poteva funzionare. Così è una sfilata di scene madri – piuttosto spaventose, va ammesso – con personaggi da sbadiglio. Intermezzo comico, l’aspirante fidanzato che vuole stabilirsi in casa della fanciulla, nasconde un calzino nel cassetto, e se lo vede rilanciare dalla finestra. Terrosisti, vegani, animalisti coreani. Ecco chi può vincere il Pardo d’oro MR COBBLER E LA BOTTEGA MAGICA di Tom McCarthy, con Adam Sandler, Melonie Diaz, Steve Buscemi L’ Popcorn Squad U na programmazione giudiziosa – del tutto involontaria – ha portato in Piazza Grande a Locarno due film imparentati. “Le ciel attendra” LOCARNO 2016 di Marie-Castille Mention-Schaar raccontava due sedicenni francesi arruolate in nome del Corano. “Vincent” di Christophe Van Rompaey raccontava un diciassettenne belga che tra un tentativo di suicidio e l’altro fa propaganda vegana. Imparentati per l’escalation: sbandamento, un po’ di letture su internet – hanno la misura giusta, non come il manuale per prepararsi al parto che la ragazza incinta dice di non essere riuscita a finire, “c’era troppo testo” – e ogni occasione è buona per convertire. Da una parte il consumismo che ottunde e l’11 settembre già previsto sulle banconote. Dall’altra parte l’impronta carbonica e gli allevamenti intensivi. In comune le scie chimiche e il terrorismo: Vincent comincia bucando gomme a chi parcheggia nel posto degli handicappati. Prosegue cercando di immolarsi davanti alla Tour Eiffel, fuggito da casa con la ziastra parigina. Quando la mamma belga cerca di scassinare la casa della sorella, i vecchietti della porta accanto chiamano la polizia: “Ci sono due arabi belgi sul pianerottolo, venite subito”. Sono i film che richiamano il pubblico pagante, spesso esaurendolo. Il Ticino ha 350 mila abitanti – i sessantamila frontalieri si suppone vadano al cinema fuori confine, quando rientrano a casa – e un’anteprima con seimila spettatori può fare la differenza. Grande attesa per “I, Daniel Blake” di Ken Loach, vincitore a Cannes 2016, e lacrime copiosamente versate per l’unico pensionato britannico che non sa usare internet. E una ragazza con due figli che vive di assistenza sociale, entrambi i padri sono fuggiti. Mandati a letto i piagnoni, i nottambuli hanno goduto “Tunnel” di Kim Seong-Hun, strepitoso film catastrofico tutto ambientato in una galleria. Crollata, su un poveretto che torna a casa con la torta di compleanno della figlia, e non ha in automobile neanche un carichino per il cellulare. Si vanno a prendere i progetti e si cerca di portare soccorso, in due ore tesissime. “L’asso nella manica” di Billy Wilder fa da riferimento, con aggiustamenti orientali. E viene confermata una delle più solide regole non scritte del cinema internazionale: puoi fare una strage di umani, e te lo perdoneranno; ma guai a te se muore un animale. Siamo in Corea, l’animale è un carlino, entrano in gioco altre variabili. Il concorso non ha dato quest’anno grandi soddisfazioni (eufemismo). Eravamo sospettosi per la presenza massiccia di pellicole portoghesi. Visto “O ornitologo” di Joao Pedro Rodrigues confermiamo il pregiudizio: il cinema non è cosa loro, e De Oliveira (parlandone da vivo) lo ha dimostrato. Su Internazionale Francesco Boille, fervido sostenitore della magia lusitana, scrive invece: “Un film sulla primordialità che è in noi, vista come elemento della nostra santità” (sarà che siamo scarsi in entrambe le materie). Potrebbe vincere, per come funzionano le giurie in generale e lo spirito di Locarno in particolare. Si vede un ornitologo che cerca la cicogna nera, sperduto in una remota località del Portogallo. Si imbatte in due cinesine che lo legano e un po’ torturano. Lui però preferisce un giovanotto che incontra di lì a poco, e finirà per pugnalare. Dopo aver assistito ai balli di uomini mascherati. Prima di vedere signorine con l’arco e le frecce tipo amazzoni (ma con entrambe le tette). Finale a Padova – proprio con il cartello bianco “Padova”: l’ornitologo si rivela essere Sant’Antonio (Antonio de Lisboa, per i portoghesi). Potrebbe vincere il Pardo d’oro, dicevamo. E poi dice che uno si butta sul circo. “Mister Universo” di Tizza Covi e Rainer Frimmel – anche se la prima mezz’ora spinge alla fuga, tra leoni spelacchiati e altre tristezze – riesce poi a trovare una sua strada. Almeno i personaggi sono vivi. Lo stesso vale per “Marija” di Michael Koch: parte come un film dei Dardenne, ma invece di passare di sfiga in sfiga la ragazza licenziata – rubava in albergo invece di pulire – sa cosa vuole. Mariarosa Mancuso uanto pesa un chilo? Dipende se prima di pesarlo lo si lava oppure no: in materia esistono due scuole, finora note soltanto agli scienziati che lavorano all’Istituto dei pesi e delle misure. Sapevamo che il chilo campione – un cilindrotto di Platino e Iridio – era conservato a Parigi (assieme al metro campione). Scopriamo che esistono altri pesi di riferimento, uno custodito in Norvegia. Bent Hamer ha un debole per l’assurdo, scovato finora tra gli ispettori svedesi che misurano i passi fatti in cucina dalle casalinghe norvegesi (“Kitchen Stories", 2003) oppure tra i ferrovieri pensionati che riconoscono il rumore delle locomotive storiche (il film era “Il mondo di Horten", mentre in “La bestia umana” di Emile Zola i macchinisti avevano un nome per ognuna e ne riconoscevano gli sbuffi di vapore). Qui siamo tra pesi e misure, automobiline elettriche, appartamenti che paiono ospedali, un padre morente e una figlia mandata a Parigi per sostituirlo con il prezioso peso (in dogana non sanno bene come comportarsi). “Vediamo se il nostro chilo ha messo su peso” è la battuta. Le inquadrature sono fisse, a simmetria centrale, come un Wes Anderson surgelato. inirà questo agosto, certo che finirà. E potremo tornare al cinema senza vergognarci. Per ora, purtroppo, neanche questo surgelato con Tina Fey dà soddisfazioni (lo hanno girato nel 2015, anche il dvd è disponibile da un bel po’). Sono imbarazzi e dolori da cui non ci si riprende facilmente, pensavamo che la comica avesse il tocco magico, o almeno che leggesse bene le sceneggiature. Terza possibilità: che fosse un progetto folle come “Whiskey Tango Foxtrot”, commedia romantica con Kabul a far da sfondo (viene voglia di rivedere “30 Rock”, per rifarsi la bocca). La coppia con Amy Poehler funziona così così, non si capisce bene quale delle due sia la spalla. La mezza trama con la sorella assennata e bionda che fa l’infermiera e paga il mutuo, mentre l’altra sorella bruna fa la parrucchiera e ha una vita disordinata – tanto che la figlia di nascosto vive con la zia – funziona anche meno. Peggio che mai l’altra mezza trama: rifare con due femmine una “Notte da leoni” (ma senza l’adorabile Zach Galifianakis), e collocarla dopo che le due hanno svuotato la cameretta della loro infanzia dai peluche. Ordine dei genitori, che stanno per vendere la casa. STAR TREK BEYOND di Justin Lin, con Chris Pine, Zachary Quinto, Zoe Saldana, Simon Pegg, Anton Yelchin L a componente nostalgia bilancia la componente fracassona introdotta da Justin Lin di “Fast & Furious”. Lo ha scelto J. J. Abrams, che nel 2009 – sulla scia di “Lost” – diede una botta di energia cinematografica a Spock e a tutto l’equipaggio. Troppa energia, forse. Vedere il vulcaniano privo di emozioni che si fa spiegare come funzionano le donne – quando dicono “è colpa mia”, vuol dire che la colpa è tua – un certo brivido ai vecchi spettatori lo procura. La magnifica Yorktown dove l’Enterprise fa tappa sembra disegnata da Escher, il reparto effetti speciali l’ha popolata con 50 specie aliene. Serve per compensare un cattivo a una sola dimensione. “Con la Federazione vi siete impigriti, dovete lottare per sapere chi siete” sbraita Krall nella sua lingua, con dentini da “Alien”. Passo successivo: mettere le galassie a soqquadro in cerca di una pietra sagomata. I nostri la stavano per buttare via. Peggio, la stavano per regalare a un popolo che giustamente si incazza, preso atto del riciclo. I dettagli sono a posto, perfino le tute sembrano ripescate in un negozio dell’usato. Mancano una missione – e una trama – davvero appassionanti. ANNO XXI NUMERO 191 - PAG XII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 13 E DOMENICA 14 AGOSTO 2016 L’IMPERATRICE SENZA VOCE Il messaggio alla nazione di Akihito è una richiesta d’aiuto. Ma dietro l’uomo che vuole riformare il Trono del Crisantemo c’è una donna che gli ha dedicato la vita l messaggio che è stato diffuso lunedì scorso dell’imperatore del Giappone, forse il più importante atto politico della sua vita, era stato registrato la sera prima, nel Palazzo Imperiale di Tokyo. Le immagini di quel video hanno fatto il giro del mondo: l’ottantaduenne Akihito, il “simbolo” del Giappone e dell’unità del suo popolo – così com’è scritto nella Costituzione giapponese – sedeva da solo alla scrivania, e il suo volto tradiva molto più delle parole la gravità del messaggio che stava lanciando. Una richiesta d’aiuto, a tutto il popolo nipponico: lasciatemi libero. Ma libero da che cosa? Abdicare, nel Giappone moderno, è semplicemente impossibile. La Kunaicho, la potentissima Agenzia della Casa imperiale che controlla vita e morte dei regnanti di Tokyo, come sempre ha lasciato trapelare ben pochi dettagli su quel discorso. Una cosa però si può supporre. Mentre Akihito pronunciava quelle parole quantomeno destabilizzanti per la dinastia imperiale più antica del mondo, davanti a lui, e come sempre dietro le telecamere, c’era Michiko. Fino al periodo Edo l’abdicazione degli imperatori era una pratica piuttosto diffusa – che fosse volontaria oppure forzata. L’ultimo imperatore ad abdicare fu Kokaku, che lasciò al figlio l’impero nel 1817. Per rendere l’idea delle generazioni passate nel frattempo, basti anche dal fatto di non essere riuscita a dare al marito – e ai giapponesi – un figlio maschio. Naruhito l’ha sempre difesa, parlando di una incapacità della moglie di “adattarsi” alla vita imperiale, ma sui tabloid giapponesi di tanto in tanto ancora oggi vengono pubblicati articoli contro Masako, che non svolge il proprio ruolo. In un’intervista a Panorama di qualche anno fa, la famosissima scrittrice giapponese Nanami Shiono, amica dell’imperatrice Michiko, disse di lei: “Masako era la speranza delle donne giapponesi. Oggi, con il suo rifiuto di assolvere i doveri pubblici e i suoi gusti da arricchita, è la nostra vergogna”. E poi: “Dopo il terremoto, correre a confortare quella povera gente sarebbe stata un’occasione per recuperare. Invece lei non va. Come non esce a salutare quei giapponesi che arrivano da ogni parte del paese per pulire, gratis, il palazzo imperiale. Così distrugge l’immagine del principe ereditario. Il popolo si è staccato da lei”, ha detto. Le immagini di Akihito e Michiko dopo il terremoto e lo tsunami dell’11 marzo del 2011 sono invece impresse nei cuori dei giapponesi. Dopo la tragedia, l’imperatore inviò un videomessaggio a reti unificate, e poi, insieme con la moglie, andò a visitare i centri per sfollati, rompendo ogni regola di etichetta. Come dire: non è il tempo delle regole, è il tempo della compassione, della misericordia. Questo atteggiamento ha avvicinato la coppia imperiale alla gente. Lo stesso hanno fatto i discorsi piuttosto progressisti di Akihito, che ogni Capo- Mentre l’imperatore registrava il suo videomessaggio alla nazione, dietro le telecamere c’era lei, Michiko Nonostante le regole rigide, ha sempre rispettato i suoi doveri. A differenza della nuora Masako, la “principessa triste” pensare che Kokaku era il 119esimo imperatore del Giappone, Akihito è il 125esimo. Dall’Ottocento il mondo si è trasformato, il Giappone ha cambiato volto, e le lotte di potere tra shogunati e il potere politico imperiale sono finite con l’inizio della Restaurazione Meiji (1866). Ottant’anni dopo, gli americani che riscrissero la Carta giapponese subito dopo la fine della guerra e la resa incondizionata di Tokyo lasciarono il padre di Akihito, Hirohito, al suo posto d’imperatore. Secondo gli storici lo fecero per non privare i giapponesi della giusta motivazione per affrontare il Dopoguerra dopo due Bombe atomiche. Il trono del Crisantemo fu spogliato però di tutte le caratteristiche che fino ad allora avevano costituito l’impero giapponese, rendendo quella dell’imperatore una figura prevalentemente di rappresentanza. Dopo il 1946, chi siede sul trono non ha più una “natura divina”, e fu lo stesso Hirohito ad annunciarlo in un celebre discorso trasmesso alla radio il 1° gennaio del 1946 (la dichiarazione sulla natura umana dell’imperatore, il Ningen sengen). Ma soprattutto, l’imperatore non era più il comandante in capo, e gli era preclusa qualsiasi interferenza con la politica. E’ anche per questo che furono invece lasciate le tradizionali regole di successione – regolate da legge ordinaria parlamentare – di padre in figlio (rigorosamente maschio), e rimase pure la norma secondo la quale “l’imperatore resta in carica fino alla sua morte”. Perché le “dimissioni”, altrimenti, si sarebbero potute usare per scopi politici. Nonostante queste rigide regole sull’interferenza, da quando è entrato in carica ventisette anni fa Akihito si è spesso lasciato andare a considerazioni vagamente politiche, soprattutto in quest’ultima fase di regno, con il Kantei – il palazzo del governo di Tokyo – occupato dal falco conservatore Shinzo Abe. Qualunque proposta di legge che dovesse modificare le regole della successione, oggi, sarebbe subordinata a un dibattito parlamentare e a uno scontro politico. Per capire il desiderio di Akihito di danno ricorda quanto male il Giappone ha fatto ai suoi vicini, vagamente opponendosi alla revisione costituzionale che vorrebbe far riavere a Tokyo il diritto di possedere un esercito (e di ingaggiare una guerra). La coppia imperiale viene da una Tradizione conservatrice, ma attualmente sembra l’opposizione più progressista e pacifista della politica giapponese. A questo si aggiunge il fatto che l’ottanta per cento dei cittadini appoggia la decisione dell’imperatore di volersi ritirare. E allora, chi si oppone al suo pensionamento? Il messaggio di Akihito sulla riforma costituzionale per permettere l’abdicazione non riguarda solo la sua sofferenza fisica nel continuare a 82 anni a rappresentare la nazione. E’ una questione politica, che ha a che fare con la religione. “La Costituzione del Dopoguerra separa esplicitamente la religione scintoista dallo stato e trasforma l’imperatore giapponese in un capo dello stato simbolico”, scrive Sheila A. Smith in “Intimate rivals”. “Questa riforma non fu gradita da molti giapponesi. Per questo lo Yasukuni, il santuario scintoista, diventò il luogo di raduno per tutti coloro che cercavano di contrastare la narrazione del Dopoguerra, che nasceva dal Tribunale di guerra dell’Estremo oriente e che accusava il Giappone di crimini durante la prima metà del Ventesimo secolo”. Lo Yasukuni creò una spaccatura nel corso degli anni, e divenne il simbolo della restaurazione scintoista (anche per questo Shinzo Abe, e prima di lui Junichiro Koizumi, crea enormi fratture diplomatiche ogni volta che fa visita al santuario). La natura umana e progressista del Trono del Crisantemo si scontra quindi con la visione conservatrice dell’establishment di Shinzo Abe, una visione che condivide con gran parte dei membri del suo governo (compresa la nuova ministra della Difesa, Tomomi Inada) e con la nuova governatrice della città di Tokyo, Yuriko Koike. A oggi, gli unici alleati del riformismo della coppia imperiale sono il Partito comunista nipponico, e i giapponesi. di Giulia Pompili I L’erede al trono del Crisantemo Akihito incontrò Michiko nell’estate del 1957, durante una partita di tennis a Karuizawa. (foto LaPresse) rinnovare l’istituzione più antica del Giappone, di cambiarla dal suo interno – non solo lasciandolo libero di abdicare ma anche modificando la successione maschile – e per spiegare quanto la vita all’interno delle mura di cinta del Palazzo imperiale sia ferma a settant’anni fa, mentre il mondo fuori cambia, vive, si rinnova, è sufficiente raccontare la vita di una donna che da ventisette anni è prigioniera del suo ruolo. Senza voce. Per fare una passeggiata a Tokyo, Michiko, l’ottantunenne moglie dell’imperatore del Giappone deve chiedere l’autorizzazione alla Kunaicho quattordici giorni prima. Il protocollo dell’Agenzia – un carrozzone burocratico composto da milleduecento dipendenti che comprende i funzionari, il cerimoniale, le guardie, gli autisti, un’orchestra, sarti, contadini, eccetera – è tra i più rigidi del mondo. La coppia imperiale non possiede un cognome, non possiede documenti, non possiede beni materiali (appartengono tutti allo stato), non può esprimere opinioni, nemmeno sulla marca di sake preferita (viene consegnata da un luogo segreto, senza etichetta). Michiko Per fare una passeggiata a Tokyo, l’imperatrice deve chiedere l’autorizzazione almeno quattordici giorni prima deve seguire tutte le regole previste, anche quelle stabilite per il suo rapporto pubblico con il marito. In un ritratto del 2007 pubblicato sul Telegraph in occasione della visita a Londra della coppia imperiale, William Langley scriveva: Michiko è una farfalla con un’ala rotta. “Deve cambiare il kimono tre volte al giorno, tenere gli occhi bassi, e camminare tre passi dietro suo marito. Non possiede soldi suoi, nemmeno un telefono dal quale fare telefonate private. Soltanto cinque anni fa è stata autorizzata a viaggiare sola, senza l’imperatore”. E non è che Akihito sia un mostro, anzi. Il problema è piuttosto della Kunaicho, spiegava al Telegraph Jeffrey Kingston, professione di Storia all’Università di Tokyo, “un gruppo di burocrati il cui unico lavoro è quello di tenere la famiglia sotto uno stretto controllo, e assicurarsi che tutti i membri vivano secondo i dettami