Omelia per 50° della Morte di Padre Felice Cappello

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Omelia per 50° della Morte di Padre Felice Cappello
Omelia per 50° della Morte di Padre Felice Cappello “Se il chicco di grano caduto a terra non muore, rimane solo; se muore, produce molto frutto” (Gv. 12,24). Queste parole, risuonate pochi istanti fa nella pagina evangelica di questa domenica di quaresima, Cristo le applicava a sé, in vista della sua passione e morte, per spiegare il segreto della futura fecondità della sua opera di salvezza. In pari tempo, il Divin Maestro voleva anche indicare il segreto della fecondità di bene dell’opera dei suoi discepoli nel corso della storia. Mi pare che in queste parole sia nascosto anche il segreto del grande bene operato da Padre Felice Cappello. La sua lunga esistenza, 83 anni, vissuta nel nascondimento delle mura dell’Università Gregoriana e nel confessionale di questa Basilica, è stata infatti tutta un morire a se stesso, come il chicco di grano del Vangelo. Padre Cappello mai ha cercato se stesso, ma sempre e soltanto la gloria di Dio, il bene della Chiesa e il bene delle anime. Ricorrono oggi i 50 anni della morte di Padre Felice Cappello. Cadeva di domenica anche in quell’anno il 25 marzo. Fu un tramonto rapido e sereno. Fino al 22 marzo aveva pregato e lavorato come sempre, anche se negli ultimi mesi si sentiva un po’ stanco. Le ultime sue grandi fatiche furono il non piccolo contributo da lui dato nella partecipazione al Sinodo Romano, voluto da Papa Giovanni XXIII, e il contributo di studio dato alla preparazione del Concilio Vaticano II. Nel pomeriggio del 22 marzo andò a confessare nel Noviziato delle Suore Dorotee di Via Tor de Cenci, alla periferia di Roma. Le Suore notarono il suo aspetto stanco. Durante la notte dovette sentirsi male a motivo della fastidiosa epatite che lo tormentava, ma al mattino dopo era regolarmente in cappella per la Messa, la meditazione e le solite sue preghiere. Anche la mattina di sabato 24 marzo, vigilia della sua morte, celebrò la Santa Messa, ma si notava che faceva un grande sforzo. Dopo la Messa fece il ringraziamento seduto, mentre negli altri giorni lo faceva in ginocchio. Fu chiamato il medico, il quale consigliò a Padre Cappello di mettersi a letto, ma Padre Cappello volle continuare al suo tavolo di lavoro, dicendo che non vi era nulla di grave. Nel pomeriggio le cose peggiorarono e fu portato nell’infermeria della medesima Università Gregoriana. In Serata ricevette l’Unzione degli Infermi ed il Viatico. Appena passata la mezzanotte, alle 0,50 minuti, cioè all’inizio del 25 marzo, si spense come una fiamma che resta senza alimento. Passò all’eternità senza una vera e propria agonia, in grande pace e serenità, sorretto dalla certezza che morire significava entrare nella gioia del suo Maestro e Signore, Cristo Gesù, al quale aveva consacrato l’intera sua vita. Ho avuto la fortuna di avere Padre Cappello come professore alla Pontificia Università Gregoriana nell’ultimo anno in cui egli insegnò (1957‐58) e poi per tre anni l’ho avuto come confessore. Non venivo qui a S. Ignazio, perché non avrei avuto la pazienza di aspettare il mio turno, tanto era sempre lunga la fila al suo confessionale. Andavo nella sua stanza alla Gregoriana. Egli mi accoglieva con grande bontà, troncava immediatamente quanto stava scrivendo, si alzava dalla scrivania e si dirigeva verso l’inginocchiatoio, dicendo: “Vieni caro figliolo”. Padre Cappello, nelle sue lezioni, aveva il dono di essere preciso, profondo e in pari tempo semplice. Fin dalle prime lezioni mi colpì la sua chiarezza e la memoria prodigiosa. Come noto, era parente per via materna di Albino Luciani, il futuro Papa Giovanni Paolo I. Ambedue avevano una memoria fuori del comune. Durante le lezioni non aveva appunti in mano e citava a memoria i canoni o interi brani di decretali senza sbagliare una