Trevico tetto d`Irpinia e sentinella sulla Daunia di Franca Molinaro
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Trevico tetto d`Irpinia e sentinella sulla Daunia di Franca Molinaro
Trevico tetto d’Irpinia e sentinella sulla Daunia di Franca Molinaro La strada che dalla Baronia si appressa al monte di Trevico è dolcemente in declino e la verzura la decora anche in questo mese povero di pioggia. E’ ancora mattino ma il sole picchia sulle lamiere dell’auto e l’asfalto si riscalda esalando l’odore del petrolio. Cammino con la tristezza di chi sopporta un peso oltre misura, il cuore segue altre vie e smarrito s’abbandona all’auto che sembra conoscere la strada. La vegetazione si fa più intensa, ormai sono in salita, al bivio che indica Trevico-VallesaccardaScampitella. I boschi di castagno sfoggiano un manto smeraldo e le ginestre si tingono di macchioline gialle sulle cime, gli ultimi fiori sui rametti più giovani. Il manto verde, visto dall’alto sembra il vello di un montone disteso sui poggi ed irrorato di clorofilla. Per evitare i tornanti che risalgono il monte, prendo una scorciatoia nella località santa Lucia, il territorio a Nord-Ovest del paese, la zona più fertile che vide i primi insediamenti. Sembra che anche le spoglie di Sant’Euplio, patrono del paese, abbiano preferito risalire il monte da questo versante. La tradizione vuole che i resti mortali del martire catanese fossero state portate a Trevico da un cavaliere arcionato. Nella risalita, il cavallo che portava l’urna, con un colpo di zoccolo aprì una sorgente nel pendio, l’acqua che ne scaturì fu educata a fontana e prese il nome di Pescarella. Nel 1910 la fontana fu murata e corredata di vasche con deflusso per favorire quanti volessero attingere acqua ed abbeverare il bestiame. Nel 1980, per interessamento del parroco don Michele Cogliani, fu aggiunta una teca con l’immagine di Sant’Euplio dipinta su maiolica. Il getto d’acqua freschissima che sgorga dal cuore della montagna, perennemente, fluisce a valle secondo la naturale pendenza. Un tempo non si sprecava nemmeno una goccia di questo liquido prezioso, tutta l’acqua era recuperata per i bisogni del contado e per irrigare i rigogliosi orti che si stendevano sulla fiancata soleggiata. Per noi della valle, salire quassù nel cuore di agosto è come raggiungere il giardino dell’Eden, la terra ricca di acqua favorisce una florida vegetazione, l’altitudine mitiga il caldo e la posizione esclusiva, al di sopra delle altre cime, favorisce una brezza fresca per tutta la stagione calda. E’ curioso notare come anche le colture reagiscano in maniera differente a differenti altitudini, le piante di patata che da noi, a valle, hanno gia dato frutto e sono state raccolte da un pezzo, qui sfoggiano ancora foglie lucenti su steli carnosi; le ciliegie, tipico frutto di giugno, a Trevico si possono gustare anche d’agosto, le ultime raccolte sono dette r’e cerasa r’e Sant’Epolo. Le amarene, invece, hanno una storia insolita: ogni Trevicano le piantava intorno al suo orticello perchè questa pianta emette giovani succhioni in poco tempo, nel giro di una primavera o due, l’orto si ritrovava cinto da una siepe naturale e succulenta. Altro che le siepi di bosso lento a crescere e praticamente inutile, le siepi di amarena crescevano alte e nascondevano magnificamente i prodotti degli orti esposti a ladruncoli notturni e diurni. La risalita si fa più ardua ma il cuore è già più leggero, anche la mente si libera respirando l’aria che man mano s’affina. Sulla mia destra la montagna offre colutee (Colutea arborescens) dalle vesciche già mature, qui le chiamano sc’catta piatt, mentre lu cardon’ (eryngium amethystinum) spadroneggia nelle chiazze brulle d’arenaria dai clasti di medio calibro, è un cardo dall’infiorescenza azzurrina e dalle foglie biancastre. Due cumuli di terra identici, simili