dell’agenzia”. E le mogli degli imperatori, in tutto questo, sempre tre passi dietro al marito – anche se nel passato giapponese è piena la storia di imperatrici donne, vedove o mogli di mariti impossibilitati a cui veniva assegnata la reggenza per i brevi periodi in cui serviva. Michiko ha sposato Akihito il 10 aprile del 1959. I due si incontrarono durante una partita di tennis, nell’estate del 1957, in un resort a Karuizawa, una popolare meta turistica nella meravigliosa prefettura di Nagano. Michiko era la figlia maggiore di Hidesaburo Shoda, presidente della Nisshin Seifun – un’enorme azienda di prodotti alimentari e di distribuzione giapponese. Un cattolico, in un paese di scintoisti. Dopo un anno e mezzo, la Kunaicho annunciò il fidanzamento tra Akihito e Michiko. Il fatto che lei non fosse una aristocratica, ma la prima donna senza sangue blu a fidanzarsi con un erede al trono, portò i giapponesi ad amarla sin da subito, e quella fazione di falchi conservatori e tradizionalisti a cercare di scoraggiare le nozze. Ma “Mitchi”, come la chiamavano durante il college, era bellissima, era ricca, ed era colta. Si era laureata nel 1957 all’Università del Sacro cuore di Tokyo in Letteratura, aveva conosciuto Oxford e Harvard. Secondo il biografo dello scrittore giapponese Yukio Mishima, Henry Scott Stokes, Mitchi era stata promessa in sposa all’uomo che il 25 novembre del 1970 compì il suicidio rituale per protestare contro la decadenza giapponese. Eppure lo stesso Mishima, dopo il matrimonio imperiale del ’59, criticò l’idea di un erede al trono del Crisantemo che sposa una donna del po- polo. Secondo l’agenzia di stampa Kyodo news, in quel periodo aumentarono perfino le vendite dei televisori tra la popolazione, perché tutti, davvero tutti, volevano vedere la futura coppia imperiale coronare il sogno d’amore. Anche oggi il legame tra Akihito e Michiko sembra più forte delle regole, dell’etichetta e della Kunaicho. In occasione del compimento dei suoi ottant’anni, il 20 ottobre del 2014, Michiko ha risposto ad alcune domande sulla sua infanzia e sulla sua vita: uno spaccato privato a cui difficilmente si è potuto assistere. “I primi ricordi della mia infanzia, fino all’età di dieci anni e prima che la situazione della guerra deteriorasse, riguardano le mie giornate passate quasi tutte a giocare fuori, sotto il sole”. Per la piccola Michiko la natura aveva un ruolo fondamentale, una passione che guarda caso condivide con il marito Akihito, che studiò brevemente Scienze politiche ma poi si interessò molto di più alla biologia e alla ittiologia, diventando uno dei massimi esperti al mondo di ghiozzi. Dopo l’evacuazione di Tokyo, ricorda Michiko, “le mie giornate erano ben lontane dalla vita tranquilla che avevo condotto fino a quel momento. Il Giappone del Dopoguerra aveva molti aspetti complicati che perfino uno studente delle elementari poteva avvertire, e quello è stato un periodo molto sensibile per me. Dopo la fine della guerra sono rimasta qualche tempo in campagna, per poi tornare a Tokyo per finire gli studi. Avevo cambiato scuola cinque volte in tre anni, e ogni volta che entravo in una nuova scuola trovato difficoltà ad adattarmi ai metodi d’insegnamento. Per molti anni questo problema mi ha lasciato con un sentimento d’insicurezza, come se ci fosse qualcosa che mancava nelle mie competenze accademiche di base. Molti anni più tardi, dopo il mio matrimonio, mi sono imbattuta in una poesia su un giornale, scritta da una donna – ho pensato che anche lei fosse cresciuta durante la guerra. L’ultima parte della poesia diceva: ‘Ci sono tante cose che non so / anche ora che sono una madre’”. La maternità fa soffrire perfino l’imperatrice: “Come genitori, tendiamo a pensare che i nostri figli saranno sempre con noi, ma col passare degli anni tutti e tre i nostri bambini, ciascuno avendo trovato il proprio partner nella vita, hanno lasciato la nostra famiglia, uno per uno. Sono molto diversi tra loro, caratterialmente. Anche se penso di averli cresciuti con tutto il mio amore e con cure affettuose, suppongo che ci siano molte cose che avrei potuto fare di più per i miei figli”. Michiko ha poi ricordato i suoceri e il suo amato marito, “che mi ha mostrato il percorso finora”. E i consigli di suo padre, che la mattina del suo matrimonio con l’erede al trono le disse: “‘Vivi secondo i desideri di Sua Maestà l’imperatore, e del suo erede al trono’. Il ricordo di quelle parole mi hanno sempre sostenuta e guidata. E penso che continueranno a farlo ancora”. Nonostante le rigide regole di etichetta e la sofferenza più volte espressa da Michiko, l’imperatrice ha sempre rispettato ruolo e impegni. E’ anche per que- Era stata promessa a Yukio Mishima, che poi dopo il matrimonio imperiale la criticò perché non aveva il sangue blu sto che la moglie dell’attuale erede al trono Naruhito, la “principessa triste” Masako Owada, forse prossima imperatrice, non è vista di buon occhio dalla Kunaicho. Oggi cinquantaduenne, Masako è figlia di diplomatici e lei stessa aveva davanti una buona carriera nel campo delle relazioni internazionali, ma dovuto rinunciare a tutto nel 1993, quando ha sposato Naruhito. Dieci anni dopo, quando la primogenita Aiko aveva solo due anni, Masako è sparita dalla vita pubblica. Da anni soffrirebbe di una depressione “cronica”, pressata 20 AN NI DE LF OG LIO L’ABORTO PRIMA CAUSA DI MORTE IN EUROPA DENUNCIA A BRUXELLES SPAGNA IN PIAZZA. E NOI? PAGINA 3 IL FOGLIO 20 ANNI DEL FOGLIO Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 NUMERO DA COLLEZIONE - ANNO XV NUMERO 53 quotidiano OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO Perché il gran capo della polizia di Dubai è così efficiente. Contro Israele SOTTO LA PLASTICA FUSA, IL POPOLO •LA FORMA PDL HA FALLITO. Bi- sogna ripartire dalle persone che ci credono. E che per il partito lavorano davvero (editoriale a pagina tre) Il generale Tamim vuole un mandato di cattura contro il premier Netanyahu I traffici dell’Iran nell’emirato arabo Non solo Zapata I “trucchi” dei ricercati Ha svelato gli aborti a Cuba Il dr. Biscet langue nel gulag Gerusalemme. Il generale Dahi Khalfan Tamim, da potente ma sconosciuto capo della polizia di Dubai, si è trasformato in poche settimane in una star mediatica panaraba. Ha individuato 26 agenti segreti che ritiene implicati nell’azione in cui è stato ucciso il leader di Hamas Mahmoud al Mabhouh, ha diffuso i video girati dalle telecamere dell’albergo, ha rivelato le sue scoperte sui passaporti falsi utilizzati dai killer e ha spiegato i “trucchi” che hanno impiegato. Il generale ha dichiarato che le probabilità che il Mossad sia responsabile dell’omicidio sono il 99 per cento, per non dire il 100. Per questo ha chiesto che la magistratura spic- D. K. TAMIM chi un mandato di arresto per il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e per il capo del Mossad, Meir Dagan. Tamim vuole salvare l’immagine di Dubai, vuole far sapere che l’emirato continua a essere un porto sicuro per chiunque voglia triangolare affari mercantili e finanziari, come quelli che faceva al Mabhouh, uomo di raccordo tra Hamas e l’Iran. A Dubai transitano i capitali di Teheran, qui ci sono le aziende create apposta per ovviare alle sanzioni al regime iraniano, il capo della polizia tenta di difendersi da chi pensa che il locale laissez-faire possa essere interpretato come un via libera dagli stati che vogliano attuare regolamenti di conti lontani dai propri confini. (articolo a pagina tre) Condannato da Castro a una cella senza finestre per aver denunciato il genocidio Roma. Due giorni fa il Wall Street Journal, sotto il provocatorio titolo di “Viva Zapata”, ha denunciato la precaria condizione di salute del dottor Oscar Biscet, soprattutto a causa delle torture da lui subìte in carcere. “Il dottor Biscet è gravemente malato, sofferente per ipertensione e gastrite cronica”, recita un altro rapporto di Human Rights First. “Le condizioni in cui si trova ad affrontare la condanna a 25 anni – conseguente a un processo privo di garanzie giuridiche nel 2003, scaturito dalla sua azione non violenta in difesa dei diritti umani – risultano in progressivo peggioramento”. Dopo che il dissidente Orlando Zapata è morto in carcere a seguito di un logorante sciopero della fame (a Cuba i dissidenti non morivano dal 1972), è il dottor Biscet adesso a rischiare grosso nelle carceri castriste. Seguace di Martin Luther King e ammiratore del Dalai Lama, medico imbevuto della filosofia della disobbedienza di Henry David Thoreau, il dottor Biscet è l’uomo che ha gridato al mondo la verità sugli aborti a Cuba. Per questo risiede da anni in un gulag caraibico. Biscet aveva appena sostenuto pubblicamente Zapata: “Orlando sta cercando la libertà per tutti i cubani”. Figlio di una modesta famiglia operaia, Biscet ha ricevuto la tipica educazione scolastica comunista. Il dottore ha la pelle scura come Mandela. Ma a differenza del leader della lotta all’apartheid, il nome di Biscet non suscita lo stesso entusiasmo. Eppure, con la sua condanna a venticinque anni di carcere, è uno dei massimi “prigionieri di coscienza” al mondo. Si trova nella stessa isola dove sorge Guantanamo, ma nella parte sbagliata, lontana dai riflettori dell’opinione pubblica internazionale. La iena dattilografa Arrestato a Milano per traffico di armi il giornalista-spia iraniano che punzecchiava D’Alema Milano. Sette persone sono finite in arresto con l’accusa di procurare armi al regime dell’Iran. L’inchiesta, chiamata “Sniper”, che significa cecchino, è terminata ieri dopo sette mesi di controlli incrociati e di intercettazioni telefoniche: secondo Armando Spataro, procuratore aggiunto di Milano, la banda criminale aveva trovato il modo di fornire munizioni, esplosivi e componenti chimici alla Repubblica islamica nonostante le sanzioni della comunità internazionale. Fra le persone arrestate anche Hamid Masouminejad, registrato nelle liste della Farnesina come giornalista dell’Islamic republic of Iran broadcast (Irib), un’emittente di Teheran con uffici di corrispondenza a Madrid, Mosca, Parigi e Berlino. Ora è sospettato di appartenere ai servizi segreti iraniani. Nel gennaio del 2009, Masouminejad chiese a Massimo D’Alema un commento su Piombo Fuso, l’operazione anti Hamas dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. D’Alema rispose: “Vorrei che lei non pensasse che l’opinione pubblica italiana è rappresentata da certi editoriali di giornali che rappresentano solo se stessi”. (articolo a pagina tre) La rotta su Teheran Due analisti agguerriti si sfidano sul dilemma che opprime Obama: grande patto o regime change? Washington. All’undicesimo piano del palazzo dell’Atlantic Council, a tre isolati dalla Casa Bianca, nella mattinata americana di ieri si sono fronteggiati due culturisti del dibattito geopolitico in materia di Iran: Michael Ledeen, e il gran visir del “grande accordo” con Teheran, Flynt Leverett. L’editorialista del Washington Post, David Ignatius, che ha moderato l’incontro, forse s’aspettava un redde rationem con abbondanti perdite di sangue, stile Colosseo, invece no. “Io non ho cambiato idea, lui non ha cambiato idea. Insomma, non è cambiato nulla”, dice al Foglio Ledeen. Perché le due dottrine sono inconciliabili, e trovare una sintesi non è possibile. Lo sa bene la Casa Bianca, passata dall’idea del dialogo a quella della chiusura, in questo momento impegnata nel terreno di mezzo, la variegata palude delle sanzioni. Ledeen ha difeso la sua dottrina, che condensa nello slogan “spark the revolution”, “innesca la rivoluzione”. Leverett invece ridimensiona la portata dell’onda verde, sostiene che i numeri sono gonfiati e che si farebbe bene a trovare una via di dialogo con il regime. Il pubblico intanto fa domande. (articolo a pagina tre) Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO GIOVEDÌ 4 MARZO 2010 - € 1,30 DIRETTORE GIULIANO FERRARA Il cacciatore di spie LA CARNE DI CENERENTOLA Così la magnifica e paffutissima Gabby è diventata la nuova regina di Hollywood enerentola è candidata agli Oscar. Domenica 7 marzo sfilerà in passerella a C Los Angeles, verrà inquadrata dalle telecamere mentre annunciano la vincitrice, DI MARIAROSA MANCUSO abbozzerà in caso di sconfitta (momento fatidico che distingue le vere attrici dalle dilettanti incapaci di soffocare l’increspatura di dolore), se la favola avrà il suo gran finale Gabourey Sidibe detta Gabby salirà sul palco per afferrare la statuetta con i ringraziamenti del caso. La vita, a differenza del cinema e delle favole, non si serve di un direttore casting. Ma chi conosce il mestiere, sa che la mossa ha un nome. Si chiama “casting against type”. Accade quando si sceglie per un certo ruolo qualcuno che va contro gli stereotipi e le aspettative del pubblico. L’ultima ragazza che ci aspetteremmo di trovare nei panni di Cenerentola è una gigantesca ventiseienne nata a Harlem e cresciuta a Brooklyn. L’avevamo intravista l’anno scorso a Cannes – dove “Precious” fu presentato nella sezione “Un Certain Regard” dopo tre premi al Sundance: giuria, pubblico, recitazione – con un vestito da sera lungo e tutto fronzoli, meno essenziale di quello scelto ora per le copertine e i servizi fotografici. Issata su un paio di fragili ciabattine con tacchetto, avanzava sul tappeto rosso con l’aria confusa. I nostalgici del neorealismo si convinsero subito che l’attrice era stata presa dalla strada, pronta a raccontare un passato tragico simile a quello del suo personaggio, dannatamente triste e pieno di sciagure. Tratte una per una da un romanzo intitolato “Push”, dove la scrittrice e poetessa nera che si fa chiamare Sapphire imita la scrittura sgrammaticata di una sedicenne, le sciagure di Clarence “Precious” Jones sono quasi inascoltabili. Incinta del secondo figlio, alla domanda “chi è il padre?” Precious risponde “mio padre”. Ora che Gabourey Sidibe sorride, parla, si fa intervistare da Donna Karan e chiede agli stilisti di disegnarle un vestito viola, l’illusione dell’attrice presa dalla strada svanisce. Resta una cocciuta quanto saggia ragazza capace di stupire perfino Oprah Winfrey, quando parla di diete e stima di sé. La star televisiva che dopo un’infanzia di miseria nera ora dirige un impero multimediale non riesce a credere che la monumentale ragazza seduta sulla poltrona dell’ospite sia tanto disinvolta e sicura. Oprah fa un lungo preambolo, pensando alle sue numerose diete in diretta tv, e non riesce a capacitarsi quando l’interlocutrice spiega ridendo che la faccenda è semplice: a 22 anni era stufa di odiarsi. Da allora ha deciso di volersi bene e ce l’ha fatta. Il sorriso e la sicurezza l’hanno fatta prevalere su quattrocento concorrenti. Molte, tra cui Gabourey, reclutate tramite annuncio: “Cercasi per un film ragazza nera sovrappeso tra i 18 e i 26 anni”. Altre le aveva scovate e direttamente interpellate il regista Lee Daniels, che per strada e nei McDonald’s un po’ di casting l’aveva fatto, poi però non se l’era sentita di continuare. In questi casi capita di sbagliarsi facilmente: “Se avessi visto Gabourey per strada – confessa – l’avrei giudicata pigra, l’avrei guardata con fastidio, quasi con imbarazzo”. Meglio dunque una ragazza con qualche recita amatoriale accertata e che aveva fatto la centralinista per pagarsi gli studi di psicologia. Miss Sidibe ha imparato ad accompagnare il film con dichiarazioni da riportare tali e quali, senza bisogno di editing, quindi si rincorrono da un’intervista all’altra: “Precious sono io, è la mia famiglia, è la gente che conosco, è tutti noi, è chiunque sappia cosa vuol dire essere ignorati e abbandonati”. Subito dopo ringrazia le persone che la fermano per la strada, scagliandosi però contro gli antipatici fotografi. In questo somiglia alle scene più discutibili viste nel film di Lee Daniels: non la violenza casalinga da vietare ai minori, ma il riscatto. La maestra Paula Patton è davvero un po’ esagerata, anche per un film che vuole accendere la speranza nei cuori: troppo beige, troppo dolce, troppo comprensiva, troppo devota, troppo sorridente, troppo fiduciosa. Un tantino accelerato anche il cambiamento di “Precious”, che subito comincia a scrivere la propria storia, primo passo verso la nuova vita che l’attende. A tratti sembra di vedere uno spot sulle scuole speciali per ragazzi disadattati. Nel romanzo perlomeno restava la voce della sedicenne, ad attutire il colpo. 