Notizie sugli artisti - Città Metropolitana di Milano

Transcript

Notizie sugli artisti - Città Metropolitana di Milano
Notizie sugli artisti
JOSEPH BEUYS
Krefeld, 1921; Düsseldorf, 1986.
Dopo la chiamata nell’esercito nel 1940, viene addestrato e reclutato come aviere
durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1943 il suo aereo viene colpito dalla
contraerea russa e precipita; viene salvato e soccorso dai Tartari. Dopo la guerra
decide di interessarsi esclusivamente ai propri interessi artistici: nel 1947 si iscrive
all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, frequentando la classe del prof. Enseling. Nel
1949 si iscrive alla scuola di Ewald Matarè, in cui viene valorizzato l’aspetto di
manualità nella creazione artistica. Dal 1949 al 1952 Beuys lavora alle proprie prime
opere plastiche, che si aggiungono alla produzione di disegni a partire dall’immediato
dopoguerra. Nei primi anni Cinquanta lavora principalmente su commissione privata;
i fratelli var der Grinten iniziano a collezionare incisioni su legno e disegno e nel 1953
aprono la prima personale di Beuys a Kranenburg. Nel 1954, terminati gli studi,
affitta uno studio in un edificio di Düsseldorf. Tra il 1962 e il 1965 stabilisce dei
contatti con il gruppo Fluxus e partecipa a diverse manifestazioni, comprese alcune
tenute all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, dove insegnava dal 1961. Interessato
dall’elemento musicale, collabora con musicisti come Henning Christiansen, John
Cage e Stockhausen. In questo periodo dà vita anche alle prime azioni quali ad
esempio Symphonie, I. Satz e Komposition für zwei Musikanten. Nel 1963 partecipa
ad un serata alla Galleria Zwirner a Colonia e utilizza per la prima volta il grasso, poi
usato costantemente nella propria produzione artistica. Il suo primo incontro con il
grande pubblico avviene in occasione della Documenta III del 1964, in cui partecipa
con disegni e sculture relativi al periodo 1951-1956. Da questo momento fino al 1986
Joseph Beuys espone in numerose esposizioni, tra cui Documenta (Kassel, 1968,
1972, 1977, 1982), Biennale di Venezia (Venezia, 1976,1980, 1984), Skulptur Project
(Münster, 1977), e nei più importanti musei e gallerie di carattere internazionale. Il
video esposto in mostra, Coyote ‘I like America and America likes me’, è il risultato di
una lunga azione compiuta da Beuys nel 1974 alla galleria Renè Block di New York.
L’artista, giunto alla galleria a bordo di un’ambulanza per non toccare il suolo
americano, trascorrerà tre giorni in una gabbia con un coyote. A poco a poco la
presenza di Beuys viene riconosciuta e accettata dall’animale selvaggio e tra i due si
instaura una sorta di comunicazione silente, che fa cambiare di segno tutto il
contesto: il tempo si dilata, dando corpo ad una realtà utopica ed il luogo diviene una
sorta di spazio sospeso, in cui si sta svolgendo un rituale.
MARCEL BROODHTAERS
Brussels, 1924; Colonia, 1976.
Studente di chimica, abbandona gli studi per concentrarsi sulla poesia, in particolare
sulle opere di Mallarmè. Alla fine degli anni Cinquanta pubblica la sua prima raccolta
di poesie in quattro volumi Mon livre d’Ogre e produce il suo primo film La Clef de
l’Horlogne, un poème cinematographique, in onore a Kurt Schwitters. Nel 1963 posa
la propria ultima raccolta su un piatto e la espone come fosse una scultura; dal 1964
al 1970 le sue opere si sposteranno proprio su questo fronte, coinvolgendo
l’assemblaggio e l’accumulazione di materiali ad un generale senso di assurdo e di
ironia. Nel 1968 si proclama conservatore del Musée d'Art Moderne département des
aigles che egli stesso ha creato, con l’obiettivo di ragionare sul significato del termine
museo e sulle sue funzioni. Nell’ultima fase della sua produzione, sposta la sua
attenzione sul film e sul montaggio di diapositive e trasforma le sue esposizioni in
opere d’arte che abbiano per tema la critica alla visione e al mostrare, il senso ed il
contesto, la messa in scena della mostra e il museo. I lavori di Broodthaers sono stati
esposti in varie mostre personali, tra cui Der Adler vom Oligozän bis Heute,
Städtische Kunsthalle (Düsseldorf, 1972), Section Financière, Galerie Michael Werner,
fiera di Colonia (Colonia, 1971), Section Cinéma, Haus Burgplatz (Düsseldorf, 1971),
Section XIXème Siècle, Rue de la Pépinière, Brussels 1969 Section XVIIIème Siècle,
Galerie 379089 (Antwerp, 1968). Tra le esposizioni collettive a cui ha preso parte
Documenta 5 (Kassel, 1972), Between 4, Städtische Kunsthalle (Düsseldorf, 1970).
La Pleuie (Projet pour un texte) è un brevissimo video, della durata di due minuti, che
vede l’artista ripreso mentre tenta di scrivere un testo sotto la pioggia: mentre scrive
le sue parole vengono a mano a mano cancellate dall’acqua e l’inchiostro dilavato
assume le sembianze di un vero e proprio disegno.
JOHN CAGE
Los Angeles, 1912; New York, 1992.
John Cage è allievo di F.Ch. Dillon ed in seguito studia composizione a Parigi con R.Buhling, A.Weiss, H.Cowell e
A.Schoenberg. Insegna in varie istituzioni americane, fra cui Cornish School di Seattle (1936-38), Mills College in
Oakland (1938), Chicago Institute of Design(1941), Black Mountain College (1948, 1952), New School for Social
Research di New York (1956-60). Nel 1948 inizia la collaborazione con il ballerino M. Cunningham. Nel 1949 ottiene
delle sovvenzioni dalla Fondazione Guggenheim ed in seguito dalla National Academy of Arts and Letters per ricerche
in campo musicale. Partecipa a numerosi festival di musica d’avanguardia negli Stati Uniti e in Europa, ampliando
progressivamente il concetto di musica fino ad eliminare ogni definizione che distingua e separi questa manifestazione
artistica dalle altre. In un primo periodo, Cage si dedica quasi esclusivamente alla musica percussiva, caratterizzata
dalla ricerca di soluzioni timbriche e ritmiche originali e che porterà alla nascita del pianoforte preparato(tra il 1938 e
il 1951); allo stesso periodo risalgono anche Quartet per 12 tom-tom (1935), Imaginary Landscape n.1 (1939) e First
Construction (1939), composizioni che fanno ricorso a differenti sistemi percussivi attraverso l’utilizzo ad esempio di
tazzine da riso, cerchi di automobile, latte di benzina, ecc. Tra il 1940 e il 1950 Cage si avvicina al buddismo Zen che
si stava diffondendo in USA e che non rappresenterà solo una fonte di ispirazione per l’artista, ma una vera e propria
impostazione teorico-filosofica in base alla quale ridiscutere il concetto stesso di musica ed in cui si farà spazio l’idea
di silenzio come unica possibilità di rappresentare l’illuminazione, meta “senza intenzione” della meditazione zen.
