50 - Marinai d`Italia
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50 - Marinai d`Italia
Storia Corsari nel Mediterraneo Kahir, più diplomatico del fratello, si fece confermare dal sultano i titoli ed i possedimenti che erano stati a lui attribuiti giusto in tempo per opporsi ad una offensiva degli spagnoli che mirava alla conquista di Algeri. Una tempesta, tuttavia, sbaragliò la flotta della coalizione cristiana proprio davanti al porto. Debolezze politiche del mondo cristiano consigliarono Kahir a condurre l’attacco alla fortezza spagnola di Algeri e nel 1530, dopo un consistente bombardamento e due settimane di assedio, la roccaforte fu espugnata. Il successo gli fece guadagnare la nomina ad ammiraglio da parte di Solimano II° che lo chiamò a riorganizzare la marina ottomana. Tuttavia una lunga operazione da parte del Barbarossa sulle coste italiane contro Reggio, Sperlonga e Fondi e la conquista di Tunisi convinsero Carlo V, che riteneva Beppe Tommasiello Socio del Gruppo di Roma attacco a navi per depredarle del loro carico è un fenomeno molto antico che si può far risalire a quando l’uomo ha imparato ad andare per mare; le navi fenicie venivano assalite dai pirati cretesi, quelle greche erano prede dei pirati fenici e così via. I Romani, nel momento in cui decisero di diventare anche una potenza marittima, furono costretti ad affrontare più volte i pirati per difendere le navi onerarie ed i loro carichi e rendere sicuri i traffici via mare. In questo senso, quindi, è definibile la “pirateria” quale azione meramente delinquenziale, disciplinata dal diritto internazionale quale “delictum juris gentium” e punita - a suo tempo - con l’impiccagione, volta all’arricchimento dei suoi autori attraverso la depredazione di tutte le navi che trasportavano merci e ricchezze. Sono diventate leggendarie, soprattutto nei secoli XVI–XVII e XVIII, le imprese di alcuni pirati che operarono nel Mar dei Caraibi ove la conformazione geografica di quella zona, disseminata di piccole isole ed isolotti, consentiva riparo sicuro ai “filibustieri” tanto da permettere la costituzione di vere comunità umane (basti pensare alla famosa Tortuga). Diversa, e in certo senso più nobile, è la “Guerra di corsa” che ebbe successo per la protezione data dai monarchi dei più importanti stati europei a validissimi uomini di mare che provvedevano, con L’ 50 Marinai d’Italia Luglio/Agosto 2013 sistemi analoghi a quella dei pirati, a rimpinguare le casse dei loro sovrani depredando esclusivamente le navi delle nazioni avversarie. I “corsari” godevano, pertanto, di un particolare status che li rendeva controparte dei regnanti in un vero e proprio contratto denominato “lettere di corsa” o “di marca”. Tali documenti li autorizzava ad azioni di guerriglia marittima consistenti, spesso, in attacchi lampo che puntavano sull’effetto sorpresa senza impegnare a lungo le forze. Tali operazioni avvenivano, mediamente, con mezzi veloci per sorprendere i velieri nemici e quindi concentrare in tempi brevi l’avvistamento, l’inseguimento, l’intercettamento e l’assalto finale per poi, con la stessa rapidità, darsi alla fuga con il bottino depredato. I risultati di questo tipo di “guerra” erano significativi e le ricchezze che affluivano alle casse reali erano molto pingui al punto che i “corsari” che si erano distinti sul campo ricevevano onorificenze e cariche ufficiali nelle rispettive Marine Militari. Quindi in definitiva i “corsari erano predoni in nome del re, i pirati erano predoni in nome del sé”. Meno nota è la presenza della “Guerra di Corsa” nel Mediterraneo anche se dal medioevo fino a metà ottocento il “mare nostrum” fu teatro di numerosi combattimenti