Untitled - Barz and Hippo

Transcript

Untitled - Barz and Hippo
La professoressa di tedesco di una classe all’ultimo anno di liceo entra in maternità: per sostituirla viene
chiamato il professor Robert, dal temperamento austero e rigoroso. Il supplente trova subito ostilità nella classe,
abituata ai toni colloquiali della precedente insegnante: un sentimento che andrà crescendo in maniera
esponenziale in seguito a un fatto drammatico. La classe diviene un luogo di tensione e di interrogativi
esistenziali difficili da affrontare, uno specchio delle difficoltà di relazione e comunicazione nella società fuori
dalla scuola.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto e sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
costumi:
scenografia:
musiche:
suono:
produzione:
distribuzione:
112 MINUTI
SLOVENIA
2013
ROK BIČEK
ROK BIČEK, JANEZ LAPAJNE, NEJC GAZVODA
FABIO STOLL
ROK BIČEK, JANEZ LAPAJNE
BISTRA BORAK
DANIJEL MODREJ
FRÉDÉRIC CHOPIN
JULIJ ZORNIK, PETER ZEROVNIK
TRIGLAV FILM
TUCKER FILM
interpreti:
IGOR SAMOBOR (Robert), NATASA BARBARA GRACNER (Zdenka), TJASA
ZELEZNIK (Sasa), MASA DERGANC (Nusa), ROBERT PREBIL (Matiaz), VORANC BOH (Luka), JAN ZUPANCIC (Tadej),
DASA CUPEVSKI (Sabina).
premi e nomination:
2013, 70° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Settimana
della critica - Premio Feodora per il Miglior film; Slovenia FF, Premio della critica - Miglior Film e Premio Vesna Miglior film, Miglior fotografia, Miglior attore protagonista, Miglior costumi e Miglior attrice non protagonista.
2014 LUX Prize (Premio del Parlamento Europeo), nominato Miglior Film.
Rok Biček
Sin da studente, Rok Biček (Novo Mesto, 1985) ha manifestato nei suoi lavori una determinatezza alquanto rara,
espressa attraverso un esplicito entusiasmo e una predilezione per le inquadrature lunghe e per un unico piano
sequenza, a cui si aggiungono la sottigliezza nella scelta dei colori e dei soggetti. Questi vengono narrati quasi
sottotono, senza forzature ma allo stesso tempo in modo sempre sorvegliato. Diplomatosi all'Università di
Lubiana, Ul Agrft, Biček è entrato nel mondo del cinema grazie alla Janez Lapajne's Poetika, accademia di belle
arti e di ricerca cinematografica. Seguendo la scia degli autori che lo hanno ispirato (come ad esempio Michael
Haneke, Christian Mungiu e Andrey Zvyagintsev), i film di Biček giocano con il pericolo in agguato nei minimi
dettagli quotidiani della vita. Un gesto, uno sguardo o una parola sbagliata bastano a scatenare un incendio… I
suoi film scolastici (The Family 2008, Day in Venice 2009, Invisible Dust 2010, Duck hunting 2010) hanno vinto
diversi premi nazionali, Class Enemy è il suo esordio al lungometraggio di finzione. Il film è stato presentato alla
70° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Settimana della critica.
La parola ai protagonisti
Note di regia
Mi sembra importante poter parlare, attraverso l’arte cinematografica, di temi che riflettano sia la società
nazionale che quella mondiale. In Class Enemy ciò traspare nel microcosmo dei ragazzi delle medie superiori: una
generazione estremamente vulnerabile e, in quanto tale, propensa ad assorbire quel che le succede intorno, sia a
livello conscio che inconscio. La rivolta degli studenti contro il sistema scolastico, simboleggiato dal severo
professore, è l’immagine riflessa dello scontento sociale globale, che sfrutta ogni (in)giusto motivo per ribellarsi
contro le norme vigenti. Nel racconto, queste situazioni estreme descrivono il baratro tra due generazioni molto
diverse tra di loro: baratro che la tragedia avvenuta ha maggiormente ampliato. Si tratta di un difetto, di
un’interferenza nella comunicazione.
