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ISBN: 978-88-7615-591-8
I edizione: settembre 2011
© 2011 Alberto Castelvecchi Editore Srl
Via Isonzo, 34
00198 Roma
Tel. 06.8412007 - fax 06.85865742
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Cover design: Sandokan Studio
Cover layout: Laura Oliva
Tutte le foto dell’inserto sono di proprietà dell’autrice
Valeria Fraschetti
SARI IN CAMMINO
Ecco perché l’India non è
(ancora) un Paese per donne
A Usha e le sue figlie
Introduzione
Accende la fantasia da sempre. Colorata, mistica, antica, democratica, pluralistica, caotica, l’India affascina e fa simpatia. E per questo
ispira anche indulgenza. È una potenza nucleare che non incute terrore. Ha un’effervescenza demografica che non scatena l’ansia da sopraffazione della Cina. Uno sviluppo economico che ci ha già archiviato nel
passato della geopolitica e dell’innovazione. Eppure riesce a mantenere intonsa la sua immagine gentile. Un gigante mite. Un caos calmo. Ma
se ogni immagine ha il vizio della sineddoche questo è ancor più vero
nel caso dell’India, dove non c’è mai una parte che può valere per il
tutto. L’unica certezza che esiste sull’India è che è tutto e il contrario
di tutto. Ogni suo aspetto è fluido. Persino una delle più assodate convenzioni che l’uomo si è dato per fare ordine nel mondo ovvero il tempo, nel Subcontinente diventa una dimensione magmatica, a partire
dalla lingua, basti pensare che in hindi è stato stabilito l’uso di una sola parola, kal, per dire ‘oggi’ e ‘domani’.
Incoercibile ad ogni sforzo di catalogazione, dunque. Ma da qualche
parte bisognerà pur tentare di afferrarlo, il titano sfuggente. Così tanto
vale scegliere uno dei mille bandoli che questo Paese fatto contraddizione offre, e seguirlo. La sfida di questo libro è seguire il bandolo delle sue
donne. Innanzitutto, perché l’India sarà centrale nel nostro futuro quantomeno per il fatto che una maggioranza dei cittadini della Terra che la
prenderanno in consegna sta nascendo da mamme indiane. E, se non altro, perché procedendo per esclusione spesso si riesce ad arrivare alla natura delle cose, e l’India non è un Paese per donne. Non ancora almeno.
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Certo, arrivando a Nuova Delhi non ti aspetteresti di sentire: «Welcome to the Indira Gandhi International Airport». È la mattina del 10
agosto 2008 quando la voce del comandante gracchia attraverso gli altoparlanti del Boeing e mi ricorda una delle due o tre cose che so sull’India: che nel 1966 aveva già una donna Primo Ministro, Indira. Dopo oltre 40 anni l’Italia ne aspetta ancora una e gli Stati Uniti non hanno ancora visto una commander in chief alla Casa Bianca.
Ancora oggi la persona più potente del Subcontinente è una donna,
la nuora di Indira. Ed è grazie a lei che l’italianità, almeno in India, è caratteristica di cui si può ancora andare fieri. Nei miei due anni indiani,
salendo su taxi e autorisciò di Bombay, Delhi o Calcutta, di una metropoli o di un villaggio, la domanda è arrivata quasi sempre: «Which country, Ma’m?». E, di fronte alla mia nazionalità, i visi degli autisti hanno
regalato sorrisi di rispetto perché la prima associazione che veniva loro
alla mente non era Silvio Berlusconi: «Ah, italiana! Come Sonia Gandhi». Sì, come la signora di Orbassano che fortuna e coraggio hanno
trasformato da una ragazza alla pari nella donna che guida la politica
della più grande democrazia al mondo. Certo, non è poi tanto difficile
diventarlo se si sposa il figlio del Primo Ministro, a sua volta diventato
Primo Ministro, e ci si trasferisce in un Paese che, per la natura dinastica della sua politica, appare più una monarchia che una repubblica.
