CAPITOLO I - WritingsHome

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“Le persone passano la loro intera esistenza compiendo viaggi alla spasmodica ricerca di una fetta di felicità, dimenticando di cimentarsi nel viaggio più meraviglioso che siano mai stati chiamati a compiere su questa terra”. (CAPITOLO I)
“S
hhh. Il momento è solenne!” Il tintinnio delle posate sui piatti era l’unico
suono che sopravviveva al dominante silenzio di un pomeriggio d’estate
in campagna. Una ragnatela, tesa come un’amaca, sventolava al flebile e
vezzoso soffio della tepida brezza estiva. Una mosca, insetto tanto lesto
quanto importuno, perse la sua tracotanza appiccicandosi di colpo su quell’arguto gioiello
d’architettura naturale. Un ragno si avvicinava calumandosi, lento e flemmatico, da un filo
di ragnatela; come se fosse stato certo dell’impossibile fuga di quel luculliano pasto.
Due paia d’occhi incuriositi assistevano a quel macabro spettacolo.
<<Ma che fai? Adesso pure dei ragni che mangiano mosche ti metti a
“filosofeggiare”?>> chiese Santino sbuffando.
<<E a te pare poco? Perché, credi che mangiare non sia importante? Siamo talmente
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presi da tanti argomenti futili che dimentichiamo il valore delle azioni essenziali.
Mangiare, bere, dormire e persino andare al cesso, ci permettono di tenere in vita il
corpo e la mente, altrimenti nemmeno potremmo intossicarci per mille altre
cretinate.>>
Rispose Biagio, mentre il ragno si rimpinzava ingordamente lo stomaco.
Quella scena era più che mai naturale: la mosca si divincolava come poteva, ma in cuor suo,
accettava quella fine orrenda come qualcosa di normale e previsto, quasi legittimo per il suo
predatore.
Santino, dopo aver addentato voracemente una frittella ai fiori di zucca appena sfornata,
chiese a quel suo bizzarro compagno:
<<Ah sì! Di un po’, tu che sei tanto illuminato, a che servirebbe nutrire il corpo se
non hai altro?>>
<<Il corpo è solo un mezzo che ci consente di nutrire l’anima, permettendole di
raggiungere il suo scopo nella vita!>> rispose con un accenno di superbia subito
arrestato da un sorso d’acqua fresca attinto dalla fontana del paese.
Ogni volta che Biagio sorseggiava quell’acqua fresca e tersa, sembrava che si purificasse
dalla marea di pensieri assillanti che lo invadevano.
Due amici, uno diverso dall’altro, anzi, l’uno l’antitesi dell’altro. Per tale motivo, venivano
sovente scambiati per fratelli ma, come i poli inversi di una calamita, erano da anni divenuti
inseparabili.
Biagio era l’unigenito figlio del maresciallo dei carabinieri che dirigeva la stazione in paese.
Pensieroso e riflessivo, spesso amava isolarsi da tutti per meditare su ogni cosa, soprattutto
su di se. Non era certo un filosofo, o un grande pensatore, ma semplicemente “uno che
pensava troppo” come lo accusavano i tanti paesani pinzocheri.
Santino, spesso chiamato scherzosamente “Santo”, era molto più conforme ai costumi di
quel vecchio paesino situato, da tempi remoti, nel mezzo di una catena di monti torreggianti.
Spesso era affettuosamente accusato da Biagio di essere troppo “gretto e facilone” anche se,
non di rado, faticava a nascondere l’invidia nei suoi confronti, dovuta alla sfacciata
agevolezza nel “rimorchiare” ragazze e ampliare le proprie conoscenze.
Come due turisti in giro per il Machu Picchu, montarono in sella alle loro bici da montagna
e si avventarono decisi contro una salita ripida che portava nella zona alta del paese. Biagio
si divertiva a chiamarla “Acropoli“ ma nessuno lo comprendeva, per questo e molti altri
motivi, si sentiva spesso solo e incompreso in quel romito comune di periferia, come se
parlasse un’altra lingua o provenisse da un altro pianeta con lingue e culture diverse.
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La calura regalata da quel dieci di luglio, ma soprattutto dovuta alla svigorente pedalata,
inondò di sudore i volti dei due giovani facendoli brillare ai torridi raggi di sole delle tre del
pomeriggio.