[Rok Biček]
Intervista al regista
Class Enemy deriva da un tuo ricordo scolastico. Buio e spigoloso. Perché hai deciso di attingere a un’esperienza
tanto personale?
Perché il mio modo di concepire il cinema si basa sulla necessità di costruire un racconto partendo sempre da
qualcosa che conosco bene. Davvero bene. Se vuoi che la narrazione mantenga una forte compattezza emotiva,
una forte credibilità, devi poterne padroneggiare anche i dettagli più piccoli.
La storia si muove, con implacabile freddezza, all’interno di una “zona grigia” dove nessuno è totalmente buono o
totalmente cattivo. Non hai paura che il pubblico, il pubblico di oggi, cerchi l’empatia invece del realismo?
No, nessuna paura. Tutta la nostra vita è una “zona grigia”: se non sei capace di affrontarla al cinema, come puoi
pensare di affrontarla nella quotidianità?
Di cosa sono colpevoli i personaggi di Class Enemy per essere così privi di colpe?
Di vivere. E niente è solo bianco o solo nero nella vita. Nella vita siamo tutti colpevoli e tutti innocenti
esattamente come questi personaggi qua. Rappresentare questa dicotomia, che è anche un equilibrio, è stata la
mia idea fin dal momento in cui ho messo la testa su questo progetto. Volevo che si guardasse a entrambe le
fazioni senza sapere quale posizione prendere. Come spesso succede proprio nella vita vera.
A differenza di quel che si potrebbe pensare, il film non parte dal momento in cui la piccola Sabina decide di
suicidarsi ma da qualche minuto prima, quando una delle sue amiche solleva un pericoloso dubbio nei confronti
del nuovo professore di matematica, un dubbio che potrebbe essere risolto a parole, invece...
Il dialogo arriva. Ma arriva troppo tardi. Ormai la ruota è partita e quell’infamia iniziale e la tragedia conseguente
distruggeranno la vita del professore che si porterà dietro il rimorso di quanto successo per sempre. Sentendone
su di sé la responsabilità. E i ragazzi, che reagiscono in questo modo così viscerale invece, probabilmente, tra
qualche mese, avranno dimenticato tutto. Perché anche dimenticare fa parte del crescere.
Non c’è speranza che il dialogo arrivi prima della tragedia e non come sua naturale conseguenza?
No. E la storia lo dimostra. Guardati indietro. Le rivoluzioni, le ribellioni, le relazioni, i conflitti sono sempre gli
stessi, lo stesso percorso. Ripetiamo tutto nello stesso modo. Sarebbe grande se riuscissimo a parlarci e risolvere
i problemi a monte, ma siamo sinceri, nella nostra natura è impossibile. Dobbiamo prima distruggere tutto per
poi poter ricostruire. Forse solo nei sogni c’è lo spazio per un’alternativa.
Uno degli allievi, un ragazzo asiatico, accusa dei suoi compagni di classe che si stavano azzuffando dicendogli:
«Voi sloveni quando non vi ammazzate da soli vi ammazzate tra di voi». Uno di quei momenti del film in cui dici
molto più di quello che vuoi far credere...
E’ un rimando alla nostra storia, al termine della seconda guerra mondiale in cui scoppiò una guerra fratricida
che ha insanguinato le vite dei nostri nonni e alla nostra storia recente che vede la Slovenia primeggiare nel
macabro record dei suicidi adolescenziali. Non hai idea di quanti siano i ragazzini sloveni che si tolgono la vita.
Tantissimi nelle scuole. Considera che durante la postproduzione del film ci sono stati i suicidi di tre ragazzi nelle
scuole del paese dove il film è stato girato. Lo so perché erano gli stessi ragazzi della nostra troupe che venivano
a dirmelo, quindi pensa quanti erano nello stesso momento in tutta la Slovenia. Ma da noi non se ne parla. Si
chiudono gli occhi come se queste cose non accadessero, e non c’è modo di risolvere le tragedie se vengono
nascoste. C’è stato un grande psicologo sloveno, Andreji Marocic che ne aveva fatto una battaglia personale ma
sfortunatamente è morto qualche anno fa di tumore e quindi l’a rgomento è decaduto. Lui è stato l’unico a voler
lavorare su questo versante ma morto lui, chiuso l’argomento. E intanto i ragazzi continuano a uccidersi.
