Come leggere la poesia .7 Giochi illocutivi Quarta parte Emilio

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Come leggere la poesia .7 Giochi illocutivi Quarta parte Emilio
DISCIPLINE
Come leggere la poesia .7
Giochi illocutivi
Quarta parte
Emilio Manzotti – Luciano Zampese
Prosegue la pubblicazione di «Come
leggere la poesia», una guida all’analisi, alla
comprensione, all’interpretazione del testo
poetico. Questa settima puntata conclude
la riflessione sulle potenzialità strutturali e
in particolare poetiche delle architetture
“azionali” del testo, analizzando
l’articolazione illocutiva di preghiera e
risposta – risposta negativa, diniego (e
anzi non risposta ma ineluttabile accadere)
– in uno dei più noti “mottetti” della
raccolta Le occasioni di E. Montale.
Quel che importa, qui, non è tanto una lettura critica esauriente del testo, quanto l’individuare, il descrivere certi fenomeni linguistici in quanto vettori di poeticità.
Il testo su cui si vuole concentrare l’attenzione è un celebre mottetto montaliano delle Occasioni: il XVIII di quei venti «courts
poèmes d’une élégance et d’une concentration saisissantes»
(così G. Contini1), articolato in due quartine sintatticamente
indipendenti di tre endecasillabi e un settenario connessi da
rime e quasi rime, rime al mezzo, assonanze e consonanze:
3.7. – «Pregar, che vale?» –
a proposito di un mottetto montaliano
Il mottetto (databile al 1937) svolge, grosso modo, il tema del
«volto che le forbici del giardiniere autunnale recidono con i
rami dell’acacia»2. Caratterizzazione ineccepibile nella sua
3.7.1. Non recidere, forbice, quel volto...
Un’illocuzione che viene spesso usata a strutturare, in tutto o
in parte, il testo poetico è (lo si era visto bene in Pascoli) la
richiesta, specificata di volta in volta come ordine, come
ingiunzione, come preghiera, come suggerimento: come uno
insomma dei molti sottotipi del tipo illocutivo dei direttivi.
Della richiesta esploreremo in queste pagine alcune potenzialità testuali e poetiche sulla scorta d’un breve componimento
novecentesco, la cui prima parte, la strofa d’apertura, apparirà appunto come una richiesta “complessa”: un macro-atto di
richiesta in negativo, di richiesta “di non fare” – seguíta nella
seconda parte-strofa da una mal decifrabile serie d’asserzioni.
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
*la VI puntata della serie, con i paragrafi 3.6.5. e 3.6.6., è rimandata nel numero 2,
ottobre 2010.
1. In Pour présenter Eugenio Montale – un intervento francese del ’46, ora riprodotto
in: G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi, Torino 1974, p. 69.
1. Sono ancora termini di G. Contini, ibid., ripresi (e tradotti) nell’ed. di riferimento
della «Nuova raccolta di classici italiani commentati»: E. Montale, Le occasioni, a c. di
D. Isella, Torino, Einaudi 1996, p. 117.
2. Con isotopia si intende, come è noto, la presenza significativa, nel testo, di tutto un
insieme di specificazioni d’una stessa categoria semantica, le quali fanno sistema tra
di loro e guidano quindi l’interpretazione (naturalmente, nel testo poetico, le più notevoli sono le isotopie latenti, non esplicitate). Sulla nozione, introdotta da A.-J. Greimas
nel 1966, e declinata in séguito in varie accezioni, si veda la voce relativa in P.
Charaudeau e D. Maingueneau, Dictionnaire d’analyse du discours, Parigi, Seuil,
2002, pp. 332-34, con gli studi ivi indicati; e inoltre J.-M. Klinkenberg, Le concept
d’isotopie en sémantique et en sémiotique littéraire, «Le Français moderne», 41
(1973), pp. 285-90. Per un primo approccio basterà comunque il già cit. C. Segre,
Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985, pp. 32-34.