E, infatti, le indiane in parlamento sono uno striminzito 11 per cento. E, del resto, soddisfatta la curiosità sulle mie origini, quel che più
interessava gli autisti era la risposta alle altre due domande del loro solito campionario: «Married? Children?». No, che non sono sposata: sono poco più che trentenne. Giovane, si fa per dire, per l’Italia; una zitella per gli indiani, per molti dei quali il destino di una donna è diventare moglie, madre e nient’altro. Così, dopo aver ricevuto attraverso lo
specchietto retrovisore svariate occhiate tra lo stupore e la commiserazione, ho cominciato a giocare, per osservare. A ognuno raccontavo accenni biografici diversi. Un giorno m’inventavo di un marito dottore e
indiano, il seguente di un ingegnere francese. Soprattutto, alle volte
non avevo figli, altre mi fingevo madre di tre bambine: in entrambi i casi, la reazione era qualche secondo di dispiaciuto ammutolimento.
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Oltre alla devozione reverenziale per la famiglia Gandhi, una delle
poche cose che al mio arrivo sapevo sull’India è che, a dispetto della
vorticosa varietà della sua società, divisa per caste e classi, lingue, etnie
e religioni, la stragrande maggioranza delle donne deve affrontare la
stessa pressione culturale: quella di mettere al mondo un maschio. Troppo spesso una bambina resta persona non grata. Una zavorra economica e sociale, tanto vale disfarsene: la pensavano così cent’anni fa come
oggi. Con la differenza che ora esistono ecografie e aborti. E l’effetto cumulativo di questa mentalità è un buco nero di proporzioni devastanti.
Nel denunciarlo, nel 1990 Amartya Sen lo quantificò sostenendo che le
bambine abortite e uccise in Asia negli ultimi dieci anni erano più dell’insieme della somma delle vittime delle due guerre mondiali: 100 milioni; oggi è peggio. E il benessere crescente non mitiga la catastrofe.
Quel che non sapevo, infatti, è che le regioni indiane dove la sparizione
di bambine è più allarmante sono quelle dove lo stomaco è più sazio.
Come, del resto, non immaginavo che un giorno avrei apprezzato le
carrozze Women’s only, per sole donne, della metropolitana di Nuova
Delhi. Quando il Governo locale ne annunciò l’introduzione, con l’intenzione di proteggere le passeggere dall’insistenza di sguardi e molestie maschili, mi sembravano solo un aberrante passo indietro nel cammino della parità sessuale. Eppure, tale è l’incontinenza ormonale degli uomini di fronte alla crescente massa di studentesse in jeans e iPod,
impiegate in sari e ventiquattrore e madri con bimbi in collo che lo sviluppo economico sta facendo uscire dalle loro case e riversando in
scuole, uffici e trasporti pubblici, che anche io mi sono ritrovata a condividere il loro sollievo su queste oasi rosa su rotaie.
In questo caso è bastato poco per mettermi nei loro panni. Ma in altri è stato più faticoso spogliarmi delle mie lenti culturali per mettere
meglio a fuoco l’idea che l’emancipazione femminile, allo stesso modo
di altri traguardi di civiltà, può essere raggiunta percorrendo strade
molto diverse, persino apparenti deviazioni. È facile giudicare se si è
abituati a viaggiare su un’autostrada a quattro corsie, ma le indiane sono in cammino su una sdrucciolevole mulattiera. Certo, non tutte. Anche seguendo il bandolo delle donne s’inciampa di continuo nella varietà e nelle contraddizioni di questo Paese. Ma, in modo più o meno
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violento, o solo sfibrante, essere donna in India è comunque una gimcana tra pregiudizi e vessazioni. Perché, a dispetto di premier in sari o
attrici scollacciate in Tv, l’India del Ventunesimo secolo resta una società profondamente patriarcale. Le statistiche lo certificano. Dal momento che una bambina è meno degna di ricevere cibo e cure, la mortalità infantile e giovanile delle femmine in alcuni Stati indiani è del sei
per cento più alta rispetto a quella dei maschi. Così come i sacrifici sopportati dai poveri per educare un figlio non sono evidentemente gli
stessi che merita una figlia, se a livello nazionale l’analfabetismo femminile è inferiore di venti punti percentuali di quello maschile.
