Surf neuronale sulle onde del packaging

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Surf neuronale sulle onde del packaging
Surf neuronale sulle onde del packaging
Quando anni fa scrivevo per una rivista psichedelica parlavo di “surf neuronale”
come di una strada per espandere la mente ovvero per moltiplicare le possibilità
creative del nostro cervello.
Surf neuronale significa attingere alle forme più disparate della comunicazione,
dell’arte in tutte le sue espressioni, cercando di metter in fuori gioco le
connessioni neuronale abituali e crearne di nuove.
Abbiamo tutti presente l’impressionante crescita delle capacità di un bambino nei
suoi primi anni di vita. Questo effetto è dato dall’aumento vertiginoso delle
connessioni tra neuroni che ne incrementano le capacità cognitive, espressive di
comunicazione. Più o meno al termine della adolescenza queste connessioni
tendono a fissarsi e quindi la persona cerca non più di aprire la propria percezione
del mondo ma a ridurre il mondo a quello che già conosce, ai suoi percorsi
neuronale privilegiati.
Questo meccanismo non è né buono e né cattivo in sé: è uno strumento di
sopravvivenza in quanto nessuno potrebbe sopravvivere senza un filtro di fronte
agli stimoli incessanti che il mondo propone.
La natura quindi crea a nostro uso e consumo uno strumento che per garantirci la
sopravvivenza riduce la possibilità di cogliere il mondo nella sua complessità e
variabilità.
Questa situazione tuttavia crea non poche difficoltà a chi fa un mestiere che
richiede creatività in quanto deve da una lato esplorare nuove possibilità e dall’altro
dialogare con il mondo della produzione che invece, per sua stessa natura, si basa
sulle esperienze precedenti costruendo su di esse il proprio know how e la propria
sicurezza.
Quando parliamo di packaging questa dicotomia si ritrova sostanzialmente in due
fasi della progettazione: quella relativa alla usabilità del pack, alla sua possibilità di
essere prodotto in serie e quella relativa alla comunicazione. Al centro di questo
dilemma il packaging designer si ritrova ad avere a che fare con uno strumento
che dovrebbe comunicare emozioni legate al prodotto e allo stesso tempo trovare
la soluzione per adattarlo a percorsi produttivi standardizzati: il designer insomma
diventa una specie di artista nel senso della bottega rinascimentale ovvero
qualcuno in grado di unire la creatività e il “saper fare” stratificato da secoli.
Uno squilibrio in un senso piuttosto che in un altro porterebbe a packaging tutti
uguali e privi di personalità oppure a esperimenti puri privi di praticità.
Questa situazione ha portato ad un facile compromesso per il quale il designer
ripete forme e soluzioni già note riversando sul design grafico la parte di
comunicazione. Sappiamo che in realtà anche mentre scriviamo c’è chi sta
lavorando a soluzioni nuove e inedite in questo senso ma se guardiamo le migliaia
di nuovi prodotti che vengono lanciati sul mercato ogni mese vediamo che la strada
sopra descritta è decisamente maggioritaria.
Ma siccome abbiamo parlato all’inizio di surf neuronale ecco che mi ritrovo nella
necessità di dare un colpo secco alla mia tavola e cercare di portarvi un po’ fuori
rotta.
Cosa hanno in comune Buck Mulligan nell’ “Ulisse“ di Joice o il protagonista di
“Natura morta con picchio” di Tom Robbins?
(qui terminiamo e poi mettiamo l’articolo intero in allegato)
Il primo, in una indimenticabile pagina, sprofonda nella contemplazione della
etichetta triangolare rossa della birra Brass arrivando a dire “Qualunque oggetto,
osservato intensamente, può essere la porta d’accesso all’incorruttibile eone degli
dei” (J Joyce “Ulisse”, Mondatori, 1978)
Il secondo, bombarolo gioiosamente anarchico, sceglie di fuggire con la sua
principessa nel paesaggio desertico dei pacchetti di sigarette Camel.
In qualche modo entrambi sfuggono al velo di Maya delle apparenze immediate e
riconoscono in un packaging la stessa funzione che riconobbe Wlliam Blake
nell’arte “La prima funzione dell’arte è esattamente quella …..di trasportare la
mente fino all’albero interiore della vita illuminata” (W. Blake “opere”, Guanda,
1984)
Non credo che chi ha disegnato questi packaging abbia pensato a questi sviluppi
ma tant’è…è successo e nessuno può farci nulla.
Sembra insomma che indipendentemente dalla volontà di chi progetta vi sia una
dimensione del progetto che non può essere dominata, controllata o prevista ma
proprio questa dimensione è quella che provoca le eco più profonde nella mente
del consumatore.