parola. Era uno dei professori che più si imponeva per autorevolezza personale e prestigio e, in pari tempo, era il professore che noi alunni avvicinavamo con più facilità, perché era molto affabile, sorridente e paterno. Terminata la lezione, quando usciva dall’aula, lo circondavamo nel corridoio per fargli domande che spesso non avevano nulla a che fare con la lezione da lui tenuta, ma che riguardavano eventi ecclesiali o politici o questioni che ci incuriosivano. Egli rispondeva sempre con grande saggezza e ci aiutava a riflettere. Sapeva sempre trovare le parole giuste e il tono giusto. Si notava in lui una ricca spiritualità e una non comune bontà d’animo, oltre che una cultura teologica e giuridica sconfinata. Soprattutto fu un grande uomo di preghiera. Si alzava alle 4,30 del mattino e dedicava molto tempo alla preghiera. Il Breviario di solito lo recitava in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento. La preghiera era il suo ossigeno e il suo respiro. A tutti raccomandava di pregare. Era molto devoto del Sacro Cuore e della Madonna. La devozione al Sacro Cuore di Gesù aveva la caratteristica dell’orientamento alla riparazione, cioè era ispirata e unita al desiderio di riparare le offese a “quel cuore che ha tanto amato gli uomini”. In una conferenza così egli si esprimeva: “Amare il Signore a parole è facile, ma il vero amore sta nella sofferenza accettata con rassegnazione; anche noi, se vogliamo riparare nel modo migliore, dobbiamo offrire le nostre tribolazioni fisiche e morali, esterne e interne; offrire le nostre croci accettate con pazienza…” (1 gennaio 1937). La sua vita era austera e animata da un grande spirito di penitenza. È significativo al riguardo un atto programmatico che Padre Mondrone riporta nella biografia da lui scritta su Padre Cappello. “Devo essere – scrive P. Cappello – vittima di riparazione: Gesù soffre tante ingiurie, riceve tante offese, patisce tanti oltraggi. Posso io rimanere indifferente e insensibile? No! Gesù vuole che io ripari, che io conforti e consoli. Lo farò volentieri. Devo essere vittima di espiazione: Gesù vuole la conversione dei peccatori. Egli è morto per tutti. Li chiama dolcemente ed essi non ascoltano. Voglio perorare la loro causa presso il cuore dolcissimo di Gesù e ottenere la loro conversione. Devo essere vittima di amore: amare Gesù: ecco lo scopo della mia vita. Ogni parola, ogni passo, ogni pensiero, ogni sentimento, ogni respiro, deve essere un atto purissimo di amore. Vivere e morire di amore per Gesù: ecco il mio ideale” (Domenico Mondrone, Padre Felice Cappello, pp. 177‐78). Anche la devozione alla Madonna occupava un posto privilegiato nel suo cuore e nella sua preghiera. Spesso lo si vedeva con la corona del rosario in mano. Aveva poi un profondo senso di umiltà. Sembrava che non si rendesse conto delle doti eccezionali di cultura e di saggezza che gli altri ammiravano in lui, tanto era modesto e umile. Oltre che essere un uomo di preghiera e di penitenza, lo distingueva una grande ansia pastorale e un vivissimo desiderio di seminare del bene. Per 40 anni fu in questa chiesa un confessore, che il sabato pomeriggio e la domenica aveva file molto lunghe di penitenti. Qualcuno lo aveva denominato il “Confessore di Roma”. Aveva il dono di infondere serenità e tranquillità. In genere era piuttosto breve e sapeva centrare subito gli aspetti essenziali. Sapeva incoraggiare, dare sicurezza e infondere pace interiore. Ad un suo confratello, Padre Cappello raccomandava: “Nei suoi pareri e decisioni, non usi mai la severità. Il Signore non la vuole: è misericordioso. Giusto sì, sempre. Severo, mai. Dia sempre la soluzione che permetta alle anime di respirare. Non si stanchi di insistere sulla confidenza. Si persuada che le anime hanno bisogno soprattutto di essere incoraggiate e di credere sempre più nell’amore di Dio, che è immenso”. (Domenico Mondrone, Padre