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Quale Cristianesimo per i liberali?
Discussione del libro di M.
Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, Milano, 2008.
di Stefano Maschietti
Con questo intervento mi propongo, da liberale perplesso, di evidenziare
la contraddizione di fondo intorno alla quale ruota l’ultimo libro di M. Pera,
Perché dobbiamo dirci cristiani. Si tratta di un libro polemico, nel quale un
liberale rinato critica il tradimento che, dell’autentico credo liberale (quello
dei Padri Locke, Jefferson e Kant), avrebbero operato, tanto la curvatura
immanentista impressa alla dottrina liberale da filosofie trascendentali come
quella di Croce e di Habermas, quanto il relativismo culturale oggi imperante, che Pera sembra giudicare come la conseguenza dell’inesorabile autodissoluzione dello stesso liberalismo immanentista.
Il punto su cui farò leva è quello relativo al Dio personale cristiano, da
Pera richiamato per temperare i rischi intrinseci alla principale vocazione
liberale, la vocazione per l’autonomia e per l’autodeterminazione culturale e
politica. Pera infatti non inscrive la propria idea del Dio Persona in alcuna
corrente teologica. Semplicemente l’assume come un’evidenza univoca e as-
siomatica, e dopo averla posta sotto l’egida della Chiesa cattolica (p. 37), ne
fa l’argomento per sostenere la tesi, cara all’attuale Pontefice, del carattere
razionale e veritativo, epistemico, della rivelazione cristiana, tale da legittimarne la supremazia ideale e morale rispetto ad altre rivelazioni monoteiste,
in particolar modo quella maomettana.
Qual è quindi il punto? Il punto è che Pera, facendo della persona in
quanto creata ad immagine e somiglianza di Dio il fondamento dell’etica
cristiano-liberale, e prescindendo da qualsiasi altro elemento dell’esperienza
cristiana del mondo e della storia (in primis la tensione escatologica-oltramondana), finisce per subordinare il cristianesimo alle esigenze strategiche
del liberalismo, finisce quindi per immanentizzare il cristianesimo e dissolverne l’autentica vocazione profetica. Vorrebbe quindi aprire il liberalismo
alle ragioni di una verità trascendente l’orizzonte di comprensione umana
delle vicende politiche, finisce invece per razionalizzare l’umanesimo cristiano, farne un principio di stabilizzazione etica e ridurlo nello spazio mondano
in cui si sviluppa e si esaurisce la missione liberale come di qualsiasi altra
dottrina politica e storica.
Il Dio di Pera, che non a caso si richiama in primo luogo a Kant e alla
sua fondazione morale della speranza, si rivelerà essere come il Dio di Fichte, il Governo morale del mondo, e in certa misura il Dio di Feuerbach,
concepito ad immagine e somiglianza dell’uomo, espressione ideale della
sua possibile perfezione pratica e teorica. Il suo è un Dio dei rivoluzionari,
ed infatti la sua proposta provocatoria è, e non può che essere, quella di una
nuova rivoluzione liberale, ecumenica e mondiale. «La società liberale non è
un aggregato qualsiasi […] È un’unità morale e spirituale […] Senza l’idea
cristiana che noi siamo un popolo di Dio», che «non ha confini storici» per
compiere la propria missione, «la dottrina liberale sarebbe nient’altro che
un’aspirazione senza speranza» (p. 46).
In conclusione di saggio, con riferimento alle prime comunità cristiane,
Pera parlerà persino di «liberalismo cristiano delle origini» (p. 152), mentre,
con riferimento all’attuale crisi della dottrina liberale, parlerà di un’Europa
dimentica di sé ed incapace di capire che il motivo per cui essa tanto amerebbe l’Islam, l’aver cioè elaborato un relativismo culturale, è lo stesso motivo per il quale l’Islam la odia e ne disprezza l’indifferenza valoriale (p. 134).