Eppure, andando oltre la fredda evidenza dei numeri, viaggiando attraverso il Subcontinente per conoscere la varietà delle traversie femminili, ho scoperto che le donne indiane, forse proprio per via della loro intima conoscenza con il sopruso, hanno spesso una tenace tolleranza per la sopraffazione. E questa, sempre meno, significa accettazione.
Sotto la vorticosa spinta della modernità, cresce il loro desiderio di affermazione: economica, dettata dalla sacrosanta voglia di partecipare
alla riffa dello sviluppo in corso, ma anche di giustizia. Al netto di tradizioni che impongono di digiunare per la salute dei mariti e di uno
Stato che sovente avalla le discriminazioni sessuali, piuttosto che estirparle, la brama e le opportunità di riscatto femminile vanno gonfiandosi come quando il Gange viene benedetto dalla pioggia dei monsoni.
Mitu, la pasionaria che sogna un Paese per bimbe
Auguri e figli maschi
Mitu Khurana ha cominciato a lottare per salvare le sue figlie ancora prima di diventarne madre: oggi che Guddi e Pari hanno cinque anni non ha ancora smesso. Ha denunciato il marito, i suoceri e un ospedale, senza rassicuranti prospettive di vincere la causa giudiziaria. Ma
ad abbandonarla non ci pensa nemmeno: «Lo faccio per il mondo», ripete. «Affinché altre donne trovino la forza di fare lo stesso e le mie gemelline vivano un giorno in una società diversa». Non una in cui ogni
anno vengono abortite grossomodo mezzo milione di bambine: l’India
del Ventunesimo secolo.
«Avere una figlia femmina è come annaffiare la pianta del vicino»,
recita un proverbio locale. E solo le menti dei pubblicitari hanno saputo competere quanto a efficacia comunicativa con il dono rivelatore
della sintesi offerto dalla saggezza – anzi l’idiozia – popolare per illuminarci sul buco nero creato dalla preferenza indiana per i figli maschi:
«Spendi 500 rupie oggi per risparmiarne 50mila domani». Così annunciavano gli slogan delle cliniche che offrivano vantaggiose ecografie per
conoscere il sesso del nascituro e, quindi, l’opportunità di liberarsi dell’eventuale zavorra economica di una figlia: qualche centinaio di rupie
oggi – per scoprire se hai avuto la iattura di restare incinta di una femminuccia – contro le decine di migliaia di domani, rappresentate dall’esborso per una dote che sposare tua figlia comporterà. Vuoi mette-
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re? Vista con il più sfacciato cinismo del senso del risparmio, non c’è
partita. Specie per i poveri, verrebbe da pensare. Invece no: anche per
indiani istruiti che se la passano bene.
Kamal Khurana, per esempio. La famiglia di Mitu incontra il suo nome scorrendo gli annunci matrimoniali sulle pagine di un quotidiano.
Sulla carta le premesse per un connubio ideale: stessa casta, stessa comunità, stesso livello d’istruzione. Persino la professione è la stessa, è
medico come lei il giovane che cerca moglie. Quindi, dopo i solenni incontri tra parenti e i quattro o cinque (in nove mesi) tra i due, Kamal e
Mitu si sposano. È l’autunno del 2004. E, da copione tradizionale, è lei
a trasferirsi dai genitori di lui. Insieme alla dote in regalo: vestiti, frigorifero, televisore e, ovviamente, oro e gioielli, il must.