La strada della lettura semiotica del packaging non ci aiuta sicuramente, se infatti
pensiamo alla massima “fuori del testo non v’è salvezza” capiamo subito che una
analisi semiotica del packaging può servirci per decodificarne la parte che tutti
possono condividere. In altre parole se l’obiettivo della semiotica applicata al
packaging design è quello di ottenere una maggiore leggibilità del prodotto è chiaro
che essa prenderà in considerazione i significati chiaramente condivisi chiudendo
la strada a quelli non immediatamente condivisi da tutti.
Progettare quindi utilizzando la semiotica può essere utilissimo se pensiamo ad
esempio a icone che indichino la tossicità di un prodotto da apporre su una
packaging destinato a essere distribuito in tutto il mondo ma non ci aiuta a
progettare l’unicità di un prodotto di nicchia.
Diamo per assodato che i consumatori, privi della possibilità del contatto diretto con
il prodotto, inferiscono ad esso le caratteristiche del packaging. Tuttavia non siamo
più negli anni ’40 in cui la missione del packaging era quella di illustrare il contenuto
e al massimo la sua provenienza ma ci troviamo in una situazione in cui si chiede al
packaging di comunicare l’unicità del prodotto in un mondo sovraffollato di prodotti.
E qui, altro colpo di tavola da surf, entra in campo Magritte. In un’analisi
assolutamente spiazzante dell’opera del pittore francese, il Professor Collecchia
dell’Università di Bologna ci introduce a un modo completamente nuovo di leggere
la comunicazione visiva .
Riassumendo in modo pedissequo quello che il professore dice (spero mi
perdonerà) possiamo dire noi abbiamo diversi livelli di percezione di un quadro o in
ogni caso di un artefatto che deve comunicare qualcosa, che si strutturano in modo
gerarchico via via che l’immagine viene elaborata.
Un’immagine infatti non viene decodificata in modo immediato ma subisce una
elaborazione sempre più profonda da parte dell’osservatore passando da un primo
livello nel quale vengono percepite le caratteristiche fisico-geometriche dell’oggetto,
ad un secondo in cui si elaborano le dominanti di queste caratteristiche (“in questo
oggetto prevalgono linee rette o curve”) fino a un terzo livello in cui l’osservatore
elabora le informazioni attraverso le sue personali esperienze, il suo sistema
linguistico e simbolico sintetizzando il “senso” che per lui l’oggetto assume.
La grandezza dell’artista sta proprio nell’inserire elementi di novità e rottura che
siano in grado di spiazzare l’osservatore proprio nel momento della sintesi di senso
creando una profonda risonanza nel suo animo data proprio dalla sensazione di
avere acquisito un livello di consapevolezza superiore e totalmente inedito.
Insomma, come i personaggi di Joyce e Robbins, ci si perde a tal punto nell’oggetto
da ritrovarsi a un livello di consapevolezza diverso, nuovo ed inedito.
E adesso scendiamo dalla nostra tavola da surf e, mentre ci asciughiamo vicino al
fuoco, proviamo a ripensare a questa cavalcata tra neuroni e packaging.
Quali sono le ipotesi di lavoro che abbiamo elaborato in base a queste riflessioni ?
Intanto che se le prime caratteristiche che colpiscono sono quelle fisicogeometriche e se è vero, come dice Collecchia, che la rottura della simmetria è una
delle caratteristiche che attirano in modo potente la nostra attenzione, allora perché
i packaging, specie se cartotecnici, sono tutti simmetrici e identici? Perché, ad
esempio ,un prodotto di lusso non può permettersi uno spazio a scaffale diverso,
irregolare, unico?
Se vogliamo comunicare “morbidezza” l’informazione arriverà prima e in modo più
potente da un packaging che riproduce un’onda o dalla scritta “nuovo ancora più
morbido” sull’etichetta?
Se dobbiamo comunicare unicità, perché ci affidiamo solo al livello grafico, ai
significati condivisi, alla semiotica? A quale livello della percezione stiamo facendo
appello?
La sfida è aperta ma credo proprio che possa essere vinta solo da chi sappia
combinare il “saper fare” della bottega rinascimentale e la capacità di uscire
indenne dalla onde imprevedibili del surf neuronale.
Marco Rotondo
Bibliografia
Nicola Collecchia “Manritte nella rete” F Angeli 2004
JM Floch “Semiotica , marketing e comunicazione” F Angeli 1997
Joseph Campbell “Riflessioni sull’arte di vivere” Guanda 1991
J. Joyce “Ulisse” Mondatori 1978
T. Robbins “Natura morta con picchio” Mondadori 1984