ai seni di una bella donna sdraiata, mi invitano a pensare ai misteri di Stonehenge, sorrido e proseguo non senza il proposito di informarmi in merito. Più avanti, affioranti dalla vegetazione, ruderi di antichissime mura confondono il viaggiatore mostrandosi come speroni rocciosi, si tratta dei resti di un convento Benedettino sepolto da terra e sterpaglie. Questo edificio è appartenuto alla chiesa fino agli anni cinquanta, poi è stato comprato da un privato. L’appuntamento con la mia guida è alle panchine, il luogo dove i giovani di Trevico si ritrovano da sempre, praticamente da quando furono poste le prime costruite con assi di legno. Le antiche panche sono state sostituite con altre nuove, delle vecchie ne sono restate solo due ma i ragazzi continuano a darsi appuntamento qui. Il sorriso florido e sincero della mia amica spazza via l’ultima ombra dai miei pensieri. Mariangela è una donna intrepida, praticamente un vulcano di idee e come guida è l’ideale, ha fatto ricerche sul territorio e ne ha lasciato testimonianza scritta. Conosce ogni pietra, ogni albero, ogni fontana, sa i segreti di questi montanari, le loro abitudini e le loro tradizioni. Conosce tutti i vecchietti e della loro amicizia fa tesoro, ha un solo difetto, eccede in ospitalità, e questo sfata un vecchio proverbio molto noto a valle che fa dei Trevicani delle persone poco ospitali: Trevico, si vuò mangià co’ mico portate pane e vino co’ tico. Subito la mia amica mi corregge: Trevico, non trovi il tempo amico, puortet’ pann’ co’ tico, e aggiunge anche che: Die te mann’ re fridd’pe’ quant’pann’ tiene. Bhe’, diciamo pure che è vero, altrove si dice: lo Pataterno com’ea lo monte manna la neve ma quando vieni quassù non devi trascurare di portare un maglione caldo da indossare all’occorrenza perché, con o senza l’impegno di Dio, si calcolano circa sette gradi di differenza tra la valle e la vetta, senza contare l’escursione termica tra la notte e il giorno. Iniziamo il nostro girovagare passando davanti alla villa archeologica, un discreto spazio dove si può passeggiare, ristorarsi sotto gli alberi ed osservare antiche pietre scalpellate di diverse epoche. Quest’area, mi spiega Mariangela, tempo fa era una discarica, poi è stata bonificata ed oggi si offre magnificamente a paesani e forestieri. Siamo sul lato Nord-Ovest della montagna, ai nostri piedi si stende tutta la Baronia con la coda occidentale della valle dell’Ufita; il paesaggio declina dai colli di Frigento e di Flumeri verso i paesi più a valle: San Sossio, San Nicola, Castel Baronia, in fondo Villanova ed ultimo, con i due colli identici, di un verde impressionante, Zungoli. E tu che osservi ti senti falco dallo sguardo acuto e ti senti aquila che stende le ali e plana sui colli ondulati punteggiati da casette bianche, macchie che si perdono sfumando nella lontananza. E proprio mentre la mente si libera e sogna seguendo il volo immaginario dei rapaci, l’occhio stupito procura al cuore un’emozione: una bella poiana dal manto bruno variegato, spiega le grandi ali e con slancio agile ed elegante si eleva nel cielo lasciando dondolare, per la spinta, il ramo di quercia sotto i suoi piedi, nello stesso istante un grido acuto sferza il cielo, la sua compagna la chiama ed insieme iniziano a volteggiare nell’aria. Un largo giro di circonvallazione ci porta al punto panoramico cinque, nella località detta Sant’Antuono, qui, un interessante progetto ha trasformato una vecchia costruzione in una scuola di enogastronomia per il recupero della tradizione culinaria della Valle Ufita. L’Amministrazione Solimine ha grandi e validi progetti capaci di dare un assetto ottimale al territorio orientandolo verso la giusta valorizzazione della cultura e della tradizione di questa terra, sentinella orientale dell’Irpinia. La riscoperta della cucina tipica può essere