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3.7.2. Un mottetto dialogico?
generalità, e che del resto è rispecchiata dalla “isotopia”3 latamente vegetale distesa sul testo: la forbice del 1° verso è o almeno potrebbe essere, oltre che il malfatato strumento domestico
in mano ad Atropo, quello meno esiziale della potatura, le
“cesoie”; sfollarsi (da ex + follare) vale in primo luogo “spopolarsi, svuotarsi di gente”, ma anche “si sfoltisce” (in silvicoltura
sfollare transitivo è «sfoltire un bosco con l’operazione dello
sfollamento» e in particolare «ripulire la base di un albero dai
polloni in eccesso»); svettare intransitivo significa “alzarsi
guizzando verso l’alto”, ma transitivamente “cimare, tagliare
alla cima le fronde di una pianta”; e a questa serie andrà aggregato anche il raro belletta (“fango, fanghiglia, melma”, «la
posatura delle acque stagnanti»), un sostantivo dantesco (Inf.
VII, v. 124 «or ci attristiam nella belletta negra», detto da e degli
accidiosi) e quindi letterario e in specie dannunziano4), che vale
specificamente qui “la terra fangosa ai piedi dell’albero”.
In questa metaforicità qualcuno sarà anzi tentato di vedere
la traccia (certo generica: ma non sfuggirà la concordanza
sintattico-semantica di «duro il colpo» e «grave il colpo»,
con aggettivo in entrambi i casi predicativo) di un georgicosimbolico poemetto pascoliano del 1904, «Le armi» (quelle
del contadino); di passi, in particolare, che celebrano il
“tagliare”, il “potare” («Le armi», vv. 43-45: «Altri potava. Si
sentian gli azzecchi5, | gli schiocchi delle forbici. Sui pioppi
| dava il pennato fitti colpi secchi»), o, nella sezione VI, vv.
1-3, la confezione del pennato, vale a dire, con la definizione
del DISC, dello «strumento da boscaiolo simile a una grossa
roncola, che ha sul dorso una cresta tagliente; [e che] è usato
come un’accetta per potare i rami più grossi»: «E poi fece il
pennato, arma ch’ha il becco | aguzzo e curvo il petto e il
taglio fino | e grave il colpo, per il verde e il secco».
Ad ogni modo, proprio sopra una doppia “recisione”, ad estate definitivamente conclusa (quando anche il tempo è in certo
modo finito, e non vi è più speranza), viene a costruirsi il
nostro mottetto. Da una parte (nella prima strofa) la perdita di
immagini della memoria, rappresentata metaforicamente
appunto come “taglio” – «non fare, forbice, con l’atto della
recisione, nebbia di quel viso, cioè “non distruggerlo”», secondo una parafrasi dello stesso autore6. Dall’altra, entro la strofa
che segue, la “potatura” (operazione di per sé altamente simbolica!7) dei rami (secchi?) d’un albero che orna giardini e parchi, l’acacia, se non addirittura il suo abbattimento vero e proprio. Un mottetto binario anche nell’articolazione dei contenuti, dunque, con due momenti A = “il taglio del volto” e B = “il
taglio (dei rami) dell’acacia” che si dispongono in maniera
naturale nelle due strofe, e di cui la critica ha rilevato
l’interdipendenza8, che va al di là del rapporto di similitudine
o di illustrazione, visto che la metaforicità del primo momento è determinata dall’ambito tematico del secondo.
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In questo primo abbozzo d’analisi del mottetto – con due
momenti interdipendenti A e B in parallelo – rimane tuttavia ancora irrisolta, cioè non utilizzata nell’analisi, proprio
la caratteristica illocuzione direttiva, che il carattere parzialmente parafrastico della prima strofa rende oltretutto più
insistente: l’imperativo negativo «Non recidere, forbice,
quel volto, |…» venendo replicato a contatto (e, come
vedremo, esplicitato, sviluppato) da «non far del grande suo
viso in ascolto | la mia nebbia di sempre». Il testo non si
limita a descrivere due stati di cose, ma provvede il primo di
un’illocuzione marcata. È su questa richiesta, e sull’eventuale “risposta” che essa nel testo riceverà o non riceverà che
una lettura linguistica approfondita del testo deve riflettere.
Sulla scorta delle illocuzioni della prima quartina, insomma,
sul suo carattere di macro-atto di richiesta, il mottetto
potrebbe venire inteso nella sua globalità come dialogico, a
patto di poter intendere la seconda quartina come una risposta “negli atti”, affidata semplicemente, senza parole, ad una
azione ed alle sue conseguenze.
