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n° 375 - maggio 2016
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Direttore Responsabile Lorenzo Gualtieri - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Edificio L - Strada 6 - Centro Direzionale Milanofiori
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Il pittore
del silenzio
Tramonto a Cape Cod
tutte le opere dell’articolo sono presso il
New York, Whitney Museum
of American Art;
Lascito di Josephine N. Hopper
© Heirs of Josephine N. Hopper,
Licensed by Whitney Museum of American Art
«Se potessi esprimermi con le parole non ci sarebbe
nessuna ragione per dipingere.» Edward Hopper
Sarà solamente nel 1933, quando
Hopper ha compiuto 51 anni, che il
MoMA di New York gli concederà
la prima retrospettiva. Fino ad allora
ha vissuto ai margini della notorietà
e, per vivere, ha lavorato nel mondo
delle illustrazioni pubblicitarie e delle
incisioni, (puntesecche e acqueforti),
grazie alle quali otterrà premi e riconoscimenti, anche dalla National Academy, e che gli assicureranno una
certa stabilità economica.
Ma, a differenza di molti altri artisti
americani che come lui avevano esordito come illustratori, Hopper non
gradiva quel tipo di lavoro. In un’intervista dichiarò: «Sono stato sempre
molto attratto dall’architettura, ma
i direttori dei giornali vogliono gente
che muove le braccia». Se è vero che
nelle sue opere mature il movimento
o le interazioni tra i personaggi sono
ridotti al minimo, è pur vero che
l’esperienza acquisita come illustratore gli servirà comunque da stimolo
a ricercare l’essenziale in pochi dettagli rivelatori.
Tra il 1915 e il 1923 lavora anche per
il cinema e per il teatro: dall’insieme
di tutte queste esperienze visive, accompagnate da una profonda conoscenza dell’arte classica europea,
Hopper definisce i connotati della
sua opera successiva, e i giornali e i
critici d’arte parleranno sempre più
spesso di lui; il pittore e amico Charles Burchfield scriverà su Art News
un articolo che prova a identificare,
con rara sensibilità, il percorso pittorico di Hopper che definisce “una
poesia silenziosa”.
Questo articolo risulta rivelatore dell’arte di Hopper: «c’è il suo modo
modesto, discreto, quasi impersonale,
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di costruire la pittura; il suo uso di
forme angolari o cubiche (non inventate, ma esistenti nella realtà); le sue
composizioni semplici, apparentemente non studiate; la sua fuga da
ogni artificio dinamico allo scopo di
inscrivere l’opera in un rettangolo».
Tuttavia ci sono anche altri elementi
del lavoro di Hopper che sembrano
aver poco a che fare con la pittura
pura, ma rivelano un contenuto spirituale. C’è, ad esempio, l’elemento
del silenzio, che sembra pervadere
tutti i suoi lavori più importanti, qualunque sia la tecnica usata.
Questo silenzio o, come è stato altrimenti definito “questa dimensione
di ascolto”, è evidente nei quadri in
cui compare l’uomo, ma anche in
quelli in cui ci sono solo architetture.
L’esempio che viene citato da più
fonti come esplicativo dell’opera di
Hopper sono le rovine di Pompei, e
in particolare i calchi delle persone
sorprese dalla tragedia, “fissate per
sempre” in un’azione dinamica che
fu bloccata in quel “fermo immagine”
improvviso.
Hopper utilizzò composizioni e tagli fotografici simili a quelli usati nelle
opere degli impressionisti che aveva
visto dal vero a Parigi, ma tutto rielaborato con il suo stile personalissimo, capace di influenzare anche cineasti e fotografi. La sua rappresentazione artistica si rivolge sempre più
verso un forte realismo, che diviene
sintesi della visione figurativa combinata con il sentimento struggente
e poetico che l’artista percepiva nei
suoi soggetti. Del suo lavoro diceva:
«non dipingo quello che vedo, ma
da sinistra in senso orario
Scale del 48 di Rue de Lille, Parigi
Il balcone
Autoritratto
Sera blu
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quello che provo».