Non-intenzionalità e silenzio rappresenteranno a partire da questo periodo il fondamento della musica di Cage. Dalla
non intenzione deriverà soprattutto il ricorso a tecniche aleatorie e casuali volte a eliminare l’aspetto soggettivo dal
processo compositivo, che deve così essere subordinato alla disorganizzazione propria della realtà. Anche in Please
Play or The Mother, the Father or the Family il silenzio sembra governare la scena. Un pianoforte giace a terra,
rovesciato, nell’impossibilità di emettere dei suoni e, sotto di lui, una pila di stoffe lo tengono sospeso dal suolo. I
tessuti, collocati in corrispondenza della cassa armonica, ribadiscono un’intenzione silenziosa: infatti, anche se le
corde stessero vibrando, i panneggi attutirebbero qualsiasi suono, rendendolo impercettibile.
MIRCEA CANTOR
È nato nel 1977 a Cluj. Vive e lavora a Parigi e Cluj.
Originario della Romania, dopo l’apertura delle frontiere dei paesi dell’Est nei primi anni Novanta, ha viaggiato molto
in Europa, facendo diventare parte della propria ricerca artistica l’analisi delle differenti culture e realtà incontrate e
del particolare fenomeno legato al turismo di massa. Anche lo sguardo, captato da questa sorta di consumismo del
viaggio, viene tratto in inganno e cade in una rete di biases, di incomprensioni e di fraintendimenti interpretativi che
impediscono la fruizione dell’esperienza e l’artista cerca, attraverso l’utilizzo di media – che spaziano tra video,
fotografia, installazione, scultura, azione collettiva e pubblicistica - di capire in che modo sia possibile trovare uno
spazio per la partecipazione del singolo, per l’introduzione di gesti minimi che portino lo sguardo a ri-focalizzarsi sulla
realtà vissuta. L’opera esposta in mostra, Deeparture, crea in chi la osserva una forte aspettativa, una continua attesa
di una svolta: sulla scena si muovono infatti un cervo e un lupo, chiusi in una stanza. Tra i due animali non si scatena
invece alcuna lotta e le azioni si cadenzano e alternano in modo razionale, quasi irreale. Ha esposto in mostre
personali quali Mircea Cantor: Born to be burnt, GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo
(2006), Deeparture, Yvon Lambert, New York (2005), Si tu marche plus vite, il pleut moins fort, Centro arte moderna,
Gulbenkian Fondation, Lisbona (2005), Preview, Magazzino d'Arte Moderna, Roma (2004), Corporate identity , FRAC
des Pays de la Loire, Carquefou (2003). Nel 2004, in qualità di vincitore del Paul Ricard Prize ha esposto in una
personale presso il Centre George Pompidou di Parigi. Tra le esposizioni più recenti a cui ha preso parte Busan
Biennial, Busan, Korea del Sud (2006), Printemps de septembre, Toulouse (2006), 4th Berlino Biennial for
contemporary art, Berlino (2006), Notre Histoire..., Palais de Tokyo, Parigi (2006), War is over, 1945–2005 The
Freedom of Art from Picasso to Warhol and Cattelan, GAMeC-Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo
(2005), On Difference, Wuertenmbergischer Kunstverein, Stoccarda (2005), Tirana Biennale 2, National Gallery of
Arts, Tirana (2002), Biennale di Venezia (2003, 2001).
GIUSEPPE CHIARI
Firenze, 1926; Firenze, 2007.
Giuseppe Chiari intraprende parallelamente gli studi di ingegneria e quelli di pianoforte e composizione, con
l’intenzione di diventare un pianista jazz; si interessa inoltre da subito ad architettura, cinema, arti visive e
letteratura. A Firenze negli anni Cinquanta entra in contatto con i risultati delle ricerche musicali di John Cage, portati
nella città da Sylvano Bussotti; comincia ad interessarsi anche alle ricerche sperimentali legate alla musica visiva e
con Pietro Grossi - entusiasta dalla preparazione matematica di Chiari e dalla sua conoscenza delle avanguardie
musicali - costituisce l’associazione Vita musicale contemporanea, punto di incontro per raffronti tra discipline
matematiche e musicali. A partire dagli anni Sessanta Chiari, insieme a Bussotti e Cage, inizia ad addentrarsi
nell’aspetto grafico-visivo della scrittura musicale, basandosi sulla parole in libertà e sulle parolibere futuriste,
iniziando a creare delle partiture in grado di trasformarsi in diagrammi, non eseguibili, bensì guardabili. Dal 1962
aderisce al gruppo Fluxus, interessato all’idea di rifuggire la storia e sostituirla con il quotidiano, con il vivere hic et
nunc, ricordando che il compito dell’artista sta proprio nel raccordare intime relazioni tra l’essere umano quotidiano e
l’universo circostante. Nello stesso anno, al Festival di Wiesbaden, esegue l’opera Gesti sul piano, esempio
emblematico del pensiero sviluppato dall’artista; in questa azione le mani si muovono sulla tastiera mentre si mettono
in movimento le altre parti del corpo, si intrecciano le braccia, si bloccano, riprendono ad agitarsi. Lo strumento
musicale viene infatti vissuto da Chiari non come un mezzo, ma come un prolungamento corporeo, in grado di
provocare esperienze estetiche/plastiche e atteggiamenti espressivi, in totale simbiosi con il corpo umano. Tale
simbiosi viene confermata anche da altre performance di Chiari, tra cui Suonare il piano da lontano, dove l’artista,
seduto a tre metri di distanza del pianoforte, immobile, riesce grazie alla complicità estetica instaurata con lo
strumento, a far immaginare un suono effimero, invisibile. L’opera in mostra presenta un pianoforte considerato in
modo completamente differente: è lì, immobile e statico, senza suono. Chiari intitola infatti l’opera emblematicamente
Scultura per pianoforte, come se lo strumento fosse lì per essere osservato per le sue qualità plastiche ed estetiche e
non per il suo potenziale sonoro.
JIMMIE DURHAM
È nato ad Arkansas nel 1940. Vive e lavora a Roma.
La sua ricerca spazia dall’arte visiva alla saggistica; Durham è anche attivista politico dell’American Indian Movement.
Durante gli anni Settanta si dedica maggiormente al teatro e alla performance artistica, mentre durante gli anni
Ottanta inizia a creare installazioni e assemblage che hanno come base la propria cultura, nel tentativo di decostruire
gli stereotipi e i pregiudizi insiti nella cultura occidentale. Il recupero dei materiali e della materialità, unito
all’interesse per gli oggetti, vuole in qualche modo essere una risposta, spesso ironica, alla diffidenza dimostrata dalla
cultura occidentale nei confronti di credenze e modelli di vita differenti. Anche l’opera in mostra, Stoning the
Refrigerator, del 1996, vuole essere una critica alla società occidentale: Durham scaglia infatti delle pietre contro un
frigorifero fino ad arrivare a distruggerlo, in segno di protesta contro il mondo tecnologico ed il consumismo che
produce. Jimmie Durham ha preso parte a numerose esposizioni internazionali, tra cui la Whitney Biennial (New York,
2006), la Biennale di Venezia (Venezia, 2005, 2003, 2001, 1999), la Biennale di Tirana (Tirana, 2005) e la Biennale di
Sidney (Sidney, 2004), Documenta IX (Kassel, 1992). Tra le esposizioni più recenti a cui ha partecipato
QUAUHNAHUAC - Die Gerade ist eine Utopie, Kunsthalle Basel, Basilea (2006), THE 1980s - A TOPOLOGY, Museu
Serralves - Museu de Arte Contemporânea, Porto (2006), Collectiepresentatie XVI - Attributen en Substantie, MuHKA
Museum voor Hedendaagse Kunst Antwerpen, Anversa (2006), JIMMIE DURHAM – Glass ANNE SCHNEIDER - ...und
Wachs!, Christine König Galerie, Vienna (2006), Fuori Uso 2005: La strada, Pescara (2005), MuHKA Museum voor
Hedendaagse Kunst Antwerpen, Anversa (2005, 2004), (my private) Heroes, MARTa Herford, Herford (2005), 100
Artists See God, ICA - Institute of Contemporary Arts London, Londra (2004), Le ragioni della leggerezza, Galleria
Francosoffiantino Artecontemporanea, Torino (2004), Jimmie Durham - Semi-Specific Objects and Almost-Related
Words, Leopold Hoesch Museum, Düren (2003), Gelijk het leven is, SMAK - Stedelijk Museum voor Actuele Kunst,
Gent (2003), RETROSPECTACLE: 25 Years of Collecting Modern and Denver Art Museum, Denver (2002), Over The
Edges, SMAK - Stedelijk Museum voor Actuele Kunst, Gent (2000).
