Stella Rossa

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Stella Rossa
Stefano Mellini
Stella Rossa
© 2006
Via Col di Lana, 23 – Ravenna
Tel. e fax 0544 401290
www.fernandel.it
[email protected]
ISBN 88-87433-64-X
Illustrazione di copertina di Bruno Mattioli
LE PAROLE SONO DI TUTTI, ANCHE SE LE USANO IN POCHI.
A NOI RESTA LA RABBIA E QUESTI MURI SCROSTATI
È il testo di una scritta che compariva nel mio quartiere.
Spero di essere riuscito a imprigionare in queste pagine un po’
della rabbia che ho rubato da quel muro. Perché col tempo ho
imparato che la rabbia è un sentimento nobile, di gran lunga
superiore all’indifferenza, all’ipocrisia, all’egoismo.
s.m.
Capitolo 1
Settembre di pioggia. Dalla finestra dello spogliatoio le voci si
accavallano. Gocce tiepide, ancora estive, picchiettano sulla gomma della borsa: Stella Rossa! Lancio un’occhiata pigra dall’altra
parte del campo. Qualche fesso che la domenica mattina non ha
voglia di tirare calci alle lattine vuote per le vie del quartiere è
già seduto sulle tribune di legno a tre gradini. Davanti al cancello con le inferriate verdi, Bomba bestemmia e dice che devo sbrigarmi perché sono l’ultimo. «E spegni quella sigaretta, minchione, che non hai fiato neanche per farti una sega».
Da quando ho memoria, Bomba è il custode di questo campo da calcio incastrato tra i palazzoni popolari. Lui non taglia
l’erba, pettina il campo, dice, ed è lì ad ogni ora, gesso in mano
per le righe, palloni da gonfiare, maglie stese ad asciugare, straccio per scrostare il fango dalle piastrelle degli spogliatoi. È un
solitario, Bomba, non so se per scelta o per destino. Sta di fatto
che fuori da questo campo non lo incontra mai nessuno, chessò,
per fare la spesa, comprare il giornale, bere un prosecco al bar.
Vive solo, ed è il custode. Questo è quello che si sa di lui, ed è
abbastanza. Stringo il filtro fra il pollice e il medio, sparo la sigaretta pochi centimetri sopra i suoi capelli bianchi. Mi assesta
una pacca a mano aperta sulla nuca. «Tanto oggi ti bagni il culo
in panchina». Chiude il cancello alle mie spalle ed entra nel suo
sgabuzzino, un anfratto di cemento armato tappezzato di foto
in bianco e nero, un paio di coppe su una mensola di legno, una
cesta di palloni, una di casacche da allenamento, una pila di
giornali porno.
Nello spogliatoio gli altri si stanno cambiando, pantaloncini
della divisa e camicia della sera prima, maglia Stella Rossa, jeans.
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Le facce sono quelle di sempre, gente sbattuta dal sabato notte,
col segno del cuscino stampato sulla faccia, gente che si sveglierà del tutto solo con le urla del mister. Sandro mi fa spazio sulla
panca di legno.
«Oggi comincia il campionato», sta strillando il mister, «e lo
sapete cosa vuol dire?» Le pupille di Max sono ancora lievemente dilatate dall’ecstasy, Luca ha la faccia bianca da vomito,
Bisio sta pisciando birra sulla turca con la porta aperta e il culo
verso la squadra. «Lo sapete o no?» Mimmo e Beppe scimmiottano l’allenatore alle sue spalle. «Vuol dire che sono stufo di
farmi prendere in giro da tutte le altre squadre della città!»
Chiedo a Sandro come mai non c’è Flash. Sandro incrocia i
polsi imitando il gesto delle manette. Sussurro: «Quando?»
«L’altra sera, lo hanno beccato con venti grammi di fumo e
se lo sono caricato».
«Cazzo! E chi gioca a centrocampo?» Alza le spalle per dire
che sono problemi del mister.