l’elemento trainante dell’economia di questa gente da secoli abituata a disagi e privazioni. Interventi consoni, dunque, che non aggrediscano il territorio ma che lo conservino integro con tutta la sua flora e la sua ricchissima fauna. A 1097 metri di altezza c’è spesso foschia e stamane è difficile scrutare l’orizzonte per scorgere i paesi che, sotto i nostri piedi, nei loro vicoli stretti, già brulicano di vita. Tra il verde cupo dei boschi di querce e castagni e quello più acerbo delle colture, affiora Vallesaccarda, un tempo frazione di Trevico; più ad Est si scorge il casello autostradale di Vallata, e proprio oltre, le distese di stoppie, lunghe come i baci degli innamorati, si perdono verso l’orizzonte azzurrino, nel cielo dal taglio turchese. Il paesaggio dauno annuncia che è gia Puglia, Scampitella segna il confine irpino, poco oltre, Anzano, adagiato sull’Altopiano Dauno, è provincia di Foggia. Nell’ultimo cinquantennio, questo territorio è stato meta ambita dai cacciatori di quaglie, il migratore arriva dalle zone calde all’inizio della primavera, nidifica tra i campi di frumento e nei prati naturali. La covata varia da sei a dodici uova che si schiudono dopo circa tre settimane. I quagliardi presto sono autosufficienti e si nutrono di larve e vermetti catturati razzolando; dopo quindici giorni la loro termoregolazione è perfetta, cominciano a spostarsi verso l’Alta Irpinia, sull’Altopiano del Formicoso, per ripartire in autunno. Negli anni scorsi, l’apertura per la quaglia era fissata nel mese di agosto, oggi, per favorire il rientro, è stata spostata a settembre. Questi pacifici uccelletti risentono dei problemi ambientali e dei mutamenti stagionali, lo scorso anno, ad esempio, hanno anticipato la migrazione alla metà di agosto, probabilmente a causa del mal tempo e dell’abbassamento della temperatura. Altra piaga considerevole che devia la migrazione delle quaglie sono gli impianti eolici per la produzione di energia elettrica, che ormai infestano l’Irpinia e la Daunia. Il rumore e lo spostamento d’aria causato dalle pale, disturba gli uccelli che preferiscono fermarsi in luoghi più tranquilli. Il pensiero è con gli amici cacciatori, e già li vedo ansiosi dietro i cani da ferma, che aspettano il frullo della quaglia, o, abbandonando le restocce, seguono la pista di una lepre inoltrandosi in terreni semicoperti. Setter dal mantello maculato cercano il terreno palmo per palmo, senza alzare un momento il naso dalla pista, poi, improvvisamente si bloccano con una zampa anteriore sospesa a mezz’aria, è segno che hanno scovato il selvatico nascosto in poche sterpaglie. Ma Puglia è un pensiero dolente, è sole cocente e campi arsi, è ricordo pungente che sferza la mente e squarcia il cuore della storia dei miseri: materializza l’immagine dei mietitori irpini che lasciavano le verzure dei boschi, le fontane ghiacciate, la brezza sempre fresca e con un tozzo di pane nella bisaccia, falce, salvapolso e canneddr’, si avventuravano a piedi per i viottoli battuti dal sole di giugno. Restavano per un mese, due, senza avere né dare notizie alla famiglia; a volte tornavano e trovavano un familiare morto. Immagino il disagio in quelle distese di grano senza una morescia dove fermarsi a riposare e a riprendere fiato, senza le fonti cristalline della montagna, il cinguettio degli uccelli e il canto dei grilli; solo stonate cicale che iniziavano il loro monotono frinire appena il sole si scaldava e smettevano al tramonto, quando ancora la terra rimandava il calore assorbito, privando anche quell’ora di un fresco respiro. Una sola preghiera invadeva l’animo del mietitore, che na’ cerz’ pugliese si mettesse davanti al sole e vi restasse il più possibile, ma questo non capita nei mesi di luglio, in Puglia, dove il cielo è pulito in maniera inverosimile e nemmeno un cirro lo macchia con la lanugine