Isabella Friso Occhio ibridato, dalla ragione emendato

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Isabella Friso Occhio ibridato, dalla ragione emendato
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Isabella Friso
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«Non ho mai provato il desiderio di eludere la realtà; attraverso la pittura mi interessa, al contrario, appropriarmi
della realtà»1.
emendato: lo spazio
Con queste parole si esprime Felice Varini2, artista
di Felice Varini
zione e inganno visivo, basa la sua attività creativa, in
bilico tra architettura, urbanistica e public art.
La carriera artistica di Varini, in continua ascesa e
destinata ad un successo senza precedenti, ha inizio
tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 dello
scorso secolo, e vanta ormai innumerevoli e importanti installazioni site specific, esposizioni che entrano
a far parte del palinsesto di alcuni tra i più noti e
ambiti musei d’arte contemporanea del mondo. Ma
Varini non si limita a concepire opere d’arte solo in
queste particolari occasioni, anzi la sua produzione
artistica è ricca di esercizi prospettici pensati proprio
per essere inglobati in determinati edifici architettonici, la cui funzione oscilla, in maniera indistinta, tra il
pubblico e il privato, integrandosi, senza difficoltà,
con monumenti storici piuttosto che con elementi
costruiti in anni più recenti.
Al contrario di quanto accade nei teatri veri e propri,
anamorfico
1 F. Varini, Entretien avec Zia
Mirabdolbaghi, in Felice Varini,
Château de Villeneuve, Fondation
Émile Hugues, Vence 1995.
2 Felice Varini, artista nato a
Locarno (Svizzera) nel 1952; conosciuto per le sue opere realizzate
in
prospettiva,
nell'anno
2001/2002 è stato nominato per il
premio Marcel Duchamp attualmente risiede a Parigi.
3 Cfr. J. Meinhardt, La realtà dell'illusione estetica. Le 'trappole visive'
di Felice Varini, Edizioni Studio
Dabbene, Lugano 1999, p. 69.
elvetico contemporaneo, nel sintetizzare parte del
proprio pensiero che sul labile confine tra arte, perce-
dove l’involucro edilizio si trasforma, attraverso ulteriori elementi scenici, lo spazio in cui insistono gli interventi ideati dall’artista svizzero agisce trasformandosi
nel palcoscenico di una messinscena teatrale in cui il
luogo deputato all’illusione acquista una connotazione
ambigua in quanto, non subendo alterazioni di alcun
tipo, diventa scena assoluta, vera rappresentazione
teatrale che esiste solo grazie in virtù dello sguardo di
un fruitore immobile che ruota di 360° intorno al proprio corpo, assunto come asse di rotazione3.
Trattasi di veri e propri artifici illusori, che dimostrano,
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4 Con il termine “anamorfosi” (dal
greco ana – all’indietro, ritorno verso
– e morphe – forma) sono indicati gli
affreschi o i dipinti nelle cui tele presenziano vere e proprie figure apparentemente illeggibili che se osservate
scostandosi lateralmente dal punto di
vista vantaggio (anamorfosi piana o
diretta) o per mezzo di una riflessione
attraverso la superficie convessa di
uno specchio – anamorfoscopio –
(anamorfosi catottrica) riacquistano le
proprie configurazioni offrendosi, al
pubblico fruitore, nella tipica prospettiva naturale.
5 Per saperne di più cfr. M. Kemp, La
scienza dell'arte. Prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat,
e A. De Rosa, G. D’Acunto, La
Vertigine dello Sguardo. Tre saggi
sulla Rappresentazione Anamorfica,
Cafoscarina, Venezia 2002.
6 Per un maggiore approfondimento
si veda Nel segno dell'Ekphrasis in A.
De Rosa, G. D’Acunto, La Vertigine
dello Sguardo, cit.
per lo più, una totale conoscenza, da parte dell’autore, dei princìpi proiettivi su cui si fonda la prospettiva
lineare; ma in esse sono riscontrabili soprattutto alcune analogie con quella forma di rappresentazione,
definita da Baltrusaitis “ambigua” e “curiosa” e nota
universalmente come anamorfosi4. Virtuosismo prospettico che nasce e si sviluppa, a partire dalla prima
metà del Cinquecento, nei paesi del nord Europa,
l’anamorfosi si fonda sulle rigorose regole della prospettiva lineare, per poi ripudiarle drammaticamente:
come la prima, essa presuppone un punto di vista “privilegiato”, il cui ruolo è quello di attribuire un legittimo
– sia pur remoto e bizzarro – significato escatologico
ad un’immagine che, di primo acchito appare agli
occhi del fruitore distorta e del tutto illeggibile5.
