XXV ANNIVERSARIO ISTITUTO MEDEA Sono contento di porgere il
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XXV ANNIVERSARIO ISTITUTO MEDEA Sono contento di porgere il
XXV ANNIVERSARIO ISTITUTO MEDEA Sono contento di porgere il saluto della diocesi di Milano, e mio personale, a tutti gli illustri ospiti, ai medici e agli operatori sanitari, alle Piccole Apostole della Carità, agli amici e soprattutto ai bambini e alle famiglie che hanno beneficiato in questi 25 anni dell'attività terapeutica e scientifica dell'Istituto Eugenio Medea. Appartiene al sogno di don Luigi Monza, dell'indimenticabile Zaira Spreafico e dello stesso dott. Medea di cui questo Istituto porta il nome, la sfida per tenere alto il confronto con gli standards scientifici della ricerca e terapia della disabilità infantile. Quest'oggi, qui a Bosisio, celebriamo 25 anni della buona alleanza tra scienza e carità. La recente enciclica Caritas in ventate, al n. 69, fa esplicito riferimento a questa alleanza: «II problema dello sviluppo oggi è strettamente congiunto con il progresso tecnologico, con le sue strabilianti applicazioni in campo biologico. [...] La tecnica permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica, di migliorare le condizioni di vita. [...] La tecnica è l'aspetto oggettivo dell'agire umano, la cui origine e ragion d'essere sta nell'elemento soggettivo: l'uomo che opera. Per questo la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l'uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo, esprime la tensione dell'animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali». L'alleanza tra scienza e carità non riguarda solo il fatto che i destinatari della scienza e della tecnica hanno bisogno della carità, nel senso che l'intervento diagnostico e terapeutico dev'essere un intervento degno dell'uomo e a favore dell'uomo. Occorre dire anche l'inverso: la carità ha bisogno della scienza e dell'azione terapeutica. Non basta però chiamare in causa la carità per giustificare la necessità della scienza, in particolare il suo profilo medico, e per sostenere l'aspetto umanistico dell'intervento terapeutico: la medicina opera in favore della vita, presiede alla salute fìsica e psichica. Questo tratto della carità ormai appartiene al comune sentire umano e viene chiamato da molti solidarietà. Si dice, infatti, che non è possibile una solidarietà all'altezza dei tempi che attraverso l'intervento competente e insostituibile della scienza. Non è inutile ricordare, però, che la carità come "relazione di aiuto" in tutte le sue forme, non solo consente, ma esige un intervento competente. Soprattutto richiede una ricerca veramente in favore della vita in tutte le sue componenti, che presieda allo sviluppo della persona, con la consapevolezza che lo sviluppo integrale della persona comporta attenzione a tutti gli aspetti non solo della vita fisica, ma di quella psichica e relazionale, anzi persino della vita familiare e sociale. Storicamente la necessità della relazione di aiuto e la dignità da custodire nei confronti del malato o del disabile ha creato non solo un'attenzione alla persona, ma un vero e proprio culto del corpo. "Culto" nello stesso senso che si ha nei confronti del Corpo del Signore: moltissimi hanno curato vedendo Cristo nei malati e partendo dai malati sono arrivati a Cristo. Un culto che ha dato avvio persino alla splendida storia della carità che si è espressa nella creazione degli ospedali. Essa ha generato quella fila di persone che non solo hanno curato la malattia, ma anche hanno accudito e accompagnato il malato sia nella guarigione, sia nella battaglia drammatica per la vita. Fino a cambiare la mentalità e la cultura. Vorrei ricordare il testo sorprendente della Lettera a Diogneto, che già nel terzo secolo operava un chiarissimo discernimento sulla custodia integrale del valore della persona, anche al di là delle proprie abilità e capacità di efficienza. L'autore ignoto diceva dei cristiani: «Abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri; ogni nazione è la loro patria, e ogni patria è una nazione straniera. Sì sposano come tutti e generano figli, ma non espongono i loro nati.» (n. 5). Non espongono i loro nati: se non ci fosse stato il gesto di Gesù che mette al centro il bambino e la coscienza dei primi cristiani nei confronti dei deboli, forse non avremmo avuto neppure la sfida della cura del disabile. Non saremmo neppure qui a parlarne. La carità, dunque, non ha paura