Perché la destra è più di moda della sinistra Corriere della Sera, 24
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Perché la destra è più di moda della sinistra Corriere della Sera, 24
3HUFKpODGHVWUDqSLGLPRGDGHOODVLQLVWUD &RUULHUHGHOOD6HUD 24 febbraio 2005 Penso che fosse John Kenneth Galbraith a dichiarare, nei primi anni Sessanta, all’ apice del liberalismo post-New Deal, la morte del conservatorismo. «È privo di libri», disse. E senza libri, non ci sono idee. È vero: il conservatorismo americano era, all'epoca, un ammasso di fastidiosi pregiudizi, una chiesa chiusa con una dottrina arcaica professata da persone importanti ormai in declino. Vengono in mente William F. Buckley Jr. e pochi altri, i cui nomi oggi non sono ricordati quasi da nessuno. Prendiamo ad esempio Russell Kirk, un illustre intellettuale conservatore che, come scrisse Clinton Rossiter (anch'egli un conservatore moderato) è «sembrava un uomo nato 150 anni troppo tardi e nel Paese sbagliato». Nell'attuale fase storica, simili giudizi vengono invece attribuiti al liberalismo. È comprensibile: esso appare morente e privo di libri. Il più profondo pensatore del vecchio liberalismo, il teologo protestante Reinhold Niebuhr, è praticamente sconosciuto nei circoli in cui una volta parlava ed era ascoltato. Una ragione può forse essere la cupa visione della natura umana che egli professava. Per quanto acute siano infatti le sue osservazioni, per quanto possano essere state convalidate dalla storia, i liberali non sopportano un simile pessimismo. Chi ha dunque preso il posto di Niebuhr, un tempo tribuno incontrastato di cittadini e membri dell'università? È come se nessuno avesse nemmeno provato a colmare questo vuoto. Chiedetevi: chi è un influente pensatore liberale nella nostra cultura? C'è qualcuno in grado di cambiare delle idee o ad ispirarne di nuove? Quali libri e articoli riescono a creare un dibattito? Nessuno, davvero. Ciò che fanno i liberali è la solita lista della spesa: l'elenco dei programmi (alcuni buoni, altri di dubbio valore) che i repubblicani non stanno finanziando; e i blog, con la loro dose di panico quotidiano su come l'amministrazione Bush stia rovinando il Paese. Anche l'Europa sta compiendo il disincantato viaggio per uscire dalla socialdemocrazia ma seguendo un percorso diverso. Le sue élite non hanno previsto che un'immigrazione islamica incontrollata possa snaturare lo stato sociale e avvelenare la cultura di relativa tolleranza che, sin dal dopoguerra, ha accompagnato la vita politica europea. Le élite della sinistra cullano gli elettori offrendo loro un falso senso di sicurezza: i nuovi arrivati - raccontano - stanno semplicemente facendo il lavoro lasciato a metà dalle precedenti classi povere del Vecchio Continente. Ciò non comporterà nessun costo sociale o culturale. Il discorso è chiuso. In realtà le cose non sono così semplici. Mentre la produzione richiede nuovi lavoratori a ciclo continuo, le economie d'Europa sono frenate dalla necessità di dover offrire garanzie sociali a famiglie numerose che non sempre possono contare su di un membro che porta a casa lo stipendio. Così, persino nei più moralmente evoluti Scandinavia e Paesi Bassi, le rassicuranti storielle della sinistra non funzionano più. Il conflitto tra destra e sinistra negli Stati Uniti è differente. Ciò che suscita gli interessi del conservatorismo americano è il futuro del ruolo normativo del governo e il destino del federalismo. I conservatori non si sono tuttavia ancora accordati tra loro su quanto intendano depotenziare il compito e l'autorità del governo nazionale. Queste non sono per loro questioni fondamentali, come si è potuto vedere dal netto e contraddittorio successo che hanno appena ottenuto dando pieni poteri nel campo della legge sull'illecito civile non agli stati contro Washington ma a Washington contro gli Stati. Su tali questioni i liberali reagiscono, e la loro reazione li mette sulla difensiva. Tuttavia, non hanno ancora prodotto una