E non è un caso che, rispetto a tale paradossale situazione, non prenderà in
considerazione il dato storico che uno dei pilastri del relativismo culturale
europeo è proprio quel cristianesimo che, in nome di un’altra e più autentica
giustizia, insegna a non appagarsi delle forme umane di giustizia, che hanno
sempre il segno del potere e dell’imposizione (si pensi al giansenismo di
Pascal), ed insegna quindi ad amare il proprio nemico (Mt. 5, 44), ovvero a
compiere un gesto di così radicale relativizzazione dei valori, da rendere la
tensione cristiana inconciliabile con le logiche di questo mondo.
Affinché questo schema interpretativo trovi riscontro nelle pieghe del
testo, è opportuno individuare i momenti essenziali della sua argomentazione critica. Pera assume che il limite esiziale dell’odierna autocomprensione
del liberalismo quale dottrina filosofico-politica sia nel suo fondarsi sulla
doppia equazione per la quale liberale è solo il laico, e laico è quel soggetto che si autodetermina prescindendo da presupposti di tipo pre-politico e
pre-filosofico, ovvero di tipo religioso e/o metafisico (p. 25 e sgg.).
Ammesso e non concesso che le cose, nell’autocomprensione liberale,
debbano star così, vediamo quali conseguenze ne trae Pera. Egli denuncia
che la comunità liberale, intendendosi senza limitazioni di carattere giusnaturalistico e senza, ancor più specificatamente, delimitazioni di carattere
cristiano dello spazio giuridico delle libertà individuali (che per Pera, sulla
scorta di Locke e di Jefferson, devono essere intese come «dono» inviolabile
di Dio e non come elaborazione storica degli uomini associati), senza questi
limiti la comunità liberale è esposta al rischio dell’anomia, e dell’autodissoluzione anarchica di ogni principio di coesistenza e di rispetto della dignità
altrui e della vita umana.
Ciò sarebbe stato colto già nella critica di Platone alla democrazia, e oggi
troverebbe un riscontro sintomatico nell’assenza di inibizioni che caratterizza la promozione dei diritti di diversità (sessuale ad es.), nell’approccio
senza prevenzioni etiche del problema dei limiti biologici della vita (aborto,
clonazione, eutanasia), nell’accoglienza sempre meno filtrata da richieste di
reciproco riconoscimento, di immigrati non disponibili a lasciarsi integrare
nel nostro tessuto di valori e solidarietà. Il suggello politico di questa spirale
autodissolutoria, fondata su un pubblico atto di apostasia della nostra identità cristiana, è per Pera rappresentato dal processo di integrazione europea,
dalla sua neutralità assiologica, dall’ipertrofia burocratica, dalla paralisi decisionale che ha messo capo solo ad un astratto e autoreferenziale processo
di elaborazione costituzionale, incapace di dare identità morale e dignità
nazionale alla comunità europea.
Ecco il risultato dell’ideologia oggi dominante, un misto di liberalismo
apostata e di conseguente, misero e sterile relativismo culturale, alieno dall’assumere una «decisione religiosa di fondo» (p. 2, l’espressione è di Benedetto XVI). Questa ideologia è il risultato culturale della filosofia oggi
dominante, quel patriottismo costituzionale che trova in Habermas il suo
pontefice laico e principale ispiratore. Qual è il difetto intrinseco al patriottismo costituzionale? Di negare preventivamente, pur in modo implicito,
qualsiasi valore patrio in grado di dare fondazione pre-politica a quel metodo repubblicano basato sul solo principio della pretesa argomentabilità e
condivisibilità di qualsiasi ragione portata a sostegno del processo di costruzione di un’identità politica europea immune da impronte di natura etniconazionale, storico-religioso, epistemico-metafisica (pp. 79-80).
In Habermas questo difetto costitutivo si darebbe a vedere nel momento in cui il filosofo francofortese indica negli attori linguistico-pragmatici i
protagonisti della costruzione repubblicana, e non già nelle persone, in quei
compiuti e presupposti soggetti, il cui valore si rivela per Pera solo nell’accezione offerta dal cristianesimo alla dignità umana, l’essere cioè la persona
creata ad immagine e somiglianza di Dio, come del resto assunto nel giusnaturalismo, sia esso deista o teista, dei Padri liberali (pp. 88-9 e n.75).