L’allenatore si volta verso la lavagna e continua a strillare.
«Alle prime due sconfitte consecutive mollo tutto e la domenica
vado a pesca!» Prende un gesso nuovo e lo fa stridere contro la
superficie nera. Brividi fastidiosi sulla pelle. Il gesso si spezza,
lui tira una madonna e continua a scrivere col mozzicone che gli
resta fra le dita.
Ancora un campionato, ancora Stella Rossa. Un’altra serie di
domeniche a pestare fango, a inzupparsi di pioggia, a sputare
erba, a sudare sotto il sole. Da dieci anni, ogni volta che finisce
il campionato io e Bruco ci guardiamo in faccia e diciamo: «È
stato l’ultimo. La prossima stagione non se ne parla neanche».
Poi arriva la telefonata di Bomba, il custode, il 16 agosto alle
otto di mattina, puntuale. Me lo immagino aprire il campo alle
sette, la mattina dopo ferragosto, spargere le fontanelle a spruzzo sul prato seccato dal sole e tirare la leva dell’irrigazione, un
maniglione di metallo attaccato al muro che assomiglia all’interruttore delle luci di un teatro. L’acqua inizia a gorgogliare attra8
verso i tubi di plastica, e dopo qualche secondo una ventina di
getti vengono sparati in aria simultaneamente. È l’inizio di una
nuova stagione.
Bomba ha un telefono personale, fissato al muro con due
ganci e chiuso con un lucchetto. Tira l’ultima boccata alla sigaretta mentre osserva le fontanelle formare piccoli arcobaleni
artificiali, spegne il filtro con il tacco della scarpa, toglie il lucchetto al telefono. Alcuni dicono che goda a farci saltare giù
dal letto a quell’ora di mattina, ghigno in faccia e rubrica in
mano.
No, io, Bruco e Bisio non c’entriamo più niente con la Stella
Rossa, con questi palazzoni di cemento, con il quartiere, con le
sirene della polizia, con l’ecstasy e la coca, con i pugni, le vetrine
in frantumi, le bottiglie vuote. Da un bel po’ di tempo siamo da
qualche altra parte. Però quel richiamo sembra irresistibile, la
voce di Bomba che interrompe il sonno, che entra nelle nostre
vite come un incubo lontano la prima calda mattina dopo ferragosto e sussurra: «Convocato!» Non dico niente, torno a letto e
mi ributto sulle lenzuola sudate, mi giro dall’altra parte e cerco
nuovamente di dormire. Ma non è lo stesso sonno, non lo riacciuffo più così com’era. Anche quest’anno non ho detto no. Stella
Rossa del cazzo…
Il mister elenca nomi e numeri, mentre disegna sulla lavagna
un labirinto di linee che vorrebbero essere schemi di gioco. Poi
entra il presidente, quello che sgancia gli euro dell’iscrizione,
quello che fa stampare a caratteri bianchi sulla maglia rossa la
scritta “Landi Alimenti”. Il mister lo saluta con un attimo di
deferente silenzio e poi riprende a far ballare il gesso impazzito.
Formazione schierata. Appello dell’arbitro e corsa a centrocampo. In tribuna tutte le facce note del quartiere, il maresciallo Sacco sotto l’ombrello a braccetto della consorte, una decina
di vecchietti del centro sociale, un paio di tossici, don Vincenzo
e qualcuno del bar. Una trentina di persone in tutto. Gli aficionados di Stella Rossa.
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Sono strane le prime partite di ogni campionato, di solito
goffe, timorose. Passa un po’ di tempo prima di ricordarsi che
per giocare si deve sudare, prima di poter di nuovo intuire i
rimbalzi del pallone, i movimenti degli avversari. È come il primo giorno di scuola, quaderni bianchi, biro nuove, diario immacolato, profumo di stampa, ma la testa è altrove e la mano
disabituata scrive a fatica.