Ma l’avidità dei Khurana non è sazia, reclamano anche una Honda
Civic. E, nella speranza di ottenerla, fanno pressioni su Mitu vietandole l’uso del telefono e di andare da sola al mercato. È solo l’antipasto di
tutto quel che dovrà ingollare dopo e di quel che sopportano tante novizie spose dell’India. Per le quali i ricatti sono prassi, le violenze anche e la morte non è un’eccezione: oltre 5mila donne secondo l’Unicef
vengono uccise ogni anno dai familiari del marito per via di una dote
giudicata inadeguata. Ed è proprio perché i Khurana non vogliono un
giorno doverne pagare una loro che il vero calvario di Mitu comincia
con quello che sarebbe dovuto essere uno dei momenti più felici della
sua vita, la scoperta di essere incinta. Di una coppia di gemelli.
«E se fossero due bambine?». L’angoscioso dubbio – non una genuina curiosità – attanaglia tutti meno che Mitu. Che anzi prova a convincere il marito che avere figlie femmine oggigiorno non fa più differenza, neanche in India, perché oramai «le donne lavorano, guadagnano,
magari anche meglio degli uomini». Kamal però non ascolta che le preoccupazioni dei suoi: lo spettro di due doti, la necessità di avere dei maschi per non perdere il nome di famiglia. «E Mitu – li origlia confabulare lei – è una donna istruita, con un buon lavoro: difficilmente vorrà
un terzo figlio». Per loro non resta che una soluzione: la stessa a cui ricorrono altri milioni di famiglie indiane.
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Il genocidio delle bambine
Il sex determination test, la possibilità di conoscere il sesso dei bambini con un’ecografia, in India è bandito. Dal 1994 il Pndt Act (Pre-natal Diagnostic Technique Act) vieta di conseguenza anche le pubblicità del tipo spendi tot oggi per risparmiare tot domani. Ma la strampalata demografia indiana rivela che i cinque anni di carcere e le 50mila
rupie di multa previste per i trasgressori non sono un gran deterrente.
Benché oggi sulla Terra nascano in media più bambini che bambine,
105 ogni 100, questa proporzione universale e naturale in India risulta
distorta in maniera allarmante. Nel Subcontinente vengono al mondo
914 bambine ogni 1.000 bambini: dieci anni fa erano 933, 945 nel
1991, 972 nel 1901. Nonostante l’introduzione della norma anti-ecografie (e il crescente sviluppo economico), la forbice si è allargata. Perché la tecnologia ha colluso con la cultura. La diffusione degli scanner
a ultrasuoni è aumentata, abbassando il costo dell’esame che, disponibile anche per dieci euro, è diventato accessibile alle tasche di tutti o
quasi. E le cliniche private ne hanno fatto un business. Illegale.
L’affermarsi delle tecniche diagnostiche, dopo la legalizzazione dell’aborto negli anni Settanta, ha anestetizzato la brutalità, messo l’acceleratore a pratiche secolari e creato quello che l’«Economist», nella copertina del 4 marzo 2010, chiamava gendercide, ‘gendercidio’. Genocidio di bambine. Dove l’arma di distruzione di massa è l’aborto di selezionati feti femminili. Aborto selettivo: surrogato contemporaneo degli
infanticidi.
Jonathan Duncan, pubblico ufficiale in Bengala, per primo segnalò alla Corona britannica la pratica degli infanticidi femminili in India nel
1789. Era legata al costume della dote, all’idea di status e a determinate
caste, annotò il burocrate. A niente servì vietarla nel 1870. Era un fenomeno concentrato soprattutto nelle regioni del Nord: le più dedite all’agricoltura e in special modo a colture come riso e grano dove, quindi,
erano più richieste braccia forti. Ed erano anche quelle dove le norme
sull’eredità escludevano le donne. Inoltre, avere figli maschi elevava lo
status di una famiglia, avere delle figlie femmine lo affossava, anche per
via della dote. Usanza un tempo circoscritta ai membri delle caste alte e
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messa al bando – anche questa invano – nel 1961, la dote è andata diffondendosi vertiginosamente negli ultimi decenni a causa della cosiddetta «sanscritizzazione»: il processo che porta i poveri a tentare di innalzare la propria posizione sociale attraverso l’adozione di riti, usi e credenze delle caste alte. Non solo: la dote è andata anche ingrassando con l’arrivo del consumismo. In barba al minimalismo gandhiano, la crescente
ingordigia per la «roba» sta spingendo mariti e suoceri ad accampare
sempre più pretese. «Per le persone più umili è diventato il modo per accedere al consumo», spiega lo studioso Max-Jean Zins, «trasformando
così la donna in un oggetto mediante il quale accedere ad altri oggetti».