Come ci si deve relazionare con l’adolescenza? Lasciandola scorrere o cercando di direzionarla e tutelarla?
Proprio perché credo che sia una storia che possa riguardare tutti ho omesso di raccontare i motivi del suicidio di
Sabina. Questo non è un film sul suicidio, ma sulla sopravvivenza. Non so scegliere tra quelle due alternative ma
quello che ti dico è che preferisco la severità all’accondiscendenza. I problemi di questi ragazzi spesso nascono
dalle famiglie che li custodiscono dentro campane di vetro non accorgendosi che così li fanno crescere come
degli incapaci che vanno nel panico al cospetto di ogni decisione da prendere.
Qui in Italia, l’adolescenza è una fase che può durare abbondantemente fino ai trent’anni. Tu che ne hai ventotto
come hai avuto il distacco necessario?
E’ stato divertente perché mentre pensavo a questa storia io ero completamente dalla parte dei ragazzi. Ero
davvero uno di loro. Appena ho iniziato a scrivere invece, ero dalla parte del professore. Che poi, nella realtà, lui
è completamente ispirato al mio vero professore di matematica del liceo. E io ho avuto gli incubi per anni a causa
sua, mi sembrava un pazzo furioso e quando avevo sedici anni, pensavo che lui godesse nel torturarci. Ma in
realtà ci stava solo preparando per la vita. Nella posizione di regista di questo film non ho potuto però tenere i
piedi in due scarpe e tra i ragazzi e il professore ho dovuto tenere per entrambi i gruppi. Non è stato facile ma il
mio sforzo principale era esattamente quello di credere e prendere le parti di entrambe le fazioni, perché se io
stesso mi fossi sbilanciato tutto il castello sarebbe crollato. Vedi, io ho iniziato da due anni a insegnare regia e
montaggio in una scuola di cinema e ti assicuro che rimasi scioccato nel vedere quanto i miei allievi avessero
dieci volte le strumentazioni e le possibilità che avevo io e nonostante questo non concludessero niente e
trascorrevano il tempo a lamentarsi di tutto. Non si sentivano motivati, volevano frequentare la scuola ma non
finirla, erano pigri. Anzi no, demotivati, dicevano. E io dentro di me provavo lo stesso conflitto interiore che avrei
instillato nel professore di matematica del film. E quando presi alcuni di loro come comparse mi fecero notare
che lo facevo esprimere con le stesse frasi che rivolgevo a loro. Senza accorgermene ero davvero passato
dall’altro lato della barricata, di colpo ero diventato il nemico.
Perché hai deciso di inaugurare la tua carriera proprio con questa storia?
Per caso. Avevo già collaborato col produttore come aiutoregia nel film precedente. Una sera stavamo bevendo
una birra e lui mi chiese delle proposte per un nuovo film che voleva realizzare, qualcosa con dei ragazzi. Io iniziai
a buttare giù idee per un plot e mi ricordai che nella mia scuola successe, quindici anni prima, una cosa
sconcertante: in seguito al suicidio di una ragazza, tutta la sua classe si schiarò compatta contro il professore
avviando una campagna diffamatoria con accuse pesantissime nei suoi riguardi. Avevo chiaro in mente tutti quei
momenti. Gli striscioni sui muri, le candele nelle classi, le reazioni dei genitori. Dopo un mese presentai il
progetto e il mio produttore ne rimase impressionato. Qualche giorno dopo mi chiamò e mi disse che accettava
di produrlo a patto che lo girassi io. Perché, a suo dire, avevo sia la giusta esperienza che le giuste motivazioni. Io
che speravo vivamente che mi venisse data una possibilità simile, appena realizzai che era appena accaduto
iniziai ad avere una paura fottuta. Mi ripetevo di non essere all’altezza e che avrei mandato tutto a puttane, per
questo mi presi un anno per crescere. Guardarmi intorno. E aspettare il momento giusto. Da quel momento mi
sono bastati trenta giorni per chiudere tutto. Ringrazio il mio produttore perché io sono una di quelle persone
che ha bisogno di spinte. Ecco, se non avessi avuto quella spinta lì, probabilmente avrei tenuto tutto dentro.