20 ANNI DEL FOGLIO “Rivanol, metodo per distruggere la vita” Il dottor Biscet ha iniziato la sua lunga resistenza al regime comunista quando scoprì che a Cuba si praticavano l’infanticidio e una serie di metodi spietati di aborto. A Cuba nel 1996, ultimo anno per cui sono disponibili dati comparabili, si erano fatti 209.900 aborti, cioè 77,7 aborti per ogni mille donne tra i quindici e i quarantaquattro anni, contro gli 11,4 italiani. Il livello più alto del mondo, dopo gli ottantatré del Vietnam. Significa quindi che a Cuba ci sono più bambini abortiti che nati. Dopo la denuncia di Biscet, Hilda Molina, scienziata di fama internazionale e fondatrice del Centro Internacional de Restauración Neurológica cubano, già deputata all’Assemblea del potere popolare e insignita dal regime di ben undici decorazioni, aveva restituito a Fidel le undici decorazioni. Adesso il regime non le permette di uscire da Cuba. Le è andata comunque meglio di Biscet, che è diventato dissidente denunciando l’uso del farmaco abortivo Rivanol, di cui diceva che “se faceva cilecca il suo compito era supplito dal rifiuto di assistenza al bambino nato vivo”. Ci ha scritto anche un libro fatto uscire come un samizdat, “Rivanol: A method to destroy life”. Dopo aver definito il sistema sanitario cubano “questo genocidio fatto legale” (in una lettera aperta a Fidel Castro), il dottor Biscet sta scontando venticinque anni per queste poche righe: “Il cordone ombelicale viene tagliato ed essi sono lasciati morire per emorragia, oppure sono avvolti in fogli di carta e asfissiati”. E’ così che si uccidono i nuovi nati nel paradiso castrista. Gli esuli cubani lo chiamano il “Gandhi del Caribe” e in tanti, soprattutto i repubblicani statunitensi, vorrebbero ora vederlo insignito del Nobel per la pace. “Biscet está loco”, Biscet è pazzo aveva sentenziato il líder máximo. Il medico anticomunista e antiabortista è disposto a pagare fino in fondo per la sua protesta non violenta. Gli hanno spento addosso sigarette accese. L’hanno martoriato per piegarlo al silenzio. Di lui, della sua odissea di figlio della rivoluzione rinnegata, oggi sappiamo soltanto grazie alla moglie, Elsa Morejón, suo unico ponte telefonico con il resto del mondo. Due anni fa, l’allora presidente americano George W. Bush premiò Biscet con la medaglia della libertà. Alla Casa Bianca, per ritirare la massima onorificenza civile americana, andarono il figlio e la figlia. Non si contano più le volte in cui Biscet è entrato e uscito dal gulag. Al momento è rinchiuso in una cella senza bagno né luce solare. Come latrina, il dottore utilizza un buco a terra infestato dai vermi. LEHMAN SISTERS Casalinghe disperate e mogli perfette di manager in carriera finalmente libere grazie alla crisi A lla Lehman Brothers bisognava essere mogli perfette, madri amorevoli, entusiaste padrone di casa e graziose dame di carità, se si teneva DI ANNALENA alla carriera del marito (e alla propria stanza delle scarpe). Vita da casalinghe disperate, costrette a fare amicizia con le altre mogli, a vestirsi negli stessi negozi, a diventare vicine di casa, ad andare la domenica pomeriggio a visitare la nuova tenuta di qualche pezzo grosso anche se il bambino piccolo aveva la febbre a quaranta e le convulsioni. Un sacco di soldi per risarcire quella noia mortale e molte foto di gruppo in tenuta da golf. Ora che è tutto finito, parecchie hanno divorziato e sono finalmente fuggite con un cowboy giovane e spiantato, altre sono rimaste accanto al marito tracollato e hanno raccontato l’incubo Lehman: “Se avevi sposato uno della Lehman, appartenevi anche tu all’azienda. E se tuo marito diventava importante, sapevi già che nella cerimonia di investitura ti avrebbe chiesto, davanti a tutti, scusa per tutte le cene, i weekend e le vacanze cancellate. Cioè, Brad per vent’anni non ha fatto niente che non fosse Lehman Brothers. Non una cartolina, un regalo di Natale, una telefonata alla sua famiglia. Ho fatto tutto io. Come moglie Lehman, bisogna crescere i figli da sola, farli da sola in ospedale, essere carine e sorridenti a ogni evento, resistere all’impulso di strangolare tutti”. Il motto Lehman era: family first. Nel senso che nessun manager ambizioso poteva fare carriera senza un matrimonio felice, senza una signora accanto con scarpe di Manolo Blahnik (le scarpe di MB, però, non sono rubricabili alla voce: sacrificio). E nessun marito in carriera poteva permettersi di lasciare la moglie per un’altra: quando successe, il tizio venne prima isolato, poi fatto fuori dalla società, infine morì in macchina da solo e ubriaco. “Se facevi una scelta personale che urtava la Lehman, per te era finita”. Vicky Ward, giornalista investigativa, ha scritto un libro sulla Lehman Brothers (“The Devil’s Casino”) e ha anticipato a Vanity Fair Usa il capitolo sulle mogli: se, durante un weekend in campagna, ovviamente targato Lehman, la moglie di un potente ignorava volutamente un’altra moglie e non la salutava, significava che il marito di quest’ultima stava per essere fatto fuori. Regola assoluta per figli e consorti: “Litiga pure quanto vuoi con me in privato. Chiamami stronzo a casa tutte le volte che vuoi. Ma non permetterti mai, mai, mai, di esprimere le tue opinioni domestiche in pubblico”. E vabbè, che a Roma sia diffuso, chiamiamolo così, un certo lassismo organizzativo, è una notizia per modo di dire. Roma è Roma, dopo tutto, il tempo degli abbacchi si avvicina, la primavera stenta un po’ a spuntare, ma se ne avverte già il profumo nell’aria. Non hanno presentato le liste, e il fatto è grave, ma non crollerà il Colosseo per così poco. Dice: la corruzione. Ma anche la corruzione, a volersela raccontare tutta e senza infingimenti, stupisce e non stupisce, a Roma. Si tratta di una notizia spacciata per clamorosa, che clamorosa in fondo non è. Troppo Capitale d’Italia, Roma, troppi ministeri, troppo accentramento, troppa burocrazia per sperare che di tanto in tanto non ci scappi una busta, una spinta esagerata, qualche appoggio di traverso. Col risultato che nessuna nuova, in questa metropoli eterna, sa regalare mai un autentico sapore di novità. O meglio, nessuna nuova non proprio. Che di tanto in tanto s’inchiappettassero una voce bianca, a Roma, questa davvero non s’era mai sentita. Le convulsioni Così Lombardia e Lazio accelerano la crisi matta di un Pdl senza più padri Formigoni e Polverini bocciati (per ora), dirigenti nazionali furibondi, Fini deluso, e il Cav. pronto a fare i numeri La smentita di Verdini Roma. La decisione dei giudici contraria alla riammissione del listino di Roberto Formigoni in Lombardia, e della lista del Pdl nel Lazio, precipita su un partito in preda a una grave convulsione. Maurizio Gasparri dice che le due esclusioni rappresentano “la più seria emergenza democratica del paese”. Manca ancora il giudizio del Tar, ma dal punto di vista dei dirigenti è comprensibile la necessità di drammatizzare, specialmente se, sotto le cattive notizie, cova un pazzotico conflitto interno. A venti giorni dal voto la rissosità nel Pdl descrive un sommario di decomposizione aggravato dallo sversamento di intercettazioni telefoniche e veleni a mezzo stampa che lambiscono il Palazzo e che hanno spinto ieri Denis Verdini a smentire qualsiasi legame finanziario tra lui e il costruttore Riccardo Fusi. Il presidente della Camera e cofondatore, Gianfranco Fini, dice che il Pdl così com’è non gli piace. Il leader, Silvio Berlusconi, fa trapelare fastidio e secondo le ricostruzioni, non smentite, dei quotidiani, avrebbe replicato a Fini dicendo che “piuttosto io faccio un partito nuovo”. Si può desumerne che il Pdl non piaccia a nessuno dei suoi due azionisti di maggioranza. Non solo. Mentre una parte della vecchia guardia berlusconiana teorizza la necessità di strutturarsi in polemica con le correnti della ex An, il Cav. riprende per mano Michela Vittoria Brambilla minacciando una svolta movimentista: “Fatico a definire il Pdl un partito”. Questo nel momento in cui le cronache segnalano come all’origine del pasticcio sulle liste ci siano state le lotte interne tra gruppi di potere locali sfuggiti – o peggio coperti – alla verifica dei vertici. Schizofrenia? Dice un berlusconiano dogmatico come Osvaldo Napoli: “Il rischio è l’esplosione. C’è un gioco al logoramento che potrebbe anche concludersi con la chiamata a coorte dei pretoriani da parte di Berlusconi”. Ma contro chi? (segue a pagina due) Liste pazze Così il popolo del Cav. si sfoga su Internet in cerca di un colpevole fra polli, follie e pallottolieri Roma. Giustamente Lorella, elettrice di fede berlusconiana, nell’apposito sito dell’apposito partito, si domanda: “Ma chi hanno mandato, Gianni & Pinotto, a Roma? Che figura!”. Mentre la maratona oratoria va avanti gli elettori del centrodestra, per la prima volta quasi in massa, insorgono. E lo fanno direttamente sul sito di Silvio (dove, fresco di stampa, Lui sponsorizza il suo nuovo libro: “L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio”, ha qualche possibilità di meno con l’incapacità) e su quello della Polverini. “E’ incredibile come si possa dilapidare un patrimonio di consenso in questo modo. Se il Cav. non fa qualcosa si va verso il disastro elettorale”. E anche. “Vergogna! Vergogna! Per mettere un nome in lista, lasciano la piazza ai lupi: stavolta siamo fregati”. Stavolta sono gli stessi elettori di centrodestra che non vogliono sentir ragioni – oddio, qualche ricaduta verso i giudici comunisti c’è pure, un filo di sospetto sulla tenuta democratica dei cancellieri anche, senza contare quel Fini di mezzo, amico dei nemici, consolazione dei sinistrorsi, mica come il “direttore Minzolini” che saldo e all’erta sta. Ma insomma, la situazione alla fine risulta la seguente: “Abbiamo fatto una figura di m…, vogliamo candidarci a governare e non sappiamo presentare una lista”, taglia corto Emilio. “Abbiamo i c… pieni!”, fa presente Gino. “Grazie a questi personaggi incompetenti siamo esclusi dal Lazio e abbiamo fatto la figura dei peracottari”, è la felice sintesi di VelaAzzurra. Anche i giornali di maggior riferimento, che di solito vigilanti sul fronte democratico stanno, come manco le oche capitoline rispetto agli assalitori, si sono fatti largamente beffe dell’approssimazione di tanti e tali “uomini del fare” con questo bel risultato. Libero si è situato a metà tra una formula matematica e un titolo del Male: “Pdl = Polli della libertà”, il Giornale ha preso atto della situazione confortato dalla recente fiction in tv su Basaglia: “Un partito di matti”. (segue a pagina due) IO GL O F EL D I NN A 20 Rivelazioni / 1 Un bel saggio in uscita chiarisce una volta per tutte quali sono le differenze tra laici e laicisti nsisto nel separare e distinguere due termini fondamentali e Iricorrenti nel discorso sul rapporto tra religiosità, chiesa e stato: “laicità” RIFORME e “laicismo”. I laicisti negano che tra i due termini vi sia una differenza effettiva, e attribuiscono alle astuzie dei clericali un distinguo artificiosamente escogitato – sostengono – per screditare il laicismo e poter indisturbati dialogare, adesso persino blandendoli, con i laici, isolati, stremati e ridotti a una laicità “sana” perché inoffensiva. Un saggio di rigorosa qualità scientifica da poco in libreria (Luca Diotallevi: “Una alternativa alla laicità”, Rubbettino 2010) mi dà invece ragione, sia pure utilizzando una terminologia differente dalla mia. Per Diotallevi, la “laicità” (in italiano) va distinta dalla “laïcité” (in francese). La “laïcité” francese definisce e caratterizza quel movimento culturale/politico che, evolvendosi e via via irradiando dalla Francia nel corso del secolo XIX, portò alla realizzazione di un “progetto” e di una “pratica” di “assoluta autonomia del politico e di egemonia di questo sul pubblico”, non solo nelle sfere dell’economia o della scienza ma anche sui temi della famiglia, dell’arte e – infine – della religione. “Laïcité” è dunque il “termine che giunge a denominare il progetto dello stato a riguardo della religione” esattamente nelle modalità con le quali lo analizza il mio “laicismo”. Sono molto lieto di una messa a punto, corretta ed esaustiva per chiunque non sia prevenuto, che ribadisce quanto già contenuto nella mia definizione che ha il laicismo al posto della “laïcité”. In qualche misura l’autore del bel saggio concorda anche con il seguito del mio ragionamento – tutto di stampo federalista – quando avverte che la crisi della “laicità” – concettualmente risucchiata a sua volta dalla/nella “laïcité” – è conseguenza non tanto della “rinascita del ruolo pubblico della religione” quanto della crisi storica dello stato (nazionale, aggiungo io) e della sua “pretesa di sovranità” assoluta. Alla “laïcité” Diotallevi contrappone il modello statunitense della “religious freedom”. Dove è la differenza tra i due termini? L’autore sottolinea con forza che “il regime di ‘religious freedom’ è espressione di una visione nella quale la teoria non riassume in sé né esaurisce la realtà, non ne descrive per intero le condizioni di funzionamento né tantomeno le produce tutte e le impone…”. Nel presente clima di frenetici tentativi di ridefinizione della laicità, Diotallevi mostra una chiara indicazione per il percorso americano, nel quale le “religious clauses” del “Bill of Rights” – entrato in vigore quindici anni dopo la promulgazione della Costituzione del 1791 – tendono a realizzare un sistema politico imperniato sulla regola del “checks and balances” tra i poteri politici e le forze sociali. E chi non prova ammirazione – persino, se è un europeo lacerato da contraddizioni, conflitti e dissensi, un bel po’ di invidia – per questo flessibile sistema, aperto ad ampie forme di sussidiarietà? Beh, a me tanta ammirazione pare sia eccessiva, e sono convinto che il modello della “religious freedom” americana - una volta accantonata la rituale pratica (di stampo massonico?) del “God bless America”, probabile calco dell’anglicano “God save the King” non è troppo distante da quello europeo, magari nella versione italiana e cavourriana del “libera chiesa in libero stato”. Anzi, forse il modello d’oltreatlantico è di un rigore che nell’Italia di oggi susciterebbe l’indignazione dell’ufficialità cattolica e dei suoi dirimpettai di stato. Sentite J. F. Kennedy, in un discorso del settembre 1960, due mesi prima delle elezioni presidenziali: “Credo in un’America in cui la separazione della chiesa e dello stato è assoluta, in cui nessun prelato cattolico dica al presidente (se è cattolico) che cosa fare, e nessun pastore protestante dica ai suoi parrocchiani per chi votare; un paese in cui nessuna chiesa o scuola confessionale riceva fondi pubblici o goda di privilegi; dove a nessuna persona venga negato l’accesso alla vita pubblica perché la sua religione è diversa da quella del presidente che ha il diritto di nominarlo, o degli elettori che potrebbero eleggerlo. Credo in un’America che non è ufficialmente né cattolica né protestante, né ebrea, nella quale nessun uomo pubblico chiede o accetta istruzioni, su questioni di pubblico interesse, dal Papa, dal Consiglio nazionale delle chiese o da qualsiasi fonte ecclesiastica, dove nessun organo religioso cerca d’imporre la propria volontà direttamente o indirettamente sulla popolazione o sugli atti pubblici dei suoi funzionari, e dove la libertà religiosa è così indivisibile che ogni azione contro una chiesa è un’azione contro tutte”. Il saggio di Diotallevi si raccomanda per altre importanti analisi, su cui sarà bene tornare. Angiolo Bandinelli NUMERO DA COLLEZIONE - ANNO XV NUMERO 53 - PAG 2 IL FOGLIO QUOTIDIANO GIOVEDÌ 4 MARZO 2010 GLI EFFETTI POLITICI DELLA STRATEGIA DEL BANCHIERE BRESCIANO Così la tela tessuta da Bazoli si estende sempre più tremontianamente Roma. Solo fra grandi nemici si concludono i migliori accordi. Il pragmatico e per alcuni un po’ cinico principio fondante della diplomazia inglese si presta, secondo alcuni osservatori, a descrivere lo stato dell’arte tra Giovanni Bazoli e Giulio Tremonti. Nemici non lo sono – ma avversari in passato sì – comunque il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa, nonché numero uno di Mittel, e il ministro dell’Economia provano a collaborare in chiave sistemica attraverso mosse che appaiono, in alcuni frangenti, consensuali. E se non stupisce l’attivismo di Tremonti, è il cattolicissimo 77enne Bazoli, già padre politico di Romano Prodi, a meravigliare con il suo ritorno sulla scena, al solito felpato, dopo gli anni in cui sembrava aver ceduto lo scettro alla generazione dei Corrado Passera e degli Alessandro Profumo. “Ci sono aperte fin troppe partite, comprese Mediobanca, Generali e Corriere della Sera, e lui, il nuovo Cuccia, il grande vecchio della finanza italiana, ha tutte le car- te in mano e gli viene riconosciuto il ruolo di arbitro e regista”, dice al Foglio il saggista Giancarlo Galli, autore della “Giungla degli gnomi” (Garzanti). Ieri era in programma la prima riunione dei saggi per il futuro presidente dell’Abi; riunione slittata alla prossima settimana. Ma il quadro è chiaro. Tra i due candidati in corsa – Giuseppe Mussari del Monte dei Paschi di Siena e l’attuale presidente dell’Abi, Corrado Faissola – Bazoli a sorpresa, secondo la ricostruzione del Foglio, sarebbe al momento propenso a sostenere Mussari, voluto dalle grandi banche ma avversato da popolari e cooperative. Contemporaneamente Bazoli si dice “dispiaciuto” del doversi privare di Giovanni Gorno Tempini, il suo direttore DOMANI SUL FOGLIO IL MANIFESTO POST CAPITALISTA GIOVANNI DI BAZOLI (di Stefano Cingolani) generale in Mittel, scelto da Tremonti per succedere a Massimo Varazzani come amministratore delegato alla Cassa depositi e prestiti. Un dispiacere alquanto compiaciuto, visto che così un’altra trama si aggiunge alla tela di Bazoli: di fatto un bazoliano doc, su indicazione del dg del Tesoro, Vittorio Grilli, è scelto dal governo per gestire 50 miliardi da investire in infrastrutture e iniziative che stanno a cuore sia a Tremonti sia a Berlusconi. Guardando in casa propria, Bazoli vede con soddisfazione il compromesso tra Cariplo e San Paolo, le due fondazioni maggiori azioniste di Intesa, per eleggere a lista unica il nuovo consiglio di sorveglianza. L’accordo, mediato tra Giuseppe Guzzetti della Cariplo e Angelo Benessia della Compagnia di San Paolo, non solo per Guzzetti “mette fine alla querelle tra Milano e Torino”, ma porterebbe alla conferma di Bazoli. Mentre nella filiera manageriale interna, il dominus di Intesa si è già rafforzato con la nomina a direttore generale di Marco Morelli, proveniente dal Monte dei Paschi, apprezzato da Bazoli da quando nel 2007 curò la fusione tra Hopa e Mittel. Non solo. Se Marcello Sala, consigliere di gestione di Intesa Sanpaolo, ritenuto vicino alla Lega ma anche bazoliano, verrà nominato alla guida del fondo per le piccole e medie imprese istituito da Cassa depositi e prestiti con Intesa, Unicredit e Mps, il “rapporto di leale collaborazione con il ministro Tremonti, e tra banche pubbliche e private” evocato qualche mese fa da Guzzetti, potrebbe a tutti gli effetti avere una seconda firma: proprio quella di Bazoli. Fra le partite in corso, su cui il presidente di Intesa sorveglia, c’è