tra cristiani e musulmani. pericolosa la sua presenza così vicina ai possedimenti imperiali, a preparare un consistente flotta che nel 1535 conquistò il porto di Tunisi. Kahir, in seguito anche dello sbarco di truppe spagnole e di una ribellione di numerosi schiavi cristiani, dovette abbandonare la città senza, però, essere inseguito dall’imperatore. Questo errore comportò l’aggressione da parte del Barbarossa delle Baleari con conseguente conquista di un gran bottino. Trasferitosi definitivamente a Istanbul si dedicò al rafforzamento della marina ottomana e al tentativo di stabilire solide basi sulla costa ionica dell’Italia, tentativo però non andato a termine per il cambiamento degli obiettivi strategici voluto dal sultano Solimano che preferì puntare sulle isole greche. Kahir ad-din al cospetto del sultano Selim I che lo nominò governatore del Nordafrica I più organizzati ed efficienti corsari musulmani furono quelli che avevano posto le loro basi operative nelle città costiere dell’area maghrebina, in particolar modo Algeri, Tunisi e Tripoli. Queste città costituivano dei veri e propri Stati corsari, in qualche modo indipendenti dal lontano potere della “Sublime Porta”, che svolgevano una lucrosa attività basata, tra l’altro, sul commercio e/o riscatto degli schiavi catturati, incoraggiata dagli stessi sultani ottomani in guerra con i Regni cristiani. Fra i più tenaci avversari del mondo cristiano ricordiamo i fratelli BARBAROSSA Il primo, Kahir ad-din - Protettore della religione – (Kahir Urug), di quattro figli di un giannizzero a riposo che lavorava come vasaio e di una donna greca, nacque a Lesbo nel 1478 e nei primi anni del 1500 si trasferì con il fratello Aruj (Baba Urug) a Tunisi dove iniziò con lui la guerra di corsa contro le imbarcazioni cristiane e le coste italiane e spagnole. La loro attività fu talmente redditizia che dopo 5 anni avevano un flotta di 8 galeotte, ulteriormente allargata per l’arrivo di numerosi capitani turchi che si univano a loro per effetto della fama conquistata. A seguito, però, di uno scontro con gli spagnoli nel 1512 i fratelli subirono una sconfitta ed Aruj perse un braccio, analoga Kahir ad-din, detto il Barbarossa sconfitta fu loro inferta da Andrea Doria nel porto di Tunisi. Nel 1516 gli algerini chiesero l’aiuto dei turchi per liberare Algeri dagli spagnoli e l’operazione fu assegnata ai fratelli Barbarossa; mentre Aruj comandava le truppe di terra Kahir guidava la flotta. La città fu facilmente conquistata tranne la fortezza che rimase nelle mani degli spagnoli. Il sultano per la conquista dell’Algeria nominò Aruj beylerbey, governatore generale, ma nel 1518 fu sorpreso dall’esercito spagnolo nei pressi della città e ucciso in combattimento. Marinai d’Italia Luglio/Agosto 2013 51 Storia Scontro fra le navi di Kahir ad-din e quelle di Andrea Doria nel 1538 Nel 1538 nei pressi di Corfù avvenne lo scontro con la flotta di Andrea Doria, a capo di una coalizione di veneziani, genovesi ed imperiali di Carlo V. Nello schieramento cristiano la nave ammiraglia era un veliero, di grandi dimensioni, equipaggiato da una fitta batteria di cannoni; contro questa unità si spezzò l’offensiva di Kahir che non riuscì ad avere il sopravvento. Dopo altri saccheggi sulle coste calabresi e la conquista di Nizza, in Francia, il Barbarossa si ritirò a vita privata nel suo ricchissimo palazzo di Costantinopoli dove, nel 1546, morì lasciando al suo luogotenente Dragut (altro famigerato nemico della cristianità) l’eredità della guerra di corsa. Sul fronte cristiano ricordiamo gli “italiani” (solo per motivi geografici ma non ancora per appartenenza ad una nazione unitaria) CAPITAN PEPPE