bianca. La Puglia era per l’Irpino l’immagine della ricchezza e del dolore, figlio di una terra selvaggia, avara di ogni risorsa agricola; l’Alta Irpinia procurava braccia al tavoliere che sfruttava i robusti montanari ricchi solo di orgoglio e di fame. La Puglia era un sogno per chi non c’era mai stato, era sofferenza e amarezza per chi ci tornava. Il ricavato delle giornate spese a mietere doveva bastare alla famiglia per tutto l’anno, fino a quando un nuovo addio strappava i mariti alle spose, i figli alle mamme. Per Trevico, la Puglia era anche piccolo commercio, scambio culturale. Nei tempi addietro, i Trevicani caricavano l’asino con i loro prodotti e scendevano a valle puntando poi su quel paese che si scorge a Nord-Est, abbarbicato su metà di un colle: Sant’Agata di Puglia. Maggiormente, al mercato portavano le patate, ancora oggi, specialità del monte. Ogni anno è possibile assaggiare quest’ortaggio in tutte le sue varianti gastronomiche, ad una sagra organizzata dalla Pro-Loco per la vigilia di Sant’Euplio. Chiacchierando e ricordando, risalendo per le cappelle ci troviamo sotto Porta Alba, l’antica porta ad Est del paese. Trevico nacque come roccaforte militare e non come corte gentilizia pertanto non ci troviamo di fronte ad un caso di incastellamento ma ad una fortezza di avvistamento. La posizione era di assoluto privilegio perché dalla vetta è possibile tener sotto controllo tutto il territorio circostante. L’agglomerato si sviluppò lungo un asse disposto sulla retta Est-Ovest e sul lato occidentale fu eretto un castello. Purtroppo di questo edificio resta solo la cinta muraria, nella sua corte, negli anni passati, fu costruita la stazione meteorologica. In questo castello, qualche secolo fa, si pensava ci fosse un tesoro, tutti i Trevicani avrebbero voluto appropriarsene ma erano tante e tali le cose che si dicevano del custode che nessuno trovava il coraggio di tentare l’impresa. Ma, v’era in paese un pezzo d’uomo che di coraggio ne aveva fin troppo, gli avevano dato il nome di lu breand’, non perchè fosse un delinquente, questo significato lo ha attribuito poi la storia a molte persone rispettabili, ma perchè non si curava di nessuno e faceva quanto la sua ragione riteneva giusto fare. Lu breand’ si mise in testa di recuperare il tesoro del castello e nessuno fu in grado di distoglierlo da tale impresa. Per portare a termine la missione occorrevano tre uomini ed un mago, lu breand’ reclutò due amici e trovò l’uomo del diavolo che li ragguagliò sui rischi e sul modo di comportarsi. Era assolutamente proibito, una volta entrati nel castello, in caso di spavento, chiedere aiuto a Dio, alla Madonna o ai santi, era concesso solo, per farsi coraggio, abbracciare il compagno e dire frato mio. Tutti d’accordo entrarono nel castello e si trovarono di fronte ad un gigante che fumava una pipa in cui bruciava ‘no mezzett’ re tabbacc’. Nessuno diede a vedere lo spavento ma qualcuno dovette invocare il suo santo protettore perché la compagnia fu violentemente sciolta ed i compari si trovarono sparpagliati per i paesi del fondovalle, al mago toccò invece di star più elevato, infatti si ritrovò ad Ariano. Uno dei tre non fece più ritorno a Trevico né se ne ebbero più notizie, un altro restò col respiro affannato per tutto il resto della sua vita, quando morì lu breand’, nel camino si udirono rumori di ferri e catene. Due vichi incrociano, come braccia aperte, l’asse centrale del paese, è il Vico Orazio e il Vico Scola con la casa natia del famoso regista cinematografico Ettore Scola, donata al comune per scopi culturali. Più avanti, il muro in pietra accusa alla cattedrale, i suoi anni. Antica sede vescovile della Baronia, Trevico ospitava il vescovo solo nel periodo estivo, nel periodo invernale, data la rigidità del clima, il prelato si spostava a Castel Baronia. Famose le