anche quella di Rcs. Repubblica negli scorsi giorni ha scritto che il banchiere bresciano è stato determinante nel soprassedere alla decisione di nominare Giuseppe Rotelli alla presidenza di Rcs Quotidiani: “Non mi meraviglia – dice Galli – lui è un frenatore, in quanto maestro nella gestione politica del potere”. L’ O B A M A L I G H T E I L T Y C O O N Perché a New York tutti i candidati al Senato finiscono per autosbranarsi a ragione il celebratissimo rapper Jay-Z, quando nella sua “Empire StaH te Of Mind”, divenuta l’inno ufficiale di New York, ne parla come del posto dove i sogni sono fatti di cemento armato e l’aria delle strade ti fa sentire nuovo di zecca. Guardate quale spettacolo impagabile sia la politica della Grande Mela o, quando si appropinquano appuntamenti come il voto di novembre, quella dell’intero stato di New York. Sta ancora montando la storiaccia che ha cancellato dalla mappa politica il governatore Paterson, dissuaso da tutti a riprovarci, vista l’indubitabile propensione a fare cose sbagliate e altamente irregolari, che già si tinge di giallo la rincorsa al seggio senatoriale assegnato alla bionda democratica Kirsten Gillibrand, personaggio che non scalda nessuno e che nell’ambiente democratico evoca un’altra bionda col vizio della batosta, quella Martha Coakley che ha consegnato il Massachusetts a Scott Brown. Come dire: se a cercare la riconferma è un personaggio debole, l’appetito dei lupi aumenta. Tanto è vero che i democratici sembravano aver trovato il nome da lanciare in una primaria che lo rendesse familiare agli elettori dello stato, per poi avere la meglio con la pellaccia politica dell’ex governatore George Pataki, candidato del Gop. L’uomo è uno dei predestinati della politica americana del XXI secolo: Harold Ford jr, neppure quarant’anni, una sconfitta di misura nel 2006 per il seggio del Senato del Tennessee, battuto da Bill Frist, ma quasi vincitore in prospettiva, grazie alla telegenia, ai suoi modi ultraobamiani (una versione “light” del presidente, perfino nella gradazione di nero della pelle), al suo sintetico semplicismo da democratico postmoderno. Ford si è trasferito a New York dopo l’insuccesso, ha fatto molto lobbying, si è creato una rete di sostenitori, lo scorso anno ha fatto trapelare la notizia d’essere intenzionato a correre per il Senato. Ma quando i giochi si fanno seri, Ford lascia precipitosamente la partita. La spiegazione, lo sa tutta New York, ha un suono sintetico: Zuckerman, il miliardario (un po’ miliardario, non troppo: di miliardi di dollari ne avrebbe soltanto due, dal momento che le sue fortune seguono quel mercato immobiliare del quale è uno dei re. In asset, lui vale non più della decima parte del caro amico Michael Bloomberg). Zuckerman pare intenzionato a venire allo scoperto per quel seggio del Senato, e Harold Ford jr impacchetta le cose e lascia la città. Il fatto è che gli stessi che guardavano a lui con interesse, gli stessi annoiati da Gillibrand, estenuati da Pataki, convinti di Bloomberg, insomma quelli coi soldi che, prima che alla tessera di partito, guardano alla trattabilità del personaggio, quando hanno saputo che Zuckerman poteva fare sul serio, hanno avvisato Ford: lascia perdere, se lui scende in campo, noi siamo sotto le sue insegne. In pochi giorni, ma non senza una meti- colosa preparazione e consultazioni con gli stessi repubblicani, la rincorsa di Zuckerman pare cominciare. E a New York chiunque si occupi di comunicazione s’è fregato le mani. Il personaggio non è di quelli banali: 73 anni a giugno, nato in Canada e poi americanizzatosi, coi soldi nel mattone ma col pallino della carta stampata, proprietario del quotidiano Daily News e della rivista US News, a sua volta editorialista, opinionista televisivo nel qualificato e un po’ paludato “McLaughlin Group”, Mortimer Zuckerman da anni giocava con l’idea di saltare lo steccato e concedersi un sabbatico da politico vero. Bloomberg dice che l’ha sconsigliato, perché ha un’età, ha sempre lavorato duro, non ha idea di che stress sia fare politica sul serio, dovrebbe godersi la vita, lui che non ha mai fatto mistero d’essere un edonista e uno sciupafemmine (con un debole per le radical chic, come Arianna Huffington, Nora Ephron, Marisa Berenson, Gloria Steinem, Diane von Furstenberg, tutte attribuite a Mortimer, divorziato dal 97 dalla consorte Marla Prather, curatrice alla National Gallery Of Art), uno con lo yacht da 50 metri e l’aereo privato, insomma uno che, messo sotto torchio dai segugi mediatici, avrà il suo da fare a spiegare tutto. Anche se poi Zuckerman spiega poco e attacca parecchio. Ne sanno qualcosa le redazioni dei suoi giornali, a più ri- prese maltrattate. Ne sa qualcosa anche Rupert Murdoch che, in quanto boss del New York Post, altro membro della residua trinità della carta stampata in città, ha fatto spesso a cornate con Zuckerman, salvo tentare, in tempi recenti, un armistizio. La liason tra i due ex nemici per ora non è sbocciata, ma l’aria è più respirabile, se il Post ha salutato col titolone “Run, Mort Run” la rivelazione della candidatura. Zuckerman, a suo tempo sostenitore di Obama (ma anche della guerra in Iraq, dell’esistenza delle armi di distruzione di massa, e soprattutto della priorità della questione israeliana – un falco nella comunità ebrea di New York) a più riprese, nei suoi interventi da commentatore, ha criticato con durezza la condotta del neopresidente e oggi sostiene la necessità di sottrarre il controllo del Congresso dalle mani democratiche. Quindi un altro battitore libero, nel solco dei Lieberman e dei Bloomberg, con una sostanziale ostilità verso le pratiche della Casa Bianca, nella convizione che solo dei manager di classe abbiano la statura operativa per salvare l’America. Certo, le controindicazioni non mancano: l’anagrafe, la vita privata (a 71 anni è diventato padre di una bambina della quale è ignota l’identità della madre), soprattutto i tanti nemici pronti ad attivarsi contro di lui. Poi anche Zuckerman ha deciso: niente candidatura. E non sarà che tra una Gillibrand che nessuno vuole, un Ford in liquidazione, uno Zuckerman così succulento da finire sbranato, sarà il veterano Pataki a portare il suo divertente accento greco fino allo shuttle per Washington? Stefano Pistolini MA RESTA IL “NO” AL PDL E IL “FORSE” AL LISTINO Polverini incassa un sì, smette i panni bipartisan e torna sindacalista Roma. “Tanti auguri, tanti auguri a te”: Renata Polverini canta il buon compleanno per l’amico iraniano in esilio che sale sul palco di piazza Farnese, dov’è in corso la maratona oratoria in sostegno della candidata alle prese con le liste ballerine – e l’amico iraniano ricambia, esprimendo la speranza di portare Polverini in una Teheran liberata “come presidente della regione Lazio”. E però, nella notte che scende su una giornata fosca, Renata Polverini sembra cantare “auguri” anche a se stessa. C’è stato infatti un sì (della Corte d’appello per la sua lista civica, riammessa ieri dopo l’esclusione del giorno prima) ma c’è stato anche un no, e che no: quello della Corte d’appello sul ricorso della lista pdl. Se si somma all’effetto del sì e del no quello del forse (un forse sul listino Polverini, ancora appeso al verdetto), si capisce che la passione di Renata è lungi dall’essere conclusa e che l’appoggio di Paola Binetti (“Polverini è talmente disastrata che se rientra la voto”) non allevia granché la fatica dell’oggi. Né può ridere di gusto, la candidata che rideva anche quando Striscia la chiamava “frangetta nera”, alla vi- sta del video satirico che gira sul Web, una parodia di “We are the world” in cui un Lionel Richie d’antan, con contorno di Tina Turner, Stevie Wonder e Michael Jackson (doppiati), canta, in italiano con accento statunitense, “we are the world/ for Polveriniiiii/ non si distrugge la democrazia per due paniniiii/ per un quaaarto d’ooora/ chi se ne accorgeraaaà/ e forza semo abituati/ dajè se po’ ffaaaaaa”. PICCOLA POSTA di Adriano Sofri Nel 1962 Roberto Barni, pittore e scultore ottimo, si ritrasse accanto al proprio necrologio affisso in Pistoia, intitolandolo “Lutto”. Vi commemorava, “non senza dispiacimento”, la scomparsa di Roberto Barni, “finito nel suo inutile sforzo per vivere poeticamente. I funerali non si terranno. 11-51962”. Poi, dato che era giovane e forte, compose anche una resurrezione alla maniera di Piero della Francesca e continuò a vivere, e lo fa tuttora convintamente. In- Pdl (in confusione) contro i giudici (segue dalla prima pagina) “L’esclusione delle li- ste dimostra che queste elezioni corrono il rischio di essere falsate con conseguenze gravissime per la democrazia”, ripete il capogruppo Fabrizio Cicchitto. Che aggiunge: “Non si è trattato di incapacità del Pdl. Ci è stato impedito di presentare la documentazione. Hanno contribuito l’ostruzionismo dei rappresentanti di altri partiti e l’inaccettabile ordine dato dal magistrato di impedire la consegna”. E’ su questa versione che, di fronte al rischio di un’esclusione definitiva che appare tuttavia ancora improbabile, si è attestato ieri il partito di maggioranza ritrovando una parvenza di unità che potrebbe anche sancire una sorta di cessate il fuoco interno. Fini e Berlusconi oggi riuniscono insieme i deputati laziali del Pdl. E’ un gesto derivato della mediazione di Gianni Letta, nonché il segnale di un’apparente resipiscenza politica imposta dalla contingenza elettorale. D’altra parte nessuno tra i dirigenti risulta convincente quando tenta di negare l’intenso tramestio che attraversa il partito e che rischia di sperperare la vittoria conseguita alle politiche. Si fa strada l’idea confusa di aprire una nuova fase per il dopo regionali: lo ha detto Fini, lo ha fatto capire Berlusconi, lo sostiene anche il fortissimo asse che si è consolidato attorno ai ministri quarantenni, ai coordinato- ri e ai capigruppo. Il problema è che forse ognuno insegue un orizzonte diverso. Dice Claudio Scajola: “La costruzione del Pdl si rivela più complicata del previsto. Anche per la vicinanza delle elezioni ci sono problemi tra centro e periferia. Dobbiamo costruire un partito unico, dobbiamo darci regole”. E’ l’idea che Sergio Pizzolante, deputato vicino a Fabrizio Cicchitto, chiama “gli stati generali del Pdl”. Una fase da inaugurare a urne chiuse seguendo due modelli: “Quello della Lega, che concilia la leadership con il radicamento sul territorio, e quello del gollismo francese”. E’ il progetto in cui sembra si riconoscano anche Sandro Bondi e Mariastella Gelmini e che Cicchitto ha esplicitato dicendo che “la coesistenza di un partito monarchicoanarchico come FI e di un partito correntizzato come An pone delle questioni serissime”. Peccato che, forse, a conferma dell’aria pazzotica che tira dalle parti del centrodestra, non sia proprio questa l’idea che più convince Silvio Berlusconi. Dice Osvaldo Napoli: “Lui è l’antipolitica. Non gli si può chiedere di fare ciò che non è nel suo Dna”; correnti, partiti, apparati. “Si deve recuperare l’iniziativa politica, rilanciare il programma di governo. Il Pdl viene a cascata”. Chissà che ne pensa il Cav. Forse ironico, forse no, dice: “Finirà che mi occuperò io del partito…”. Salvatore Merlo Polverini punta piuttosto sull’automotivazione all’americana fin dal mattino, quando, dopo un incontro con Gianfranco Fini e Gianni Alemanno, ripete in giro per Roma “supereremo anche questa, andiamo avanti, queste cose vanno affrontate con calma”. Ma la calma rischia di saltare quando al comitato elettorale si comincia a sospettare che una fetta di sostenitori, magari quelli meno attenti, considerino tanto il suo autonecrologio era finito in mano a un gallerista, che nel frattempo è morto davvero, sicché, con tanti altri quadri meno imbizzarriti, l’opera, malconcia per le intemperie, è stata messa all’asta l’altroieri da un’importante casa fiorentina, dove Sara Barni, grazie al fair play del resto degli acquirenti, l’ha potuta comprare – riscattare, volevo dire – a un prezzo passabile, e regalare a Roberto, che così, a distanza di quasi mezzo secolo, ha potuto addormentarsi accanto al proprio necrologio ritrovato, e risvegliarsi serenamente la mattina dopo. Renata ormai fuori gioco. Motivo per cui Polverini, dopo un tour all’ospedale israelitico e un incontro a Pomezia, in piazza Farnese non nasconde l’allarme: “C’è confusione”, dice, “c’è gente che crede che la lista civica non sia stata ammessa, invece è stata ammessa”. E quasi sgrida i sostenitori che sul Web le hanno consigliato di lasciar stare. “Io non mollo”, dice (non prima di aver detto, come Madonna prima del concerto, “io sto bene, e voi come state?”). E’ una Polverini tornata improvvisamente sindacalista, quella che parla. Sindacalista dura e non più addolcita dai talk show. “Mantenete i nervi saldi, io oggi ho fatto tante cose e mi aspetto che voi facciate lo stesso”, intima Polverini ai fan divisi nell’umore – mogi o arrabbiati. E mentre Silvio Berlusconi convoca i dirigenti pdl, Polverini, con toni alla Ignazio La Russa, promette “la prova di forza” (numerica) in piazza per l’indomani (stasera) – la piazza è sempre piazza Farnese, tradizionale fortino della sinistra, forse l’unica traccia residua della Polverini bipartisan dei primi giorni di campagna elettorale. Marianna Rizzini Liste pazze e normali incompetenti (segue dalla prima pagina) Sì certo, il giorno dopo si può pure tornare all’antico (“Questo è un sabotaggio”, assicura Libero, una volta rappattumati i polli liberali in libera uscita), e buona grazia che Fini dà sempre da pensare (così il Giornale si consola in mezzo a tante afflizioni: “L’ultimo strappo”). Ma l’inedito dell’intera faccenda è nelle reazioni della base, nei forum, nei blog. Anche in quello di Renata Polverini, la candidata che davvero rischia dopo la magra figura di sabato scorso. Forse qui si registrano posizioni un po’ più articolate di quelle rintracciabili nel sito del partito, ma non meno severe. Anzi. Scrive Simone: “Guardate che a me dispiace se Renata non corre, però pure voi sempre a prendervela con la sinistra… Un po’ di autocritica, perdindirindino!!!”. E un altro elettore, Luca, si sarebbe “atteso una reazione ferma e seria”. Niente da fare: “Vedo invece una reazione scomposta, come se si trattasse di una battaglia sindacale, fatta di numeri, comizi, bandiere, raduni e folclore. Non traspare la leadership e la serietà di cui abbiamo disperatamente bisogno alla guida delle istituzioni regionali”. Così Tiziano: “Se Renata non correrà sarà un peccato. Se non correrà, però, sarà solo colpa di un’organizzazione di dilettanti e incompetenti. Mi spiace. Il rispetto delle regole è vera democrazia. E basta invocare il popolo”. Paulo: “Renata, mannaggia, mi dispiace: ma stia- mo facendo una figuraccia senza precedenti”. Benito: “E’ inutile fare ricorsi su ricorsi… Il Pdl ha fatto un errore da principianti! I rappresentanti dovevano stare al Tribunale di Roma per il deposito del simbolo e delle candidature (già fatte!!) già alle cinque del mattino. Questa è la serietà verso gli elettori. Ora basta!! Siamo stufi di questa politica!!”. Lo sconcerto nella base ha il sapore di una – parziale, quasi disperata, mai vista prima – rivolta verso il partito stesso. Ci sono i forzisti che rimpiangono Forza Italia e lamentano “le serpi in corpo”, ci sono quelli di An che rimpiangono ovviamente An, “no servi di Berlusconi!!!”. S’invocano sanzioni direttamente al Cav., “tutti coloro che dovevano presentare la lista vanno cacciati”, esorta Giorgio; “Se i vostri registi dell’organizzazione non sanno contare fino a mille, fornite loro una calcolatrice tascabile”, propone Gali. E qualcuno si fa così più speranzoso: “Berlusconi venga a Frosinone a fare campagna elettorale per il Pdl, tanto a Roma non è più necessario, visto che la lista non l’hanno presentata!”