Era un ufficiale borbonico, napoletanizzato, il cui vero nome era Giuseppe Martinez, nato a Cartagena il 2 aprile 1702 ed arrivato a Napoli nel 1732, al servizio di Carlo III di Borbone, dove, per le sue vittoriose operazioni navali contro i corsari barbareschi, divenne il leggendario ed acclamato “Capitan Peppe”. La sua carriera iniziò nel 1747 con la cattura di una galeotta tunisina con un equipaggio di 36 uomini (questo tipo di imbarcazione era più sottile e leggera di una 52 Marinai d’Italia Luglio/Agosto 2013 Un Pinco latino a tre alberi, imbarcazione molto usata nel XVIII secolo classica galea da guerra, armata con due file di rematori ed un solo albero a vela latina. In considerazione della presenza ridotta dell’equipaggio rispetto ad una galea da guerra si prestava molto bene alla guerra di razzia dei corsari barbareschi, lo stesso equipaggio veniva impiegato per il combattimento passando dai remi alle armi). Nel 1748, al comando, con il grado di Capitano, di un nuovo sciabecco (unità navale di origine araba a tre alberi con vele latine di circa 200 tonnellate, armata con 12 – 20 cannoni. Nel XVIII secolo fu largamente utilizzata da molte marine mediterranee, ivi comprese quelle dei corsari barbareschi, per le sue caratteristiche di velocità e di manovrabilità) catturò un analogo sciabecco tunisino con il suo equipaggio di 54 corsari. Nel 1752 le unità navali poste al suo comando impegnarono nei pressi delle isole greche un solido sciabecco corsaro, il “Gran Leone”, forte di sedici cannoni che alzava le insegne del bey d’Algeri. Lo scontro, durato tre giorni, vide vittorioso il nostro Capitan Peppe malgrado fosse ferito in combattimento. Lo sciabecco algerino fu affondato, più di 100 corsari barbareschi trovarono la morte mentre i sopravvissuti furono fatti prigionieri e lo stesso “rais” portato in catene a Napoli. Al comando dello sciabecco “San luigi”, l’anno successivo, replicò il suo successo catturando, al largo della Calabria, un pinco (imbarcazione di 50 – 200 tonnellate a tre alberi con vele latine modificabili in vele quadre per andature più sostenute, veloce e di grande versatilità si adattava La prora di un Pinco da carico napoletano alla guerra di corsa) con le insegne del bey di Tripoli ed un equipaggio di 90 uomini. Il rais fu fatto prigioniero insieme ad altri 58 uomini mentre i restanti 32 morirono nello scontro. Nel 1757 una squadra navale al suo comando si scontrò sempre lungo le coste calabre con uno sciabecco algerino che fu catturato; analoga vittoria gli arrise al largo della Sicilia dopo un vivace combattimento. La bandiera del Regno delle due Sicilie cominciava a impensierire seriamente i corsari barbareschi, almeno fino a quando Carlo III non lasciò Napoli per andare a Madrid ad assumere la corona spagnola. “Capitan Peppe” morì con il grado di Capitano di Vascello il 27 marzo 1770. Unità navali della Marina Borbonica GIUSEPPE BAVASTRO Nacque a Sampierdarena il 10 maggio 1760 da Michele, ingegnere spagnolo ingaggiato dal governo Sardo per lavori idraulici nel porto di Nizza, e da Maria Geronima Parodi, nobildonna sampierdarenese. Di carattere indipendente e combattivo lasciò prestissimo gli studi, da cui poi l’appellativo di “corsaro analfabeta”, e si imbarcò su una nave dello zio materno, nel 1783 sposò la figlia di un locandiere francese senza però abbandonare la vita sul mare. Armò, quindi, una goletta da 100 tonnellate con la quale intraprese traffici con la Sicilia e, a seguito di duelli con i pirati barbareschi, imparò anche l’arte del combattimento marittimo. Durante il periodo del terrore della Rivoluzione francese partecipò al trasporto di profughi e, con l’avvento di