Com’è stato lavorare con una superstar come Igor Samobor?
Beh, davvero un grande onore. Lui è una leggenda per tutti gli sloveni, un attore immenso. Quando ci siamo
conosciuti lui era davvero il numero uno e io un signor nessuno terrorizzato all’idea che non avrebbe accettato il
ruolo. Quel ruolo che era stato scritto per nessun altro tranne che lui. Ma non per modo di dire, io davvero non
avevo una seconda scelta. Solo un piano A, nessun piano B. Per farlo nascere mi ero ispirato al mio prof di
matematica, ma per dargli volto e corpo mi servivano proprio le caratteristiche di Samobor. Altrimenti la storia
sarebbe stata da buttare e da scrivere da capo. Temevo che mi vedesse come un ragazzino spaventato, non alla
sua altezza, ma poi ci siamo incontrati, abbiamo parlato tantissimo del personaggio e del film e ne è rimasto
entusiasta. E’ stato stupendo che un attore così esperto come lui si affiancasse a un regista così giovane e con
attori così inesperti per farci migliorare tutti. Ho voluto conservare la tensione e il rispetto che i ragazzi provavano
al cospetto di questa leggenda vivente per mantenere quel nervosismo che si percepisce in scena e che non
viene dalla loro esperienza di attori, perché non ne hanno alcuna, ma dalla grandiosità della caratura di Samobor.
Sfogliando le recensioni, pare impossibile trovarne una che non contenga il paragone Michael Haneke/Rok Bicek.
È una simmetria dentro cui ti riconosci?
Amo la sua spietata dissezione dell’animo umano, e cerco di rappresentarla anche nei miei film, ma questa
simmetria può stare in piedi soltanto nell’ottica maestro/apprendista.
E di quali altri maestri ti senti l’apprendista?
Il mio viaggio è iniziato con il cinema e il teatro contemporaneo, quand’ero adolescente, poi mi sono imbattuto in
4 mesi, 3 settimane e 2 giorni di Mungiu: un film che ha avuto un impatto enorme sulla mia formazione registica,
assieme al Ritorno di Zvyagintsev e, ovviamente, Niente da nascondere di Haneke.
Te la senti di continuare in questa direzione?
Vidi il film di Mungiu 4 Mesi, 3 settimane, 2 giorni al secondo anno di scuola di cinema e rimasi folgorato. Non mi
capacitavo che potesse essere stato realizzato un capolavoro simile. Gli attori, la recitazione, lo spazio, i tempi. Fu
una scoperta. Lo andai a vedere sei volte, ancora e ancora e ancora. Volevo prendere il più possibile, rubare con
gli occhi ogni scena del film e risalirne alla tecnica. Per questo nei miei primi lavori sono palesi tutti i riferimenti
che saccheggiai. Il piano sequenza divenne il mio marchio distintivo per i tre anni successivi di scuola. Mi
specializzai nel girare interi racconti in un’unica scena. Non mi importava di nient’a ltro, solo di costruire la scena
perché solo quello conta. Questo mi rende sicuro all’80% che al montaggio non butterò nulla. Allo stesso modo il
film Cachè, di Haneke è stato importantissimo per raccontare questo tipo di storie in cui lui è un maestro
assoluto. Lui non mostra tutto perché sta allo s pettatore riempire gli spazi vuoti con la sua immaginazione. E
infine Kieslowsky, che con il lavoro fatto per il Decaologo (e in specialmente per il capitolo Non uccidere) ha
davvero influito su quello che voglio che sia il mio cinema.
Sai già quale sarà il tuo prossimo film?