Più diffusa e più pasciuta, dunque, la dote è diventata «una pratica disumana che provoca la diffusione dei fetocidi femminili», come ha riconosciuto la Presidentessa Pratibha Patil. Per le donne una ghigliottina sociale che con l’introduzione di aborti ed ecografie ha affilato la sua lama.
Negli anni Novanta, quando era oramai chiaro che le gravidanze venivano interrotte non tanto per i motivi prescritti dalla legge, bensì per
avallare la preferenza della gente per i maschi, il Governo pensò di risolvere la tragedia con il Pndt Act, vietando le diagnosi sul sesso dei feti, eccetto che per fini diagnostici di tipo sanitario. Ma la società indiana è notoriamente restia all’imposizione di norme in materie di politiche familiari. Tanto che persino la leggendaria popolarità del premier
Indira Gandhi crollò nel 1977 anche a causa dell’autoritario programma sul controllo della natalità. E, anche per questo, l’India ha oggi un
tasso di natalità quasi doppio rispetto alla Cina. Per cui fatta, nel 1994,
la legge, trovati gli inganni. Basta scrivere il referto con la penna rossa
piuttosto che blu, a seconda che il paziente aspetti una bimba o un bimbo. O basta che il medico si congedi dalla coppia con consigli tipo «inizi a mettere da parte dei soldi» (per la dote di una femmina), oppure
«vada a comprare dei dolci» (per festeggiare l’avvento di un maschio).
Gli escamotage, insomma, abbondano. Col risultato che il sacrificio
delle bambine comincia a produrre effetti sulle tendenze di lungo termine: ridisegna la demografia e porta ad altre conseguenze disastrose,
come la tratta delle spose. Meno bimbe, infatti, significa meno mogli.
In termini assoluti in India oggi le donne sono circa 36 milioni in meno degli uomini. Uno iato che sfiora il 6 per cento a livello nazionale,
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ma che peggiora nelle regioni del Nord, più patriarcali e maschiliste,
dove capita che ci siano solo 80 bambine ogni 100 maschi. Così, dove
c’è penuria di consorti, come in Haryana e Punjab, i celibi finiscono
per procurarsene da Stati relativamente più virtuosi verso le donne, come il Kerala e l’Assam, ma non meno poveri al punto da rinunciare alla lucrosa prospettiva di vendere una figlia per sposa.
Il dolce è servito
In una delle tante cliniche disposte ad arricchirsi violando la legge,
Mitu ci finisce con l’inganno. Per via delle uova, maledette. Sanno tutti
che lei ne è allergica. E certo mai avrebbe pensato che persino suo cognato si sarebbe unito alla congiura di famiglia. Ma i Khurana coinvolgono anche lui. Oramai le pressioni per convincerla a sottoporsi a
un’amniocentesi non funzionano. Sono arrivati persino a razionarle il cibo. Invece di prender peso, durante i primi tre mesi di gravidanza è andata dimagrendo. Così, quando una sera le offrono una fetta di torta
portata dal cognato – «senza uova», garantiscono – la divora. Fa il bis.
E la mattina seguente viene portata in ospedale stremata da una nottata
di deliri, crampi e vomito. «Una svista del pasticciere», dirà poi Kamal.