Le documentazioni più antiche, riguardanti l’utilizzo
dell’espediente figurativo in questione, risalgono a
due schizzi, del 1515, attribuiti a Leonardo Da Vinci e
contenuti nel suo celeberrimo Codice Atlantico, che
ritraggono, l’una un occhio e, l’altra il volto di un
bimbo: se visti frontalmente, essi risultano del tutto
indecifrabili, ma se si accede ad uno scorcio accidentale, in regime di monocularità, sarà sorprendente
verificare il ritorno delle immagini alle proprie proporzioni naturali. Tuttavia, le ricerche incentrate su questo
tema sono dovute, principalmente, all’incessante lavoro di alcuni religiosi, seguaci dei frati Gesuiti e di quelli Minimi, ordini affascinati dal simbolismo e dal significato intrinseco che si nascondeva dietro la configurazione delle immagini deformate. Di notevole rilevanza
assumono, allora, le teorie e le tecniche di deformazione prospettica, che occupano le pagine dei maggiori trattati scritti a cavallo tra il 1500 e il 1600, strumenti di divulgazione del virtuosismo prospettico
ormai largamente in uso6.
A partire dalla Pratica della perspectiva, del 1569,
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7 Religioso, dell’Ordine dei Frati
Minimi, Jean François Niceron, studia
teologia e le materie scientifiche
presso il famoso convento a Place
Royale a Parigi. Dopo aver conseguito la carica di sacerdote, inizia gli
studi scientifici diventando così
esperto in matematica e ottica; inoltre, la smisurata passione in materia
lo vede coinvolto anche nella traduzione, in francese, di alcuni dei più
importanti testi matematici.
8 A. De Rosa, G. D’Acunto, La
Vertigine dello Sguardo cit., p. 23.
9 Il padre parigino stabilisce che data
una figura piana, della quale si vuole
ottenere la deformazione, essa viene
inserita in un reticolo a maglie quadrate. Successivamente si impone il
punto di stazione dal quale l'immagine aberrata deve essere rettificata e,
di conseguenza, la distanza dell’osservatore dal reticolo – il cui bordo
inferiore coincide con quello deformato – determina il cosiddetto punto
di distanza che permette la verifica
degli scorci delle suddivisioni trasversali. Cfr. Nel segno dell'Ekphrasis in
A. De Rosa, G. D’Acunto, La
Vertigine dello Sguardo, cit.
testo elaborato da monsignor Daniele Barbaro con
Giovanni Zamberti, esperto matematico veneziano,
numerosi sono appunto i trattatisti europei che sul
tema della rappresentazione anamorfica concentrano
la propria speculazione scientifica. É però merito del
famoso trattato di Jean François Niceron7, La perspective curieuse, ou magie artificielle des effets mervellieux, risalente al 1638, se, finalmente, la comunità
scientifica arriva a ripudiare il metodo di natura pressoché empirica in uso fra i predecessori, in favore di un
processo sequenziale, regolato da rigidi princìpi che
traggono spunto dalle più conosciute e severe norme
della prospettiva. É così che il padre minimo
«…affronta il problema delle deformazioni con un
approccio che oggi possiamo dire ‘proiettivo’ ante litteram, abbandonando gli espedienti pratici ormai
ampiamente usati»8.
La perspective curieuse, tra tutti il testo più esaustivo
e rigoroso dal punto di vista scientifico sull’argomento, è diviso in tre parti generali – l’Ottica, chiamata
anche “prospettiva” o “visione diretta”; la Catottrica,
scienza che studia la riflessione delle immagini
mediante l’utilizzo di superfici riflettenti piane, cilindriche o coniche; la Diottrica, disciplina che chiama in
causa la scienza della rifrazione –, ed è corredato da
molteplici tavole dimostrative atte a descrivere il processo anamorfico9, desunto direttamente dal modello
dello sportello düreriano, che si nasconde dietro
l’aberrazione di figure complesse; ed è proprio sullo
studio di queste tre discipline che le opere di Felice
Varini traggono ispirazione, assumendo le caratteristiche ambigue e misteriose tipiche dell’anamorfosi.
È possibile, dunque, rubricare tutti i lavori di Felice
Varini, nel novero delle anamorfosi, a partire dai primi
esperimenti realizzati alla fine degli anni ‘70, fino a
quelli più recenti: essi, come i più antichi esercizi del
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Fig. 1. F. Varini, Trapezio con due diagonali n°1, Lugano-Porza, 1996.