Il mister urla frasi senza senso e fuma una sigaretta dietro
l’altra. «È dalla prima partita che si vedono le squadre con le
palle!» Di solito è un massacro, una mattanza. Vengono nel quartiere, chiudono con cura le loro belle macchine dopo aver estratto
i frontalini degli stereo, scendono in campo e se ne vanno coi tre
punti in tasca, sollevati all’idea di non dover mettere più piede
da queste parti per un altro campionato. Sportivamente, non
facciamo paura a nessuno. Per tutto il resto, facciamo paura eccome.
Il primo tempo si chiude a reti inviolate, ed è già un risultato.
Negli spogliatoi qualcuno piscia, alcuni bevono, molti scatarrano nel cesso. Hamir se ne sta in silenzio sulla panca di legno, si
concentra. Forte il ragazzo, l’unico che potrebbe giocare in una
squadra vera. Lo hanno richiesto diverse squadre di prima categoria, ma lui rifiuta sempre. Ostinatamente. «Chi te lo fa fare di
restare a giocare qui? Non siamo mica in Marocco, Hamir, quelli
pagano…» Lui sorride tranquillo e alza il dito medio.
Il cuore trotta impazzito nel petto. Sandro mi passa una bottiglia di plastica semivuota, la finisco a collo. Non abbiamo
neanche la forza di fiatare, il mister continua a strillare per conto suo, non lo ascolta nessuno. Fuori non piove più, in cielo si è
aperto un enorme squarcio sopra il campo. Ci guardiamo in faccia. Ma chi cazzo ce lo fa fare? Che si prendano i tre punti e si
tolgano dalle palle.
«Scusi, mister». Hamir alza la mano come a scuola. È il capitano, e lo è veramente. Mai un’ammonizione, una protesta, un
brutto fallo. Quando iniziano a volare i primi pugni – succede
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spesso – si sposta sempre a qualche metro di distanza. Non si
sporca le mani, dice che Allah ci ha dato le mani per lavorare e
pregare, non per picchiare.
«Mister, che ne dice se nel secondo tempo mi sposto a sinistra? Sono scarsi da quella parte».
Il mister tira su i pantaloni della tuta a mezza pancia, si gratta
la testa; Bisio alle sue spalle spara un rutto da artificiere. «Va
bene! Rocco, tu ti sposti in mezzo e Sandro a destra».
«No mister, lasciami stare», si lamenta Sandro, «il cuore non
regge, non ne ho più voglia di correre, metti su Razzo che si
allena sempre, non fuma e non gioca mai».
Hamir mi batte una mano sulla spalla. «Ok», dico. «Ma non
credo di arrivare alla fine, quando non ce la faccio più chiedo il
cambio». Il mister mi guarda, sta per urlare qualcosa tipo sergente dei Marines, attributi, vincere e vinceremo e qualche altro
slogan che usa da vent’anni, ma Bomba dà due colpi alla porta
dello spogliatoio. «In campo, che l’arbitro aspetta solo voi».
Il terzino che mi marca è grosso, coi capelli rossicci e le lentiggini, il viso tirato per lo sforzo. Lo guardo in faccia da vicino,
lo fisso negli occhi. Fa il sostenuto, ma si vede che ha paura. In
un contrasto mi si avvicina talmente che sento la sua puzza di
sudore. La palla è alta, saltiamo insieme ma lui mi trattiene per
la maglia. Gli allungo una gomitata sul naso. Prima ammonizione della stagione. Si mette le mani sul viso, ma non dice niente.
Continuo a fissarlo mentre il suo compagno batte la punizione.