JAN FABRE
È nato ad Anversa nel 1958. Vive e lavora ad Anversa.
La sua ricerca spazia in campi differenti, dalla scultura al disegno, dalla regia alla scrittura di drammi teatrali. I lavori
di Fabre si imperniano attorno ad una ricerca costante attorno ai temi della vita e della morte, della caducità e del
dolore, modellandoli fino ad assumere le differenti forme della poesia, dell’installazione, del video, della performance.
Dal 1976 al 1982 ha dato vita a numerose performances, tra cui Bill us later alla Mott Street Gallery (New York, 1979)
e Ilad of the Bic-Art alla galleria the Appel di Amsterdam (1980), replicata al Salon Odessa (Leiden, 1981). Dal 1977
Fabre ha realizzato numerosi film, quali The flight (1979), Two worms (1979), Suicide (1980), The Bag (1980), The
Meeting/Vstrecha (1997), The Problem (2001), Je suis sang (2001), Angel of Death (2002), The crying body (2004).
Tra le opera pubbliche maggiormente conosciute, quelle al Tivoli Castle in Mechelen (1990), The man who measures
the clouds (SMAK, Gent, 1998)e Heaven of Delight (Royal Palace, Brussels, 2002). Sue mostre personali si sono
tenute in vari musei, tra i quali ad esempio Kunsthalle Basel, Centro de Arte Moderna Lissabon, Palais des Beaux-Arts
Brussels, Kunstverein Hannover, Stedelijk Museum Amsterdam, Ludwig Muzeum Budapest, Muhka Antwerp, Haggerty
Museum of Art Milwaukee, Museum of Contemporary Art Warshaw, Sprengel Museum Hannover, Smak Ghent,
Kunstnernes Hus Oslo, Fundacio Joan Miro Barcelona, Musée d’Art moderne et d’Art Contemporain Nice and Musée
d’Art Contemporain Lyon. Nel 2005 Fabre ha preso parte alla mostra La Belgique visionnaire al Palais des Beaux Arts
di Brüssel, ultima esposizione curata da Harald Szeemann; dello stesso anno la grande mostra Homo Faber al Muhka
Museum of Contemporary Art and the Royal Museum for Fine Arts di Anversa, curata da Giacinto di Pietrantonio.
Dall’8 giugno al 21 settembre 2007 a Venezia si è tenuta la mostra Jan Fabre. Anthropology of a Planet, a cura di
Giacinto di Pietrantonio, evento collaterale alla 52° Biennale d’Arte di Venezia. Jan Fabre ha preso parte a numerosi
eventi di carattere internazionale quali Biennale di Venezia (Venezia, 2007, 2003, 1990, 1984), Documenta (Kassel,
1992, 1982), Sao Paolo Biennal (1991), Biennale di Lyon (Lyon, 2000), Valencia Biennal (Valencia, 2001) e Istanbul
Biennale (Istanbul, 2001, 1992). Nell’opera in mostra, reso visibile dalla luce di uno spot, compare il capo dell’artista:
questo emerge da un cumulo di terra, come scordato ed abbandonato dopo una sepoltura frettolosa e disattenta. Ma
questa è proprio l’accorta ed impietosa punizione per l’artista, che non può trovare pace nemmeno nella morte. Quello
che di lui continuerà a spuntare dalla terra, sarà infatti sempre il cervello, sede dell’immaginazione, della creazione
artistica, dei contraddittori dibattimenti tra le emozioni, del pensiero. La luce che illumina l’artista è blu e riporta al
concetto dell’”ora blu” utilizzato da Fabre in molte opere: questa è infatti l’ora che l’artista preferisce, particolare
momento in cui le luci della notte trasfondono in quelle dell’alba. C’è nell’ora blu un silenzio quasi sublime, in cui le
cose sembrano scivolare e aprirsi al cambiamento e l’artista è all’erta, pronto per cogliere un “qualcosa” indefinito ed
imprevedibile che potrebbe avere luogo.
LARA FAVARETTO
È nata nel 1973 a Treviso. Vive e lavora a Torino.
Dopo aver frequentato l'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano ed il Corso Superiore di Arte Visiva alla Fondazione
Antonio Ratti di Como (1998) ha ottenuto in rapida successione una serie di riconoscimenti vincendo nel 2001 il
Premio Furla per l’arte ed una borsa di studio annuale al PS1 di New York, conseguendo successivamente una borsa di
studio istituita dal Castello di Rivoli nel 2004 e ricevendo infine nel 2005 il premio alla Biennale di Venezia per la
giovane arte italiana con il video La terra è troppo grande. Dello stesso anno anche E una risata vi seppellirà
(Omaggio a Gino De Dominicis), opera in cui una scatola nera messa a terra riproduce uno scoppio di risa che si
prolunga, suscitando smarrimento e sorpresa nello spettatore che la osserva. Il titolo dell’opera fa riferimento al
famoso slogan anarchico di fine Ottocento “una risata vi seppellirà”, molto popolare anche durante gli anni Settanta
del 1900 a significare, in segno di protesta, che oppressione e disuguaglianza sarebbero state eliminate grazie ala
gioia di chi ha la consapevolezza di lottare per il giusto, per i propri diritti. Del 1971 anche l’opera D’IO di Gino De
Dominicis, realizzata alla Galleria Sargentini a Roma: il pubblico, invitato a visitare la galleria durante i lavori di
ristrutturazione, si trovava di fronte ad una lunga risata che risuonava negli spazi vuoti della galleria. Alla base dei
lavori di Lara Favaretto sta spesso proprio l’idea che “l’opera è una sorpresa. È imprevedibile” e si esplica in una serie
di opere in cui il risultato è cercato per avvicinamenti ed elaborazioni successive ed è spesso eluso, rischiando di non
essere nemmeno trovato. In Doing (1998) o Per imparare a cantare dovete cantare (1999) l’artista sceglie infatti di
spostarsi a lato, perdendo il controllo totale e assumendo il ruolo di orchestratore attento, ma aperto a risultati
inaspettati e soluzioni sconosciute. Lara Favaretto ha dato vita a numerose performances, tra cui Confetti Canyon
(MOCA The Museum of Contemporary Art, Los Angeles 2005; SMAK, Gent 2003, Palazzo delle Papesse, Siena 1999),
Treat or Trick (Eldorado project room, GAMeC Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo 2003; MART
Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Palazzo delle Albere, Trento 2003; Place Saint
Cathrine, Bruxelles 2003), Per imparare a cantare dovete cantare (Futuro, Roma 1999) e Doing (Palazzo delle
Papesse, Siena 1998). Tra le mostre personali dell’artista quelle alla Galerie Klosterfelde, Berlin (2005), alla Galleria
Franco Noero, Torino (2004), Treat or Trick, Eldorado project room, GAMeC Galleria d'Arte Moderna e
Contemporanea, Bergamo (2002) e Shy As a Fox, Galleria S.A.L.E.S., Roma (2000). Ha preso parte a varie mostre
nazionali ed internazionali, come Il diavolo del focolare, Triennale, Milano (2006), Ecstasy. In and About Altered
States, MOCA The Museum of Contemporary Art, Los Angeles (2005), Fuori tema/Italian feeling, XIV Quadriennale di
Roma, GNAM, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma (2005), VideoZone 2, Tel Aviv Biennale, Tel Aviv (2004),
Forse Italia, SMAK, Gent (2003).