. Simone, sul sito della Polverini, si fa poetico e cantautore davanti a quanto è successo: “Risponderei con un grande Battiato! ‘Povera Patria, schiacciata dagli abusi di potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore’…”. Replica immediata, e molto pertinente, di Tiresia: “Battiato vota Bonino”. (sdm) Rivelazioni / 2 Qui si spiega perché i comunisti (nuovi e vecchi) sono i veri nemici della libertà delle signore ll’inizio della rivoluzione bolscevica l’introduzione del divorzio libero e A senza formalità fu presentato come ciò che avrebbe permesso la “liberazione CONTRORIFORME della donna”. Provocò invece una quantità enorme di abbandoni e di divorzi che ebbero proprio le donne, e i bambini, come vittime principali. Al punto che il Partito comunista impose una drastica retromarcia, ostacolando le separazioni e lanciando una campagna di propaganda a favore dell’unità familiare. Lo si è visto la volta scorsa. Sempre agli inizi della rivoluzione, il 18 novembre 1920, l’Urss fu il primo paese a legalizzare l’aborto e Lenin presentò tale iniziativa con la solita, utopica, dogmaticità. L’aborto legale sarebbe stato solo una misura transitoria, in quanto sarebbe scomparso con l’incentivo all’uso di anticoncezionali, con la diffusione capillare di asili, scuole, mense di stato, e con l’accesso delle masse a un livello superiore di moralità comunista. A. Kollontaj, amica del dittatore, in una conferenza tenuta nel 1921 all’Università di Sverdlov, esultando proprio per la legalizzazione dell’aborto, ebbe a dire: “Lasciamo da parte le donne borghesi che hanno generalmente altre ragioni per abortire: per evitare di dividere l’eredità, per timore delle sofferenze della maternità, per non rovinare il proprio profilo, per incapacità a rinunciare a una vita di piacere breve, per comodità e per egoismo”. In Urss, continuava, le donne abortiranno solo per motivi cogenti, e solo per pochi anni ancora, dal momento che il governo comunista, “rendendo la maternità compatibile col lavoro”, eliminerà automaticamente “la necessità dell’aborto”. Ma le cose non andarono così, neppure questa volta. Il ricorso all’aborto fu massiccio: la persecuzione della fede, la povertà, la disgregazione familiare, le idee sul libero amore, la deresponsabilizzazione dei genitori determinarono un’ecatombe e un vuoto demografico. L’aborto divenne un metodo anticoncezionale cui ricorrere con assoluta facilità. Il feto perse a tal punto la sua dignità che nacquero ricerche occisive, non solo su quelli abortiti spontaneamente, ma anche “inducendo gravidanze al solo scopo di interromperle in una certa fase per ottenere il tessuto embrionale”. Sappiamo che le sportive sarebbero state talora spinte a rimanere incinte e poi ad abortire, per beneficiare della forza fisica seguente appunto al concepimento. Quanto ai gulag, scrive F. D. Liechtenhan, nel “laboratorio del gulag” (Lindau), quando le prigioniere “rimangono incinte, vengono obbligate ad abortire”. Il disprezzo della vita nascente si diffonde ovunque. Ne “Gli uomini di Stalin” Sebag Montefiore, racconta alcuni episodi tipici dell’epoca. Il terribile e onnipotente Berija, per esempio, vive in un turbine di violenze sessuali e di stupri consumati ai danni di attrici, sportive e di altre malcapitate convocate nella sua dacia, e minacciate di finire in un campo di concentramento se si rifiutano di sottostargli. Fatto sta che dinnanzi a un paese trasformato in mattatoio, per evitare il collasso, Stalin impone la retromarcia, già col codice del 1936, e poi con quello del 1944. Il dittatore arriva così a dichiarare, nell’aprile del 1936: “L’aborto che distrugge la vita è inammissibile nel nostro paese. La donna sovietica ha gli stessi diritti dell’uomo, ciò però non la esime dal grande e nobile dovere datole dalla natura: la donna è madre, dà la vita” (“Storia delle donne”, vol. V, Laterza). Si istituiscono così una “Medaglia della Maternità”, l’ordine “Gloria della Maternità” e il titolo d’onore “Madre eroina”. Alla faccia della vecchia retorica bolscevica contro la donna ridotta solo a madre dal cristianesimo! L’aborto verrà reintrodotto nel 1955, ma con esiti disastrosi. Tra il 1966 e il 1970 a fronte di 4 milioni di nascite l’anno, gli aborti legali nel paradiso dell’ateismo sono tra i 7 e gli 8 milioni. Un primato mondiale che verrà mantenuto dalla Russia anche dopo la caduta del regime. Sino all’ottobre 2007, quando Putin ha imposto una vigorosissima sterzata antiabortista, per salvare il paese dall’inverno demografico e ideologico. Francesco Agnoli (2.continua) PREGHIERA di Camillo Langone Padre Amorth, meglio prevenire che reprimere, sarà d’accordo con me. Leggo nelle sue impressionanti “Memorie di un esorcista” (Piemme) che un diavolo, durante il rituale che doveva scacciarlo, si è vantato di aver suscitato la guerra in Ruanda, una delle guerre più insensate che la storia ricordi. Oggi ancora una volta sentiamo approssimarsi i tam-tam della follia che periodicamente spazza le nazioni, e tutto sembra poter precipitare da un momento all’altro, democrazia, economia, governo, partiti, istituzioni, piazze. Padre, può fare qualcosa? Lo so che è già difficile esorcizzare un indemoniato alla volta, figuriamoci migliaia di politici, giudici e giornalisti in blocco. Ma per non lasciare nulla di intentato non potrebbe guidare preghiere di guarigione in Piazza Montecitorio, Piazza Colonna, Piazza del Quirinale, Via dell’Umiltà, Viale Mazzini? Preghiere per ritrovare la ragione. NUMERO DA COLLEZIONE - ANNO XV NUMERO 53 - PAG 3 GIOVEDÌ 4 MARZO 2010 EDITORIALI IL GOLFO DELLE NEBBIE La prima causa di morte in Europa Perché il capo della polizia di Dubai fa così il duro con Israele La moratoria sull’aborto era un programma. La Spagna si muove, e noi? U n centro studi spagnolo, l’Istituto di politica familiare, ha accertato che sul piano statistico l’aborto sta diventando la prima causa di morte in Europa. Due milioni e ottocentosessantatremila e seicentoquarantanove (2.863.649) aborti è la cifra totale dell’eccidio in Europa, dentro e fuori i confini dell’Unione: così reca la denuncia statistica portata a Bruxelles. Roberto Cascioli su Avvenire calcola che si spegne la vita di un bambino in gestazione ogni undici secondi, ogni giorno si infierisce su 7.500 donne, su 7.500 bambini non nati il cui diritto alla vita è umiliato e offeso. Questi dati, che saranno al centro di una mobilitazione ormai ricorrente, febbrile, fiera, della società spagnola, dove domenica 7 marzo in settanta città si svolge la marcia internazionale per la vita, si combinano con il tasso zero europeo di aumento demografico, un fenomeno che l’estirpazione dell’abitudine all’aborto correggerebbe in modo decisivo. La Spagna di Zapatero, insieme alla Gran Bretagna dove il ricorso all’aborto delle adolescenti è devastante, ha la funzione guida nell’incremento della morte in pancia (più 115 per cento in dieci anni). Paola Ricci Sindoni, in un editoriale impegnativo e sensibile del giornale dei vescovi italiani, sostiene, e questo nel titolo è esplicitamente richiamato, che “gli appelli generici non bastano più”. Giusto. Sacrosanto. Anche le soluzioni proposte dal rapporto presentato a Bruxelles dal centro studi per la famiglia, e raccolte da Avvenire, non sono centrate sulla correzione in senso repressivo delle legislazioni europee in fatto di maternità e aborto. La vocazione messa alla base di questa mobilitazione è quella a una battaglia culturale, a un impegno per recuperare il terreno perduto negli ultimi trent’anni. In quest’epoca si è prodotto un ciclo della sordità morale e dell’ottundimento psicologico al culmine del quale l’aborto, come cercammo di spiegare con l’iniziativa della moratoria internazionale, è divenuto eticamente indifferente. Non solo, l’aborto si è propagato nella forma particolarmente odiosa dell’aborto selettivo, eugenetico, e della liquidazione dei bambini concepiti intesa come strumento di pianificazione delle nascite e di soluzione gratuita di problemi privati, particolari, oltre che risposta a piaghe sociali come la misera tutela della maternità assicurata dalle società ricche. Le soluzioni sono sempre le stesse, e sono quelle proposte nel programma di battaglia della lista pazza nella primavera di due anni fa. Con una modifica della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo firmata a Parigi nel dicembre del 1948, stabilire che la vita, tutelata giuridicamente come primario valore legato alla libertà e alla sicurezza della persona, inizia dal concepimento e finisce con la morte naturale. Definire uno spazio di sostegno sociale forte alla donna incinta, fondato su ingenti risorse pubbliche e su un piano nazionale per la vita, ciò che era diventata una promessa riformatrice contenuta nel discorso del presidente del Consiglio italiano alle Camere dopo la formazione del governo due anni fa. Promuovere le adozioni, nella forma anonima della vecchia ruota dei conventi, e offrire questa possibilità di vita, questa libertà di nascere, a chiunque sia stato concepito senza una volontà di accoglienza. Incentivare sensibilmente i programmi di ascolto, mediazione psicologica, informazione, assistenza alle donne che si stanno arrendendo all’inevitabilità dell’aborto, dando voce e strumenti operativi alle molte organizzazioni che lavorano in questo senso e fanno nascere bambini e madri con un lavoro di incontro e di aiuto personale. Promuovere campagne di comunicazione pro life, invece della resa culturale alla logica della contraccezione, della promiscuità sessuale, della libertà irresponsabile. Sognavamo cinque milioni di pellegrini a Roma, trenta deputati pro life alla Camera, un’esplosione di razionalità e di buonumore, il rovesciamento di un andazzo disumano, mortificante, incivile; ed eravamo mossi da un punto di vista laico che non parte necessariamente dalla sacralità della vita, bensì dal rispetto della persona e dei suoi diritti. La proposta di moratoria perse nell’isolamento la battaglia politica immediata, ma funzionò come rilancio internazionale della guerra culturale contro la manipolazione e il maltrattamento della vita umana. E’ il momento di ricominciare, e la minoranza laica antiabortista non può che fare appello ai vescovi perché la grande energia dei cristiani scuota il torpore banalizzante della cultura antinatalista e riaccenda, anche contro i veleni della Ru486 e contro la condanna delle donne alla solitudine del prezzemolo moderno, una grande, seria, responsabile guerra di cultura e di idee. Il diavolo non veste Wall Street La caccia al capro espiatorio finanziario è una tentazione da evitare I l governo di Atene ha deciso ieri l’attesa stretta sui conti pubblici che dovrebbe consentire il rientro del deficit. Ma gli effetti della crisi delle finanze statali greche promettono di farsi sentire a lungo. Se non altro perché i toni da caccia alle streghe, sollevati prima contro le solite banche d’investimento internazionali, e poi contro tutto quello che abbia le sembianze di un’innovazione finanziaria, rischiano di compromettere ulteriormente la situazione. Negli Stati Uniti il dipartimento di Giustizia ha annunciato di voler fare luce sulle scommesse al ribasso dell’euro che sarebbero state effettuate da alcuni hedge fund. Anche a Bruxelles, quanto a toni vagamente inquisitori, non si scherza. Ieri, dagli uffici di Michel Barnier, neo commissario al Mercato interno, è trapelata l’idea di fare il punto sull’uso di prodotti finanziari derivati, compresi i Credit default swap (Cds). Lo stesso Barnier ha annunciato un ulteriore rafforzamento della regolamentazione comunitaria su hedge fund e private equity. Tutto bene, o quasi, finché si tratta di fare chiarezza su quanto avvenuto, di punire chi ha infranto le regole. Senza dimenticare però che alla radice della situazione odierna non ci sono fantomatici speculatori ma governi in carne e ossa che con il palliativo della spesa pubblica fuori controllo hanno tentato di sopperire all’assenza di riforme strutturali. E facendo attenzione a non trasformare l’utile principio di precauzione in uno scetticismo ideologico nei confronti dell’innovazione finanziaria tout court. Sotto la plastica fusa, il popolo La forma Pdl ha fallito. Ripartire dalle persone che ci credono. E lavorano L IL FOGLIO QUOTIDIANO 20 AN NI DE LF OG LIO e incredibili figuracce collezionate dal Popolo della libertà nella presentazione delle liste, oltre alle conseguenze pratiche che potrebbero provocare in Lazio e in Lombardia, segnalano la condizione deplorevole in cui versa l’organizzazione del partito di maggioranza relativa. Il “partito di plastica”, cui allude sarcasticamente Ernesto Galli della Loggia, funzionava meglio. Il problema, al di là dell’insipienza di qualche funzionario o dirigente, pare consistere nell’incapacità di trasformare il “popolo” in un partito. Il tentativo, per la verità puramente verbale, di Silvio Berlusconi di superare la contraddizione reclutando al partito un milione di aderenti, privo di un sostegno organizzativo, non ha prodotto alcun esito, tanto da indurlo ad annunciare di voler provve- dere personalmente attraverso una nuova rete di “promotori”. Quel che pare evidente è che il vecchio meccanismo del partito intermittente, che si mobilitava in occasione delle competizioni elettorali, si è inceppato e che l’attuale forma bicefala di dirigenze territoriali lottizzate è un disastro. Può darsi che la plastica si sia fusa, ma resta il “popolo”, cioè le tante persone che parteggiano per il centrodestra. E’ da lì che sarebbe necessario ricominciare, fornendo schemi semplici ma efficaci di partecipazione e meccanismi di selezione dei dirigenti che premino l’impegno e la tensione politica, che sono evidentemente mancati ai pasticcioni o ai fannulloni che hanno determinato i disastri emersi nella presentazione e nella confezione delle liste. Gerusalemme. Occhiali tondeggianti e baffi curati, che hanno sostituito il pizzetto sfoggiato nella fotografia che appare sul suo sito internet, il generale Dahi Khalfan Tamim, da potente ma sconosciutissimo capo della polizia di Dubai, si è trasformato in poche settimane in una star mediatica panaraba. In realtà, la sua inchiesta sull’appassionante spy story sorta attorno all’assassinio del leader di Hamas Mahmoud al Mabhouh – avvenuta il 19 gennaio scorso proprio a Dubai, in una stanza dell’hotel al Bustan Rotana, a opera di un commando di almeno quattordici persone – è seguita con attenzione in tutto il mondo. Tamim ha stupito tutti esibendo l’efficienza del corpo di polizia da lui guidato. Ha individuato 26 agenti segreti che ritiene implicati nell’azione, ha diffuso i video girati dalle telecamere dell’albergo, ha rivelato le sue scoperte sui passaporti falsi utilizzati dai killer, ha mostrato le loro fotografie e ha spiegato i “trucchi” che hanno probabilmente impiegato. Tamim ha fatto di tutto per mostrare al mondo la rapidità e la trasparenza della propria azione, cercando di scardinare ogni pregiudizio, perlopiù fondato, sull’opacità e la lutulenta inefficienza comune alle polizie di quasi tutti i paesi arabi. Il generale ha dichiarato che le probabilità che il Mossad sia responsabile dell’omicidio sono il 99 per cento, per non dire il 100. Sulla base del sospetto che i presunti agenti dei servizi segreti di Gerusalemme abbiano “preso in prestito” le identità di cittadini israeliani che hanno anche un’altra cittadinanza, Tamim ha assicurato che d’ora in poi le guardie di frontiera porranno attenzione nell’individuare e respingere gli israeliani che si dissimulano mostrando un altro passa- porto, vero o posticcio. E ha auspicato che al più presto i doganieri di Dubai sfruttino le risorse tecnologiche più avanzate per vagliare con uno screening assai meno permissivo chi entra nel paese. Compiaciutissimo per l’efficienza dimostrata dai suoi uomini, Tamim, parlando con il quotidiano Asharq al Awsat, ha sarcasticamente offerto al Mossad il tutoring della polizia di Dubai, qualora i servizi segreti israeliani volessero modernizzare le loro tecniche di travestimento e contraffazione delle identità. “Il Mossad sta utilizzando metodi vecchi di 20 anni. Il modo in cui il team ha operato è stupido e ingenuo. Stanno ancora usando le parrucche!”, ha spiegato Tamim. Da ultimo, il capo della polizia di Dubai ha puntato ben più in alto e ha chiesto che la magistratura spicchi un mandato di arresto per il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e per il capo del Mossad, Meir Dagan. Tamim, che alterna pluridecorate uniformi militari corredate di cappello con visiera ad abiti tradizionali del Golfo, ha già risolto altri casi rilevanti, come l’assassinio della sua omonima Suzanne Tamim, celebre cantante libanese uccisa a Dubai per ordine di un supermiliardario egiziano, amante deluso. Ma è soprattutto sfoggiando rigore nei confronti delle massime autorità di Gerusalemme che il capo della polizia di Dubai si è conquistato molti commenti laudatori, postati dai lettori sui siti dei principali media arabi. Al di là della notorietà e degli applausi che si è conquistato in medio oriente, l’obiettivo principale e più ambizioso di Tamim – e soprattutto delle autorità di Dubai – sembra però essere il salvataggio dell’immagine dell’emirato. Non è ancora chiaro per quale motivo Mahmoud al Mabhouh avesse deciso di vo- lare da Damasco, dove viveva da anni, a Dubai: su questo l’efficientista indagine della polizia locale non ha fatto luce. D’altra parte, al Mabhouh era considerato un ufficiale di collegamento tra Hamas e l’Iran e non è un mistero che per Teheran l’emirato costituisca una porta di accesso al resto del mondo e, all’occorrenza, una comoda piattaforma per tentare di aggirare le sanzioni Onu. Finora Dubai, pur duramente colpita dalla crisi e aggrappata al necessario aiuto finanziario garantito da un altro degli Emirati Arabi Uniti, Abu Dhabi, ha cercato di accreditarsi come un’oasi posta al centro delle turbolenze mediorientali. Una specie di porto franco e di centrale commerciale-finanziaria con velleità elvetiche di sostanziale neutralismo. Luogo di turismo a metà tra Las Vegas e Disneyworld, pacchia per chiunque abbia tanti soldi da spendere, porto sicuro per chiunque voglia triangolare affari mercantili e finanziari, meta frequente anche dei businessmen israeliani, luogo finora immune da attentati terroristici, emirato incline a un silenzioso basso profilo sui conflitti dell’area (improntato perlopiù al “guardare da un’altra parte”), Dubai vuole difendersi da chi pensa che il locale laissez-faire possa essere interpretato come un via libera dagli stati che vogliano attuare regolamenti di conti lontani dai propri confini. Per preservare il proprio status quo, però, Dubai necessita di perfetto equilibrismo e l’indurimento dell’atteggiamento nei confronti di Israele rischia di suscitare un contraccolpo indesiderato, e cioè un eccessivo e troppo scoperto scivolamento verso l’Iran che metterebbe in pericolo le credenziali finora offerte dall’emirato all’occidente. L’agente dell’Iran che trafficava armi e intervistava D’Alema Operazione italiana contro una banda che aggirava l’embargo sulle armi contro Teheran. Tra loro anche un giornalista iraniano Milano. Sette persone sono finite in arresto con l’accusa di procurare armi al regime dell’Iran. L’inchiesta, chiamata “Sniper”, che significa cecchino, è terminata ieri dopo sette mesi di controlli incrociati e di intercettazioni telefoniche: secondo Armando Spataro, procuratore aggiunto di Milano, la banda criminale aveva trovato il modo di fornire munizioni, esplosivi e componenti chimici alla Repubblica islamica nonostante le sanzioni della comunità internazionale. Fra le persone coinvolte in questo traffico ci sono due cittadini iraniani che vivono da tempo in Italia, Hamid Masouminejad, 51 anni, e Ali