Acrylic paint. Collezione M. e D. Perret
Rezzonico (in F. Varini, Points of view,
Lars Müller Publishers, Switzerland
2004, n.110).
padre minimo francese, hanno come denominatore
comune la proiezione di figure geometriche semplici –
nello specifico, figure ellittiche o circolari – osservabili
nella loro coerenza geometrica da un preciso punto di
vista; ma a differenza dei virtuosismi prospettici
manieristi e barocchi, le opere di Varini non sono confinate semplicemente sulla superficie piana di una tela
o entro i limiti fisici di una parete muraria, ma innervano lo spazio tridimensionale, intercettando tutto ciò
che compone l’apparato strutturale dell’ambiente circostante chiamato ad ospitarle.
Molteplici sono gli interventi che meriterebbero
un’analisi più approfondita; ma in questa sede potremo soltanto occuparci di una breve carrellata di opere,
effettivamente realizzate, circoscritte alle tre diverse
tematiche ricorrenti nelle realizzazioni di Varini: segnatamente, è utile scegliere alcune opere, afferenti a
serie diverse, che si insediano in ambienti dalle caratteristiche opposte e che, dalla comune disgregazione
delle forme primitive, perseguono il comune obiettivo
di ritornare all’elemento originario, avvalendosi non
solo di un preciso processo metodologico, ma anche
dell’uso di alcune superfici riflettenti, già adoperate
nel ‘600 da padre Niceron, o di più contemporanei
strumenti fotografici. Prima fra tutte è un’opera del
1999, dal titolo Encerclement à dix (fig. 2), ambientata nello spazio complesso di una chiesa gotica, oggi
sconsacrata, a Thouars, in Francia, dove le immagini di
10 cerchi rossi, di differenti dimensioni, reciprocamente tangenti tra di loro, sembrano contenute su di un
piano verticale virtuale e fluttuare liberamente entro il
profilo della sezione trasversale della navata. In realtà,
se si osserva attentamente, da un preciso punto di stazione, alcune delle circonferenze attrici di questa scenografia, risultano tangenti anche ad un’ennesima, rappresentata dal rosone circolare e ricco di decorazioni,
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presente nella parete conclusiva della chiesa. È così
che la finestra circolare sembra mutare la sua collocazione spaziale avanzando progressivamente, fino ad
assumere una posizione stabile entro la cornice del
quadro pittorico inconsistente ottenuto solo dall’atto
proiettivo. Appena ci si discosta dal luogo predefinito,
è possibile svelare l’inganno e accorgersi della inconsistenza del piano pittorico, constatando l’invasione di
forme sconnesse: i cerchi si deformano magicamente
in archi di ellissi rossi, occupanti tutti gli elementi architettonici – pareti laterali e di fondo, finestre, vetrate,
parte delle volte a crociera con le relative arcate d’ingresso che coprono l’ambiente e tutti gli elementi
decorativi presenti quali contorte balaustre, capitelli e
plinti di semicolonne addossate alle pareti murarie,
etc. Una situazione analoga si verifica nell’intervento
variniano, presso Castelgrande a Bellinzona, in
Svizzera: il principio che lega le due istallazioni è pressoché lo stesso, ma a differenza dell’opera realizzata
nella chiesa francese, qui l’autore è chiamato a relazionarsi con un paesaggio urbano, giocando con grandi
spazi aperti che inglobano sia il paesaggio naturale
che le facciate dell’architettura. In Segni – realizzata
nel 2001 in concomitanza con l’inserimento del castello nella lista di monumenti protetti dall’UNESCO –, tre
Fig. 2. F. Varini, Encerclement à dix,
Chapelle Jeanne d'Arc, Thouars.
1999. Solo show (in F. Varini, Points of
view cit., p. 100).
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archi di cerchio, rigorosamente rossi e di grande diametro, vengono dipinti sui piani verticali che contraddistinguono i prospetti e la cerchia muraria dell’edifico
turrito, ma anche sulle sfaccettate superfici rocciose
sulle quali esso sorge, a ridosso del paese. Il punctum
optimum, già presente anche nell’istallazione francese, risulta posto tra i merli del Castello di Montebello,
altra piccola fortezza, poco distante e localizzata in
una delle colline che sovrastano e proteggono la cittadina svizzera; ma ciò che distingue quest’opera dalla
precedente è la configurazione che il ‘piano pittorico’
assume: esso diventa una superficie molto più estesa
perché non più contenuta entro i limiti dell’architettura stessa, rivelando la capacità e la maestria di Varini
nell’operare anche in presenza di oggetti a grande
scala. Ciò che appare evidente in queste produzioni
artistiche è dunque l’importanza che si cela dietro
l’uso dell’architettura intesa quale tela di un quadro in
cui contenere le esperienze proiettive e percettive.