Sì. Voglio portare avanti un documentario a cui avevo iniziato a lavorare in accademia. La prima parte è già
conclusa ma ora sono passati degli anni e mi sento pronto per la seconda. E’ la storia di una famiglia particolare
composta da due genitori mentalmente ritardati che mettono al mondo un figlio perfettamente sano. Io li ho
conosciuti anni fa e li ho filmati seguendo la vita del figlio ormai adulto e che aspettava un figlio dalla sua
compagna. Poi ho saputo che recentemente lei l’ha lasciato e lui se n’è tornato in casa con i suoi, è letteralmente
impazzito e sta crescendo questo bimbo insieme ai suoi genitori. La vita è una grande scrittrice di sceneggiature
quindi voglio capire cosa sta tirando fuori per questa famiglia a cui sono davvero affezionato. Ma fosse per me
non concluderei mai il film sulla loro storia. Li racconterei per sempre. Giorno dopo giorno, anno dopo anno.
In italia conosciamo poco il cinema e il pubblico sloveno, il tuo film è in linea con i gusti degli spettatori o è un
lavoro indipendente?
E’ difficilissimo dirtelo perché da noi in Slovenia non esiste così tanto pubblico da ergerlo a campione. Nel nostro
mercato vengono prodotti circa cinque film l’anno e sono troppo pochi per identificare una cinematografia
predominante.
Recensioni
Roberto Nepoti. La Repubblica
L’a ccomodante professoressa di tedesco di un liceo va in maternità; la sostituisce il professor Zupan. Il nuovo
insegnante impone un metodo di apprendimento basato sullo sforzo e la disciplina, guadagnandosi subito la
taccia di "nazista". Quando l'introversa studentessa Sabina si toglie la vita, i compagni mettono sotto accusa il
prof e i suoi metodi muovendogli guerra aperta. Diretto da un regista sloveno non ancora trentenne e presentato
alla Settimana della Critica di Venezia, un esordio intelligente che scarta ammirevolmente tutti gli stereotipi dello
school movie. Non solo per l'ottima composizione del cast, assortimento di attori professionisti e studenti scelti
nelle scuole. La sua forza sta nell'assumere diversi punti di vista, mostrando anche le ragioni di un insegnante
severo perché prende il suo compito molto seriamente. Così che il vero colpevole diventa il sistema educativo
(non solo) sloveno, proiezione di una società dove permissivismo fa rima con indifferenza, generando effetti
depressivi sui giovani.
Paolo Mereghetti. Il Corriere
È un continuo e sfibrante braccio di ferro quello che si instaura in classe (una generica quarta di un generico liceo
sloveno) tra chi sta nei banchi e chi in cattedra, che poi riverbera e trova nuova eco sul terreno culturale e su
quello dei comportamenti, accompagnando lo spettatore dentro una specie di spirale dove risentimenti,
frustrazioni, certezze e preconcetti si mescolano in una miscela micidiale. (...) dopo aver messo lo spettatore di
fronte alle “forze” in campo con il massimo di oggettività possibile, il film continua a registrare lo scontro sempre
più acceso senza voler tifare per alcuno dei contendenti. (...) La scommessa (vinta) del 29enne regista è quella di
non parteggiare per nessuno e di mostrare i due campi avversi come treni destinati a scontarsi inevitabilmente,
mentre tutt'intorno genitori, preside e psicologa scolastica (a cui la sceneggiatura ha riservato con una certa
cattiveria il ruolo più ingrato e frustrante) sembrano preoccupati solo di inseguire il proprio tornaconto e non
scalfire l'accomodante immagine pubblica dell'istituto. Il risultato è quello di un universo scolastico che diventa
specchio del mondo che lo circonda, costruito con controllati piani sequenza e intensi primi piani dove si riflette
un po' lo sguardo sociale del regista («Sloveni, se non uccidete voi stessi, uccidete gli altri», dice l'unico alunno
straniero della classe), ma dove emerge soprattutto la voglia di sottolineare il rischio che nasce dall'essere troppo
sicuri delle proprie idee. Lo sono i ragazzi, costretti a fare i conti con la propria superficialità (quando non
cattiveria e qualunquismo), ma lo è anche il professore che alla fine del film appare meno tetragono e
“disumano” ma sembra comunque non voler capire che l'insegnamento non è solo trasmettere nozioni.