WILLIAM KENTRIDGE
È nato nel 1955 a Johannesburg. Vive e lavora a Johannesburg.
Nel 1976 si è laureato all’ all’Università di Witwatersrand a Johannesburg e dal 1976 al 1978 ha studiato arte presso
la Johannesburg Art Foundation. Cifra costante del lavoro di Kentridge sono delle animazioni video costruite a partire
da disegni a carboncino: i disegni, invece di essere prodotti a centinaia, sono pochissimi, a cui vengono apportate
modifiche successive e in cui il procedimento di cancellatura rimane sempre visibile, dando alle opere un’idea di
immediatezza e riflettendo un processo che sembra sempre incompiuto, in corso d’opera. I suoi lavori sono stati
presentati all’interno di grandi esposizioni internazionali, tra cui Biennale di Venezia (Venezia, 2005, 1999),
Documenta (Kassel, 2002, 1997), Istanbul Biennale (Istanbul 1999, 1995), Johannesburg Biennale (1996, 1995). Tra
le mostre personali più recenti dell’artista William Kentridge / The Magic Flute: drawings and projections, Maria
Goodman Gallery, New York (2006), William Kentridge: 9 Drawings for Projection, Museum of Modern Art, New York
(2006), William Kentridge: Black Box / Chambre Noire, Museum der Moderne, Salzburg, Johannesburg Art Gallery,
Johannesburg, Museum Höxter-Corvey, Höxter (2006), Guggenheim Museum, Berlin (2005), William Kentridge,
Galleria Lia Rumma, Napoli (2005), William Kentridge, a small exhibition of works from the collection of the museum,
Metropolitan Museum (2004). Ha preso parte a numerose esposizioni, quali The Starry Messenger: Visions of the
Universe, Compton Verney, United Kingdom (2006), Africa Remix, Art of a Continent, Mori Art Museum, Tokyo
(2006), The Divine Comedy, Vancouver Art Gallery, Canada (2004), Africa Remix, Museum Kunst Palast, Düsseldorf,
Hayward Gallery, London, Centre Georges Pompidou, Paris, Mori Art Museum, Tokyo (2004), Transferts, Palais des
Beaux-Arts, Brussels (2003), William Kentridge: Thinking In Water, Gallery at Dieu Donné Papermill, New York
(2003). Nell’opera in mostra, il video Zeno Writing,l’artista fa un’incursione nella storia e nella letteratura europea: il
lavoro affonda infatti le proprie radici nelle vicende narrate da Italo Svevo nel 1923 in “La coscienza di Zeno”. Zeno
Cosini, dipendente dal vizio del fumo, fa così capolino nei disegni che si susseguono, portando nello spettatore una
sensazione di profonda inadeguatezza, di sottile dolore, di senso di perdita e di costante incertezza, motivi pervasi
sempre dalla dolente e amara ironia che caratterizza e accomuna la poetica di Svevo e di Kentridge.
LA MONTE YOUNG
È nato nel 1935 nell’Idaho. Vive e lavora a New York.
La Monte Young è uno dei più influenti compositori del XX secolo, conosciuto maggiormente per le composizioni
musicali definite “minimali”. Nei primi esperimenti degli anni 1957-58, quali le composizioni For Brass (1957) e For
Guitar (1958) appare chiaramente l’interesse da un lato per la musica dodecafonica e dall’altro per il concettualismo
di Cage, che viene tenuto come punto di partenza per tutta la successiva ricerca. Nel 1959 conosce a Darmstadt
Stockhausen, che segna un punto fondamentale nella sua carriera e nella radicalità delle sue composizioni. Il Poem
For Tables, Chairs and Benches dell'anno dopo, ad esempio, consiste semplicemente in un certo numero di ordini per
spostare i mobili di una stanza, e il risultato è determinato dal processo di spostamento di questi. Tornato nel 1961 in
America si unisce a Cage nel laboratorio di musica aleatoria ed è uno dei promotori del gruppo Fluxus, all’interno del
quale contribuisce con varie opere concettuali come Any Integer To Henry Flint. Nel 1961 per la prima volta utilizza il
termine dream house per designare una soffitta di New York in cui si radunava con Young, Marian Zazeela e The
Theatre Of Eternal Music, di cui facevano parte tra gli altri il violinista Tony Conrad, il violista John Cale, il
trombettista Jon Hassell, il violista David Rosenboom e l'organista Terry Riley. Durante le performances il gruppo
elaborava un suono continuo e costante, mentre Young costruiva di persona apparecchi per la generazione artificiale
del suono. Tra le composizioni di questo periodo Death Chant (1961), The Second Dream Of The High-tension Line
Stepdown Transformer (1962). Nel 1964 la dream house diviene un locale chiuso, costruito per produrre musica, in
cui è sempre presente un suono costante di cui l’ascoltatore percepisce le modulazioni cambiando posizione nello
spazio. Nel giugno 1969 alla galleria Heiner Friedrick di Monaco si tenne la prima presentazione pubblica di un
modello di dream house. Di questo periodo il brano The Tortoise His Dreams And Journeys. Nel 1964 Young compose
anche A Well Tuned Piano, costruito per toni esatti. Dagli anni Settanta il percorso di Young resta maggiormente
legato alla ricerca sui raga e sulla musica indiana, da cui trae suggestioni per le sue composizioni. L’opera esposta
Piano Piece for David Tudor #1 fa parte delle tre composizione create dall’artista nel 1960 per il pianista David Tudor.
Nella prima, tra le indicazioni di esecuzione, si poteva leggere la richiesta di portare sul palco, accanto al piano, una
balla di fieno ed un secchio d’acqua: al pianista veniva poi lasciata la decisione se utilizzare o meno i due elementi per
“nutrire” il pianoforte.
FILIPPO TOMMASO MARINETTI
Alessandria d’Egitto, 1876; Bellagio, 1944.