Habermas avrebbe quindi rimosso il passaggio decisivo della filosofia
che è sottesa nella propria teoria dell’agire comunicativo, ovvero il Kant
religioso, quel Kant che, sulle basi delle acquisizioni cognitive desunte in
sede di legittimazione della ragion pratica, postula l’esistenza di Dio, garante della fede razionale e della speranza di intendere il fine ultimo dell’agire
intersoggettivo, ovvero la promozione di una repubblica universale, unica
garanzia della piena e compiuta espressione del suo fondamento, la persona
intesa come fine in sé (p. 42).
Ciò che è interessante notare, in questa serie di passaggi argomentativi
di cui Pera esplicita non molte stazioni (la filosofia pratica di Kant è infatti
assunta come universalmente vera, dallo studioso di Hume e dell’empirismo anglosassone, indipendentemente da qualsiasi sua analisi sistematica),
è che al liberale rinato è sufficiente una correzione di principio, la rilettura
in termini religiosi della filosofia pratica kantiana e, di conseguenza, della
teoria comunicativa di Habermas, per assumere che su queste basi l’Europa
potrebbe divenire una nazione caratterizzata da un’identità non solo storicopolitica, bensì morale e perciò stesso metastorica, veicolo quindi della stessa rivalazione cristiana e del suo carattere inverante la contingenza storica.
Questo è infatti il punto decisivo dell’intero libro, ed è il punto che permette
di comprendere perché il cristianesimo di Pera sia concepito ad immagine
e somiglianza di un liberalismo inteso come dottrina politica ideale e monolitica, tale da richiedere, per la propria piena realizzazione, l’intesa con una
Chiesa organizzata in forma altrettanto monarchica ed ecumenica.
Poiché infatti per Pera il Cristianesimo esprime un’esigenza di verità univoca e integrale, e poiché la filosofia critico-liberale (di Kant) è univocamente definibile in termini di verità morale cristiana, ecco che qualsiasi forma di
autentico cristianesimo non potrà che incarnare la realizzazione storica del
nesso essenziale di verità e libertà, guadagnarsi quindi il titolo di faro morale
dell’intera umanità. Per Pera infatti – e qui proviamo a cogliere l’aspetto
positivo di certo carattere alquanto semplificatorio (e talvolta imbarazzante)
delle sue analisi storiche - non sembra darsi soluzione di continuità tra l’attuale pontificato e la filosofia della religione di Kant.
Poniamo a Pera una semplice domanda: veramente il vertice della componente maggioritaria della cristianità storica accetterebbe di porre a fondamento del proprio magistero e della connessa organizzazione gerarchica, nel
nome di una Verità univocamente intesa e della Renovatio Europae, la filosofia del più implacabile teorico della chiesa invisibile e dell’impossibilità di
subordinare la legittimità della morale alla volontà di Dio o di una qualsiasi
dottrina religiosa (valida per Kant solo soggettivamente) fondata sul primato
e sull’autorità del sacerdozio?
Certo, noi laici perplessi non vedremmo l’ora che la si smettesse con
quella caricatura dell’azione parallela immaginata dal genio di Musil nella
sua letteraria Cacania, vale a dire la montata di schiuma burocratica dell’integrazione europea, e che si passasse velocemente alla provvidenziale convocazione, non, diciamo, dell’Heptaplomeres di Bodin (che ancora si illudeva
di poter far sedere al tavolo del giusnaturalismo anche pagani e musulmani),
ma di un più sobrio convegno di teologi cristiani. A loro lasceremmo carta
bianca, affinché si provino a scrivere, sulla base però del liberalismo religioso di Kant, il preambolo della Costituzione spirituale europea. Veramente
Pera crede che questo testo uscirebbe vergato nel cristallo della chiarezza?
Veramente non sarebbe presentato alcun emendamento, non si ricorrerebbe
ad alcuna formula dilatoria e ipocrita? Veramente non si parlerebbe solo di
radici, ma si indicherebbe la via, il metodo per salvare l’Europa dal paralizzante ciclo di convulsioni in cui la storia, e in primo luogo quella post-carolingia dell’Impero e delle chiese cristiane, l’hanno spietatamente precipitato?
Veramente il suo popolo l’approverebbe a grande maggioranza, o addirittura
all’unanimità, in un eventuale referendum?