Lasciando alla fine tutti sconfitti e però avendo offerto allo spettatore lo spunto per cercare dentro di sé il
proprio “nemico di classe”.
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
Ci sarà una ragione se ogni volta che un regista, generazione dopo generazione, si cala l'elmetto e torna nella
trincea della scuola, ne esce un film vivo, vibrante, traboccante di energie e di domande senza risposta. Che per
giunta non sono mai le stesse perché la scuola è un sismografo infallibile di tutto ciò che è in gioco in una
comunità in un dato momento storico, sul piano del potere e dei modelli a cui obbedisce quella comunità.
Ovvero della loro legittimità. Ieri La scuola di Luchetti, La classe di Cantet, e anche il meno risolto La mia classe di
Gaglianone. Oggi Class Enemy dello sloveno Rok Bicek, 29 anni, scoperto alla Settimana della Critica di Venezia.
Un film in cui non si spreca una scena, una faccia, un gesto, senza che accada qualcosa di irrimediabile. Come
sempre negli anni della formazione, quando tutto accade per la prima volta e lascia tracce indelebili. Non solo in
chi è lì per imparare ma in chi dovrebbe insegnare, se è degno del suo mestiere. (...) La spirale che si mette in
moto ricorda quella del Sospetto di Vinterberg, ma lo sguardo di Bicek è più ampio e sfumato. Oltre ai ragazzi,
mai giudicati ma solo osservati nella loro ingenua arroganza (non priva di ragioni), sfilano infatti i professori e in
una breve scena sarcastica i genitori, che portano di colpo tra quelle mura il rumore del mondo. Lo spunto di
partenza sarà autobiografico, ma il regista esordiente lo ha elaborato a dovere. Di Bicek risentiremo parlare.
Francesco Di Brigida. Il Fatto Quotidiano
«La morte di un uomo è meno affar suo di quanto non lo sia per gli altri». La frase di Tonio Kröger, protagonista
dell’omonimo racconto di Thomas Mann – qui vero e proprio filo letterario – picchiettata con il gesso sulla
lavagna dal supplente di tedesco, l’austero professor Zupan, piomba nei cuori dei suoi studenti liceali come un
macigno in una scena chiave. (…) Rok Biček immerge completamente la sua prima opera in un acquario sociale
costruito nell’essenzialità di un liceo. Niente esterni né sguardi alle case dei ragazzi, né scene in strada, ma un
racconto essenziale concentrato tra le mura scolastiche, dove a farla da padrone è il conflitto tra gli studenti e lo
scomodo supplente. (…) Il senso claustrofobico che viene fuori stringe una narrazione estremamente razionale e
quasi teatrale. Gli studenti montano in risentimento tutto il dolore e l’impotenza del poi. La perdita di senno
sfocerà in accuse fuori luogo di nazismo e manifestazioni di dissenso contro Zupan, fino a sconvolgere tutto il
corpo docente. Gli eventi raccontati da Biček sono una summa di episodi da lui stesso vissuti a scuola (e la
location è proprio la stessa dove ha studiato il regista) rifiniti in una sceneggiatura implacabile che parte in
sordina, ma si sviluppa in un crescendo drammatico trascinante, a dispetto di un ritmo del montaggio cadenzato
ma tesissimo, che superficialmente potrebbe essere interpretato con un solito “lento”. La lezione di questo
esordiente ventinovenne, densa come l’esperienza di un autore maturo, sboccia in caso sociologico intorno alla
bomba scolastica ordita dal branco e innescata dal suicidio iniziale. Igor Samobor indossa il ruolo del suo Zupan
in maniera eccelsa. A metà tra genio dell’insegnamento e sadico adulto percorre le scosse dei ragazzi (veri
studenti esordienti ottimamente diretti) in una storia che evita retoriche blande rinforzandosi invece tra
riflessioni dure e uno stile registico ordinato come un taglio chirurgico. Pur nella sua estraneità, Class Enemy è
pasoliniano per la forza dei temi e i linguaggi densi di realismo utilizzati. Ma anche per l’affiancamento di un
grande attore a un gruppo di giovani talentuosi e di primo pelo. (…) Un esempio lucidissimo di piccolo grande
cinema.