Damirchiloo, 55: sarebbero due agenti segreti al servizio degli ayatollah. Gli altri sono un ex dipendente delle industrie Beretta, Alessandro Bon, un avvocato di Torino, Raffaele Rossi Patriarca, e tre imprenditori che operavano a Piacenza, Varese, Brescia e Ginevra. Gli uomini della Guardia di Finanza li hanno fermati ieri mattina, ma le perquisizioni sono andate avanti per l’intera giornata. Hamir Reza e Bakhtiyari Homayoun, tutti e due con il passaporto iraniano, sono ancora latitanti. All’indagine ha contribuito anche l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise). Gli inquirenti considerano Bon la mente dell’organizzazione. Aveva il compito di gestire un traffico complesso, che aveva cominciato a lasciare tracce già nel 2007, quando la polizia romena ha sequestrato una partita di puntatori ottici prodotti in Germania ma diretti in Iran. Alla Tributaria di Milano, il quartier generale dell’operazione “Sniper”, sono certi che si tratta di apparecchiature da guerra sofisticate, le stesse che possiedono molti eserciti europei: colpo sicuro, “one shot, one kill”, dice al Foglio un militare che ha seguito l’inchiesta. I puntatori, un migliaio in totale, non sono l’unica merce sequestrata. Le forze dell’ordine hanno fermato anche la possibile vendita di un elicottero, di proiettili traccianti che provengono dai mercati della vecchia Unione sovietica (in particolare dalla Bulgaria), giubbetti da sommozzatore autorespiranti e di una miscela chimica ad alto potenziale esplosivo che può essere usata soltanto nell’industria bellica. Bon non avrebbe agito da solo, ma con un gruppo di collaboratori in grado di tenere i contatti con gli iraniani e di controllare il trasporto del materiale, organizzato attraverso una serie di triangolazioni commerciali. Nessuno sa dire con precisione quale fosse la meta finale delle armi. Masouminejad è stato di recente in Iran, dove avrebbe incontrato alcuni funzionari dei servizi segreti. Anche l’avvocato Rossi Patriarca è stato a Teheran e avrebbe avuto contatti con un alto ufficiale dell’aviazione. Ma la Tributaria di Milano non esclude la pista dei gruppi paramilitari. Nel 2007, un puntatore identico a quelli sequestrati in Romania era a Bassora, in Iraq, nel rifugio di un gruppo legato ad al Qaida: fu trovato dai militari inglesi di stanza nella regione. Uno degli iraniani arrestati ieri, Hamid Masouminejad, è registrato nelle liste della Farnesina come giornalista dell’Islamic republic of Iran broadcast (Irib), un’emittente di Teheran con uffici di corrispondenza a Madrid, Mosca, Parigi e Berlino. Dalla redazione romana, che conta una decina di persone fra reporter, autori e speaker, partono ogni giorno programmi radio su onde corte. Ci sono trasmissioni sulla politica internazionale – “America, uno sguardo dall’interno” è un appuntamento settimanale, dice il sito Internet di Irib Italia, che esamina in maniera “più approfondita” i fatti accaduti dopo l’11 settembre – e ce ne sono altre dedicate alla fede – ogni giovedì, “Il sentiero della luce” si occupa di interpretare i versetti del Corano. Non è stato possibile raggiungere la redazione di Irib per un commento sull’arresto di Masou- minejad, ma le inchieste del reporter sono ancora in rete ed è piuttosto facile trovarle. Negli ultimi tempi, si era occupato di manifestazioni antiamericane, di G8 e di proteste contro il governo Berlusconi. In una intervista a Pandoratv.it, la testata web diretta da Giulietto Chiesa, Masouminejad aveva spiegato qual è l’immagine dell’Italia in medio oriente. “C’è la sensazione che ci si indigni più per le bandiere bruciate che per i bambini che muoiono a causa dei bombardamenti israeliani – diceva un anno fa – Questo per me è grave perché significa scontro di civiltà. Dobbiamo fare di più per evitare che questo accada”. Nel gennaio del 2009, Masouminejad chiese a Massimo D’Alema un commento su Piombo Fuso, l’operazione anti Hamas portata a termine dall’esercito israeliano nella Striscia Gaza. D’Alema rispose così: “Io mi indigno anche per le bandiere bruciate, tuttavia non c’è il minimo dubbio che l’opinione pubblica italiana è molto più scossa per i bambini. Vorrei che lei non pensasse che l’opinione pubblica italiana è rappresentata da certi editoriali di giornali che rappresentano solo se stessi”. Oggi, Masouminejad si trova in carcere per traffico di armi ed è sospettato di appartenere ai servizi segreti iraniani. Che cosa fare con gli ayatollah? Due guru vanno allo scontro Ledeen, sostenitore del regime change, sfida in un dibattito Leverett, paladino del patto con Teheran. La strategia della Casa Bianca Washington. Capita ogni tanto che Marte e Venere discendano dall’Olimpo per sfidarsi in campo neutro, in una contesa diretta in cui l’eleganza nei modi è l’unico limite al corpo a corpo delle idee. Nella mattinata americana di ieri si sono fronteggiati due culturisti del dibattito geopolitico in materia di Iran, territorio da sempre ostico e in questo periodo arroventato dalle insofferenze del presidente Barack Obama, impegnato in queste ore nel gioco di pressioni con la Cina per sanzionare il regime degli ayatollah. All’undicesimo piano del palazzo dell’Atlantic Council, a tre isolati dalla Casa Bianca, il teorico del regime change, Michael Ledeen, e il gran visir del “grande accordo” con Teheran, Flynt Leverett, si sono ritrovati davanti a un pubblico tosto per porre la domanda delle domande, quella che più di tutte disturba i sogni del presidente: cosa dobbiamo fare dell’Iran? L’editorialista del Washington Post, David Ignatius, che ha moderato l’incontro, forse s’aspettava un redde rationem con abbondanti perdite di sangue, stile Colosseo; invece nulla, o quasi. “Io non ho cambiato idea, lui non ha cambiato idea. Insomma, non è cambiato nulla”, dice al Foglio Ledeen con la voce fresca di chi non ha avuto una mattinata difficile. I due contendenti sono impegnati in una decennale battaglia d’idee, riedizione iraniana dello scontro fra George Kennan e Paul Nitze nel cuore della Guerra fredda, esponenti delle due grandi scuole del “containment” e del “roll back” nei confronti del blocco sovietico. Il meeting di ieri all’Atlantic Council è il simbolo di un dibattito che fatica ad affrancarsi dalla semplice guerra di posizione: nessuna delle parti sembra disposta a retrocedere di un centimetro dalle proprie posizioni. Da una parte, c’è l’i- L a spietata ricostruzione dell’infoibamento costituisce il nucleo centrale del racconto arricchito, soprattutto nella parte iniziale e finale, da riferimenti storici e geografici che permettono di dare uno sfondo decisivo alla quasi dimenticata tragedia delle foibe. La testimonianza di Graziano Udovisi è quella di un vecchio di ottantacinque anni che riporta alla mente un’esperienza tragica che lo ha segnato e cambiato profondamente. E’ la parola di uno degli ultimi testimoni. Udovisi riflette innanzitutto su come l’esercito italiano in Istria sia stato abbandonato a se stesso dopo la dichiarazione di non belligeranza dello stato italiano nel settembre 1943. Quest’aspetto introduce un tema che fa da sostrato al racconto e che suscita amarezza: la disparità di atteggiamento nei confronti di chi era nato nel Regno d’Italia rispetto agli istriani. I militari che tentavano la fuga verso Trieste per far ritorno a casa venivano obbligati a passare dalla parte dei partigiani comunisti e l’aver aderito dea della grande riconciliazione come presupposto per il dialogo, quel pugno che potrebbe diventare una mano tesa ma che ultimamente è tornato pugno; dall’altra, il rovesciamento del regime sull’onda di una protesta carsica che non aspetta altro che una tanica di benzina occidentale per buttare giù i cattivi ragazzi di Teheran. In mezzo, la variegata palude delle sanzioni. Ledeen e Leverett rappresentano gli estremi dell’arco ideologico. Ledeen è il prodotto puro della stagione neocon, sul quale ha innestato prestazioni istrioniche dai vari think tank conservatori – American Enterprise Institute su tutti – e un deciso tocco di cultura italiana. Oggi non è soltanto l’esponente di una scuola politica, ma il vero tesoriere della dottrina scientifica del regime change. Nel 2002 Ledeen, rispondendo al consigliere per la Sicurezza nazionale, Brent Scowcroft, secondo cui l’invasione dell’Iraq avrebbe innescato il caos in medio oriente, ha detto: “C’è soltanto da sperare che il nostro sforzo renda la regione un calderone. E fatelo presto, per favore”. E’ il concetto che oggi condensa con quella che ormai è la sua massima di riferimento: “Spark the revolution”, “innesca la rivoluzione”. La stessa rivoluzione che secondo Flynt Leverett non esiste affatto. Sono anni che dalle democratiche scrivanie della New America Foundation riversa nel circuito politico le sue convinzioni: bisogna fare un grande accordo con l’Iran, un approccio comprensivo che non giudichi l’operato degli ayatollah “caso per caso” ma dal reciproco riconoscimento ricavi un terreno condiviso. Come Ledeen, anche Leverett ha una lunga carriera nella penombra della diplomazia. Le sue posizioni estreme, già esplose nel 2006 quando ha pubblicato il famoso scritto LIBRI Graziano Udovisi FOIBE. L’ULTIMO TESTIMONE 135 pp., Aliberti, 12 euro alla Milizia per la difesa territoriale contro le truppe di Tito è stato considerato un gesto da fascisti e da traditori. Drammatica la parte dedicata alle torture inflitte prima di essere gettato nella foiba fino al momento in cui riesce, stremato, a risalire dalla cavità. E’ lucido e tremendo l’impatto che solo la parola diretta di chi ha vissuto simili bestialità è ancora in grado di far provare. Oltre ogni malessere fisico che annulla addirittura il dolore, c’è però la speranza e un’invocazione semplice alla Madonna pronun- “Dealing with Teheran”, in cui criticava l’Amministrazione Bush per avere in pratica sbagliato tutto sull’Iran, sono diventate se possibile più oltranziste dopo le manifestazioni di piazza in seguito al voto. Quelle manifestazioni, dice Leverett, non sono praticamente esistite: i numeri sono gonfiati, il fenomeno è fasullo, non c’è nessuna vera spinta sotto, soltanto strumentalizzazioni occidentali. Il blog che gestisce assieme alla moglie Hillary Mann – altra diplomatica di carriera e presenzialista di think tank – recentemente ha fatto alzare qualche sopracciglio per via dei suoi tentativi di spiegare i meccanismi del potere dell’Iran agli iraniani. Come dire: per capire serve un osservatore esterno che però non sia logorato dal potere; uno che, insomma, non sia Michael Ledeen. Nonostante non sappia una parola di farsi (gli viene rinfacciato spesso), Leverett ha rapporti diretti con l’Iran. E’ da poco rientrato da Teheran, dove, come molte altre volte, è stato invitato ufficialmente dal direttore dell’Institute for North American Studies dell’Università di Teheran, Mohamed Marandi, a tenere conferenze. Incidentalmente Marandi è il figlio del medico personale della guida suprema Khamenei e dalle elezioni di giugno è diventato il portavoce ufficioso del regime nei rapporti con la stampa di lingua inglese, ruolo sotto la responsabilità del ministro dell’Intelligence. Un privilegio, quello di Leverett, che i simpatizzanti giudicano meritato; per tutti gli altri l’analista è a tanto così da essere una spia. Oltre alle guerre di posizione, e tutti i loro corollari fumogeni, quello che più importa del dibattito sull’Iran è quello che meno si capisce: cosa ne pensa Obama di tutta questa storia. ciata nell’istante prima di essere gettato nella fossa. Questo racconto è arricchito dall’inserimento di un altro racconto, tipograficamente evidenziato, scritto in pochi giorni dall’autore stesso nel 1987 e inviato all’amico Giulio Bedeschi. L’ultimo sopravvissuto non può tralasciare alcun aspetto, non deve permettere all’oblio di edulcorare qualcosa che la vivezza del ricordo ha mantenuto, giustamente, spietato. Oltre la metà del racconto, qualche fotografia fa da corollario a ciò che la potenza della parola era già riuscita a evocare. La seconda parte della testimonianza è dedicata ai due anni di carcere che ha dovuto scontare dopo essere stato denunciato per collaborazionismo. Qui i toni si fanno molto più distesi, quasi a voler significare che la galera era niente rispetto a quello che aveva passato. La conclusione è affidata alla voce del poeta Mario Varea che ripercorre il calvario del protagonista riflettendo su quanto fosse forte in lui, nato in Istria, il valore della patria Italia. IL FOGLIO quotidiano ORGANO DELLA CONVENZIONE PER LA GIUSTIZIA Direttore Responsabile: Giuliano Ferrara Vicedirettore Esecutivo: Maurizio Crippa Vicedirettore: Alessandro Giuli Coordinamento: Claudio Cerasa Redazione: Michele Arnese, Annalena Benini, Stefano Di Michele, Giulio Meotti, Salvatore Merlo, Paola Peduzzi, Daniele Raineri, Marianna Rizzini, Paolo Rodari, Nicoletta Tiliacos, Piero Vietti, Vincino. 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Ma anche un partito personale – quello cioè in cui è il capo che crea l’associazione, e non viceversa – non può vivere a lungo senza un’élite culturalmente forte e politicamente credibile. La spinta propulsiva del Cavaliere si sta infrangendo proprio su questo scoglio. Forza Italia è stato un movimento di reazione allo stato di cose esistente. Il Pdl sembra dedito soltanto alla conservazione dello stato di cose esistente. Formare una nuova élite è difficile, sia chiaro. Guido Dorso diceva che la sua formazione è uno dei E’ così. Ma con un enigma. Una classe dirigente partitica e parlamentare lamentevole, un governo accettabile. Alta Società Aumenta l’influenza iraniana a Baghdad. In Rashid Street si trova, “inshallah”, dell’ottimo caviale persiano al mercato nero. diale; che a tal proposito Pannella si è spinto persino a elogiare la politica del figlio unico in Cina, cioè lo sterminio delle bambine; che in tanti loro opuscoli propagandistici degli anni Settanta si possono trovare frasi come queste: “Un ovulo fecondato non è necessariamente vita; non lo è per il padre e non lo è nemmeno per la madre. E’ una ipotesi di vita… non una concretezza” ; e ancora: a volte far nascere un figlio è “un atto di debolezza e di egoismo” mentre abortire è “una decisione matura e consapevole”. Se non è iper abortismo questo. Francesco Agnoli Al direttore - Fossi il Cav., l’articolo del fogliante Stefano Di Michele lo terrei bene in vista su tutte le mie scrivanie (P. Chigi, P. Grazioli, Arcore) leggendolo e rileggendolo continuamente. Potrebbe essere la salvezza sua, vi- sto che i suoi nemici (secondo me annidati tra i suoi uomini più vicini e più “fidati”) gli stanno col fiato sul collo e non vedono l’ora che cada. Emblematica la frase di Fini: “Il Pdl così com’è non mi piace”. Invece dei geni, appunto, si facesse venire in mente qualche idea geniale per salvare il salvabile. Cioè sé stesso, il Pdl e il suo governo, anche se stavolta sarà per niente facile. Cristina Preiner, Vietri sul Mare (Sa) Al direttore - Discutere di riforme da vent’anni e non fare nulla è il suicidio collettivo della nostra classe politica, in particolare del Pdl che ne ha fatto una bandiera. La politica è la traduzione delle idee in realtà, altrimenti è letteratura. Franco Bolsi, via Web La letteratura si risente, cautela. PIXELL Al direttore - In riferimento all’articolo di Stefano Cingolani “Le manovre di guerra e pace telefonica” , nel quale si parla di scorporo di rete Telecom e di conseguente interesse dell’Ing. De Benedetti a entrare nell’operazione, tengo a precisare che la notizia è priva di fondamento: l’Ing. De Benedetti non è in alcun modo interessato a investire né in Telecom né nei suoi asset. Con i migliori saluti. Stefano Mignanego Relazioni esterne Gruppo Espresso Al direttore - Adriano Sofri continua a spiegare che i radicali non sono abortisti, né “arciabortisti” , come li ha definiti, se non sbaglio, il direttore di Avvenire. Uno può anche farsi il lavaggio del cervello da solo, ma per convincere anche gli altri ci vogliono argomenti, non mantra. Ricordo solamente che i radicali erano persino, e violentemente, contro la 194; che gestiscono l’associazione “Rientro dolce” , che predica la diminuzione da sei a due miliardi della popolazione mon- La Giornata Altro che 80 euro, Il Foglio te ne dà 250. * * * In Italia RESPINTI I RICORSI DELLA LISTA DEL PDL IN LAZIO E DI FORMIGONI in Lombardia. La Corte d’appello di Milano non ha ammesso la “Lista per la Lombardia” dell’attuale governatore Roberto Formigoni, che resterebbe per il momento escluso dal voto. Nel Lazio, la Corte d’appello ha respinto il ricorso del Pdl che al momento non potrebbe partecipare alle regionali a Roma e provincia. I giudici hanno invece riammesso la lista civica regionale di Renata Polverini. Il Pdl farà ricorso al Tar in entrambe le regioni. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ieri mattina aveva minacciato: “Siamo pronti a tutto”. Poi, dopo le critiche del Pd, la precisazione: ricorreremo a ogni sede utile per ottenere giustizia. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti, ha aggiunto: “Non si può pensare di lasciare senza scelta più di un quarto della popolazione italiana”. * * * Accettate le dimissioni di Di Girolamo dal Senato, che ha votato sul parlamentare colpito da mandato d’arresto nell’inchiesta sul riciclaggio nelle telecomunicazioni. Di Girolamo: “E’ arrivato il momento della verità. Non ho portato in quest’aula la mafia”. Al termine del suo intervento a Palazzo Madama il Pdl ha applaudito. In serata l’ex senatore si è costituito. Dovrebbe subentrargli Raffaele Fantetti. Il presidente del Senato Schifani: “Verificare che abbia tutti i requisiti”. L’ex ministro della Salute, Girolamo Sirchia, è stato condannato dalla Corte d’appello di Milano a cinque mesi di reclusione per appropriazione indebita in relazione a somme sottratte alla fondazione di diritto svizzero di cui era tesoriere. * * * Ad aprile Fiat decide sul settore auto. L’ad Marchionne ha detto che il gruppo discuterà il 21 aprile sulla possibilità di un distacco del settore auto dalle attività della conglomerata, e sulla eventuale creazione di un unico colosso con Chrysler. * * * Abbonati al Foglio a soli 199 euro, riceverai sconti e In Senato il ddl sul lavoro, dopo due anni di iter legislativo. Scontro sulla norma che affida a un arbitrato anziché al giudice la controversia tra lavoratore e impresa. promozioni per un importo complessivo pari a 250 Borsa di Milano. FtseMib 1,46 per cento. L’euro chiude in rialzo a 1,37 sul dollaro. euro. Per te 800 miglia del Programma MilleMiglia di Nel mondo Alitalia, 10 euro di sconto con Trenitalia, 5mila punti EnelPremia 3.0*, 20 euro di sconto con Airbnb, 5 euro di sconto al giorno con Autogrill, 4 euro di sconto al mese per un anno con Gnammo, 8 euro sul primo ordine con Deliveroo e uno sconto esclusivo con Fastweb.** * * * ALMENO TRENTA MORTI IN IRAQ A POCHI GIORNI DAL VOTO. Tre attacchi suicida hanno ucciso a Baquba, a sessantacinque chilometri a nord est di Baghdad, almeno trenta persone e ne hanno ferite più di cinquanta. Dei tre, due attacchi sono stati compiuti con veicoli bomba, che hanno colpito alcuni uffici dell’amministrazione provinciale e un vicino incrocio stradale, mentre il terzo attentatore si è fatto esplodere nel principale ospedale della città mentre si visitavano i feriti. Almeno dodici persone, per la maggior parte civili, sono rimaste uccise a Mogadiscio negli scontri tra le forze filogovernative e i militanti islamici di Shabaab. Ad attaccare sarebbero stati i soldati governativi, provocando l’immediata risposta dei ribelli che hanno attaccato con mortai e armi pesanti. * * * Approvato il piano d’austerità greco. Atene ha approvato il piano di riduzione del deficit da 4,8 miliardi di euro. Le misure includono tagli ai salari, congelamento delle pensioni, aumento dell’Iva e imposte su benzina, alcol e sigarette. Il premier Papandreou ha detto che adesso aspetterà le misure europee. *Utilizzabili per richiedere un bonus sconto di 50 euro sulla bolletta di Enel Energia. 2̆HUWDYDOLGDVRORSHUDEERQDPHQWLDQQXDOL³)XOO´H̆HWWXDWLVXOQRVWURVLWR¿QRDO ,QIRHFRQGL]LRQLGHOOHR̆HUWHVXDEERQDWLLOIRJOLRLW * * * Obama mette insieme “le migliori idee” di repubblicani e democratici per la riforma sanitaria. Il presidente americano ha chiesto al Congresso di approvarla “nelle prossime settimane”, e ha poi spiegato i punti principali della sua proposta, che tende a conciliare i testi diversi approvati alla Camera e al Senato. Il democratico Rangel ha lasciato la commissione Ways and Means alla Camera dopo essere stato accusato dal panel etico del Congresso. Scritto per essere letto * * * In Ucraina sfiducia a Timoshenko. Il Parlamento ucraino ha approvato la mozione di sfiducia contro il governo del premier Timoshenko. * * * La Libia mette l’embargo a Berna. Il governo libico ha deciso di imporre “un embargo totale” su tutti gli scambi economici con la Svizzera. * * * E’ morto Michael Foot, storico leader laburista britannico. Aveva 96 anni, era stato a capo del Labour dal 1980 al 1983. INNAMORATO FISSO DI MAURIZIO MILANI un passo avanti I pederasti si dividono in pederasti da latrina e da sauna. Come ogni attività urge essere riqualificata. Prima era semplice: scrivevi su un palo della luce “sono nella latrina n° 2 del cesso pubblico a 50 metri, ricevo subito”. Adesso è tutto più complicato: ti devi iscrivere a un sito, conferma via Twitter. Tanti non esercitano più, preferiscono farsi i custodi di orsi nello zoo parco più vicino. II pezzo Entro nel retro di un circo e dico: “Mi tosa i coglioni?”. “Subito, come glieli toso?”. “Abbastanza bene, grazie”. NUMERO DA COLLEZIONE - ANNO XV NUMERO 53 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO GIOVEDÌ 4 MARZO 2010 20 AN NI DE LF OG LIO ROSARIO PER CAMILLA Langoneide pazza d’amore per “Un’estate fa”, ultimo libro della Baresani di Camillo Langone A ve Camilla, piena di stile, avrei voluto risolverti con una preghierina a pagina due poi però mi è sembrato un gesto ancora più accidioso della mia accidiosità, non si minimizza così un capolavoro. “Un’estate fa” (Bompiani, 349 pagine, 18,50 euro) si pone in vetta alla tua opera, di libri ormai ne hai scritti tanti, alcuni belli, altri così così (specialmente quelli a quattro mani: non sopporto i libri in cooperativa perché sono operazioncine, marketing, tienimi-che-ti-tengo, ripartizioni ragionieresche dei rischi, mentre la letteratura per meritare di esistere dev’essere eroica e l’eroe è sempre solo). Già un’altra volta avevi azzeccato il titolo, parlo di “Sbadatamente ho fatto l’amore” che mi fece catapultare a Desenzano, non potevo continuare a vivere senza conoscere l’autrice di una simile prodezza. Adesso però oltre al titolo e alla copertina c’è il contenuto che ovviamente non è la storia (chi se ne frega delle storie, per le storie c’è la televisione) bensì mille frasi squisite, molti giudizi tanto preziosi quanto fastidiosi, imperdibili consigli di seduzione e uno sguardo, un raro sguardo sull’estate italiana contemporanea o almeno sull’estate italiana contemporanea nel tratto Capalbio-Sabaudia, con puntate a Milano, Venezia, Cortina, Amsterdam, California. Altro che preghiera, qui ci vuole un rosario, una lode moltiplicata per cinquanta. 1. Ave Camilla che mai mi sei apparsa così di destra. Partire con un’epigrafe della bellissima Clarice Lispector, “Persino eliminare i propri difetti può essere pericoloso – non si sa mai qual è il difetto che sostiene il nostro intero edificio”, è fare una dichiarazione di antiutopismo, di antiperfettismo che discende direttamente da De Maistre: “L’uomo è tutto una malattia”. 2. Ave Camilla, nicciana stella danzante: “Gli esseri umani falliscono, e solo quelli coraggiosi si tolgono di mezzo. Gli altri restano ad aggravare la società, già così aggravata, con la loro malmostosa, piagnucolosa, bisognosa, futile, molesta, deprimente presenza”. Sfido che tutti ti trovino odiosa, in particolare il culturame composto pressoché per intero da falliti bisognosi futili molesti. 3. Ave Camilla che sveli la motivazione della insulsaggine, vuotaggine, banalaggine di pagine culturali compilate da persone che frequentano gli stessi stabilimenti balneari, in primis l’Ultima Spiaggia di Capalbio: “Per forza poi sui giornali si leggono quasi solo critiche positive o tutt’al più reticenti: mica puoi inimicarti il vicino d’ombrellone!”. 4. Ave Camilla che sei l’unica critica gastronomica italiana e nel romanzo ampli l’epocale stroncatura al ristorante milanese dei Dolce e Gabbana, quella che fece perdere al Sole 24 Ore la pubblicità dei permalosi stilisti (ci volle la recensione riparatrice di un giornalista molto di mondo, Davide Paolini, per riportare le famose mutande sulle pagine del quotidiano della Confindustria). “Seduti nel sinistro scintillio dei finti ori e finti lussi del Gold guardavo le superfici specchiate da paradiso del cocainomane, e pensavo che quel contesto da Scar- Ave Camilla, nicciana stella danzante: “Gli esseri umani falliscono, e solo quelli coraggiosi si tolgono di mezzo” face sprigionava una tale tristezza…”. Me la ricordo anch’io la cotoletta del Gold, proprio “una cotoletta annegata sotto un’untuosa pila di pomodori cubettati”. 5. Ave Camilla che non paga ti dedichi al ristorante di Corso Como (sempre Milano) di non so più quale sorella Sozzani e perciò anch’esso intoccabile. “Un posto così convenzionale”. 6. Ave Camilla che stigmatizzi, con le parole messe in bocca a un personaggio, ciò che molti pensano ma che in pochissimi diciamo: “La soffocante tirannia dei froci”. 7. Ave Camilla che attacchi il catastrofismo climatico, gli ex terroristi, l’astrologia, le braghe corte (passim). 8. Ave Camilla che schifi la psicanalisi: “Datata”. 9. Ave Camilla che consigli alle donne di evitare i freudizzati: “Ero stata lì lì per innamorarmi di un uomo, poi avevo scoperto che il mio futuro Bo Bartlett, “Leaving Eden”, 2002 amante era in analisi da otto anni. Un altro perdente”. 10. Ave Camilla per la superiore lucidità del tuo ragionare: “Si è sempre sentito parlar male di quei maschi che tengono il piede in due scarpe, una della moglie l’altra dell’amante, e non si decidono, anzi non vogliono decidersi. Ma, in fin dei conti, non avranno ragione loro? Cosa c’è di più innaturale del dover scegliere tra due cose che anziché sommarsi si com- Ave Camilla che nella congiunzione carnale percepisci il sacro: “Prima che un amore venga celebrato tra le lenzuola…” pletano?”. 11. Ave Camilla che malinconicamente, realisticamente esprimi ciò che di norma una donna (moglie, fidanzata, concubina…) non sa nemmeno pensare: “E’ innegabile che il sesso con la stessa persona stufi più di ogni altro piacere comune – più del piatto quotidiano di spaghetti col pomodoro, più delle eterne moine del tuo cane, più del piacere di farsi una doccia ogni mattina”. 12. Ave Camilla che detesti i mendicanti specie se ricattano il passante con modalità para-artistiche: “Che stupidaggine di lavoro, il mimo di strada. Stare ore impiastricciati…” 13 e 14. Ave Camilla iniqua ed egoista (“C’erano bancarelle che vendevano ciarpame equo e solidale…”) e inoltre antiecologista (“… alternate a bancarelle che vendevano ciarpame di Legambiente”). 15. Ave Camilla che estendi il succitato concetto al campo dell’arredo esotico: “Niente marocchinate da happy hour, niente ciarpame buddista che spesso viene accomunato a decori kenioti o zulu, in una sorta di balordo sincretismo terzomondista”. L’espressione “ciarpame buddista” rimarrà a lungo nel mio cuore. 16. Ave Camilla che scrivendo “dare un senso e uno spessore alla nostra storia e alle nostre vite cercando di fare un figlio” consegni anticoncezionali e aborti al repertorio del non-senso. 17. Ave Camilla che liquidi la fecondazione eterologa con due aggettivi: “Bambini artificiali – o quanto meno artificiosi”. 18. Ave Camilla che nonostante le precedenti invocazioni non cadi nel sentimentalismo e anzi ostenti un’insofferenza verso i non adulti che ti guadagnerà nuove ostilità femminili: “Bambini chiassosi che ingurgitavano paninacci…”, “Un bambino nevrastenico, sempre sull’orlo di un pianto ricattatorio…”. I bambini non sono belli (salvo i neonati quando tacciono dopo la poppata e osservano il mondo con occhi stuporosi), meno che meno sono buoni. I bambini sono semplicemente la vita. 19. Ave Camilla che nella congiunzione carnale percepisci il sacro che il puritanesimo spiacente a Dio pretende si trovi nell’astrazione: “Prima che un amore venga celebrato tra le lenzuola…”. 20. Ave Camilla che stronchi una rivista considerata un modello di cosmopolitismo e sofisticazione ossia una rivista per debosciati secondo i quali Philip Roth è il massimo scrittore contemporaneo: “Interminabili, logorroici, articoli e racconti del New Yorker”. 21. Ave Camilla che introduci Nicolás Gómez Dávila, ripetutamente citandolo, nella narrativa italiana. 22. Ave Camilla che mi hai spiegato perché, pur bramando la gloria e perfino quel suo surrogato che è la notorietà, fatico ad accettare gli inviti del piccolo schermo. Nel romanzo parli di una giornalista “abituata ad andare in televisione e perciò a sgolarsi villanamente – il solo modo per farsi valere davanti alle telecamere”. Io e te siamo troppo urbani, troppo eleganti: parliamo a voce bassa. 23. Ave Camilla che fai capire ciò che pensi del multietnico magnifico e progressivo, descrivendo “grasse famiglie di nazionalità miscelate in modo balordo”. 24. Ave Camilla che per piacevoli soggiorni romani segnali giustamente l’Hotel Locarno. 25. Ave Camilla che mi sei Beatrice Bo Bartlett, “Sirena”, 1999 nei cieli della Biennale di Venezia: “Pensa invece al vivaio delle ragazze degli uffici stampa, delle cinefile, delle aspiranti registe… Anche se le migliori, va detto, non sono quelle del cinema ma le ragazze che si vedono alla Biennale Architettura. Di solito sono belle e molto ben vestite”. Devo avvisare Bondi che farmi fare solo il vice di Sgarbi al Padiglione Italia significa sottoutilizzarmi, per le mie competenze in fatto di stoffe e tagli e sartorie sarei necessario anche nei padiglioni dei progetti. 26. Ave Camilla pure quando non siamo d’accordo. “Camminando sghemba per via della sacca in spalla (avevo deciso di non presentarmi all’appuntamento con quella triste valigetta a rotelle che, nella mia idea coreografica della vita, faceva tanto ‘passeggeri low cost all’imbarco’)…”. Io come viaggiatore e in generale come uomo sono decisamente high cost, eppure uso trolley. Certo non sono quelli ottenuti con i punti della benzina, sono i trolley Tumi che costano una fortuna perché possederli (potersi permettere di possederli) è una fortuna. Sarà mica elegante farsi spezzare la schiena da libri e computer. 27. Ave Camilla che fai sibilare alla protagonista il giudizio più preciso che abbia mai sentito sull’opera di un architetto di poche idee e molte relazioni: “A San Francisco mi fece visitare il museo d’arte moderna progettato da Mario Botta. Avrei potuto dire ‘Hai visto quello di Rovereto? Bene, sono tutti uguali’”. 28. Ave Camilla, Donna d’Ordine: “Guardai dappertutto, anche quei dettagli che di solito non si notano e che invece a me – appassionata di manutenzioni – balzano agli occhi: i rubinetti non gocciolavano, gli spigoli dei muri non erano sbrecciati, le persiane erano ben verniciate, sulle pareti non si vedeva l’impronta sanguinolenta di zanzare spiaccicate, i cardini non erano arrugginiti”. 29. Ave Camilla che non risparmi Ave Camilla che fai sibilare il giudizio più preciso che abbia mai sentito su un architetto di poche idee e molte relazioni nemmeno i lettori o meglio, i lettoriscrittori, adulatori e rettili: “Era un mio fan da anni, e mi inviava una letterina di complimenti quasi a ogni articolo che scrivevo. In realtà i fan di questo tipo se ne fregano di te – anzi, segretamente ti disprezzano. Per loro sei un gradino, e dietro ogni complimento si nasconde una futura richiesta: mi presenti, mi raccomandi, mi segnali?”. 30. Ave Camilla che come me soffri il cinismo, il ghigno nichilista. “L’indignazione è considerata una cosa barbosa, da moralisti veterocattolici o veterocomunisti – che fa lo stesso. Ormai il culto dell’ironia e del rovesciamento del punto di vista vince su tutto”. 31. Ave Camilla, nuova Donna Letizia, generosa di dritte alle ragazze da marito: “Dirigenti d’azienda no, perché li spostano di sede in sede e tu, moglie, diventi l’addetta ai traslochi costretta a frequentare i club aziendali e le mogli di altri dipendenti della ditta. Non giornalisti, che sono bugiardi e ti tradiscono con le stagiste, né medici – ancora peggio, dato che vivono giorno e notte con infermiere anche carine che non vedono l’ora di sedurli, e pazienti vogliose e disperate. Non avvocati, spesso verbosi, coi loro faldoni e incartamenti da studiare il sabato e la domenica. Restano i commercialisti. Un bel commercialista potrebbe essere il sogno di ogni ragazza. Ricchi, desiderosi di evadere dall’arido mondo dei numeri e portarti in giro per musei”. 32. Ave Camilla che alle ragazze di cui sopra insegni regole da scolpire nel marmo: “Sorridere, essere positivi, non lamentarsi. Niente ammorba quanto una donna lamentosa. Fa presagire futuri da incubo. Lagne e vittimismo”. 33 e 34. Ave Camilla che di tanta arte contemporanea fai notare l’ottusa ripetitività (“C’erano le solite cose – un po’ scultura un po’ installazione -, per nulla stupefacenti nel loro tetragono puntare a esserlo”) e il disuma- nismo (“Se quella ragazza fosse stata una mucca, sarebbe accorsa la Protezione Animale per far smontare l’installazione”). 35. Ave Camilla, spirito libero capace di giudicare Damien Hirst che dice “cazzate. Ma tutti a riverirlo, a comprarlo, a intervistarlo, a passarsi di bocca in bocca queste frasi così scioccamente assertive, come fossero gran verità anziché la boutade di un prestigiatore”. 36. Ave Camilla che mi hai fornito nuovo materiale per la mia battaglia a favore della Madonnina e contro il politico lombardo Rob (bip) For (bip). (Inserisco i bip perché in questo delicatissimo momento elettorale non potrei spingere la polemica fino in fondo, mi riservo di riprenderla più avanti). 37. Ave Camilla sempre meno atea e sempre più devota, grazie al metodo paolino della prova e del confronto. Degli immigrati avversi agli indigeni denunci le “insopportabili religioni, peggiori perfino della nostra, che già ci pareva falsa e gravosa e che adesso invece finiamo per rivalutare”. 38 e 39. Ave Camilla che racconti la nullità del giornalismo di rivista (“In una saletta dell’Hotel de Russie, sei giornalisti, ciascuno con venti minuti a disposizione, interrogavano l’attrice sotto il nevrotico occhio dell’addetto stampa: controllava che ci attenessimo alle regole”) e dei suoi anglosferici vip (“Sue inutili opinioni in materia di generica politica internazionale: il Tibet, lo sperpero di risorse del pianeta, la fame nel mondo…”). 40 e 41. Ave Camilla che descrivi Roma come magna-magna (“Scoprivo la vita romana, accanto ad Arnaldo, che me la faceva sembrare un inanellarsi di pranzi al sole”) e pettegolezzo da circolo chiuso (“Quel continuo e endemico incrocio di persone, quasi sempre le stesse, mi ricordava paradossalmente l’esistenza di provincia da cui ero fuggita tanti anni prima”). 42. Ave Camilla che in parallelo rivaluti Milano e il “tenero abbraccio” del suo anonimato. 43. Ave Camilla che sei oraziana e cogli l’attimo fuggente coi suoi piccoli grandi piaceri: “Mi limito a credere al potere dei bicchieri di vino, delle droghe leggere, degli psicofarmaci, della pastasciutta, del salame. Se sono infelice, bevo e mangio. Se sono felice, lo stesso”. 