Tutto questo almeno è quanto Mitu sostiene di fronte ai giudici e che
ripete anche ora, nel salotto della casa dei suoi genitori, tra il beige della tappezzeria vecchiotta, la Tv al plasma e una sua foto, una decina di
anni più giovane, raggiante nel giorno della sua laurea in pediatria.
«Ho frequentato l’Università di Pune», chiosa. «Mio padre, che non si
è mai pianto addosso per aver avuto due figlie femmine, mandò sia me
sia mia sorella a studiare fuori Delhi. Prima del mio matrimonio avevamo capito che la famiglia di Kamal era più tradizionale della nostra, ma
era pur sempre istruita: suo padre era il direttore di una scuola. Non
immaginavamo che sarebbero arrivati a tanto». Arrivare a chiederle di
abortire, per cominciare, «quantomeno uno dei due feti».
Ci si aspetterebbe, infatti, che la strage delle bambine indiane sia
perpetrata soprattutto tra povertà e ignoranza. Invece, il libro della sociologa tamil Gita Aravamudan Disappearing Daughters rivela che in al-
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cune aree dell’India settentrionale l’istruzione è tutt’altro che un antidoto: se i genitori hanno meno di sette anni di scolarizzazione, la quota di bambine ogni 1.000 bambini sale a 934, sopra la media nazionale; mentre, se entrambi hanno superato l’istruzione secondaria superiore, le bambine calano a 690. Per dirla spiccia, lo status è status, soprattutto per chi già ne ha uno socio-economicamente rispettabile.
Per Mitu la richiesta di abortire conferma i suoi sospetti: che quando era in ospedale, sedata con gli antistaminici, le hanno eseguito un
test prenatale che ha rivelato che in grembo portava due bimbe. «Se
prima di finire in ospedale», ragiona, «mi avevano fatto pressioni perché andassi a farmi l’esame, dopo il ricovero hanno cominciato a parlare solo di aborto». Ma i ricatti non funzionano, privarla dei pasti non
la fa vacillare. «Neanche per un attimo penso di cedere». Tanto meno
di fronte alla trama di assurdità tessute da sua suocera che tira in ballo
persino le stelle! «Inizia a pretendere un test del Dna, sostenendo che
Kamal non può essere il vero padre delle gemelle dal momento che il
suo astrologo aveva previsto che avrebbe avuto un figlio maschio».
«Mio marito intanto m’ignora», prosegue Mitu, «piuttosto che stare
con me preferisce trascorrere le serate navigando per siti porno. Un
giorno glielo faccio notare. Replica stizzito che non merito il suo tempo: non ascolto le sue ulteriori pretese sulla dote, non accetto di abortire. Una pessima moglie, insomma. E lui che fa? Mi spinge giù per le
scale. Al quarto mese di gravidanza».
Alzando i piccoli occhi che galleggiano sul suo viso pallido dietro un
paio di occhiali, sentenzia sommessamente: «È evidente che sperava di
provocarmi un aborto naturale».
Invece: oggi il salotto è tappezzato di ingrandimenti con i sorrisi
sdentati delle gemelle. In posa con la cugina; con la cartella il primo
giorno di scuola materna; travestite da regine. Guddu e Pari, le reginette di casa. Sono nate dopo che Mitu aveva trascorso il resto della gravidanza tra l’ospedale e la casa dei suoi genitori, venuti a prelevarla il
giorno dopo quella ruzzolata per le scale, sorpresi perché, non volendo preoccuparli, Mitu si era tenuta tutti quei tormenti per sé, inorriditi per averla trovata sciupata. «Fino a quel momento non avevo voluto
creargli preoccupazioni e dargli il dispiacere di sapere che il mio matri-
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monio era un disastro. Ma dopo quell’incidente, e l’emorragia che mi
causò, chiesi il loro aiuto perché iniziai davvero a temere per la mia incolumità e quella delle bambine».