campane che possono essere udite dai paesi circostanti, infatti a Trevico si dice: Se soscia lu scirocco se sientn’ fin’a Rocca. Se tir’ lu vient’ se sientn’ fin’a B’neviento. Se soscia la tramontan’ se sientn’fin’a lu sal’rnetan’. La cripta, ora priva di ogni decorazione, aveva le volte affrescate, quel che rimane dei magnifici dipinti, è custodito nella cattedrale, montato su appositi pannelli. Dal poco che si può osservare risalta una mano sapiente ed uno stile paragonabile a quello dei maestri umbri del duecento. Probabilmente v’era raffigurata una scena della vita di Sant’Euplio perché su uno dei pannelli c’è una mano che la tradizione attribuisce al santo. La cripta, attualmente, ospita un piccolo museo con due statue della Madonna della Libera, una dal rigoroso manto pieghettato databile XV sec., l’altra dal panneggio più elaborato ma in peggiori condizioni è databile XVI sec. La Madonna della Libera è raffigurata con il mantello aperto e sotto la popolazione di Trevico e di Bisaccia. La leggenda vuole che la statua non dovesse esser mossa dalla sua posizione volta verso Bisaccia, difatti, si racconta che, ogni volta che la statua veniva rimossa e portata in processione si verificavano delle disgrazie. Una volta fu messa nella nicchia di Sant’Euplio, il giorno seguente si trovò rivolta verso Bisaccia. Fu allora scolpita la seconda statua che poteva esser rimossa senza alcun rischio. Nel giorno della festa, i Bisaccesi salgono, pellegrini, il monte, non senza rischiare i commenti dei conterranei, a Trevico, infatti, sono varie le storie che vedono protagonisti i Bisaccesi poco fedeli. Due ragazze di Bisaccia fecero pellegrinaggio alla Madonna, tornando furono colpite da un fulmine nei pressi della pineta, si disse che le ragazze non si erano recate in paese con scopi propriamente pii. E sempre per colpa di una ragazza di Bisaccia, un anno si ebbe un violento temporale, il tempo si rimise al bello quando la ragazza uscì dalla chiesa, sembra che il suo abbigliamento non fosse gradito alla Madonna. Ma la Madonna accoglie tutti sotto il suo manto e il paese di Bisaccia fu salvato dalle preghiere rivoltegli quando, una faglia di grossa entità, si aprì ai piedi dell’abitato. La piccola piazza antistante la cattedrale, ogni anno vede riuniti studiosi di tutta Italia invitati dal Centro Studi Eupliani. Il centro ha avviato una serie di studi che hanno portato all’identificazione delle poche reliquie con la figura del santo Catanese. Don Michele, dopo aver fatto accurate ricerche storiche sul santo, intrattenendo rapporti con la città siciliana, ha voluto la ricognizione scientifica delle ossa. L’insigne professor Mallegni, paleantropologo dell’Università di Pisa, ha esaminato le ossa conservate nell’urna della cattedrale ed ha illustrato la relazione nel corso del congresso che si è tenuto l’undici agosto 2005. La relazione scientifica confermata dalla relazione storica, afferma, con una garanzia del novanta per cento, che quel pezzo di femore, quella scapola, quel fondo di occipitale, l’astragalo, un pezzo di bacino, la rotula, pezzi di ulna e radio, di tibia e perone, appartengono ad un giovane picchiato selvaggiamente con esiti di numerose fratture. La testa del femore conferma, a causa della sua immaturità, un’età di circa venticinque anni. L’analisi della tibia ha rivelato di appartenere ad un individuo abituato ad una posizione inginocchiata perché segnata da faccette formatesi dalla pressione dell’astragalo in una posizione anormale, le stesse faccette compaiono sulle tibie di Sant’Antonio e delle popolazioni contadine avvezze a lavori in ginocchio. La calcificazione delle fratture stabilisce i mesi di vita spesi in prigione dopo la flagellazione. Infine, dalle ossa si è potuto stabilire che si trattava di un abitante delle zone costiere perché la sua alimentazione era soprattutto