44. Ave Camilla maestra di dongiovannismo: “Chi viene fatto oggetto di questa gragnuola di domande tende a prenderle per attenzioni. Se ci sono condizioni favorevoli, se l’interrogante è di aspetto piacevole o ha una posizione preminente rispetto all’interrogato, questi tende a innamorarsi. Non c’è nulla che coinvolga un individuo quanto il sentirsi interessante, degno di nota, oggetto di curiosità. Infatti i buoni seduttori non rispondono: domandano. Lasciano che su di sé continui a gravare il mistero, il si dice”. 45. Ave Camilla maestra di dongiovannismo 2, attraverso le parole di un “giornalista promiscuo”: “Non chiamare mai le donne col loro nome. Non solo mentre ci scopi, neanche nella vita quotidiana. Mai pronunciare il loro nome! Le donne bisogna chiamarle tesoro, adorata, amore mio, quel che vuoi. Ma non cedere al nome, anche se te lo ricordi, anche se Ave Camilla sempre meno atea e sempre più devota, grazie al metodo paolino della prova e del confronto quel momento sei certo di dirlo giusto. La pagherai, prima o poi, questo è certo”. 46. Ave Camilla che mi hai fatto scoprire l’esistenza di Bo Bartlett, autore della copertina, un figurativo americano che è in arte quello che Sarah Palin è in politica. 47, 48 e 49. Ave Camilla dalla splendida colonna sonora, spiaggistica e nostalgica: “Quattro giorni insieme” di Loy & Altomare (gettonatissima dai “quattordicenni non ancora scopanti degli anni Settanta” dove “non ancora scopanti” è definizione degna di Arbasino), “In my secret life” di Leonard Cohen (un Cohen 2001 perciò non “mortalmente tetro e noioso” come agli esordi), “Cortez the killer” di Neil Young… Tre canzoni che fanno innamorare anche i sassi. 50. Ave Camilla che mi hai messo la voglia di un’estate nuova. LIO OG F EL ID N AN 20 NUMERO DA COLLEZIONE - ANNO XV NUMERO 53 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO GIOVEDÌ 4 MARZO 2010 COPÉ, IL DELFINO SQUALO Perché Sarkozy teme il suo capopartito. “Come lui, con dieci anni di meno” di Marina Valensise C ome che vada, quale che sia lo scenario, Jean-François Copé è già pronto. Il presidente del gruppo dell’Ump, partito di maggioranza, all’Assemblée nationale, ex ministro del Bilancio, ex sottosegretario agli Interni di Dominique de Villepin, ex portavoce del governo di Alain Juppé, e sindaco di Meaux, ha le idee chiare. Essendo infatti un metodico, grande organizzatore e fine stratega, lui che da quand’era piccolo sogna di diventare presidente della Repubblica, ha previsto tutto. Si tratta di capire se l’eventualità gli s’offrirà subito, vale a dire nel 2012, come molti ormai prospettano, o tra sette anni, nel 2017. Questo però solo il destino potrà dirlo, con i suoi decreti imperscrutabili. Nel frattempo, è bene prepararsi, e infatti Copé, che sin da piccolo ha imparato a programmare la sua vita senza lasciare nulla al caso, ha già previsto che se sarà di nuovo Sarkozy a presentarsi candidato e vincere le presidenziali, lui l’asseconderà, come ha già fatto da capogruppo del partito di maggioranza, ottenendo per sé la poltrona di presidente dell’Assemblea nazionale. Se invece a vincere le elezioni sarà la sinistra, lui conquisterà il partito in tre settimane e diventerà il capo dell’opposizione. In ogni caso, una cosa è sicura, Copé cercherà di tenersi il più a lungo possibile lontano dal governo, come ha spiegato Jérôme Lavrilleux, che è uno dei suoi più stretti collaboratori a Solenn de Royer e Frédéric Dumoulin, autori di un’inchiesta appena uscita dall’Archipel (“Copé, l’homme pressé”, 351 pagine, 19,95 euro). Dall’uomo che è riuscito a trasformare in meno di tre anni l’armadietto per le scope in cui Sarkozy pensava di rinchiuderlo in una delle più agguerrite postazioni della vita pubblica francese non c’è altra decisione da aspettarsi. Il futuro dunque dirà quale delle tre ipotesi prevarrà e cosa riserva a questo quarantaseienne pudico, ma sicuro di sé, timido, ma esuberante, freddo e calcolatore, ma fedele in amicizia, spiritosissimo e incline al riso, ma così scaltro da pugnalare alle spalle vecchi amici senza battere ciglio, appena scopre che la loro ambizione può essere d’ostacolo al suo cursus honorum, e così spregiudicato da esporsi in prima persona e con malcelata voluttà persino al conflitto di interesse, com’è successo quando ha deciso di darsi all’avvocatura e mettersi al libro paga di un grande studio legale, pur di difendere il cumulo di incarichi e mandati, e soprattutto gli onorari a essi connessi, anche a costo di apparire avido e rapace come un profittatore parvenu. Perché “la politica è un mestiere”, sostiene Copé con spavalda determinazione. Non è un hobby per i ritagli di tempo, o riservato al sabato e la domenica, ma un mestiere a tutto tondo, così duro e impegnativo che andrebbe perciò remunerato il doppio o il triplo di quel che avviene oggi, rinunciando all’ipocrisia di parlare di immunità, come ha fatto Nicolas Sarkozy. Il presidente infatti è stato il primo in Francia a rompere un tabù, quando ha detto chiaro e tondo che i soldi servono a fare politica, e servono soprattutto per non dipendere dalla politica, e ha squarciato il velo pudibondo che sin dai tempi dei Sarkozy rivince nel 2012? Lui sarà il presidente dell’Assemblée Nationale. Sarkozy perde? Lui diventerà il capo dell’opposizione grandi appaltatori secenteschi avvolge in Francia il connubio infernale di denaro e potere. E di Sarkozy Jean-François Copé è il clone, l’emulo, l’ammiratore, l’imitatore, prima di esserne, fatalmente, il rivale e forse il più insidioso. Tra i due il rapporto è dei più intensi, se pensiamo che è stato proprio Sarkozy a volerlo come capogruppo del partito di maggioranza, l’Ump, all’Assemblea nazionale. Il presidente voleva toglierselo di torno, punirlo per la sua concorrenza incalzante, per l’opposizione strisciante. Per tutta la campagna elettorale l’aveva umiliato con ferocia medievale, come solo un feudatario poteva fare con il suo vassallo, togliendogli la poltrona dalla fila dei vip presenti all’ultimo comizio elettorale, facendolo restare senza invito, all’ultima cena di partito. Copé aveva incassato. Alla fine, una volta eletto Jean-François Copé sta sfruttando il suo ruolo di presidente del gruppo Ump all’Assemblea nazionale francese per insidiare il presidente Nicolas Sarkozy, del suo stesso partito presidente, Sarkozy aveva deciso di togliergli pure la poltrona di ministro del Bilancio che Copé occupava da due anni, lasciandolo fuori dal nuovo governo. Voleva ibernarlo in un ruolo decorativo e superfluo, capo gruppo del partito di maggioranza all’Assemblea Nazionale? Mal gliene incolse. Nel giro di pochi mesi, ha dovuto assitere alla metamorfosi istituzionale. “Non avrebbe mai dovuto farmi un così bel regalo”, esulta oggi Copé, che dopo l’iniziale delusione e i primi mesi di scoramento, facendo buon viso a cattivo gioco, è riuscito a riattivare il Il presidente lo voleva ibernare? Errore. In pochi mesi da capogruppo Copé ha trasformato quello stipetto per le scope in una tribuna prestigiosa circuito parlamentare, conquistandosi la luce dei riflettori, e grazie alla riforma costituzionale votata nell’estate 2008, si è inventato il concetto di “coproduzione legislativa”, mettendo il Parlamento al centro del dispositivo della Quinta Repubblica. Niente di nuovo in questa singolare parabola. La Quinta Repubblica vanta illustri precedenti in fatto di tensioni incontenibili tra il presidente e il suo potenziale delfino. Il primo a nutrire sospetti e insofferenza verso il suo erede e continuatore fu il generale Charles de Gaulle, fondatore alla fine degli anni Cinquanta del semipresidenzialismo alla francese. Nel 1968, eletto presidente da tre, dovette fronteggiare l’esplosione del Maggio francese e della contestazione. Allora, fu il suo primo ministro a salvarlo dal caos e dal ricorso al referendum. Georges Pompidou lo convinse a prestare ascolto alle richieste degli studenti, a firmare gli aumenti di salari con i sindacati, garantendosi la fedeltà dell’esercito. De Gaulle indisse nuove elezioni e la rivolta si placò, ma il generale smise di vedere in Pompidou un semplice servitore, e lo promosse a suo rivale, come ricorda Piero Buscaroli (in “Dalla parte dei vinti” edizioni Mondadori), poi decise di punirlo con il licenziamento, aprendogli la strada dell’Eliseo. Quando Pompidou annunciò la sua candidatura, De Gaulle ebbe un attacco di bile, cercò di giocarsi il tutto per tutto lanciando il referendum sulla riforma del Senato e il decentramento, dal quale uscì battuto. A quel punto Pompidou, che agli occhi dei francesi sembrava solo un imitatore, apparve il prodotto originale del gollismo, e conquistò la presidenza con una maggioranza persino più forte di quella del generale. Altro esempio di infelice tensione tra un presidente e il suo delfino che tenta di emanciparsi e viene fatto fuori, sarà vent’anni dopo il tandem socialista di François Mitterrand e Michel Rocard. Massimalista il primo, già alleato coi comunisti di Georges Marchais, riformista socialdemocratico e aperto ai centristi il secondo, i due saranno costretti a una sorta di coabitazione forzata in seno al Partito socialista quando nel 1988, al suo secondo mandato, Mitterrand sceglierà proprio Rocard come premier imposto dall’opinione pubblica. Anche in quel caso, però, l’intesa sarà difficile, addirittura impossibile. Nel volgere di un biennio, l’insofferenza del Fiorentino verso il primo ministro costringerà Rocard a gettare la spugna e passare la mano a Edith Cresson, prima donna a Matignon e pupilla del presidente che amava le donne. A metà degli anni Novanta, con la destra al potere, è il duo ChiracSarkozy a introdurre una variante nello schema del monarca che patisce la concorrenza del suo erede in pectore. In quel caso, al posto dell’insofferenza dei gollisti vecchia maniera, agisce l’ostracismo prodotto da una fatale scelta di campo: nel 1995, infatti, quando il premier Édouard Balladur decide di candidarsi alle Il presidente francese, Nicolas Sarkozy presidenziali, rompendo il patto col capo del partito di maggioranza, Jacques Chirac, Sarkozy, all’epoca ministro del Bilancio e portavoce del governo, si schiera con lui, passando per un traditore agli occhi di Chirac e del suo clan. L’avvicendamento tra i due sarà drammatico e vivrà tutte le diverse fasi che vanno dalla ricucitura, alla vigilia delle elezioni del 2002, al perdono di Sarkozy, graziato e assurto al rango di ministro degli Interni prima e di ministro delle Finanze dopo; dalla concorrenza diretta nella conquista del partito, alla sfida aperta in seguito allo smottamento del referendum antieuropeo del 2005, sino a concludersi con la guerra all’ultimo sangue tra Sarkozy, di nuovo ministro degli Interni, e il premier Dominique de Villepin, ex ministro degli Esteri e candidato del cuore di Chirac, presidente uscente. Il paradosso però è che adesso, tre anni dopo la sua trionfale elezione all’Eliseo, col 53,06 per cento dei voti, Sarkozy, come già a suo tempo Chirac, si trova alle prese con una sorta di emulo che gli vuole fare le scarpe. Resta da capire se Copé sia il portato della rivoluzione sarkozysta e della rupture, o non piuttosto la negazione, ma certo è che i rapporti tra i due sembrano obbedire allo schema classico della lotta per il potere, che in Francia si pratica sin dai tempi di Mazzarino e di Anna d’Austria, madre di Luigi XIV, quando Jean-François Paul de Gondi, cardinale di Retz orchestrava la rivolta della Fronda, tentando di mediare tra la Reggenza e il parlamento di Parigi, ma sempre pronto a tradire e cambiare partito Copé ha tutto del sarkozysta, l’ambizione senza complessi, la tenacia, il candore che agli occhi di un italiano rasenta l’idiozia pur di raggiungere i suoi fini, anche a costo di finire in prigione e in esilio. Copé, in effetti, ha tutto del perfetto sarkozysta: l’ambizione acclarata e senza complessi; la volontà feroce di assimilazione - anche lui infatti, come il presidente, è un francese di sangue misto e per di più ebreo, benché non praticante e a lungo refrattario ad assumerne l’identità. Anche lui come Sarkozy è abitato da una tenacia a prova di bomba, grazie alla quale persegue la sua strategia di irradiazione nelle élite e di conquista del potere in vista della consacrazione suprema dell’Eliseo, e senza mai deflettere, quale che sia l’ostacolo o l’imprevisto. Anche lui, infatti, come Sarkozy, è riuscito a trovare la forza per superare avversità e momenti bui. Nel 1997, quando Chirac si mise in testa di sciogliere il Parlamento per neutralizzare i balladuriani e dare al governo una maggioranza più solida, Copé che aveva 33 anni, e da due era sindaco di Meaux, comune di 89 mila abitanti a 50 km da Parigi, e sedeva come deputato in Parlamento, era arciconvinto che la destra avrebbe vinto le elezioni. Si prese una sberla sonora, quando vinse la gauche, e con il seggio all’Assemblée nationale perse anche l’80 per cento dei redditi. L’ossessione spregiudicata per il vile danaro nasce allora. Come Sarkozy anche Copé però è riuscito a risalire la china, facendo un’autocritica spietata, cambiando stile di vita e modi di fare, mitigando l’arroganza e il senso innato di superiorità, e togliendosi persino la cravatta per sembrare più vicino al cittadino comune. Animato da ambizione metodica e ossessiva, anche lui però, come Sarkozy, oltre all’esercizio permanente di autosopravvalutazione, ha sempre dato prova di quella strana forma di candore che all’occhio di un italiano rischia di rasentare l’idiozia – “Ciao mi chiamo Jean-François Copé e un giorno sarò presidente della Repubblica”, pare fosse la formula di presentazione usata sin da giovane anche per rimorchiare le ragazze alle feste del sabato sera. E anche lui ha dato prova di opportunismo, disinvoltura e spietatezza per costruirsi negli anni una rete di relazioni funzionali alla carriera, banchieri, imprenditori, uomini d’affari, alta tecnocrazia, e una congerie di esperti, studenti, semplici militanti pronti a buttarsi su qualsiasi argomento per compilare schede su schede destinate a far rifulgere lui, il futuro presidente. Da perfetto sarkozysta, anche Copé ha studiato anno per anno, mese per mese la biografia dei grandi: non di Napoleone o di de Gaulle però, perché a differenza di Sarkozy, che da ragazzo pur essendo un patito di Johnny Hallyday qualche libro pure lo leggeva; Copé, nato nove anni dopo di lui, il 5 maggio 1964, è figlio della tv, e a parte le schede tecniche e il manuale sulla Finanza pubblica che sin dai tempi dell’Ena sono sempre state il suo pallino, non sembra avere troppa dimestichezza con la cultura scritta. Tant’è che intervistato in tv non si vergogna a confessare che “i libri sono roba vecchia”, mentre nel 2003, quando era ancora sottosegretario ai Rapporti col Parlamento, aveva deciso di partecipare a un reality politico, dividendo per due giorni la vita quotidiana dei francesi, e pare ci restò malissimo quando il programma venne stoppato dall’Eliseo, tanto che per rifarsi tre anni dopo, da ministro del Bilancio, si lasciò riprendere dalle telecamere in un bar, alle prese con una partita di flipper, per spiegare dal vivo la riduzione delle tasse sui giochi al telegiornale. “E’ come te, ma con dieci anni di meno”, dicono oggi di lui a Sarkozy. Ma in realtà molte cose separano il presidente della Repubblica e il capo del gruppo parlamentare Ump. Intanto il carattere: Sarkozy è un sentimentale aggressivo, sempre in cerca di un rapporto di forza con cui schiacciare l’interlocutore, per sedurlo meglio. A volte sembra anche un po’ neurolabile, affetto com’è dal desiderio struggente di ottenere l’approvazione materna attraverso il carezzevole sguardo della moglie di turno, Cécilia prima, Carla Bruni adesso. E talmente esposto alla vulnerabilità un po’ isterica del bambino che ha vissuto un’infanzia declassata e senza padre, da volerla scongiurare ostentando emozioni e stati d’animo, per farne la cifra del nuovo marketing politico. Copé invece è un ragazzo risolto, sicuro di sé, molto schivo nei suoi sentimenti e senza soverchi drammi esistenziali alle spalle: coppia fissa a vent’anni con una compagna di scuola, e molti oggi li ricordano come una sorta di Bébé Chirac e Bébé Bernadette in miniatura; una moglie di buona famiglia sposata giovanissimo che gli ha dato tre figli, lavorando al suo fianco come assistente del suo supplente in Parlamento (per controllarlo meglio); e, dopo il divorzio, una compagna italo-algerina, da cui ha appena avuto la quarta figlia. Nato in una famiglia felice di ebrei sopravvissuti alla persecuzione grazie all’aiuto di una madre di famiglia francese, Copé è cresciuto nel benessere borghese, primogenito di un chirurgo proctologo d’origine romena, i cui nonni erano fuggiti negli anni Venti dalla Bessarabia per approdare a Parigi, e nipote per parte di madre di un Risolto, sicuro di sé, molto schivo, senza soverchi drammi alle spalle, Copé ha capito che Sarko rispetta solo chi gli resiste, e punta su questo celebre avvocato ebreo d’Algeria, che poco dopo l’inizio della Guerra d’indipendenza sbarcò a Marsiglia e da lì poi fece fortuna a Parigi, Copé ha sempre vissuto nel VII arrondissement, ha fatto il liceo al Duruy, poi l’Ena, classificandosi 35° della sua promozione, e avviandosi poi a un cursus honorum classico. E’ un rullo compressore, pronto a tutto, a salire sull’auto di Chirac, a tirare sgambetti, a demolire i rivali senza che se accorgano, come Xavier Bertrand, e soprattutto a mobilitare una squadra, anche se poi si lamenta di restare solo. Quanto al suo tandem col presidente, i due si amano, si odiano, si evitano, si inseguono. Per ora hanno firmato una tregua, dopo lo scontro sul velo integrale, che il capogruppo voleva vietare per legge, e il presidente no. Ma Copé ha capito che Sarko “rispetta solo quelli che gli resistono” e punta solo su questo.