In primo luogo rileviamo che la doppia richiesta «Non recidere x», «Non fare, di x, y» possiede un valore che giustamente è stato etichettato di “deprecativo”9: vale a dire, secon3. «Nella belletta» è titolo di un madrigale d’Alcyone: «Nella belletta i giunchi hanno
l’odore | delle persiche mézze e delle rose | passe».
4. Il sostantivo da azzeccare: sono cioè “colpi secchi che cadon giusti”.
5. In una lettera del 22 novembre 37 al critico Renzo Laurano (v. il cit. commento
einaudiano di D. Isella).
6. Si ricorderanno a proposito, anche se relative ad una potatura primaverile, le riflessioni della Foscarina nel Fuoco dannunziano (1898): «In nessun’altra opera l’uomo
della gleba ha più profondo il senso della vita muta che è nell’albero. Quando egli è
là dinanzi al pero o al melo o al pesco col pennato o con la forbice che deve crescere le forze e può cagionare la morte, da tutta la sua saggezza, acquistata nei suoi colloquii con la terra e col cielo, sorge lo spirito geniale della divinazione. L’albero è nella
sua ora più delicata quando la sua sensibilità si risveglia affluendo nelle gemme che si
gonfiano e sembrano vicine ad aprirsi. L’uomo col suo ferro crudo deve regolare
l’equilibrio nel movimento misterioso della linfa! L’albero è là, ancóra intatto, ignaro
d’Esiodo e di Vergilio, in travaglio ecc.» (Prose di romanzi, a c. di N. Lorenzini, vol. II,
Mondadori («I Meridiani»), Milano 1989, p. 506). Un omologo del “potare” è il “falciare” della pascoliana «Figlia Maggiore»: «Un vecchione falcia e raduna | l’erbe e i fiori
di primavera; | poi tutto egli brucia, là, una | limpida sera».
7. «Non “un’allegoria col suo commento”, dunque; ma “così bilicati tra loro i due
momenti”, osserva il Pancrazi […], “che senti staccarsi insieme dal ramo il guscio
della cicala, e il caro volto della memoria”» – è D. Isella nel commento citato.
8. Di «formula deprecativa» parla appunto D. Isella nel commento cit., rilevando inoltre
che gli imperativi negativi caratterizzano (con diverso valore, a dire il vero) «altri attacchi
montaliani degli Ossi», e in specie, di questi, la dichiarazione di poetica che apre la
sezione omonima: «Non chiederci la parola … […] Non domandarci la formula…», ma
anche «Non rifugiarti nell’ombra | di quel fólto di verzura | come il falchetto che strapiomba | fulmineo nella caldura». – Controparte negativa, questi imperativi, delle molte
“richieste d’azione”, come ad esempio, sempre negli Ossi, entro «In limine»: «Godi se il
vento ch’entra nel pomario | vi rimena l’onda della vita | […] Cerca una maglia rotta nella
rete | che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! | Va, per te l’ho pregato, – ora la sete | mi sarà
lieve, meno acre la ruggine…», o in «Arremba sulla strinata proda | le navi di cartone, e
dormi, | fanciulletto padrone: che non oda | tu i malevoli spiriti che veleggiano a stormi»
(dove la richiesta è proprio volta a far sì che non accada qualcosa di deprecabile...).
9. Così, s.v., il Dizionario etimologico della lingua italiana (1907) di P. O. Pianigiani,
consultabile online sotto http://www.etimo.it. Ma a meglio intendere cosa possa
significare “deprecativo” e quindi il sottotipo illocutivo in questione si consiglia ad
ogni modo la lettura delle due voci Deprecatio e Deprecor nel Lexicon del Forcellini,
e quindi degli articoli 3090 Orare, Pregare, Supplicare, ecc. e 3091 Preghiera, ...,
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do etimologia (de + precor), un “allontanare pregando con
istanza”, un «pregare che un male ci sia risparmiato o
cessi»10. Illocutivamente questo valore è caratterizzato rispetto agli altri sottotipi di richiesta da due parametri interattivi
specifici (cui nel nostro contesto se ne sommano altri tre):
i)
lo statuto sbilanciato di richiedente e destinatario: di modo che al secondo, più elevato di grado del primo, ci si potrà rivolgere
solo nella modalità, di forza attenuata,
della preghiera, che egli è libero di esaudire o meno;
ii)
il particolare contenuto della richiesta, che
è uno stato di cose (azione, processo o
situazione) negativo per il richiedente, e
che importa quindi di far cessare o (nel
nostro caso) di non far avvenire – donde
l’imperativo negativo.