Filippo Tommaso Marinetti è poeta e romanziere e fondatore ed ideologo del Movimento Futurista. Compie i suoi primi
studi a Parigi, formandosi nel particolare clima culturale della fine dell’Ottocento. Nel 1905 fonda la rivista Poesia, in
cui vengono pubblicati i documenti di adesione italiana al gusto simbolista; successivamente partecipa alla tendenza
che avvia il simbolismo stesso verso la propria dissoluzione alla ricerca di nuove espressioni, che possano far sì che
venga fondata una nuova estetica della vita moderna e della macchina. Il 20 febbraio 1909 paga la pubblicazione del
Manifesto del Futurismo sul giornale quotidiano parigino Les Figaro, manifesto che risulterà da subito inno alla libertà
in tutti i suoi aspetti e condanna del passato, dell’accademia, della tradizione. Nel 1910 scrive il Manifesto della
Letteratura futurista, in cui sostiene le poetiche adatte a rendere il senso del movimento e della materia, attraverso il
rovesciamento delle regole della sintassi e della punteggiatura, e le parole in libertà disposte senza regole nello spazio
della pagina. Queste parole in libertà sono state successivamente percepite come composizioni artistico-letterarie ed
esposte alla Galleria Angelelli di Roma nel 1915. Tra i suoi testi di questo periodo Mafarka il futurista del 1910 e la
poesia Zaff Tumb Tumb. Adrianopoli, ottobre 1912 del 1914. Nella dialettica di Marinetti, fanno parte del nuovo
linguaggio del Futurismo temi come quelli della città, della velocità e del dinamismo, assieme alla ripresa della
“mistica del superuomo” che caratterizzava soprattutto le sue prime opere. L’opera in mostra è stata realizzata a
partire dalle indicazioni dello stesso Marinetti, come già avvenuto in occasione della mostra Pianofortissimo, presso la
Fondazione Mudima a Milano nel gennaio 1990. Gli elementi, delle scarpe con i tacchi a spillo, uno scopino per togliere
la polvere ed uno spazzolino, tolgono al pianoforte il suo romanticismo e la sua retorica, dandogli un connotato
differente, antiromantico, lo fanno diventare un mobile d’uso quotidiano, da appoggiare in un angolo della casa e
tenere in silenzio, ricordandosi di spolverarlo di tanto in tanto.
KRIS MARTIN
È nato nel 1972 a Kortrijk. Vive e lavora a Gent.
Centrale nella ricerca artistica di Kris Martin è la questione temporale, indagata ed esposta attraverso diversi mezzi e
nelle sue differenti caratteristiche. Nelle sue opere appare con forza lo scorrere del tempo ed il tentativo di
comprenderne il senso ed il movimento, a prescindere dal valore assunto dalla particolare condizione presente e della
temporalità del lavoro artistico stesso, che si fa spesso indecidibile e viene sempre trascesa e spinta verso un ipotetico
futuro o demandata all’interpretazione dello spettatore. In opere quali ad esempio 100 Years (2004) o Mandi III
(2003) il tempo viene così ad assumere attribuzioni soggettive, precarie ed ambigue, lasciando all’osservatore il
compito di decidere l’ipotetico valore da attribuire, il ritmo e la scansione di ciò che osserva, il confine tra inizio e fine
della temporalità che si affaccia di fronte a lui. Tra le esposizioni personali dell’artista quella al P.S.1 MoMA,
Contemporary Art Center, New York (2007) e alla Sies + Höke Galerie, Düsseldorf (2007), My Private #5, Piazza San
Marco, Venezia (2007), Deus ex machina, Johann König, Berlin (2006), Wahnsinn, Garden of Museum DhondtDhaenens, Deurle, Belgium (2000) e quelle alla Neuer Aachener Kunstverein di Aachen, alla Sies + Höke Galerie di
Düsseldorf (2005) e alla Beaulieu Gallery a Wortegem-Petegem (2004).Ha preso parte a varie mostre nazionali ed
internazionali tra cui The Office, Tanya Bonakdar Gallery, New York (2007), Learn to Read, Tate Modern, London
(2007), Gehen Bleiben, Kunstmuseum Bonn, Bonn (2007), My private escaped from Italy, International Center of Art
and Landscape on the island of Vassivière, Beaumont du Lac (2006), Protections. Das ist keine Ausstellung,
Kunsthaus Graz, Landesmuseum Joanneum, Graz (2006), Of Mice and Men, 4th Berlin Biennial for Contemporary Art,
Berlin (2006), Post Notes, Midway Contemporary Art, Minnesota (2005), Gelijk het leven is, SMAK Stedelijk Museum
voor Actuele Kunst, Gent (2003), oThe distance between Me and You, Lisson Gallery, London (2003), Verklärte Nacht,
Sonsbeek 9, Arnheim (2001). Conductor utilizza un solo elemento, una bacchetta per la direzione d’orchestra e si
insinua nel contesto, nell’ambiente che la circonda: attaccata al ramo di un albero si muove ed oscilla ad ogni soffio di
vento, dirigendo un’orchestra di macchine e passanti in base ad una partitura sconosciuta, imprevedibile, sempre
nuova, in cui altezze e durate si affidano ai cambiamenti atmosferici, e la fine, sempre posticipata di qualche attimo,
sembra non arrivare mai.
SHIRIN NESHAT
È nata nel 1957 a Qazvin. Vive e lavora a New York.
I lavori di Shirin Neshat affonda le proprie radici all’interno della cultura islamica, sulla quale pone lo sguardo
rivolgendosi in particolare alla donna, al ruolo che investe nel contesto sociale e culturale. Nelle foto e nei video
dell’artista compaiono corpi spesso velati, che devono confrontarsi con temi quali il terrorismo e la violenza, che
danno origine ad immagini fortemente connotate ed intense. La sua ricerca non indugia sui luoghi comuni e si
allontana dagli stereotipi tanto della cultura Occidentale che Orientale, con l’obiettivo costante di rinvenire un nuova
forma di linguaggio che permetta “flessibilità, ambiguità e un’ampia gamma di possibilità”. Tra le sue mostre personali
più recenti Shirin Neshat: The Last Word, Centro Atlantico de Arte Moderno, Las Palmas de Gran Canaria (2006),
Shirin Neshat, Stedelijk Museum CS, Amsterdam (2006), Hamburger Banhof, Museum Für Gengewart, Berlino (2005),
Museo de Arte Contemporaneo, Leon (2005), Hiroshima City Museum of Contemporary Art, Hiroshima (2005),
Auckland Art Gallery, New Zealand (2004), Miami Art Museum (2003), Castello di Rivoli (2002). Ha preso parte a
numerose esposizioni collettive, tra cui Kapital, Kent Gallery, New York (2006), Some Stories, Kunsthalle Vienna,
Vienna (2005), Non Toccare La Donna Bianca, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2004), From Bonifatius
to Beuys, Kunsthalle Erfurt, Erfurt (2004), Bill Viola and Shirin Neshat, he State Hermitage Museum, St Petersburg
(2003), Fantasies of the Harem and the New Sherezades, Centre de Cultura Contemporania, Barcelona (2003). Le
due opere Shoja e I am its secret (from unveiling series) riflettono i temi affrontati da Shirin Neshat, presentandone i
caratteri distintivi: le figure infatti sono ritratte in bianco e nero simbolo di una contrapposizione dicotomica e l’artista
fa uso di un linguaggio calligrafico che le decora, riportando echi della tradizione di scrittura iraniana.
MELIK OHANIAN
È nato nel 1969 in Francia. Vive e lavora a Parigi.