a base di pesce. La devozione al santo martire è fortissima in tutta la Baronia, molti portano il suo nome e molte grazie esaudisce, c’è ancora qualche vecchietta che ricorda il canto in suo onore: A la Catania eia nat' nu fangiull' A Catania è nato un fanciullo e d' tre giorn' ieva camm'nann' e dopo appena tre giorni camminava e d' tre giorn' ieva camm'nann'. e dopo appena tre giorni camminava. Oi mamma mamma famm' na cucina O mamma mamma fammi da mangiare ca ij l'aggia fa na lunga camm'nata perché devo fare un lungo viaggio ca l'aggia fa na lunga camm'nata. perché devo fare un lungo viaggio. Oi figl' figl' oi nun g' pui in' O figlio figlio non ci puoi andare ca tu lu fium' d' l'acqua nu lu pui passan' perché il mare non lo puoi passare ca tu lu fium' d' l'acqua nu lu pui passan'. perché il mare non lo puoi passare. Oi mamma mamma ca ij lu fium' d' l'acqua lu pozz' O mamma mamma io il mare lo posso passan'. passare. Mo vai Ep'l' e alza l'occhij al ciel': Ed Euplio alza gli occhi al cielo: e ij t' pregh' a te Madre Maria e io prego te Madre Maira che nu la fa addunar' la mamma mia di non far soffrire mia madre che nu la fa addunar' la mamma mia. di non far soffrire mia madre. Adesso arriva Euplio alla Forraggine e si Mo arriva Ep'l' a la Furriac'na e affaccia affaccia e r' camban' sunav'n' senza t'ran' e le campane suonano senza essere tirate e r' camban' sunav'n' senza t'ran'. e le campane suonano senza essere tirate. E lu paes' tutt' spav'ntat' E il paese tutto spavantato currier'n' a la chiesa a v'ren' corse in chiesa a vedere currier'n' a la chiesa a v'ren'. corse in chiesa a vedere. E r' f'nestr' tutt' spalancat' E le finestre tutte spalancate e rind' c' steva nu grand' cavalier' e dentro c'era un grande cavaliere e rind' c' steva nu grand' cavalier'. e dentro c'era un grande cavaliere. Tu rimm' cavalier' ra ndò n' vien', ij vengh' ra la Catania ca voi chiamate già ess' il prot'ttor' r' Tr'vich' già ess' il prot'ttor' r' Tr'vich'. O figl' figl' s' t' n' vui v'nin' ca nui na grand' festa l'avimma fan' ca nui na grand' festa l'avimma fan'. O mamma mamma t' n' pui in' facit'la la festa cum c' stess' ij facit'la la festa cum c' stess' ij e p' r'cord' t' puort' lu dit' mij e p' r'cord' t' puort' lu dit' mij. E Gloria Padr' e Figl' e spir'tu Sand' la storia eia f'rnuta tutta quanda. Tu dimmi cavaliere da dove vieni, io vengo dal luogo che voi chiamate Catania devo essere il protettore di Trevico devo essere il protettore di Trevico. O figlio figlio se te ne vuoi venire perché una grande festa dobbiamo fare perché una grande festa dobbiamo fare. O mamma mamma te ne puoi andare fate la festa come se ci fossi anche io fate la festa come se ci fossi anche io e per ricordo ti porti il mio dito e per ricordo ti porti il mio dito. E Gloria Padre Figlio e Spirito Santo la storia è finita tutta. Attraversiamo la piazza velocemente tra i palazi gentilizi ben restaurati con le pietre a faccivista, due passi e ci troviamo davanti al mercatino della mia amica, lei entra a prendere una bevanda fresca ed io mi siedo sul muretto che s’affaccia sull’orizzonte di Sud-Est. Non so se è una mia cattiva abitudine, un vizio, una debolezza o che altro, ma ogni volta che mi trovo di fronte ad uno spettacolo simile, mi manca il respiro, il pensiero arranca di fronte a tanto orizzonte, non c’è cruccio che tenga, angoscia che resista, tutto svanisce dietro l’iride umida e cola con una lacrima sulla guancia stupita. Ho lasciato il cuore lungo i fianchi della montagna, l’ho sciacquato nelle sorgenti fresche, ho sepolto i miei pensieri turpi e quelli ansiosi li ho liberati nel vento, ora c’è solo il cielo e l’altopiano del Formicoso con le sue pale eoliche, da quella parte Bisaccia, poi Andretta, Guardia dei Lombardi, Nusco. Di fronte a me l’ariella dove facevano l’aia per la trebbiatura, un punto esposto ai