Di grande importanza sono le opere in cui Varini
impiega ampie aree riflettenti: durante l’estate del
2003, in un museo francese, egli realizzò Escalier Sud
e Escalier Nord, due installazioni complementari e
simultanee in cui introdusse l’uso di altrettanti specchi
dalla superficie convessa che diventavano i veri protagonisti della scenografia anamorfica. Le due superfici
riflettenti infatti sono state poste, rispettivamente, in
corrispondenza dello spigolo verticale di intersezione
tra due pareti, dipinte di bianco, e rivolte verso il soffitto, così delimitando lo spazio ristretto di una rampa
di scale; inoltre ad essi era demandato il compito di
riflettere e diffondere l’immagine di alcuni frammenti
circolari, anche in questo caso rossi, concentrici, la cui
deformazione appare dipinta sulle superfici del vano
scala, alle spalle dell’osservatore. Il punto dal quale la
proiezione anamorfica riassume coerenza percettiva è
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Fig. 3. F. Varini, 360° à San Stae,
Biennale di Venezia, Chiesa di San
Stae, 1988. Solo show (in F. Varini,
Points of view cit., p. 159).
situato di fronte agli specchi, allorché la riflessione
magicamente azzera l’incoerenza segnica iniziale,
voluta dall’artista.
L’ultima delle pratiche artistiche frequentate da Varini
richiede l’impiego di strumenti fotografici di alta precisione che immortalano l’architettura nel preciso
istante deciso dall’artista. Come accadeva nella chiesa
di San Stae a Venezia nel 1988, in occasione della XLIII
Biennale veneziana, quando alcuni scatti panoramici,
eseguiti in bianco e nero da Varini, furono disposti dall’artista nell’ambiente urbano in modo tale da sostituire l’ambiente costruito reale. In 360° à San Stae (fig.
3), il punto di vista privilegiato dal quale osservare lo
spazio fittizio, viene esplicitato, per la prima volta,
posizionando una piattaforma al centro dell’edificio
sacro a circa 3.6m di altezza.
Il processo anamorfico impiegato da Felice Varini presuppone non tanto una semplice distorsione dell’immagine, quanto una vera e propria frammentazione
dell’oggetto attraverso l’uso di un comune proiettore
posto nel preciso punto dal quale l’immagine dovrà
essere ricostruita dall’osservatore. Il punto di vista o, in
questo caso punto di genesi proiettiva dell’opera,
coincide con l’altezza dell’occhio del genio creativo
pari 162 cm. Dalla semplice proiezione spaziale della
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Fig. 4. F. Varini, Jaune, Rouge, Bleu
pour couloir, Berlin, 1988. Acrylic
paint. Collezione Allianz (in F. Varini,
Points of view cit., pp. 66-67).
10 Cfr. Meinhardt, La realtà dell'illusione estetica cit., p.107.
11 Meinhardt, cit., p. 71.
diapositiva, raffigurante le forme geometriche pure e
indeformate, Varini ottiene una serie di frammenti
segnici intercettati, secondo precise strategie visive, da
elementi piani come pareti murarie, coperture, pavimenti ma anche corpi complessi quali colonne, capitelli, pilastri o pareti dall’andamento curvilineo che
compongono gli ambienti. In tal modo, questi elementi ‘dispersi’ nello spazio perdono la propria connotazione originaria, assumendo un carattere confuso,
diventando spesso irriconoscibili. La proiezione viene
in seguito ricalcata fedelmente e riempita con vernici
colorate10 per lo più attinte dallo spettro dei colori primari: giallo, blu e rosso, con l’aggiunta del bianco e
del nero. Infatti, nelle intenzioni dell’autore, «… il
colore denso e monocromo tende, di per sé, a trascendere la propria fisicità, quindi il proprio supporto e la
realtà materiale di quest’ultimo. Varini si serve precisamente di questa capacità del colore di smaterializzarsi
otticamente […] per produrre un’esplicita illusione
spaziale: il colore si libra nello spazio, si distacca dalle
singole superfici di supporto e produce un effetto unitario, totalizzante”11 (fig. 4).