Il campo di ricerca artistica di Melik Ohanian si muove su diversi fronti, realizzando delle installazioni che combinano
elementi video, scultorei, sonori e testuali e che sono sempre caratterizzati da una forte attenzione all’aspetto
estetico. L’artista franco-armeno si sofferma spesso nei suoi lavori sul concetto di tempo e sui suoi interstizi,
intervalli, sulle sue durate, sulla sua continuità e discontinuità. Fa spesso riferimento, come ad esempio nei lavori
Island of an Island o Welcome to Hanskville, all’idea di un territorio precluso agli esseri umani, presente visivamente
solo per evocare costantemente altri territori, altre posizioni geografiche e politiche. Anche l’opera The Hand parla di
uno spaesamento, di una perdita, di una preclusione: le mani di alcuni lavoratori armeni che hanno perso il loro
lavoro si muovono su nove schermi, e vengono scelte per parlare di un’occupazione persa, di un inattività sofferta che
comporta un non riconoscimento, una perdita di identità. Tra le sue mostre personali più recenti quelle alla Galleria
Chantal Crousel a Parigi,alla Galleria Yvon Lambert di New York, al Museum in Progress a Vienna, alla Galleria BF15 a
Lyon, al Palais de Tokyo a Parigi. Ha preso parte a numerose mostre collettive, tra cui Biennale di San Paolo (2004),
Biennale di Sydney (2004), Biennale di Berlino (2004), Mediterraneo, Macro-Mattatoio, Roma (2004), MoltitudiniSolitudini, Museion, Museo d’arte contemporanea, Bolzano (2003), Less Ordinary, Artsonje Center, Seoul e Museum of
Modern Art, Kyungju, Korea (2002), Traversees, ARC, Musee d’Art Moderne de la ville de Paris (2001), Mobile TV, Le
COnsortium, Dijon (1998; progetto in collaborazione con Pierre Huygue).
YOKO ONO
È nata a Tokyo nel 1933. Vive e lavora a New York.
Nel 1951, dopo aver frequentato a Tokyo i gruppi d’avanguardia giapponese, caratterizzati da una particolare
attenzione all’espressione del sé e alla libertà individuale, si trasferisce a New York. Frequenta lo Sarah Lawrence
College studiando musica ed interessandosi in particolare alle avanguardie e alla corrente minimalista; allo stesso
periodo risalgono anche le prime performance che indagano il suono in modo sperimentale. Nel 1962 è tra i promotori
del gruppo Fluxus. Da subito la sua ricerca spazia dalla musica alla scrittura, performance, pittura fino alle
installazioni, sculture e ai film. Nel 1964 organizza un happening multimediale A Grapefruit in The World of Park e
realizza la performance Cut Yoko, poi replicata nel 2003 a Parigi. Nel 1964 esce anche il libro Grapefruit,
comprendente una serie di “istruzioni” il cui completamento e l’interpretazione sono affidate alla mente del lettore,
quali Nascondino: nasconditi finché tutti si dimenticano di te o Nasconditi finché tutti muoiono. Tra il 1964 e il 1972
dirige anche alcuni film, tra cui viene in particolare ricordato No.4, conosciuto anche con il titolo Bottoms. Tra le opere
più recenti dell’artista Wish Tree, un albero sui cui rami i visitatori possono appendere un bigliettino riportante un
proprio desiderio, Ex It, opera presentata a Valencia, Città del Messico, Guadalajara, Biennale di Venezia, ecc.,
Odyssey of a Cockroach, installazione che vuole mettere in scena l’esperienza di uno scarafaggio all’interno della città
di New York. Negli ultimi anni Yoko Ono ha ricevuto una rapida successione di riconoscimenti: nel 2001 la mostra
retrospettiva da lei organizzata YES YOKO ONO riceve il premio di migliore mostra museale svoltasi a New York
dall’associazione internazionale dei critici d’arte e la laurea honoris causa in Legge dell’Università di Liverpool; nel
2002 le viene offerta la laurea in Belle Arti al Bard College e nel 2005 riceve il Lifetime achievement award dalla
Società giapponese di New York. We are all water, opera del 2006, riprende lo stesso tema di una canzone degli anni
Settanta dell’artista: le 118 bottiglie riportano all’esterno un’etichetta con nomi di personaggi vissuti in epoche diverse
e legati ad ambienti differenti, quali la politica, la storia, l’arte, la cultura, ecc, accumunati dal fatti di appartenere a
fiumi differenti che si riversano nello stesso enorme oceano e che sono destinati, un giorno, ad evaporare tutti
insieme.
ADRIAN PACI
È nato nel 1969 a Shkoder. Vive e lavora a Milano.
Le opere di Adrian Paci si accentrano sull’idea di appartenenza ad un contesto e di come questa possa influenzare ed
interagire con l’esterno. In particolare l’artista osserva come l’essere sia messo in una condizione di disorientamento
che è cifra della contemporaneità, in cui fatica ad individuare con certezza un qualcosa da definire propria ‘casa’.
Adrian Paci si lascia così stimolare nella propria ricerca da questa “specie di umanità instabile, esposta al rischio ma
anche legata ad un forte senso di vita”, ritenendo importante “lasciarsi ‘infettare’ da questi elementi” per poi tradurli
nel lavoro artistico. Adrian Paci ha avuto numerose mostre personali in varie istituzioni quali BAK Basis voor actuel
kunst, Utrecht (2006), P.S.1 Contemporary Art Center, New York (2005), Galleria Francesca Kaufmann, Milano
(2004), Baltic Art Center, Visby, Svezia (2003), Galerie Peter Kilchmann, Zürich (2003), GAMeC Galleria d'Arte
Moderna e Contemporanea, Bergamo (2002). Tra le mostre personali anche Home to Go, Yale University, New Haven,
CT (2005), Perspective 147: Adrian Paci, Contemporary Arts Museum Houston (2005), Sorella Morte, Galleria
Francesca Kaufmann, Milano (2002), Home Sweet Home, Galleria Artopia, Milano (2001), ALBàNIa, Fondazione
Lanfranco Baldi, Firenze (2001), Albanian Stories, Bildmuseet, Umea, Svezia. Ha partecipato a numerosi eventi
internazionali, tra cui La Biennale di Venezia (2005 e 1999), la Biennale di Tirana (2003 e 2001), la Manifesta (2000)
e a varie esposizioni quali Ecce Uomo (33+1 artisti contemporanei da collezioni private), Spazio Oberdan, Milano
(2006), Irriducibile: Contemporary Short Form Video, Miami Art Central, Miami (2005), Skin Deep. Il corpo come
luogo del segno artistico, MART Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto (2003),
Fragments d’un discours italien. Isola (Art) Project, MAMCO Musée d'Art Moderne et Contemporaine, Genève (2003),
The horse would know, but the horse can’t talk, Palazzo Querini Stampalia, Venezia (2002). In Turn on l’artista pone
l’attenzione su un gruppo di uomini disoccupati, seduti su una gradinata in attesa di un lavoro occasionale. Paci non
mette in scena una storia, ma si sofferma su queste persone silenziose e immobili, legate dal fatto di essere lì, in
silenzio, con in mano una lampadina accesa, tutti in attesa di un lavoro che si spera prima o poi possa arrivare.
DIEGO PERRONE
È nato nel 1970 ad Asti. Vive e lavora tra Asti, Milano e Berlino.