«La gioia e l’amarezza più grandi» Mitu le provò insieme quando
nacquero Guddu e Pari. Una benedizione, almeno per lei, da tre chilogrammi in tutto. Fossero stati dei maschietti la famiglia di Kamal
avrebbe distribuito dolcetti tra i vicini di casa e pagato una banda musicale per celebrare, come si usa alla nascita della prole «giusta». Invece non solo per i Khurana non c’era nulla da festeggiare, ma quando si
presentarono per la prima volta in ospedale, «a ben nove giorni dal
parto», l’eloquenza dell’afflizione della nonna paterna non poté essere
più atroce: «Tanto, piccole come sono, moriranno».
E, delusi i suoi luttuosi auspici, Mitu sostiene che quando decise di andare ad abitare definitivamente dai suoi dopo un fallimentare tentativo di
tornare dal marito – «nella speranza che vedendo il sangue del suo sangue avrebbe provato un po’ di affetto per le sue figlie» – la madre di Kamal diede un calcio al seggiolino su cui c’era Guddu facendole fare un
volo di tre, quattro gradini. Un incidente, si difende oggi la signora. Intenzionale, controbatte Mitu, che da allora non ha messo più piede in
quella casa. Fatto sta che, come dimostra anche l’insensibilità siberiana
della suocera, così incancrenita nella mentalità indiana è la predilezione
per i figli maschi che le donne stesse, in quanto custodi del nido familiare, spesso la subiscono fino a farla propria. Da vittime diventano anch’esse carnefici. O, perlomeno, complici silenziose nel genocidio di bambine.
Rivoluzionaria solitaria
Checché ne dica la scienza della riproduzione sulla responsabilità
del cromosoma Y nel determinare il sesso di un feto, in India la «colpa» di mettere al mondo una bambina ricade sulla madre. Se non riesce a realizzare il suo obiettivo di moglie di partorire un maschio, viene trattata come una nullità. E tale finisce spesso per sentirsi. In pochissime alzano la voce, anche perché sanno che quello della ribellione
è un cammino solitario. Una rivoluzione senza un popolo.
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Mitu lo sa bene: ad oggi resta l’unica donna a Delhi ad aver chiesto
giustizia sotto il Pndt Act. E non perché nella capitale l’incidenza degli
aborti selettivi sia meno grave. Anzi, il censo della città dimostra che neanche la relativa agiatezza dei suoi cittadini rispetto al resto del Paese ne
fa un vaccino contro il fenomeno. Nel 2007 il rapporto tra le nascite di
femminucce e maschietti è di 847 a 1.000: assai peggiore della media nazionale. Nel 2009 le autorità locali hanno annunciato l’inversione di tendenza: 1.004 a 1.000. Un trionfo, hanno sostenuto, dovuto agli effetti
del Laadli, il programma per disincentivare gli aborti selettivi che prevede un bonus a favore delle neonate di 10mila rupie, circa 150 euro, al
momento della nascita, a cui poi se ne aggiungono altri man mano che
le fanciulle completano gli studi. Il capovolgimento del trend, però,
sembra assai repentino per essere attribuito all’iniziativa, lanciata a febbraio del 2008. Piuttosto, secondo il giudizio di attivisti ed esperti, le cifre sono solo il riflesso di una maggiore volontà di registrare le neonate
all’anagrafe per poter riscuotere i benefici economici elargiti.
La strage delle bambine continua, quindi, con agghiacciante impunità.
Nel 2007 un dottore di Gurgaon, la ricca città satellite di Nuova Delhi,
finì in manette dopo che nella sua clinica erano stati rinvenuti dei feti: lui,
poi, ammise di averne abortiti 250, per 15 euro a intervento. Ma è un caso raro, il suo arresto: i controlli alle infrazioni della legge sono scarsi, così come le denunce. E una delle ragioni sta anche nelle parole del comandante della Polizia a cui Mitu affidò la prima denuncia contro il marito e
i suoceri: «Lasci stare, signora Khurana, non riceverà mai giustizia».