seria discussione interna sul fatto che, dai tempi del New Deal, la vera natura del Paese è cambiata. Certamente ci sono alcune faccende nelle quali l'influenza del governo centrale si può ridurre. Senza dubbio ce ne sono altre la cui competenza può tornare agli Stati. Tuttavia, i liberali sanno che il ritiro del governo dall' economia sostenuto ideologicamente dalla destra - ma anche motivato da ragioni di classe - deve essere combattuto. Perché altrimenti ci sarebbero troppe vittime abbandonate sul ciglio della strada. Allo stesso tempo, la politica degli Stati Uniti non ha ancora fatto i conti con un fenomeno che da anni è sulle prime pagine della stampa finanziaria internazionale. Si tratta dell'inquietante competizione economica che giunge dalla Cina, il cui possesso di buoni del tesoro americano espone il dollaro a un possibile, e tremendo, declino se Pechino dovesse decidere di venderli (c'è un nuovo modello di società davanti ai nostri occhi: un più rapace sistema di economia capitalistico sotto un meno pietistico regime politico comunista). Gli Stati industrializzati d' Europa e, probabilmente, il Giappone si stanno preparando all' emergenza piuttosto che accettare la sfida lanciata dalla Cina. Tuttavia essa non scomparirà di certo. Un rapace capitalismo esiste anche nel nostro Paese. Certo, non è così brutalizzante come in Cina, però è demoralizzante e punitivo. La grande conquista del capitalismo statunitense è stata quella di diventare democratico, e il popolo può ragionevolmente avere fiducia nelle sue istituzioni. La diffusione di azionisti in possesso di fondi sociali, fondi pensione e proprietà private è un tributo all' affidabilità degli operatori principali, delle corporazioni e dei loro garanti. Noi ora sappiamo che molta di questa fiducia era mal riposta e che alcune delle più stimate compagnie e istituzioni finanziarie falsificavano i conti e concedevano vantaggi ai gruppi favoriti. Molte grandi imprese, banche d'investimento, titoli di mediazione, compagnie di assicurazione, revisori contabili e, sicuramente, avvocati che curavano i loro contratti, sono stati complici in questo tradimento della pubblica fiducia. Cosa può realmente provare la certificazione di una relazione finanziaria quando tutte le quattro principali società contabili del Paese hanno avuto comportamenti eticamente deplorevoli? Quello che è successo a Wall Street da pochi anni a questa parte equivale ad un abiura del giuramento di Ippocrate da parte dei dottori degli ospedali americani in cui si insegna la medicina. Per qualche ragione, persino i liberali si sono dimostrati riluttanti nel prendere atto di quello che era diventata la vita finanziaria del Paese. Sì, è vero che l'avidità è parte, persino creativa, del progresso economico. In ogni caso l'avarizia non dev'essere lasciata a briglia sciolta. Di cosa deve farsi carico un liberale se non si assume questo compito? I liberali amano accusare i propri consulenti politici. Se però dipendi dai consulenti per argomentare le tue idee, non vali molto. Dunque, ammettiamolo: anche i liberali non sono ispirati dalla visione di una società migliore, un problema che certamente trent'anni anni fa non avevano. Per molto tempo l'agenda liberale è parsa somigliare a un esercizio di contabilità: «Noi vogliamo spendere di più, loro di meno». Alla fine i numeri non portano chiarezza, anzi confondono. Ci sono grandi questioni che hanno bisogno di essere affrontate, e la più grande di tutte riguarda quello che ci dobbiamo l'un l'altro in quanto americani. Le persone che sentono un innato senso del dovere nei confronti degli altri sono portate a superare classi e razza, professioni e appartenenze etniche, stabilendo con i propri concittadini un rapporto di fiducia reciproco, esattamente come accade a un paziente con il suo dottore o a uno studente con l'insegnante. Non è facile descrivere una simile esperienza. Ma noi ce l'abbiamo nel sangue. Pur avendola nel sangue, realizzare una simile politica