L’intento di Varini è quello di proiettare figure piane
nello spazio e non, viceversa, di includere la rappresentazione di un paesaggio immaginario entro i confi215
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12 Il trompe l’œil è una tecnica pittorica nata nel periodo Barocco, anche
se l'uso risale ad epoche precedenti e
prosegue fino all'età contemporanea,
atta alla produzione di immagini che
perseguono lo stesso obiettivo:
ingannare l'occhio del fruitore attraverso dipinti illusori, di primo acchito
reali, che sembrano ampliare notevolmente la configurazione dello spazio.
13 Per saperne di più si veda A. De
Rosa (a cura di), James Turrell.
Geometrie di luce. Il Roden Crater
Project, Electa, Milano 2006 e relativa biografia.
Fig. 5. J. Turrell, Aphrum Proto, 1966.
Proiezione quarzo-alogena nella versione installata presso il Whitney
Museum of American Art, New York
1980. Collezione Wortz, Pasadena.
ni di una tela. Il suo obiettivo si discosta dal creare
un’illusione ottica o di rappresentare uno spazio
immaginario, come accade nei famosi trompe l’œil12
dei secoli passati, o di celare un’immagine criptata,
come nelle anamorfosi Cinque-Seicentesche, ma, al
contrario, di rivelare lo spazio fisico dell’architettura
piuttosto che crearne uno illusorio.
Il metodo operativo appena accennato è del tutto
analogo a quello utilizzato dal famoso artista californiano James Turrell, quando, all’inizio della sua carriera, creava corpi illusori di luce, in apparenza solidi, che
sembravano fluttuare all’interno di stanze domestiche,
ottenuti attraverso la proiezione luminosa di diapositive opportunamente sagomate, lungo gli spigoli verticali di due pareti tra loro incidenti (fig. 5). In questo
caso, invece, pur partendo dallo stesso principio proiettivo che prevede la visione monoculare e la posizione immobile dell’osservatore, si ricade in una situazione opposta: non più volumi luminosi che ondeggiano
liberamente nello spazio, ma geometrie incluse in un
piano bidimensionale, virtuale e fisicamente inesistente, che abitano lo spazio architettonico ed urbano.
Appena ci si discosta dal punto di vantaggio, però, l’illusione svanisce poiché le forme tornano a disgregarsi, riprendendo ad assumere la propria incoerenza
configurativa. Allo stesso modo i lavori turrelliani, perdono la loro consistenza quando, abbandonando il
punto di stazione, rivelano il gioco prospettico su cui
si basano, alludendo alla tridimensionalità di un
oggetto creato con il materiale intangibile per eccellenza: la luce13.
Nelle istallazioni di Varini – in cui il decoro piano si trasmuta in apparente struttura tridimensionale – esiste
dunque una sorta di ibridazione tra il piano pittorico,
ipotetico, astratto e intangibile, e lo spazio ecologico:
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14 Ibidem
il ruolo di schermo è affidato allo spazio, o meglio alle
singole pareti in cui si articola lo spazio e che divengono il ‘supporto’ dell’immagine. Nella produzione dell’artista elvetico si verifica un’inversione del principio
su cui si basa il trompe-l’œil, in quanto egli non propone la rappresentazione di un luogo inesistente e
inventato, così deludendo le aspettative dell’osservatore: “anziché ingannarlo, egli mostra soltanto lo spazio reale a prescindere da qualsiasi spazio immaginario. Da vedere ci sono soltanto l’architettura dello spazio in funzione di ‘palcoscenico’ e, nel contempo, un
‘dipinto’ immateriale ma percettivamente reale, curiosamente sospeso nello spazio»14.
Riferimenti bibliografici
A. DE ROSA (a cura di), James Turrell. Geometrie di luce. Il
Roden Crater Project, Electa, Milano 2006.
A. DE ROSA-G. D'ACUNTO, La Vertigine dello Sguardo. Tre
saggi sulla Rappresentazione Anamorfica, Cafoscarina,
Venezia 2002.
M. KEMP, La scienza dell'arte. Prospettiva e percezione visiva
da Brunelleschi a Seurat, Giunti Edizioni, 2005.
J. MEINHARDT, La realtà dell'illusione estetica. Le ‘trappole
visive’ di Felice Varini, Edizioni Studio Dabbene, Lugano
1999.
F. VARINI, Points of view, Lars Müller Publishers, Switzerland
2004.
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