Non si tratta solo di domande retoriche o di considerazioni ironiche. È
interessante invece notare come la ricerca di un senso trascendente della verità, che ne tenga fermo ed esalti il carattere di univocità e assolutezza, porti
Pera ad individuare nel modello della Chiesa cattolica il criterio per saldare
la contingenza errante della storia, il crisma essenziale della stessa verità ed
il suo fondante nesso con la libertà morale kantiana. Per Pera, che sembra
cedere all’idea che il cristianesimo legittimo sia uno ed uno solo, la Chiesa
cattolica «non è solo un’istituzione» storica, perché le istituzioni, siano esse
partiti, sistemi economici o filosofici, quando sbagliano, «cedono e scompaiono». Quando invece è la Chiesa cattolica ad errare, lo sbaglio esalta «la
grandezza del suo messaggio e il valore non contingente della sua parola»
(p. 37). In sintesi, alla storia immanente i piccoli errori che conducono alla
perdizione, alla Chiesa cattolica i grandi errori che aprono però il cammino
dialettico della verità.
Per cogliere questo punto ed il suo carico di conseguenze ideologiche, è
però necessario esaminare la critica cui Pera sottopone la posizione di Croce (l’altro maestro venerabile dell’autodissolutorio immanentismo liberale),
rispetto al cristianesimo (p. 50 sgg.). Pera non entra nel merito del sistema
crociano e della dialettica dei distinti che ne costituisce il criterio. Ma ciò è
coerente con il suo punto di vista, quello di una verità necessariamente trascendente e non trascendentale, il che lo fa sentire legittimato ad operare con
il martello dell’astrazione rispetto alle filosofie dell’immanenza. Non sente
quindi il bisogno di rilevare come, rispetto alla struttura logico dei distinti e,
quindi, dell’intero sistema crociano, tanto il cristianesimo quanto, si badi, il
liberalismo come dottrina politica, rappresentino un riflesso culturale, non
un fondamento del sistema stesso, nei cui momenti essenziali, cioè nei distinti, non vi è menzione né del liberalismo, né, tantomeno, del cristianesimo. A
Pera basta rilevare i rischi cui va incontro una determinazione così radicale
dell’orizzonte filosofico, ovvero il rischio del panteismo da una parte, e quello della giustificazione dell’esistente dall’altra.
La prima critica che dovrebbe essere sollevata contro questo tipo di analisi non riguarda però la qualità degli argomenti. Il principio cui Pera non
resta fedele, infatti, non è tanto quello della coerenza filosofica, cui egli rinuncia perché ne ha denunciato la naturale inclinazione autodissolutoria,
quanto il principio della carità ermeneutica cristiana, il quale lo obbligherebbe a considerare una posizione interpretativa nella sua dignità testuale individuale, quindi meritevole di analisi nel suo principio di interna costituzione.
Perché Pera non compie questa operazione? Non lo fa né nei confronti di
Habermas, né in quelli di Croce, né in quelli di Kant. E non lo fa perché, pur
non volendolo, il suo finisce per essere un liberalismo cristiano che rinasce
all’insegna di un implicito bisogno di spirito dogmatico fondato su argomentazioni tecnicamente metastoriche. Vediamo perché.
A Croce egli imputa di aver considerato il cristianesimo, rispetto al liberalismo, semplicemente un «fratello minore» (p. 53), quindi un antecedente storico dell’altrettanto storico liberalismo politico. Cosa quindi manca
al filosofo napoletano, affinché la sua posizione possa uscire dallo stato di
minorità filosofica in cui si è cacciata ed entrare nella sfera dell’autentico
spirito liberale? Gli manca di rinunciare alla «negazione del trascendente»,
propria di ogni prospettiva trascendentale, e quindi di «riconoscere la specificità della rivoluzione cristiana, perché una rivoluzione significa rottura storica, inizio primo» (p. 52). La richiesta non è di poco conto, visto che quello
dell’«inizio» si presenta, nel quadro di un sistema coerente di pensiero, come
un problema aporetico e di aspra soluzione. Pera sembra rammentarlo nel
momento in cui sottolinea che la filosofia dello spirito non può in effetti
costituirsi a partire da un fondamento trascendente il proprio orizzonte di
comprensione, specie se esso presenta poi i caratteri della contingenza storico-fattuale. Ma questo, il carattere metastorico della rivelazione cristiana,
è proprio il punto che Pera non considera solo oggetto di fede, bensì come
una verità naturale, risplendente di tale evidenza che, il negarla comporta
l’inevitabile dissoluzione della propria posizione di pensiero.