Evita il mio sguardo. Dev’essere uno studente o qualcosa del
genere, di quelli che hanno le mani lisce e senza calli. Durante la
settimana si potranno vantare di quanto sono stati coraggiosi a
venire a giocare qua. «Avevano delle facce quelli, gente da coltelli e galera, da sbattere dentro e buttar via la chiave», e intanto
mangiano un hamburger, coi libri posati sulla sedia a fianco. Mi
fanno rabbia, non ci posso fare niente. Mi avvicino e gli dico
con calma: «Bella la tua macchina; l’hai chiusa bene?» Mi guarda come se l’avessi appena menato. La palla è giù in difesa, tra i
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piedi di Bruco, lontana una cinquantina di metri. Il gorilla con
le lentiggini guarda il suo compagno, come a dire: “Lo senti
quello che sta dicendo?”. L’altro scrolla le spalle. «Non dargli
retta».
Bruco taglia tre quarti di campo con un lancio senza senso.
Scatto in mezzo ai due difensori che stanno ancora pensando
all’antifurto della macchina. Salto un decimo di secondo prima
di quello con le lentiggini.
Sento l’impatto del pallone sulla tempia, lo schiaccio a terra,
la palla schizza sull’erba bagnata al di là della difesa. Hamir è
una gazzella nera che vola leggera verso il pallone, la sua maglia
rossa sembra vuota, incurvata dal vento. Il portiere gli corre incontro ma è pesante, molto più pesante di Hamir. La gazzella gli
scivola accanto col pallone incollato ai piedi, e la porta gli si
spalanca davanti. Hamir si gira per un momento a fissare il corpo del portiere, steso sull’erba in una posizione innaturale. Accarezza la palla col sinistro, la rete si gonfia, soffice.
C’è un attimo di silenzio. Cosa sta succedendo?, è la domanda stampata sul volto di tutti. Il maresciallo Sacco e il mister
rompono il silenzio con un grido all’unisono. Effetto stereo, uno
sulla panchina l’altro in tribuna, dalla parte opposta del campo.
Sono tutti addosso ad Hamir. Io rimango imbambolato in mezzo ai due terzini immobili.
Uno che ha sentito il grido stereofonico esce dal bar con un
Campari in mano, un paio di ragazzini si affacciano da un balcone scrostato e don Vincenzo apre le mani verso il cielo. Non è
un miracolo, ma qualcosa di molto simile. Il rosso con le lentiggini mi guarda con odio dall’altra parte del centrocampo.
Sorrido, mentre Sandro mi batte un cinque a mano aperta.
Mancano venti minuti alla fine e la partita diventa cattiva, ma
quando le partite diventano cattive c’è una sola squadra in campo: Stella Rossa.
Mi dà una sensazione molto simile alla tenerezza, vederci
schiumare con la bava alla bocca. Stiamo qui, in mezzo alle scin12
tille, a tenerci stretti questi tre punti quasi fossero quelli che
servono a pareggiare il destino. Il mister urla e si sbraccia impazzito, ogni due boccate isteriche getta la sigaretta e ne riaccende un’altra. Nessuno lo caga ma continua a fare il duro, anche se si vede che il più incredulo è proprio lui. Max ha smaltito
l’ecstasy ma non l’adrenalina, e si butta nei contrasti come un
kamikaze. Bisio suda birra da tutti i pori ma non molla, Mimmo
sgomita e calcia come un puledro nel recinto, Bruco salta due
spanne più di tutti, Sandro cerca Hamir ogni volta che si trova la
palla tra i piedi, Hamir la stoppa, la controlla, la difende con eleganza e la fa scivolare verso di me come una biglia sul velluto
verde. Ce l’ho tra i piedi quando l’arbitro fischia tre volte. Fine
partita. Qualcuno si abbraccia e qualcuno stringe la mano all’arbitro. Io me ne sto fermo a godermi lo spettacolo.