La ricerca artistica di Diego Perrone si situa in una zona di confine, dove si ritrovano condensate visionarietà e
quotidianità, dilatate e riesposte fino ad assumere una dimensione quasi mitica, che sfugge dalla temporalità della
storia. All’interno dei lavori si ritrova una forte densità, una sintesi tra evocazione, spazio simbolico e immaginario
collettivo che interrogano il potere delle immagini, la loro capacità evocativa e quasi magica, e mettono alla prova il
livello di resistenza delle stesse ad assorbire e trasmettere un elevato grado di emozionalità. In La stanza dei cento re
che ridono appaiono cento re e tutti e cento ridono. Ognuno ha dismesso la propria altera mimica facciale e ha disteso
le labbra in un sereno sorriso, che l’ha fatto sembrare un uomo come gli altri, una persona comune, solo vestita in un
modo molto ricercato, relegato ad un’etichetta d’altri tempi. Com’è possibile che i re dipinti da Tiziano ed altri insigni
pittori si siano messi a ridere tutt’un tratto? Con un piccolo ritocco digitale l’artista ha tolto la pesantezza della storia
ed ha messo il potere e la regalità nella mani di chi, trattenendo il riso, li sta osservando. Tra le mostre personali
dell’artista Remain in Light, Galerie Andreas Huber, Vienna (con Ergül Cengiz e Isa Schmidlehner, 2006), Due
orecchie e un angolo, Galleria Massimo De Carlo, Milano (2005), Totò nudo e la fusione della campana, Fondazione
Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2005), I pensatori di buchi, Casey Kaplan Gallery, New York (2002), Zero Arte
Contemporanea, Piacenza (2001), Guida, Bolzano (2001), Today, today, today. Spazi mentali, spazi reali, Pitti
Immagine Discovery, Firenze (con Mark Leckey e Philippe Parremo, 2000). Ha preso parte a varie mostre nazionali ed
internazionali tra cui Of Mice and Men, 4th Berlin Biennial for Contemporary Art, Berlino (2006), Girato a Palermo,
nell'ambito di Kals'art 2006, Ex-deposito Locomotive Sant'Erasmo, Palermo (2006), Bidibidobidiboo. La Collezione
Sandretto Re Rebaudengo per i dieci anni della Fondazione, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2005),
11th Triennale India, Lalit Kala Akademi, New Dehli (2005), 7th Buenos Aires International Independent Film Festival,
Buenos Aires (2005), Dialectics of Hope, First Moscow Biennale, Moscow (2005), I nuovi mostri. Una storia italiana,
spazi Milano e Venezia (2004), La Zona all’interno della Biennale di Venezia - 50, Venezia (2003).
MIGUEL ANGEL RIOS
È nato nel 1943 in Argentina. Vive e lavora tra il Messico e New York.
Ha studiato all’ Academia Nacional de Bellas Artes de Buenos Aires, Argentina ed insegnato dal 1966 al 1969 al
National University of Tucumán, Argentina e dal 1970 al 1972 alla School of Fine Arts, National University of Buenos
Aires, Argentina. Caramarca, città di origine dell’artista, è lontana sia geograficamente che culturalmente
dall’atmosfera eurocentrica di Buenos Aries e questo si riflette nel pensiero e nelle dicotomie presenti nei suoi lavori.
Nelle opere dei due decenni passati, l’artista ha manipolato delle mappe e delle cartografie del Nuovo Mondo,
rielaborandole dopo averle tagliate e ricostruite, aggiungendovi nuovi elementi e materiali. Dal 2000 Rios ha iniziato
ad utilizzare media differenti, come installazioni sonore e video, realizzando lavori come A Morir (‘til Death) del 2003,
in collaborazione con Rafael Ortega. Uno dei suoi temi di ricerca è il gioco, presente anche nel lavoro in mostra, On
the edge: il giocare viene esplorato dall’artista per la sua capacità di rompere, fare e disfare in continuazione le regole
e considerato come metafora del gioco politico che avviene tra l’America Latina e gli altri ‘giocatori’ mondiali. Proprio
in Messico, a Tepztlan ci sono i più esperti giocatori di trottola e questa diventa simbolo del giro del potere, delle
trasformazioni imprevedibili del mondo politico contemporaneo. Tra le esposizioni più recenti a cui ha preso parte, The
color line, Jack Shainman Gallery, New York (2007), Allusive Moments, Rena Bransten Gallery, San Francisco, CA
(2007), Shift - Im Spiegel der Verunsicherung, Galerie Grita Insam, Vienna (2006), A Morir, Galerie Thomas Schulte,
Berlino (2005), Hirshorn Museum, Washington DC (2005), Galeria de Arte Nuevo Espacio Ruth Benzacar, Buenos
Aires, Argentina (2005), LOVE, Marco Noire Contemporary Art, Torino (2005), LACE, Los Angeles Contemporary
Exhibition, Los Angeles, California USA (2004), White Box, New York, USA (2003).
LUIGI RUSSOLO
Portogruaro, 1885; Cerro di Laveno, 1947.
Luigi Russolo nasce e viene cresciuto in una famiglia di musicisti, essendo il padre organista del duomo di Portogruaro
(città natale dell’artista) e direttore della Schola Cantorum di Latisana; anche i suoi fratelli sono diplomati al
Conservatorio. Nel 1901 si trasferisce a Milano dove frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera ed ha la possibilità di
prendere parte al periodo di restauro del Cenacolo di Leonardo a Santa Maria delle Grazie. Dopo un inizio artistico
legato alla tecnica pittorica divisionista, nel 1910 incontra Filippo Tommaso Marinetti e aderisce al movimento
futurista; l’11 febbraio 1910 sottoscrive il Manifesto dei pittori futuristi e l’11 aprile dello stesso anno il Manifesto
tecnico della pittura futurista. Da quel momento la sua militanza futurista diventa effettiva e Russolo partecipa a tutte
le serate futuristi e agli eventi organizzati in Italia e all’estero. L’11 marzo 1913 l’artista pubblica “L’arte dei Rumori”,
in cui la musica viene presentata sotto una veste differente, antiromantica, riletta in chiave completamente
rovesciata: questa deve infatti essere il risultato non di equilibri tra suoni armonici, ma di rumori. Si tratta di rumori
estrapolati dalla vita di tutti i giorni, mescolati assieme senza alcuna necessità di un ordine o di una gerarchia, come
se tutta la partitura fosse soggetta ad un’improvvisazione: tra queste sonorità vengono simulati ululati, rombi,
sfegolii, ronzii, scoppi e per riprodurre questi effetti vengono appositamente realizzati degli strumenti. Nel 1913 nasce
infatti l’intonarumori, in grado di rendere ululati e simili suoni e nel 1922 viene creato anche il rumorarmonio, mezzo
necessario per poter ampliare i suoni degli intonarumori, soprattutto nelle serate con delle esecuzioni dal vivo. L’opera
in mostra “Risveglio di una città” viene per la prima volta diretta da Russolo al Teatro Dal Verme di Milano l’11
gennaio 1914. In programma , insieme a Risveglio di una città, anche Si pranza sulla terrazza del Kursaal e Convegno
d’areoplani e d’automobili. L’orchestra, composta da 18 intonarumori divisi in sezioni di gorgogliatori, crepitatori,
ululatori, rombatori, scoppiatori, sibilatori, ronzatori, stropicciatori e scrosciatori provoca delle violente reazioni nel
pubblico e fra spettatori e futuristi scoppiano dei litigi che necessitano l’intervento della forza pubblica.
MUNGO THOMSON
È nato nel 1969 a Davis. Vive e lavora a Los Angeles.