Felice Cappello, p. 96). Criterio guida per Padre Cappello era il noto principio: “salus animarum suprema lex”. La legge suprema è la salvezza delle anime. Insieme col ministero del confessionale, trovava tempo anche per visitare gli ammalati e, in particolare, quanti erano vicini alla morte. Sono rimasti celebri alcuni casi: si sa che visitò e preparò spiritualmente alla morte Curzio Malaparte, Concetto Marchesi ed altri. Fu anche consultore di vari Dicasteri della Curia Romana, che spesso gli chiedevano pareri e che tanto apprezzavano la sua competenza di giurista di fama internazionale con un acuto senso della Chiesa. Chiamato a fare parte delle Commissioni preparatorie del Concilio Vaticano II, diede un contributo non piccolo. Il Signore lo chiamò a sé qualche mese prima dell’inizio del Concilio. Come noto, Padre Cappello non era nato gesuita. Egli è stato per 11 anni sacerdote della diocesi di Belluno dove fu insegnante stimato e apprezzato nel Seminario diocesano. Si trattava però di un seminario che fu accusato di modernismo e, dopo una visita apostolica, fu chiuso. Padre Cappello, che certamente non aveva tendenze moderniste, rimase senza l’incarico di insegnare, ma soltanto col compito di Vice‐Parroco. Nel frattempo conobbe Padre Ettore Rosa, S.J., Direttore della Civiltà Cattolica, e qualche altro padre gesuita che aveva recensito i suoi libri. L’ideale di S. Ignazio lo affascinava, ma rappresentava anche un cambio grande nella sua vita, che lo rendeva pensoso e indeciso. Volle recarsi in pellegrinaggio a Lourdes per chiedere alla Madonna di illuminarlo circa il suo futuro e le decisioni da prendere. Presso il Santuario mariano di Lourdes ci fu la notte decisiva per lui. Passò un’intera notte di preghiera inginocchiato là dove Bernadetta aveva visto “la Bianca Signora”. Alla mattina, quando il sole era già alto all’orizzonte, Padre Cappello si recò all’Ufficio Telegrafico per spedire a Padre Ottavio Turchi, Provinciale dei Gesuiti italiani, un telegramma di poche righe, ma decisivo per il suo futuro: “Chiedo di essere ammesso a fare parte della Compagnia di Gesù”. Spedito il telegramma, Padre Cappello ritornò al santuario a celebrare la Messa per ringraziare la Madonna della nuova vocazione che era spuntata nel suo cuore e per metterla sotto la protezione della Beata Vergine Maria. L’episodio mi è stato raccontato dal Cardinale Dezza, pure sepolto in questa Basilica. Quella notte di preghiera, che richiama alla mente la “veglia d’armi” di S. Ignazio di Loyola al Santuario Mariano di Montserrat, carica di significato il fatto che Padre Cappello abbia chiuso gli occhi alla scena di questo mondo, allo spuntare del 25 marzo, anniversario del “fiat” pronunciato a Nazaret dalla Madonna. Ritornando ora al segno del “chicco di grano” del Vangelo odierno, dobbiamo riconoscere che Padre Felice Cappello ha prodotto molto frutto nei suoi 83 anni di vita. Nella storia dell’Università Gregoriana, Padre Cappello è uno dei professori che ha lasciato un segno. La sua memoria non deve cadere nell’oblio. La testimonianza di uomo di Dio da lui lasciata e di fedele servitore della Chiesa, con uno stile di vita saggio, lineare, semplice e umile restano un esempio a cui guardare e dal quale trarre ispirazione. Con la sua scienza, con la sua bontà d’animo, col suo ardore apostolico, con l’amore a Dio e alla Chiesa che lo hanno caratterizzato, ha educato generazioni e generazioni di sacerdoti, ed ha seminato tanto bene. Il suo esempio rimane una luce. Simo in molti a dovere riconoscenza a Padre Cappello. L’augurio è che il suo insegnamento e il suo esempio continuino ad illuminare il cammino della Chiesa e del mondo. Al Signore si elevi la preghiera che Padre Felice Cappello sia presto elevato agli onori degli altari: la sua vita di sacerdote e di religioso merita di essere proposta alla Chiesa come un ideale che molto può insegnare. Card. G.B. Re