Quando quindi Pera rimprovera ai liberali laici di non saper aprire il loro
pensiero ai fondamenti prepolitici di un processo costituzionale, non indica
il «prepolitico» come una serie di eventi storici e di valori tradizionali, fondati sull’ambiguo principio della lunga durata dei poteri tradizionali. Consapevole che una durata, per quanto lunga, è comunque una durata variabile e
soggetta agli imprevisti e alle imperfezioni del tempo storico, Pera indica nel
«prepolitico» l’evento di una verità trascedente e delegittimante qualsiasi sua
possibile messa in discussione.
Per comprendere questo punto cruciale è opportuno da ultimo osservare
come Pera faccia culminare nel razionalismo morale di Kant il proprio percorso di ricerca di un nesso metastorico tra il senso della verità e il principio
della libertà. La premessa del ragionamento è sempre da ricercare nei Padri,
in particolare Locke, il quale, rispetto ai principi inviolabili della persona e
rispetto al metodo liberale di loro tutela, afferma che questo metodo «è stato
“impiantato” da Dio nella mente degli uomini» (p. 110). L’evidenza di ciò
sarebbe riflessa nel modo in cui Jefferson riprende tale assunto nel testo della Dichiarazione d’indipendenza americana, e dal modo in cui Kant ne farebbe il principio di un possibile «Stato etico [sic!]» e il criterio di «valutazione
delle massime morali personali e delle istituzioni politiche».
Cosa ha quindi messo in crisi il valore di questa evidenza ed inaugarato
la lunga e dissolutiva stagione di pensiero, passata per l’immanentismo e
culminata nel relativismo culturale? Il peccato originale è da individuare
nella «reazione romantica e idealistica alla tesi di Kant», ovvero nell’affermazione del carattere solo storico del linguaggio, delle culture e dei relativi
valori. Non entriamo ora nel merito della sorprendente e discutibile visione
della storia della filosofia che emerge in questa pagina del libro. Notiamo
solo, ed è il punto principale, che l’attacco dissolutorio del pensiero di Kant
si darebbe a vedere in forma compiuta, per Pera, nella critica formulata da
Hegel alla morale kantiana, la critica relativa al carattere astratto del suo
principio intenzionale e alla sua incapacità costitutiva di darsi un contenuto
determinante.
Perché è soprendente tutto ciò? Perché, a ben vedere, quale che sia la
pertinenza o la legittimità del rilievo di Hegel, la sua matrice è analoga, anzi
identica, a quella sottesa nel rilievo sollevato da Pera al metodo liberale, vale
a dire al suo supposto prescindere da contenuti prepolitici e dal suo conseguente non poter non risultare in astrattezze autoreferenziali. E perché,
ci chiediamo, ciò che è valido contro il metodo liberale laico non sarebbe
valido contro il metodo liberale di uno dei suoi Padri? Perché per Pera, lo
voglia o meno il suo argomentare, la ragione kantiana non è solo «universale», ma rappresenta un inconfutabile riflesso della volontà di «Dio nella
mente degli uomini».
Pera gioca sull’ambiguità per cui il Dio persona non sarebbe che l’altro
volto della ragione universale, quindi richiama la ragione per immanentizzare il messaggio cristiano, e richiama il Dio cristiano per dare un contenuto
personalistico all’etica della ragion pura pratica, non tenendo più conto che
per Kant, come ricordato in altro luogo del testo, solo dal punto di vista soggettivo i nostri obblighi morali possono essere intesi quali comandamenti di
Dio. Questo è allora il punto: come dare oggettività alle massime del nostro
agire morale (pp.41-2). Rispetto ad esso, Pera salta dal problema a soluzioni
fondate sul principio di autorità, incompatibile però con il metodo kantiano
da lui stesso richiamato.