Raffaele Meale. Quinlan.it
Tra i molti pregi rintracciabili nell’esordio alla regia del cineasta sloveno Rok Biček ve n’è uno particolare e sul
quale sarebbe davvero delittuoso non puntare l’accento: con una scelta netta e coraggiosa Biček ambienta
l’intero svolgersi degli eventi tra le quattro mura del liceo. Anche i genitori vengono ripresi solo in seguito alla
convocazione per un’assemblea straordinaria con la preside e il professore di tedesco: il liceo, non-luogo per
eccellenza del teen-movie, diventa la gabbia/culla/ventre materno in grado di rappresentare non solo un
microcosmo a se stante, del quale il mondo “adulto” possiede coordinate assai poco precise, ma anche le
distonie di una società contemporanea in cui il senso dell’istituzione scolastica si sta via via sfilacciando in
maniera sempre più irreparabile. La rabbia che i ragazzi protagonisti rivolgono verso il supplente di tedesco è solo
superficialmente collegabile al suicidio della loro compagna di classe Sabina (con la quale solo in pochi potevano
vantare un reale rapporto di amicizia); si tratta in realtà di un malessere più profondo, del quale nessuno riesce a
comprendere davvero la causa, in primis gli stessi studenti. È il malessere di chi, ancora in procinto di confrontarsi
con la realtà sociale, già ne subisce i dogmi, i rituali che, come direbbe il professor Robert, distinguono l’essere
umano dagli animali. Teso e doloroso, Class Enemy non pone mai gli studenti come un elemento a se stante da
studiare con entusiasmo entomologico, ma li configura al contrario come parte in causa di una dialettica sul
senso dell’esistenza, delle regole, della “comunità” che acquista spessore con il passare dei minuti. Perché Biček
non pone la firma in calce “solo” a un ottimo film sulle problematiche adolescenziali, ma lancia in maniera
neanche velata un j’accuse sull’intero sistema educativo, sulla degenerazione dei rapporti genitori-figli, sul crollo
dell’istruzione nel senso più etimologico del termine, perfino sulla deriva di un’Europa incapace di comprendere
l’universale perché troppo presa a disquisire (senza averne le basi) sul particolare. Per raggiungere l’obiettivo il
giovane cineasta sloveno allestisce un set decisamente coraggioso, assegnando i ruoli di tutti gli studenti a veri
liceali di Lubiana alla prima esperienza davanti a una macchina da presa (e i ragazzi sfoderano un’interpretazione
sopraffina, degna di un premio collettivo): perfino coloro che interpretano i genitori sono i veri padri e le vere
madri dei ragazzi. Un dettaglio che potrà sembrare superficiale ma che al contempo delinea con una nettezza
incontrovertibile la volontà di donare al cinema uno spessore non solamente “espressivo” (per quanto la forma
sia tutt’altro che involuta) ma di assegnargli anche una precisa funzione sociale. La messa in scena dunque come
pratica dialettica, istante (lei sì) di “educazione”. (…).
Mauro Uzzeo. XL.Repubblica.it
Raccontare una storia in cui tutti i personaggi abbiano torto è piuttosto semplice. Raccontarne una dove invece
abbiano tutti ragione e già più complesso. Ma raccontarne una in cui i personaggi abbiano tutti torto e abbiano
comunque tutti ragione è un’alchimia talmente delicata che solo i narratori di razza possono rischiare di tentare.