quattro venti per permettere la spulatura del grano. Appena sotto di me, sepolta tra le spine, la neviera, una struttura nascosta nel terreno dove veniva pressata la neve raccolta durante l’inverno. Questa specie di pozzo ha un canale deferente che permette all’acqua di defluire dalla massa di neve ghiacciata ed evitarne lo scioglimento totale. Più in basso re serre, un bosco verdissimo da dove sgorgano due importanti sorgenti incanalate in Puglia e la fontana re Munsignore. Scendendo a valle da questo versante s’incontra un ristorantino dove cucinano il miglior agnello della zona, offrirei volentieri il pranzo alla mia guida evitandole il fastidio dei fornelli, ma ho fatto il conto senza di lei; dovevo immaginare che, considerato il suo carattere, non me lo avrebbe mai permesso. Il tempo di smarrirmi nell’orizzonte e lei ha gia preparato la tavola, la sua voce è un imperativo a cui non puoi far altro che obbedire. “Gnocchi come primo piatto” dice lei festosa, comparendo con una spasa fumante, decorata da fiorellini azzurri tutt’intorno. “Ti pareva che no mi cucinava le patate”, penso malignamente e a malincuore affondo il mestolo nel piatto di portata. A Trevico, accanto alla patata, primeggia e trionfa la castagna, questi boscaioli hanno la capacità di far di questo frutto autunnale la regina della tavola, partendo dal primo piatto fino al dolce. Con la passata di castagne, farina, uova e sale, preparano gli gnocc’ re castagn’ e, secondo l’antica tradizione, li cavano sulla griglia re lu cirnicch’, cioè sul setaccio del grano. Il sugo è fatto con pomodoro e curnicieddr’, il sapore forte del peperoncino esalta il gusto dolce della castagna e crea in gola un bisogno impellente di tracannare un po’ de quel bel vino rosso rubino che occhieggia nell’ammola di terracotta. Il secondo piatto è passel’ cuott’ ‘ntà la patan’ sott’a la cenera, una sorpresa nella sorpresa, l’ampio piatto di portata è pieno di involtini di foglie di castagno, in ogni involtino c’è una patata stufata sotto la cenere e nella patata, tagliata in due e scavata all’interno, un passero aromatizzato con aglio, peperone secco, pepe, sale. Per dolce non poteva mancare il castagnaccio fritto e per dessert na tazzolell’ re marenat’, dolcissime amarene in sciroppo di zucchero. La mia amica ha recuperato una tradizione antichissima, nel periodo natalizio, i Trevicani usavano cucire le castagne dopo averle infornate, ne realizzavano composizioni diverse secondo il destinatario del dono, lei è stata a scuola da una vecchietta ed ha imparato a confezionare il mezzetto, un cesto grande quanto l’antica unità di misura destinato al padrone, la mitra di castagne era destinata al vescovo, la stella andava regalata al parroco e l’acquasantiera alle suore. Il meriggio agostano concilia la digestione e il sonno ma è ora di andare; la mia amica mi consiglia l’autostrada e si offre di accompagnarmi al casello. Percorriamo una stradina interna che attraversa il territorio semipianeggiante di Vallata; l’odore di sterco è forte, c’è un gregge tra le stoppie, nei pressi di un rivolo che costeggia la strada. Incuriosita osservo dei segni strani rasati nel mantello delle pecore, tre croci in diverse parti del corpo delle pecore e più avanti un mulo con un segno simile sulla spalla: un cerchio e all’interno una croce. Si tratta, mi spiega la mia guida, di segni propiziatori che vengono rasati sul corpo degli animali, il primo venerdì di marzo, anche gli uomini tagliano un ciuff’niell’ di capelli e le donne spuntano le trecce, il primo venerdì di marzo per evitare i mal di testa. Giunto il momento di salutarci la mia amica abbracciandomi dice “Franca, ricorda che Ciucc’ femmen’e crape tienen’ tutt’ a stess’ cap’, sii sempre ostinata nei tuoi propositi e otterrai quel che desideri”. FRANCA MOLINARO da L’Irpinia Illustrata Elio Sellino Editore