Analogamente, Hopper ha saputo
cogliere un momento particolare,
quasi il preciso secondo in cui il tempo
si ferma, dando all’attimo un significato eterno, universale.
Ma non vi è cosa più vana del domandarsi chi siano quegli esseri che Edward Hopper mette in scena, o cosa
accada tra loro e cosa stia per accadere; occorre piuttosto rivivere con
lui la sensazione che nessuno possa
comprendere nessuno, e osservare
che se ha fermato sulla tela una situazione e non un’altra, è solo perché ha
creduto di riconoscere nei suoi protagonisti lo stesso senso di solitudine
e di isolamento che egli prova, e insieme un’aspirazione, un brusco turbamento dell’anima che spesso - probabilmente - hanno angosciato lui
stesso.
Figure solitarie assorte in drammi
muti. Lo spazio, ridotto all’essenziale,
è reale e allo stesso tempo metafisico,
immerso in una luce tersa e implacabile. La scena è quasi sempre deserta,
l’atmosfera densa di attesa. I paesaggi
umani di Edward Hopper risultano
laconici ed evocativi quanto quelli
urbani o rurali, svuotati di presenze
umane e di suoni. Artista taciturno e
introverso, Edward Hopper si è espresso
poco sulla propria vita.
È in gran parte grazie ai diari e alle
lettere della moglie Jo (Josephine Verstille Nivison), scritti nel corso di una
simbiosi coniugale durata più di quarant’anni, che prende corpo la ricca
ricostruzione biografica.
Hopper nacque il 22 luglio del 1882
a Nyack, piccola cittadina nello stato
di New York. I suoi genitori provenivano dalla piccola borghesia angloamericana, erano titolari di un negozio di tessuti. Già dall’età di cinque anni Edward Hopper dimostrava
una spiccata abilità nel disegno, che
fu incoraggiata dai genitori con letture di riviste e libri sull’arte. Nel
1895 dipinse il suo primo quadro
dove mostrava particolare interesse
verso le navi e tutto ciò che è legato
ad esse. Nel 1899 si iscrisse a un corso
per corrispondenza presso la New
York School of Illustrating.
A questo periodo seguirono numerosi viaggi in Europa, in cui Hopper
potè arricchire la sua sensibilità con
la visione dell’arte classica e la scoperta della pittura impressionista.
Tornato stabilmente negli Stati Uniti,
che non lascerà più, l’artista ebbe
modo di esporre i lavori realizzati a
Parigi in alcune mostre promosse dall’amico Guy Pène du Bois, ma senza
successo. Pur rimanendo attratto dalla
cultura e dall’arte francese per tutto
il resto della vita, rivolse la sua attenzione e la sua ricerca all’individuazione di uno stile autenticamente
dall’alto Il faro a Two Lights
La bottega del vino
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americano, e a elaborare soggetti legati alla vita di tutti i giorni. Tra i
temi che prediligeva vi erano soprattutto immagini urbane di New York
e le scogliere e spiagge del vicino New
England, in particolare paesaggi di
Ogunquit e dell’isola di Monhegan
nel Maine.
Bologna offre una opportunità rara
di conoscere l’opera del grande artista americano con una retrospettiva
a Palazzo Fava (Palazzo delle Esposizioni) che si conclude il 24 luglio prossimo, con circa 60 opere provenienti
dal Whitney Museum of American
Art di New York. L’esposizione segue le retrospettive che si tennero nel
2009 a Palazzo Reale a Milano e nel
2010 a Roma presso la Fondazione
Roma.
Edward Hopper è universalmente riconosciuto tra i più popolari e noti
artisti americani del XX secolo: pittore della vita quotidiana, delle solitudini umane e dei paesaggi, è l’indiscusso caposcuola del Realismo
americano. La narrazione antologica
del percorso espositivo è accompagnata dall’approfondimento sul metodo di lavoro di Hopper - estremamente complesso e rigoroso - valutabile grazie al confronto dei disegni
preparatori con le opere finite. Questa visione svela quanto il “realismo
hopperiano” sia spesso il frutto di una
sintesi di più immagini e situazioni
colte in tempi e luoghi diversi e non
una semplice riproduzione dal vero.
lorenzo gualtieri