Rok Biček lo fa. Ci prova, tenta e ci riesce. Dall’alto dei suoi 29 anni, nel suo lungometraggio d’esordio. (…) Di cosa
parla Class Enemy? Della necessità insita in ogni gruppo di identificare un nemico facilmente riconoscibile cui
indirizzare la propria rabbia. Della rabbia che è propria dell’adolescenza. Dell’adolescenza che è l’a ltare su cui i
ragazzini sono chiamati a lottare per morire o diventare adulti. Degli adulti che sono causa e riflesso dei loro figli.
Di colpe e di colpevoli. Di altre vittime e di altri carnefici. (…) Ma fermarsi alle tematiche sollevate dalla pellicola
sarebbe ingiusto nei confronti di Biček, che gestisce il racconto prendendo una serie di decisioni non facili e le
porta a termine egregiamente tutte, dalla prima all’ultima. A partire dall’idea di ambientare il film
esclusivamente all’interno delle quattro mura del liceo, che diventa mondo, gabbia, unica alternativa e unica
realtà. E di utilizzare, per gli interpreti, un’azzeccata commistione tra professionisti e non. A Igor Samobor infatti,
superstar del cinema sloveno verso cui Biček prova una venerazione assoluta, si sono affiancati veri ragazzini di
liceo alla loro prima esperienza cinematografica. E i genitori degli stessi! A nessuno di loro è stato permesso di
incontrarsi o interagire fino al primo giorno di riprese così da creare una naturale distanza tra i ragazzi, lontani
per primi tra di loro, ma soprattutto nei riguardi di Samobor, uomo altero, sicuro, rigido, che non ha alcun
interesse nel compiacerli ma si preoccupa di prepararli per la vita. Un film sul dubbio e sulla pericolosità dei
giudizi che mostra diversi punti in comune col cinema del miglior Haneke (quello che passa dalle parti di Caché) e
del Mungiu di 4 mesi, 3 settimane, due giorni.
Marianna Cappi. Mymovies.it
(…) «Voi sloveni, quando non vi suicidate, vi uccidete tra voi» sentenzia un ragazzo asiatico, illuminando una delle
chiavi di lettura di questo riuscitissimo lungo d'esordio di Bicek. Ma, fuori dal racconto come dentro di esso, non
è tutto bianco e nero, e al giovane regista non interessa solo la metafora della classe come riflesso in piccolo di
una società ancora divisa al suo interno tra fazioni opposte che risalgono alla seconda guerra mondiale, né
l'aderenza ad una realtà drammatica che conta in Slovenia un numero di suicidi a tutt'oggi ancora altissimo: nel
suo film, mette anche un po' di sé, con il ricordo della radio scolastica e l'e pisodio cardine del suicidio di una di
una ragazza, che ha fatto parte della sua storia di liceale. Soprattutto, mette in gioco una riflessione tra la
modernità educativa, intesa come deresponsabilizzazione e protezione ad oltranza dei giovani dai dolori della
vita, e vecchia scuola, più formativa ma meno empatica. Nel mondo odierno del “Al lupo! Al lupo!”, la serietà di
Zupan lo porta a venir accusato niente meno che di nazismo e ad essere identificato con un sistema (questo sì
inflessibile e immutabile) rispetto al quale la sua cultura è invece probabilmente l'unico antidoto possibile. Detto
questo, Bicek si guarda bene dal fare del professore un martire, ma non salva nemmeno la ragazzina introversa o
il compagno che ha perso la madre, costruendo un'escalation di sospetti e dispetti che include tutti quanti e
conduce ad una vera e propria guerra, silente e camuffata come sono i peggiori conflitti sul nascere. L'abilità
dell'autore, infine, sul terreno di un film tutto sommato piccolo e lineare, è proprio quella di far confliggere l'alto
tasso di emotività in gioco con una messa in scena calibrata e pumblea che, se da un lato lo reprime, dall'altro ne
alimenta il fuoco sotterraneo. Il suicidio, allora, lungi dall'essere il tema del film, è solo il pretesto per fare della
classe un simbolico ring, dove ci si avventa l'uno contro l'altro sull'onda delle emozioni, ma, proprio per questo, si
percuote senza esclusione di colpi.