è un compito lungo e difficile. È assai più semplice e più rassicurante fermarsi ai vecchi ritornelli. Si può senza fatica far leva sui sentimenti di una folla cantando :H6KDOO2YHUFRPH. Una delle filastrocche che riempie le bocche dei liberali americani è il tema dei diritti civili degli anni Sessanta. Un altro è che il potere degli Stati Uniti è pericoloso per gli altri e per noi stessi. Anche questa è un'eredità dei Sessanta. Tuttavia tanta virtù sembra non vada al di là dei discorsi. Una delle eredità di quegli anni è l' idealismo liberale nei confronti della razza. Ma questo argomento è passato parecchio di moda nel partito democratico. Gli afroamericani e quelli di origine caraibica hanno fatto eccezionali progressi nel campo dell'educazione, della mobilità sociale, nel mondo del lavoro, nella situazione abitativa e nella rappresentanza politica e in quella dei mezzi di informazione. Il dislivello nell'accumulazione di ricchezza tra bianchi e neri ha cominciato a restringersi. Gli ultimi trent'anni separano ormai due mondi diversi. Le statistiche lo provano. Anche questo lo abbiamo ormai nel sangue. Tuttavia, nel partito democratico, tra i liberali, i soliti furbi vengono ancora acclamati. Jesse Jackson è stato nuovamente liquidato, più che altro per non creare danni. Il più grande insulto ai nostri concittadini di colore è stata la deferenza tributata ad Al Sharpton nel corso della campagna elettorale. Sin dall'inizio delle primarie era chiaro che Sharpton era un candidato senza alcuna speranza di vittoria. Tuttavia venne trattato come se potesse prestare il giuramento alla Casa Bianca il 20 gennaio. Alla fine ha conquistato solo una manciata di delegati. Eppure, alla convention dei democratici, gli è stato concesso di parlare nella fascia oraria di massimo ascolto. Sharpton è un istigatore dei conflitti razziali. A lui si deve la violenza di Crown Heights tra ebrei e neri, le sparatorie di Harlem, le proteste per le drogherie coreane a Brooklyn, e via dicendo. Nonostante tutto ciò, la stampa liberale tratta Sharpton come un vero leader, dotato persino di spessore morale: un imbroglione viene dipinto come lo statista del partito. Questa attitudine protettiva è evidente, così come lo sono i guadagni economici e sociali diffusi tra gli afroamericani, e nonostante ciò parecchi liberali preferiscono mantenere il loro datato atteggiamento condiscendente verso «l'altro», il bisognoso. Ciò è in netto contrasto con il comportamento del presidente Bush, il quale sembra non dare alcun peso alla differenza razziale (o di genere) tanto nelle sue nomine quanto nelle sue amicizie. Forse si tratta soltanto di una questione generazionale e, anche se fosse così, sarebbe un'ottima cosa. Bush potrebbe comunque essere il primo presidente che non considera le persone in base a categorie razziali o sessuali. Bianchi o neri, donne o uomini, basta che siano conservatori. Anche questa è espressione dell'essersi liberati dai pregiudizi. È davvero interessante che i liberali abbiano così tanti problemi nel chiarirsi le idee sulla questione della razza negli Stati Uniti. È, per dirla senza mezzi termini, patetico. È un lasciare il lavoro a metà. In merito a un caso di discriminazione nel Michigan, il giudice Sandra Day O'Connor ha scritto di presumere che, dopo 25 anni, non ci sia più bisogno di un programma contro le discriminazioni razziali. A meno che le cose non cambino rapidamente, il giudice ha completamente mancato il bersaglio. Sono passati circa due anni da quella ordinanza e nulla ad esempio è stato fatto per assicurarsi che i bambini di colore - e anche gli altri bambini, visto che la crisi del nostro sistema educativo attraversa razze e classi sociali - ricevano una differente e migliore educazione, nelle scienze e nelle materie letterarie, di quella avuta da coloro che ora stanno accedendo ai college. Il problema ha a che fare con la generale riorganizzazione del sistema scolastico. I conservatori hanno le loro idee, e molte