Mi giro verso la tribuna. Gli spettatori sono quasi il doppio
di quando abbiamo cominciato, le voci nel quartiere ci mettono
niente a circolare. Il maresciallo Sacco sta facendo il giro della
recinzione per venire a complimentarsi negli spogliatoi; trascina
con sé la moglie, sempre attaccata al braccio. Don Vincenzo se
ne va verso l’uscita con un paio di bambini che gli ronzano intorno alla tonaca, Spada gira dalla parte opposta con un cacciavite che gli sporge dalla tasca del giubbotto di jeans, la sigaretta
penzoloni dalla bocca. È normale, è il momento migliore per
fare una visita alle macchine degli ospiti. Per un attimo ci guardiamo negli occhi, Spada mi sorride. Scuoto la testa per dire
“no, lascia perdere per oggi”. Si ferma, alza il pollice per dire
che ha capito. In fondo hanno lasciato sul campo tre punti, non
si può rubargli anche lo stereo…
Sfilo per ultimo davanti a Bomba, il custode, ancora impalato di fronte alla porta delle docce. Negli spogliatoi è pura euforia. Questa volta sotto la doccia ci vola anche il mister, vestito.
Euforia Stella Rossa!
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Capitolo 2
Quando entro in casa, svuoto la borsa da calcio direttamente
nella lavatrice. Bianca fa i compiti con le gambe incrociate sulla
poltrona, mia madre è uscita a fare scorta di alcol in qualche
bar, mio fratello è sdraiato sul divano e dorme vestito. Rico è
invecchiato in quest’ultimo anno. La pancia gli esce dalla camicia sbottonata, è stempiato e gli sono comparsi i primi capelli
bianchi. Lo guardo e mi fa schifo. Mi viene voglia di dargli un
calcio mentre dorme. Lo guardo meglio, ha un occhio pesto e
gonfio. Qualche bravo ragazzo mi ha preceduto.
«Rocco, vuoi una mano?» chiede Bianca. Certe volte il sorriso e la disponibilità di Bianca mi smontano, ma più che altro mi
fanno tenerezza. Se non ci fosse lei avrei fatto le valigie da un
pezzo, sarei fuori da questo appartamento che l’ufficio case popolari affitta alla signora Lalli Graziella, mia madre, in quanto
capofamiglia di famiglia disagiata e priva del minimo eccetera
eccetera. Avrei raccolto i miei stracci e sbattuto la porta così
forte da far tremare tutti i vuoti di gin sotto il letto della
capofamiglia. Invece Bianca è piovuta qui in mezzo a noi, e continua a sorridere come se vivessimo tutti insieme nella casetta
dei sette nani. Aveva un anno quando ho fatto gli ultimi venti
giorni di carcere della mia vita, nove anni fa. Non facevo altro
che pensare a lei, speravo che mia madre e quel coglione di Rico
non se la dimenticassero da qualche parte mentre erano impegnati ad autodistruggersi. Sentivo come una morsa stringere nel
petto. Al processo mi guardavo alle spalle, nelle sedie vuote e
mi dicevo: «Fa’ che non li veda entrare tutti e due insieme» perché, pensavo, per venire in tribunale a chi avrebbero affidato
Bianca?
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Il giudice mi condannò a un paio di mesi, ma poi sparò una
serie di attenuanti per arrivare a venti giorni, il tutto in cinque
minuti. L’avvocato d’ufficio, come nei film, si guadagnò il pane
dicendo che si rimetteva alla corte. Io neanche li ascoltavo, me
ne stavo girato verso il pubblico pregando di non vederli. Preghiere accolte, dato che non si vide né l’una né l’altro.
Non capisco perché, ma Bianca è sempre attaccata al culo di
Rico. Gli saltella intorno come un coniglietto, e non capisce che
Rico è il lupo. L’ultima volta che io e lui ci siamo rivolti la parola
– non erano belle parole – Rico a petto nudo contava pezzi da
cinquanta sul tavolo. Bianca glieli passava a uno a uno e lo guardava come fosse stato uno dei Lunapop.
Il coglione fumava una canna e si vedeva che era soddisfatto,
uno dei pochi affari andati bene.