Napoleone, comandò, senza alcun compenso, uno dei quattro trasporti truppe per la missione in Egitto. Quindi si sistemò con la moglie a Genova e lì subì, nel 1800, gli effetti dell’assedio alla città posto dagli inglesi via mare e dagli austriaci via terra e lì operò con il vecchio amico di infanzia Andrea Massena, generale francese comandante della piazzaforte. In quell’epoca tutte le notti una nave inglese si avvicinava alla città per bombardarla, allora Bavastro, in una di quelle notti armò, Ritratto di Capitan Bavastro con un gruppo di galeotti e un equipaggio di arditi, una vecchia galea, la Prima, dotata di soli tre cannoni, e con questa si avventò contro l’imbarcazione inglese. La sorpresa riuscì ed i colpi di cannone della galea colpirono con precisione lo scafo nemico che fu tagliato in due. La reazione degli inglesi non si fece attendere e le navi che effettuavano il blocco alla città puntarono le loro armi sulla vecchia galea che, per merito della sua agilità di manovra, riuscì ad evitare i colpi. Ma in seguito agli abbordaggi condotti dal nemico Bavastro fu costretto al combattimento corpo a corpo per più di un’ora sullo stesso ponte della galea; vistosi, infine, in grave difficoltà, si gettò a mare e scomparve dalla vista degli inglesi, fu infine raccolto da un gozzo mandato in suo soccorso dal generale Massena. Quando nel 1805 Napoleone diede avvio alla guerra di corsa, Bavastro si rese artefice di numerose audaci azioni adottando sempre la stessa tattica che era quella di utilizzare naviglio antiquato e modesta capacità di fuoco tanto da indurre i nemici a sottovalutarlo, facendolo pericolosamente avvicinare, poi risultava vincente il suo coraggio ed ardimento. Al largo delle Baleari riuscì, con una nave molto vecchia ma, in quella occasione, armata con 14 cannoni, a mettere in gravi difficoltà la grande fregata inglese Phoenix con la quale aveva ingaggiato combattimento. Condusse, quindi, le sue operazioni in Adriatico per disturbare i traffici marittimi austriaci servendosi di un antiquato sciabecco che non allarmava quella marina militare ma che era veloce e armato di moderni cannoni. I danni che provocò furono assai rilevanti. Per i risultati delle sue azioni e per il coraggio dimostrato ricevette onorificenze – l’ascia d’onore per meriti marittimi, la rosetta di ufficiale della Legion d’onore – e la nomina a Capitano di Fregata onorario della marina francese. Ma la sua abitudine ad operare “in solitario” non gli consentì di agire in una struttura organizzata come la Marina del Regno di Napoli ove era stato chiamato dal suo amico Massena per comandare la corvetta Fama. Tornò, quindi, a riprendere la sua guerra di corsa. Alla caduta di Napoleone dopo la sventurata campagna di Russia, Bavastro pensò di liberarlo dall’isola d’Elba ma dovette desistere dall’impresa. Tramontato, definitivamente, l’astro napoleonico il nostro corsaro si spostò in Venezuela, a disposizione di Simon Bolivar che combatteva per l’indipendenza dalla Spagna, anche in seguito alla delusione derivante dal rifiuto della Marina Sarda, per i suoi trascorsi bonapartisti, alla iscrizione nei suoi ruoli. Per motivi mai ben chiariti abbandonò il conflitto e si trasferì a New Orleans dove fece perdere le sue tracce. Nel 1830 Bavastro rientrò in Francia e partecipò con l’ammiraglio Duperrè alla conquista di Algeri di cui diventò Comandante del porto e Cadì (magistrato per la giustizia ordinaria). Nel 1832 ricevette la cittadinanza francese dal re Luigi Filippo e nel marzo 1833, a poco meno di 73 anni, ad Algeri morì chiedendo sul letto di morte di aprire le finestre per vedere un’ultima volta il mare. nnn Marinai d’Italia Luglio/Agosto 2013 53