di esse sono buone. Ditemi invece una sola idea liberale che abbia un po'di diffusione, anche solo un concetto generale per migliorare la trasmissione della conoscenza e il pensiero dei giovani. Non potete. C'è poi la questione del potere degli Stati Uniti, un altro prodotto degli anni Sessanta. È vero: i liberali americani non credono più nella dogmatica virtù delle rivoluzioni e dei rivoluzionari. Ma diciamo le cose come stanno: è complicato avere un'imparziale conversazione su Cuba con uno di loro. Nonostante l'abbondante documentazione a riprova della tirannia del lider maximo Fidel Castro, egli continua ad avere un'aura di prestigio presso di noi. Dopo tutto è riuscito a sopravvivere all'ostilità dello Zio Sam per 45 anni. Inoltre, il Viet Cong non è mai esistito. Fate questa domanda ad una festa nell'Upper West Side: «Cosa è stato peggio, il nazismo o il comunismo?». Senza dubbio la risposta sarà: «Il nazismo... perché il comunismo era comunque ispirato a un'idea di bene». Tutto ciò nonostante il fatto che i rivoluzionari e i regimi comunisti abbiano ucciso parecchi milioni di innocenti e trasformato il desiderio di uguaglianza di tanti idealisti in una brutale affermazione del male, un calcio impresso per sempre sulla faccia dell' umanità. L' editorialista Peter Beinart ha sollevato il caso dell' immensa mobilitazione nazionale e internazionale contro il fanatismo islamico e il terrorismo arabo. Chi oggi si oppone allo sforzo americano in Medio Oriente, fa parte della stessa tipologia di persone che volevano che gli Stati Uniti lasciassero trionfare il comunismo: nel dopoguerra in Italia e Grecia, nella guerra fredda in Francia e nel dopo guerra fredda in Portogallo. Di fronte ai nostri guai in Iraq, si può sentire una gioia malvagia nelle loro voci, la si può leggere nelle loro parole. Per mesi, i liberali hanno spacciato scenari catastrofici a ripetizione, un fatto contraddittorio in qualche modo ne illuminava sempre un altro. Essi speravano, contro ogni ragione, che le loro cupe visioni si rivelassero esatte. Mi è capitato di credere che non lo fossero. Ciò non mette però un freno al lamento liberale. Le lagnanze non sono infatti legate ad una singola circostanza. È piuttosto un'afflizione permanente nel suo stesso modo di pensare. Non è un sintomo, è una condizione. È una condizione legata alle estreme speranze che i liberali hanno riposto nelle Nazioni Unite. L'Onu è la loro calamita. È una calamita che però non funziona. Non ha nessun magnetismo verso il bene. Essa ha piuttosto il fascino del negativo. È corrotta, pomposa, è soffocata da tiranni e cinici. Non riconosce un genocidio quando il genocidio è visto e compreso da tutti. Adesso il liberalismo ha bisogno di essere liberato da molte delle sue illusioni e delusioni. Speriamo di averne ancora la forza. Martin Peretz Martin Peretz ha sostenuto Al Gore ma dopo l'11 settembre si è avvicinato ai «neocon» Martin Peretz è proprietario e direttore editoriale di «The New Republic», il settimanale liberal fondato nel 1914 che ha sostenuto il democratico Kerry alle ultime presidenziali. Una posizione, questa, non condivisa dal patron del giornale: «Un candidato poco attraente - ha detto -, ma è stata una scelta della maggioranza dei redattori e io non volevo imporre nulla». Peretz vive a Cambridge, la città dell'Università di Harvard, dove ha insegnato Studi sociali. Uno dei suoi allievi è stato Al Gore, ex vice presidente dell'amministrazione Clinton, del quale ha sempre appoggiato la carriera politica. L'editore-giornalista liberal è su molti temi assai più vicino ai neoconservatori che ai democratici: in politica estera (è stato favorevole all' invasione dell'Iraq), sicurezza e su Israele. Per tornare alla Casa Bianca, secondo Peretz alla sinistra non basta un candidato appetibile («Hillary? Metà del Paese non la sopporta»): innanzitutto deve smettere di pensare che l'America «sia responsabile di ogni cosa e che l'11 settembre sia da imputare ad una sua colpa».