Anche quando era finalmente riuscita a trovare delle prove alle sue
accuse – le carte del ricovero presso il Jaipur Golden Hospital e il referto dell’amniocentesi – la reazione delle autorità ha continuato ad essere letargica, paternalistica, maschilista. Hanno tentato di riconciliare
la coppia più che indagato a fondo. Solo quando lei ha minacciato di
rivolgersi ai media, si sono decise a organizzare un raid nell’ospedale
dove, però, sono stati trovati documenti in ordine e nessuna traccia di
test illegali. Infine Mitu si è sentita trattata come «una macchina da riproduzione sessuale», quando è stata convocata dal pubblico ufficiale
responsabile del rispetto della norma contro le scansioni prenatali. Che
con tono protettivo le consigliò: «Torni con suo marito e tenti di rima-
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nere incinta di un figlio maschio». Parafrasando, colui che era incaricato di sorvegliare sulla legge l’ha invitata a infrangerla!
«Ai loro occhi sono io la criminale, perché oso mettere in discussione lo status quo», dice Mitu offrendo la sua opinione sul perché dell’inerzia, se non connivenza, delle autorità. «Inoltre, quello dei test e
degli aborti selettivi per le cliniche è un business milionario, perpetrato dalla corruzione dei pubblici ufficiali che, con la loro indolenza, sperano di scoraggiare altre donne a cercare giustizia». Un giudizio disincantato che ha del vero. E che trova riscontro anche nelle parole di una
mite docente universitaria, attivista nel tempo libero, che ha aiutato
Mitu a denunciare la sua storia ai media.
«Mitu non viene vista come una vittima ma come una sopravvissuta», aveva spiegato Bijayalaxmi Nanda prima che incontrassi la mamma delle gemelle. Ricevendomi nel suo studiolo di casa, tra decine di
tomi e rapporti sul sex-selective abortion, la professoressa aveva detto:
«Il suo caso è arrivato anche al Ministero della Salute, ma le istituzioni
continuano ad essere indifferenti. Poiché alla fine le sue figlie sono nate, non la giudicano una vittima. Anzi, sollevando domande su consuetudini radicate e sull’atteggiamento condiscendente delle stesse autorità, viene vista come una minaccia. In più, in India si tende a dare poco
valore a una denuncia depositata da una donna. Ecco perché, anche se
l’eco ricevuto sulla stampa non permetterà ai giudici di archiviare il caso, Mitu ha poche possibilità di ottenere davvero giustizia».
Mitu però non si dà per vinta. Neanche adesso che, con un colpo di
scena in stile Kramer contro Kramer, Kamal ha chiesto la custodia delle figlie che non aveva mai voluto. Una forma di ricatto affinché la moglie abbandoni la causa contro la sua famiglia, probabilmente. Con certezza non lo sapremo, perché alle richieste di conoscere la sua versione
della guerra dei Khurana, Kamal non ha mai risposto.
«Almeno per una cosa gli sono grata», aggiunge Mitu con un guizzo
d’ironia in volto al rientro dall’asilo delle bambine che, coi codini strizzati in dei fiocchi e i sorrisi meno sdentati che in foto, abbracciano la
mamma e sfoggiano l’album di disegni da colorare di Tom&Jerry comprato dalla nonna. «Prima di sposarlo ero una persona piuttosto debole e remissiva: Kamal ha creato le circostanze che mi hanno reso così
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tenace». E che in parte l’avranno resa anche la donna che è, ruvida come pomice, ossessionata dalle presunte minacce del marito al punto di
sentirsi spesso pedinata come un dissidente russo, sorridente senza allegria. «Ma prima di tutto», conclude con sana retorica, «sono stati la
maternità e il sostegno dei miei genitori a darmi la forza per combattere questa lotta». Una battaglia che se Mitu riuscisse a vincere incoraggerebbe altre donne a chiedere giustizia e a far sì che un giorno – di
certo ancora lontano – anche l’India diventi finalmente un Paese per
bimbe.