Non mi dava fastidio che Bianca in quel momento stravedesse
per lui. Sono scattato quando ho visto le mani di Bianca che
toccavano tutte quelle banconote stropicciate, le prendevano
con cura una a una, le stiravano, le passavano tra le mani sporche
di Rico. Sia chiaro, Rico fa la vita che vuole e per me va bene,
nessun problema. Non mi va proprio di giudicarlo, tutti e due
siamo nati e cresciuti qui, e io ho fatto anche di peggio. Ma Bianca è un’altra storia. Lei ancora non lo sa che come ti giri ti sputano in faccia, e non c’è nessuna fretta di farglielo capire. Ho
detto a Bianca di andare in camera sua e ho buttato fuori lui,
lasciandogli qualche segno sulla faccia. Ma lui, tanto, torna sempre. Nonostante abbia due anni più di me, è da parecchio che
gioca a fare il duro senza avere la forza di reagire. Dal pianerottolo urla che non finisce lì, qualche vicino esce a vedere la scena,
mia madre finge di piangere senza alzarsi dal letto, poi tutto
torna come prima.
Metto due dita di gin, scampate nel fondo di una bottiglia,
dentro un bicchiere, aggiungo un po’ di succo d’arancia e avvio
la lavatrice. Il rumore dell’accensione per un attimo sveglia Rico,
che mi guarda e si gira dall’altra parte. Mi siedo vicino alla pic15
cola e accendo una sigaretta fissando le matite colorate di Bianca: «Avete vinto, Rocco?» Me lo chiede con la penna in bocca,
senza distogliere lo sguardo dal quaderno.
«Sì, sembra incredibile ma ogni tanto succede…»
«Sul serio? Dai dai, racconta…». Il coniglietto è proprio felice, le bastano queste piccole cose: non riesco a capire dove
trovi tanti motivi di felicità nella vita che facciamo, però qualcosa di bello lo trova sempre. Le faccio una carezza sui capelli,
perché non ho voglia di raccontare, bevo un sorso di gin e arancia e mi alzo, lei strizza gli occhi e continua coi compiti.
È una domenica di sole strappata alla pioggia, una domenica
da riempire in qualche modo. Mi affaccio sul terrazzo per finire
la sigaretta. Getto il mozzicone dal terzo piano, la cicca disegna
spirali e plana sulla strada. Mia madre entra in casa con una
busta che tintinna, saranno un paio di bottiglie, le poggia sul
tavolo vicino alle matite colorate e guarda per un attimo la schiuma nell’oblò della lavatrice. Rico si alza stropicciato, borbotta
qualcosa, fa una pisciata in bagno ed esce. Ecco, quando vedo
queste cose mi sale dentro una rabbia che conosco bene: due
bottiglie di gin fra i compiti di Bianca, la pisciata di Rico, la
porta che sbatte. È una rabbia che devo gestire in ogni momento per non dare fuoco a tutto.
Metto sul gas una pentola d’acqua che sono le due, stappo
un sugo pronto e guardo mia madre che barcolla verso la sua
camera con una bottiglia in mano.
«Mamma non mangia con noi?»
«No, mamma mangia dopo». Bianca apparecchia, sposta i
suoi compiti in un angolo del tavolo e stende mezza tovaglia a
fiori tappezzata da macchie di unto e vino rosso. La tv accesa
gracchia un sonnolento telegiornale. In un quarto d’ora svuotiamo i piatti. Bianca li butta nel lavello, raccoglie la tovaglia e
piazza di nuovo quaderno e matite colorate al centro del tavolo. La tv resta accesa, ogni tanto la piccola alza la testa e la
guarda. Mi stendo sul divano al posto di Rico, sento ancora il
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suo odore un po’ rancido. Prima di addormentarmi ripenso
molte volte al gol di Hamir e alla faccia del terzino coi capelli
rossi. In fondo le soddisfazioni non sono tante, e vale la pena
di tenersele strette.
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