Inoltre, sempre nel nostro caso,
iii)
il destinatario (la forbice) è impersonale, è
un ineluttabile strumento cieco (nel senso
etimologico di “con cui non si può lottare”), mosso da una ancora più ineluttabile
e misteriosa forza superiore;
e infine, in conseguenza di iii):
iv)
la richiesta è vana, priva d’efficacia;
v)
il richiedente sa bene che la sua richiesta è
vana, che il corso delle cose non può essere
mutato.
I due ultimi parametri conducono la deprecazione a sconfinare dall’area degli atti direttivi entro quella degli espressivi: a porsi cioè come “deplorazione”, come “lamento” in
rapporto a «gran perdita o caso assai miserando» (così ancora il nostro Pianigiani). Simili nello scopo di “evitare qualcosa di negativo”, le preghiere di «Nebbia» analizzate nella II
e III puntata. – «Nascondi le cose lontane…» – erano tutto
sommato più positive, chiedendo non di “smettere di fare
p» o di «non fare in futuro p”, ma di “fare q per evitare p”,
e soprattutto, sorprendentemente (per Pascoli), meno vane,
meno connotate come lamento, dato che la nebbia alcuna
cosa potenzialmente pericolosa riusciva pure a nasconderla.
3.7.3. Deprecazioni, deplorazioni
Iterati, gli enunciati a illocuzione deprecativa o magari ad
un secondo livello deplorativa nella prima strofa del mottetto vengono a comporre un unico macro-atto deprecativo
(deplorativo). La seconda deprecazione– «non far ecc.» –
riprende in maniera più elaborata la prima (e, insieme, “per
ripetizione” la intensifica), analizzando il “recidere” e spostando l’accento sulle sue conseguenze: da “non recidere x”
si passa a “non fare, di qualcosa di positivo x, qualcosa di
E. Montale, Autografo di “Arremba su la strinata proda” (Ossi
di seppia), Fondo dell’Università di Pavia (riprodotto in
Autografi di Montale, a c. di M. Corti e M.A. Grignani,
Einaudi, Torino 1976, p. 24).
negativo y”. La riformulazione introduce cioè accanto allo
stato di partenza – quello del volto che rimaneva solo nella
memoria sempre più povera – anche il risultato di “vuoto”,
di nebbia conseguente alla recisione – che viene poi presentato («nebbia di sempre»!) come la regola, se non fosse la
presenza del «grande viso», se non fosse il suo “essere in
ascolto”, la sua “virtù”di capire, di consolare, di dar senso.
Non sfuggirà che quello scolpito nella memoria è un volto,
un viso, un ritaglio insomma, e non una figura intera, in
accordo del resto con altri luoghi montaliani, ad esempio nei
due (antitetici) di «Flussi» (Ossi di seppia, sezione «Meriggi
e ombre»), vv. 44-47:
Addio! – fischiano pietre tra le fronde,
la rapace fortuna è già lontana,
cala un’ora, i suoi volti riconfonde, –
e la vita è crudele più che vana.
Deprecare, supplicare ecc. del Dizionario dei sinonimi di N. Tommaseo «riveduto e
aumentato» da G. Rigutini.
10. La separazione, la “recisione”, è in questa lirica di nuovo esplicitamente verbalizzata: «Sta in un fondo fuggevole, reciso | da te ogni gesto tuo».
11. Così ad esempio in E. Montale, Poesie, a c. di A. Marchese, A. Mondadori Scuola,
Milano 1991, p. 97.
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e di «Due nel crepuscolo»11 de La Bufera:
.... le parole
tra noi leggere cadono. Ti guardo
in un molle riverbero. Non so
se ti conosco; so che mai diviso
fui da te come accade in questo tardo
ritorno. Pochi istanti hanno bruciato
tutto di noi: fuorché due volti, due
maschere che s’incidono, sforzate,
di un sorriso.