della scienza e della tecnica, anzi chiede alla medicina non solo di "saper-fare" (sempre più e sempre meglio), ma esige anche un "fare sapiente". Occorre, cioè, uno sviluppo della conoscenza scientifica e medica, il quale non miri solo alla salvaguardia della vita (cosa necessaria, ma da solo non sufficiente), bensì anche a tutte le condizioni che la rendono vita "buona". Non decidendo noi gli standards della vita "buona", ma chiamando in causa la coscienza di tutti che si esprime nella relazione tra gli uomini, tra i membri della famiglia, tra genitori e figli e nel rapporto sociale di solidarietà. La vita buona non è solo una questione clinica, neppure una questione di efficienza, ma di relazione umana e umanizzante. Ho imparato in questi anni le splendide storie di famiglie che, anche con un figlio disabile, mi hanno insegnato stili di umanità, di accoglienza e di relazione. Noi neppure ci sogniamo che cosa significhi questo in un mondo dove si vale se si è sani, belli, efficienti, pimpanti, giovanili. Cari amici, lo dico con buona coscienza, anzi lo dicono con serena consapevolezza proprio i medici, gli operatori sanitari e tutto il personale che qui non sprecano nemmeno una possibilità per rendere possibile un coraggioso salto di qualità all'intervento clinico. Sono coscienti che non possono perdere nemmeno un giorno per questi bambini e ragazzi. Perché sanno che prima s'interviene, più possibilità ci sono per il loro domani. Siamo così in grado di comprendere il valore incommensurabile della buona alleanza tra scienza e carità di cui celebriamo oggi il momento più prezioso e nascosto e che si è espresso in 25 interminabili anni di ricerca e di cura. Le famiglie hanno visto solo gli effetti di un impercettibile sviluppo nella ricerca e nelle pratiche terapeutiche, hanno visto i padiglioni di Bosisio crescere gli uni dopo gli altri, fatti e rifatti, fino al VII padiglione che ha sfidato lo splendore del Louvre di Parigi. Qui possiamo ben dire che abbiamo il Louvre della cura e della carità. La ricerca è proceduta giorno dopo giorno in silenzio dietro le quinte, e goccia dopo goccia è tornata a beneficio dei nostri ragazzi. La parola "carità" qui non significa soltanto "relazione di aiuto", e neppure solo "attenzione alla dignità della persona", ma sostegno del "legame buono" che favorisce, con il trattamento clinico della malattia, anche l'inserimento del malato o del disabile nella trama di buone relazioni, sia familiari che sociali. La carità come servizio, non si ferma solo al bisogno, non incontra soltanto il bisognoso, ma inserisce il bisognoso (povero, bambino o anziano, malato, disabile) in una rete di relazioni, restituendogli il più possibile libertà e capacità di relazione. E così restituendogli speranza. Noi potremmo accudirli alla perfezione, ma senza donare loro la presenza, l'affetto, la prossimità, il tempo, il sorriso, la tenerezza, il futuro di cui sono avidi. Quando diciamo queste cose, sembra che si riferiscano ai buoni sentimenti, alla sfera delle anime belle. Oggi, però, celebriamo i 25 anni dell'Istituto Medea de La Nostra Famiglia. In questo luogo la scienza si è fatta famiglia e casa accogliente e la famiglia si è dilatata per far spazio alla scienza, cambiandone i connotati culturali. Non solo una medicina efficiente, ma una medicina umana, anzi, molto più che una medicina, un'arte sacra che vuole dare speranza alle famiglie e alla società. Perché senza questo legame della vita buona, nei nostri ambienti di cura, nei rapporti con le famiglie, nel contesto sociale in cui si colloca l'antica e la nuova disabilità, anche il rimedio della scienza avrebbe un effetto dimezzato. La sanità non ha bisogno soltanto di luoghi di eccellenza come questo, ma necessita anche dell'eccellenza delle buone relazioni, delle storie condivise, del clima in cui si cresce, di fare in modo che quando i ragazzi raggiungono l'età più grande, trovino un "orizzonte sereno", siano presi in carico dalla famiglia, dal territorio, da una società attenta ai meno fortunati. Oggi, sentiamo tutta la sfida contenuta nel nome: "Istituto di ricovero e cura Eugenio Medea" de La Nostra Famiglia. Perché - ne sono certo - fra altri venticinque anni, saranno in più a celebrare il cinquantesimo, non solo se avremo prodotto grandi risultati di ricerca e terapia (su questo non ho dubbi...), ma se saremo riusciti anche ad affascinare altri al nostro sogno! + Franco Giulio Brambilla Vescovo ausiliare di Milano