Pera non discute il problema della fondazione, ritiene immediatamente
legittimo il catalogo di divieti che Kant deduce in sede di «metafisica dei
costumi», insistendo sul loro valore metastorico e rinunciando a porre il
problema della loro traducibilità in norme giuridiche. Kant, ad esempio,
dalla sua morale finalizzata alla promozione della personalità libera, ricava
il divieto dell’infanticidio (p. 143). E Pera richiama tale punto per riproporre, implicitamente, la tesi della natura moralmente deplorevole della pratica
oggi diffusa dell’aborto. Egli sembra addirittura mettere in dubbio che su
questioni così cruciali e delicate possano essere i parlamenti ed il criterio
della maggioranza a doversi pronunciare. E denuncia che, il primato indiscusso del principio della maggioranza, finisce per costringere ai margini del
discorso pubblico l’opinione delle autorità morali e religiose come la Chiesa
cattolica (pp. 29-31 e pp. 134-38).
Su questo piano è veramente difficile seguire il suo discorso: chi impedisce a chi, in una società liberale che garantisca accesso ai mass media, di
formulare la propria opinione ed indirizzarla a tutti i soggetti interessati? E
chi impedisce ad alcuno di questi soggetti, se ritiene in coscienza di doverlo
fare, di pronunciarsi di conseguenza e di esercitare il proprio diritto di voto
in un libero parlamento? L’alternativa a tali massime di senso comune sarebbe quella di imporre, a chi non si senta di riconoscerne il vincolo morale
e la verità metastorica, il primato di una volontà conforme ad una ragione
universale ed intesa come il comando stesso di Dio, e dichiarare che su questioni di principio non è possibile il dissenso, perché il dissenso introduce
il primato dell’anarchia e dissolve sani e naturali costumi. E a chi affidare il
compito di interpretare tale volontà universale? A chi assegnare la pesante
responsabilità di censurare gli apostati e di costringerli a consentire con le
universali evidenze del Dio persona?
Non crede piuttosto Pera che l’autenticità morale di un liberalismo cristiano dovrebbe potersi rivelare nel comportamento di chi, proprio vigendo
una legge per la regolamentazione dell’aborto (dura realtà sociale), decide personalmente di non avvalersene e di seguire una regola di coscienza
intimamante vissuta e pubblicamente professata? E che ne sarebbe invece
di questa libertà di coscienza in un regime in cui ad un’autorità non politicamente legittimata, sia essa un concistoro o una commissione episcopale,
fosse dato di definire le linee guida della moralità comune prescindendo dal
problema di tradurre in norme positive e di garanzia tali indirizzi?
La storia è piena degli episodi di violenza che si sono più o meno sordidamente consumati quando alle società borghesi si è cercato di imporre
forme di organizzazione etica vincolante, e non è qui il caso di ripercorrerli,
anche per evitare di incorrere nel facile gioco di questo pur interessante
libro, definire cioè le proprie tesi per contrapposizione polemica, cedendo
troppo spesso alla tentazione del corrivo soccorso delle pretese vittime dell’imperante conformismo. A Pera ci permettiamo di suggerire un’ipotesi che
oggi è poco di moda formulare, e cioè che se un nuovo liberalismo cristiano
fatica a levarsi in volo, il problema non è tanto nel relativismo in cui si sta
avvitando l’imperfetto metodo liberale, bensì nella quasi completa assenza,
nel dibattito pubblico, di un autentico spirito cristiano, che abbia il coraggio
di rompere la logica di ipocrita opportunismo che paralizza tante autorità
morali, a partire da quella Chiesa cattolica cui Pera sembra voler affidare il
ruole di guida del processo di rinascita europea. Una Chiesa che oggi saluta il carattere liberale e cristallino della sua decifrazione della crisi morale,
ma che difficilmente domani accetterebbe di condividere un percorso di
fuoriuscita da essa prendendo come unico testo guida quello del principale
autore dell’illuminismo europeo. Perché ne uscirebbe non rafforzata, bensì
spiritualmente demolita.