Alla doppia ma nella sostanza unica deprecazione (una
endiadi, un macro-atto), da intendere magari (si era ipotizzato) anche come protratto lamento (e la differenza non è
illocutivamente di poco momento, perché un lamento di per
sé non domanda risposta o reazione), seguono nel secondo
momento B, dopo la soluzione di continuità strofica, tre
enigmatici accadimenti semplicemente asseriti:
b1)
il “calare di un freddo” (notevole
l’indeterminativo un, cui andrà attribuito
magari anche valore numerale);
b2)
lo “svettare del colpo”;
b3)
lo “scrollare da parte dell’acacia ecc.”.
Da queste notazioni currenti calamo dell’autore si possono
ricavare (con cautela) tante cose, tra cui il fatto che un certo
grado di ambiguità è voluto, o comunque accettato. Ma noi
ne trarremo soprattutto la certezza che Montale intendeva
davvero evocare nella seconda strofa, a prescindere dalle
varianti, un’accetta, o comunque qualcosa di più devastante
delle cesoie di un giardiniere (come pensare del resto che il
semplice taglio di una fronda, di un ramo, abbia tanto
impatto sull’acacia da farne staccare il «guscio di cicala»?); e
inoltre il fatto che l’instaurarsi del momento analogico era
puntualmente segnalato dal “parere” del v. 5, predicato del
guizzo delle lame della forbice (v. sopra il riferimento esplicito al «guizzo della forbice-accetta che assesta il colpo»).
Tenendoci dunque alla prima stesura, gli accadimenti b1, e
b3 andrebbero ricostruiti nell’ordine come:
1) avvicinarsi delle lame fredde della forbice al volto,
“scendere” su di esso (siamo dunque nella prosecuzione del momento A) e magari assieme progredire analogico della stagione: il freddo autunnale
che si instaura;
2) guizzo delle lame della forbice, che si aprono a
tagliare, paragonato (interviene ora la transizione al
momento B) al precipitare del ferro dell’accetta contro un ramo o un tronco;
3) reazione, sempre all’interno del momento B, dell’albero “ferito” (si tratta in altri termini delle conseguenze del taglio: il piccolo dramma è chiuso, la
nebbia temuta e deprecata si è addensata in belletta).
Come andranno intesi i tre accadimenti (azioni o processi)
b1, b2 e b3? In che rapporto staranno tra di loro e con quanto
precede? Di essi oltretutto non è nemmeno evidente la successione temporale. Ad esempio, se a “calare” fosse una
lama ed a “svettare”, a salire verso l’alto, fosse appunto sempre la lama prima del colpo, perché mai l’ordine inverso?
Ma procediamo passo passo. Al “freddo che cala” di b1)
viene in genere attribuito carattere volutamente ambiguo tra
il «freddo della stagione autunnale» e quello della «lama che
cala sull’acacia»12. Più complicato, ma decisivo per
l’interpretazione, è il caso di b2, cioè del secondo emistichio
del v. 5, che nella prima stesura13 appariva come «Il guizzo
par d’accetta» (). Il v. 5 suonava dunque:
Un freddo cala… Il guizzo par d’accetta.
«Se quella forbice che si trasforma in accetta non è … accettabile», scriveva Montale sempre a R. Laurano14, «potrebbe
sostituire così: Un freddo cala… Duro il colpo svetta. Veda
lei». Una lettera di alcuni giorni dopo fornisce ulteriori chiarimenti e motivazioni per la variante privilegiata:
La sostituzione di b2 a, cioè di «Duro il colpo svetta» a «Il guizzo par d’accetta», attenua l’impatto della transizione analogica e maschera i confini tra i due momenti A e B. Lo “svettare
con durezza” sarà ad un tempo, come si era detto, l’“alzarsi
guizzando verso l’alto” dell’accetta a preparare il duro colpo,
e in qualche modo anche15, transitivamente (ma con oggetto
diretto inespresso), il “tagliare crudamente la ‘vetta’, il capo
quasi, della pianta». E la «spoglia di cicala» (Pascoli) che cade
nel fango – estrema manifestazione di un generalizzato movimento “discenditivo” verso il nulla – è senza dubbio per traslato il volto reciso. Non escluderemmo nemmeno che alla forbice del giardiniere, del tempo e delle Parche sia in qualche
modo associata, in questa recisione di un volto, assieme all’accetta del giardiniere o boscaiolo anche la lama che cala inesorabile e fredda della ghigliottina. L’associazione fattuale di forbici e ghigliottina è del resto evocata in una traduzione carducciana dal Romancero di H. Heine16 compresa nelle Rime nuove,
«Il significato equivoco di svettare (tra l’altro vuol anche
dire: recidere la vetta) per quanto intraducibile m’è
venuto spontaneo, non tirato per i capelli, ed è prezioso
in quel luogo. E poi la prima stesura Le aveva fatto credere che il guizzo si riferisse al freddo che cala, mentre
per me era il guizzo della forbice-accetta che assesta il
colpo; dunque era più equivoca la prima stesura».