Mungo Thomson ha frequentato l’Independent Study Program al Whitney Museum di New York e ha ricevuto l’MFA
all’UCLA di Los Angeles nel 2000. La ricerca di Mungo Thomson si caratterizza per l’esplorazione compiuta dall’artista
all’interno della cultura americana, dalla sua spiritualità alla musica popolare, fino alle espressioni folk,
ripercorrendone la storia ed osservandone la ricaduta nella società contemporanea. L’artista si muove all’interno di
questo ambito sottolineando con ironia i momenti in cui all’interno della comunicazione globale si verifica una frattura,
un cedimento, si apre uno spazio in cui la creatività individuale può esplicarsi e trasmettersi attraverso modalità e
stilemi comunicativi propri. Il suo lavoro è stato esposto in numerose esposizioni, tra cui Mungo Thomson-Negative
Space Variations, GAMeC, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, Bergamo (2006), Prophets of
Deceit, CCA Wattis Institute for Contemporary Arts, San Francisco (2006), The Show will be open when the show...,
Kadist Art Foundation, Parigi (2006), Yes Bruce Nauman, Zwirner & Wirth, New York (2006), PERFORMA 05, New York
(2005), Mungo Thomson, UAM-University Art Museum, Long Beach (2004), 2004 California Biennial, Orange County
Museum of Art, Newport Beach (2004), VIDEODROME: 27 International Artists, Santa Barbara Contemporary Arts
Forum, Santa Barbara (2004), Doubleheart-Hear the art WUK, Kunsthalle Exnergasse, Vienna (2002), Record AllOver, Mamco, Musée d´Art Moderne et Contemporain, Ginevra (2001), (extra)super[meta], Yerba Buena Center for
the Arts, San Francisco (2000). Nell’opera The American Desert (for Chuck Jones)l’artista ha rimosso i personaggi e
gli elementi narrativi dei disegni animati di un famoso cartone, lasciando immutato solamente lo sfondo. Lo spettatore
viene allora tratto in inganno da un immaginario che conosce: immediatamente si aspetta di veder comparire i
personaggi del cartone, ma la sua aspettativa verrà delusa e nel video si avvicenderanno solo gli scenari noti,
intervallati di tanto in tanto da qualche suono o da un improvviso rumore.
BILL VIOLA
È nato nel 1951 a New York. Vive e lavora a Long Beach.
Sia che lavori in deserti sperduti, o guardi a dipinti antichi, o pensi alla propria esperienza familiare, l’arte di Bill Viola
ha sempre incorporato un senso di spiritualità, di pensiero alto e profondo. Il suo immaginario ruota nella vita
contemporanea, ispirandosi spesso ad antiche religioni e filosofie e ad un attento studio sull’iconografia classica.
Iniziato nel 1976, il percorso di Bill Viola vaga tra Tunisia, Giappone e Australia, utilizzando come mezzo preferenziale
il video. Successivamente nelle installazioni museali, ha esperimentato nuove tecniche e diversi formati. Nel 1995,
invitato a partecipare alla Biennale di Venezia, Bill Viola realizza The Greeting, una versione reinterpretata in modo
personale del dipinto del Cinquecento di Pontormo, che fa leva sul lento movimento che sottolinea espressioni, gesti e
movimenti, creando un nuovo campo espressivo. Tra i lavori più conosciuti dell’artista The Passing, Nantes Triptych,
The Reflecting Pool, The Crossing, Five Angels for the Millennium, and The Greeting, The Passions. Tra le esposizioni
più recenti LOVE/DEATH The Tristan Project, Haunch of Venison (London, 2006), Bill Viola – Video, 2006 Recipient of
the NORD/LB Art Prize, Kunsthalle Bremen (Brema, 2005), Bill Viola: The Passions, Fundación "la Caixa" (Madrid,
2005), Bill Viola Visions, ARoS Aarhus Kunstmuseum, Aarhus (Denmark, 2005), Bill Viola: Temporality and
Transcendence, Guggenheim (Bilbao, 2004), Bill Viola: Five Angels for the Millennium, Ruhrtriennale, Gasometer
(Oberhausen, 2003), Bill Viola: The Passions, Getty Museum (Los Angeles, 2003), Bill Viola: Going Forth By Day,
Deutsche Guggenheim (Berlino, 2002), Bill Viola: Five Angels for the Millennium, Anthony d'Offay Gallery (Londra,
2000). Hatsu Yume – First Dream si distende in un tempo che sembra non avere limite, che si dilata rendendo i punti
di svolta tra le situazioni così graduali da non sembrare nemmeno avvenuti. Grande importanza nel video assume la
luce: da una situazione di buio quasi totale si giunge alla fine del video ad un momento luminoso e la luminosità viene
usata e distesa dall’artista come fosse una qualità pittorica prima appena balenata da un colpo di pennello e poi
spalmata a piene mani, invadendo tutta la scena.
JORDAN WOLFSON
È nato nel 1980 a New York. Vive e lavora tra Berlino e New York.
Ha studiato al Konstfack College of Arts & Krafts a Stoccolma (2001-2003) e al Rhode Island School of Design a
Providence (1999-2003). Wolfson utilizza nei propri lavori differenti media, dalle animazioni virtuali a film, video,
fotografie ed installazioni sonore, indirizzando il meccanismo dell’immagine verso quello usato dall’industria dei
media; il risultato di questo processo è spesso assimilabile al frame di un film e porta lo spettatore ad essere coinvolto
dal meccanismo evocativo dell’immagine. Lo sguardo del soggetto che guarda quel video viene subito proiettato in
una dimensione affettivamente forte, ma è spesso in relazione ambigua e dubbiosa con il reale che l’immagine
presume di mostrare: è in questo spazio di incertezza che l’artista si insinua, ponendo in rilievo il rapporto tra ciò che
si vede e la soggettività di chi osserva, tra linguaggio globale e dimensione individuale. L’artista compie così una
profonda ricerca attraverso i mezzi comunicativi, con un atteggiamento che definisce come ‘post-ironico’ e che tenta
di esplorare il significato proprio del momento che la società sta affrontando. Jordan Wolfson ha esposto in alcune
mostre personali, tra cui Neverland, Jordan Wolfson, Yvon Lambert, Parigi (2005), Jordan Wolfson, Kunsthalle Zurich,
Zurigo (2004), Infinite Melancholy, Galleri Brändström & Stene, Stoccolma (2004), Radar, Galleri Brändström &
Stene, Stoccolma (2002). I suoi lavori sono stati inoltre esposti ad Art Basel (2007), alla Biennale di Mosca (2007),
alla Young Artist Biennal di Bucharest (2006), alla Biennale del Whitney Museum di New York, alla Serpentine Gallery
a Londra e al KunstWerke di Berlino. Chaplin Piece è un lavoro che attinge a due immaginari differenti: da un lato
l’estetica del film del 1967 The Perfect Human e dall’altra The Great Dictator di Charlie Chaplin del 1940. In entrambi i
film secondo l’artista si pone la stessa domanda riguardo la possibilità per l’essere umano di vivere in armonia,
seppure con risultati opposti: da un lato infatti l’interrogativo viene letto ironicamente come un’impossibilità, mentre
dall’altro ribadito come utopia possibile e necessaria. Sta dunque allo spettatore dell’opera provare a porsi
nuovamente la domanda, cercando una propria risposta.