12. Affidata ad una lettera del 17 novembre ’37 a R. Laurano (v. il cappello introduttivo al mottetto nella cit. edizione per c. di D. Isella, p. 117).
13. Lettera del 18 novembre ’37.
14. Ma occorrerà allora mettere tra parentesi l’accetta (che implicherebbe nel giardiniere insolite doti acrobatiche: v. il cit. commento di A. Marchesi: «il colpo dell’accetta recide la cima dell’acacia») e rimanere con la forbice…
15. «Karl I» :«Im Wald, in der Köhlerhütte, sitzt | Trübsinnig allein der König; | Er sitzt
an der Wiege des Köhlerkinds | Und wiegt und singt eintönig: || ecc.».
16. Se si preferisce, sopra un secondo piano illocutivo, non più dialogico, interpreta-
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CII «Carlo I», dove il re francese – «Cupo e solo, nel bosco, a la
capanna | Del carbonaio il re sedeva un dì» – medita sopra la
culla di un bambino di carbonai a come questo bambino, fattosi uomo («crescerai d’età, | E brandirai la scure, uom fatto»),
diverrà il suo carnefice: le forbici – fredde sulla pelle – “preparano” in effetti il condannato alla lama della ghigliottina liberando il collo dai capelli:
È ninna nanna a te l’oscuro e lento
Salmo di morte a me. Cresci a tagliar
Questi grigi cernecchi: al collo, ahi, sento
Il freddo delle forbici strisciar.
3.7.4. E il freddo cala...
Tornando alla struttura illocutiva – e dialogica – del testo,
viene ora naturale, se ci si tiene come faremo al primo e più
ovvio piano illocutivo17, vedere nelle tre asserzioni del
momento B una risposta indiretta, per via d’azioni, non di
replica verbale, alle deprecazioni del momento A. La vera
risposta negativa, a rigore, è latente nello spazio, nel silenzio
interstrofico: è affidata a quel silenzio18. Ad essere rappresentato nella seconda strofa è ciò che segue il diniego, le sue
conseguenze: l’azione paventata, quella che si era tentato di
scongiurare (o di cui si lamentava l’inevitabilità), che di fatto
ha sùbito luogo, per quanto sopra un oggetto trasposto, il
guscio, la spoglia vuota della cicala. Il Tempo, la
Lontananza, la Morte non si lasciano impietosire nel freddo
Novembre dalle preghiere (dai lamenti) del povero Orfeo
novecentesco: «keine Bitten | nützen, der Gott verneint»
“non vale supplica alcuna, il dio fa segno che No”19.
Schematicamente, dunque:
A
preghiera iterata di “non recidere”
—
(silenzio, da interpretare come diniego: come
rifiuto di non recidere)
B
atto della recisione, rappresentato analogicamente su un altro oggetto.
Secondo l’analisi illocutiva proposta, i due momenti A e B
risultano in definitiva non affiancati, non paralleli, ma piuttosto l’uno lo sviluppo temporale, l’esito dell’altro.
Fortemente integrati dal punto di vista illocutivo e logico,
mini-dramma unitario, essi mettono in scena, con metaforicità mutevole (forbice vs accetta, ecc.), rispettivamente una
(vana) doppia azione verbale di deprecazione e concrete
consistenti azioni extra-linguistiche – non più parole, dunque! – di “risposta” alle precedenti.
Emilio Manzotti – Luciano Zampese
Università di Ginevra
re gli imperativi di A in termini di “lamento”, il momento B andrà naturalmente inteso
come rappresentazione dell’ineluttabile per quanto deprecato e lamentato, dissolversi d’ogni ricordo nella memoria.
17. Degno di nota che non vi fosse traccia di articolazione strofica nella prima redazione del mottetto.
18. Così Gottfried Benn in una poesia della raccolta postuma Primäre Tage.
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