Le campane risuonavano “a morto”, come consuetudine di quell’orario quieto e silente,
mentre i due “fratellastri” si distendevano su di un piccolo fazzoletto di prato, protetti
generosamente dall’ombra di un pino. Biagio si sfilò vigorosamente la maglietta madida di
sudore come se avesse goduto di un fisico erculeo.
<<Sembriamo o no due gladiatori? Guarda il sudore che risalta la definizione
muscolare!>> domandò mentre gonfiava goffamente i suoi muscoli scarni e snelli.
<<Ma smettila, che non c’è bisogno neanche che ti fai le lastre!>> rispose Santino
sorridendo alla vista di quell’esile corpo.
Biagio si sdraiò al suo fianco e attaccò con una delle sue “perle di cultura”:
<<Ma lo sapevi che luglio e agosto sono chiamati così per onorare Giulio Cesare e
Ottaviano Augusto?>>
<<Sai dove lo trascorrerei agosto?>> rispose sardonico, Santo, suscitando la curiosità
dell’amico.
Nell’attesa che sopraggiungesse il sonno, scandito da qualche sporadico sbadiglio, i due
proponevano viaggi e avventure dando via libera alla fantasia. Biagio, armato della sua
fervida immaginazione, riproponeva quei “sogni” con dovizia di particolari stimolando le
risa del compagno divertito da quegli aneddoti tanto realistici.
Per Biagio, immaginare era come assistere ad un film. Tutto prendeva forma davanti ai suoi
occhi, comprese emozioni e sensazioni, vivendole in quel preciso istante, come un bambino
che gioca con la fantasia. Ebbene, sin dalla tenera età, era quello l’ingrediente segreto dei
suoi giochi, senza il quale nessuno di essi avrebbe potuto prendere vita. Immancabilmente,
l’endemico appuntamento con la realtà, si palesava davanti a quegli stessi occhi che gli
avevano offerto spettacoli mozzafiato, magnifiche avventure e, perché no, anche storie
d’amore. Come ammaliato da un vizio che ti permette di godere per poi lasciarti al tuo
dolore. Nemmeno il dolce fruscio delle fronde e le rincuoranti carezze del vento potevano
sedare le sue afflizioni.
Quel paesino tanto accogliente quanto “stretto” sia per Biagio che per Santino, anche se per
motivi diversi, doveva essere lasciato alle loro spalle con la stessa veemenza in cui un
equipaggio di marinai abbandona una nave in procinto di affondare in acque gelide e
abissali.
Biagio e Santo sapevano, nel profondo, che il destino li aveva uniti per uno scopo ben
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preciso e, per tale motivo, di lì a poco il loro legame si sarebbe maggiormente acuito.
Due persone distinte, con idee ed ambizioni divergenti, si ritroveranno più che mai unite per
raggiungere fini discordi e disparati.
(CAPITOLO II)
Le serrande delle botteghe sbadigliavano una dietro l’altra, la vita in paese si rianimava
senza fretta alcuna. Con ritmi pacati, artigiani e lavoranti, riprendevano le rispettive attività
carichi di energia e di pazienza.
Biagio si strofinava gli occhi e, nella stessa misura in cui le attività riprendevano in paese,
così i suoi pensieri si rimettevano in moto. Alienati e senza indugi, riempivano la mente del
giovane “pensatore incompreso” esprimendosi attraverso una sbuffata che era ormai
divenuta un habitué.
Tra i suoi angustianti problemi, quello dell’insonnia lo attanagliava più tra tutti. Certo, come
si fa a non dormire?! “Sono diciannove anni che non dormo!” pensava.
Le zoccolate di un somarello impresse all’asfalto, siglavano l’inizio della giornata come un
arbitro usa fare fischiando ad un incontro sportivo. La sola vista di quel “tenero e forte”
animale da fatica, rallegrò Biagio intenerendone il viso spesso imbronciato per via degli
incessanti pensieri. Amava gli asinelli e ne esaltava le qualità paragonandoli implicitamente
ad animali feroci e di rispetto. Per tale motivo veniva spesso dileggiato da amici e paesani
che non comprendevano il valore delle sue erudite considerazioni.
“Me ne vado di qui! Da qualche parte, nel mondo, ci sarà qualcuno con cui saprò
condividere me stesso e le mie idee”.
Come una sorta di mantra, ripeteva quella frase ogni qualvolta veniva ferito dall’aridità di
qualcuno. Non gli importava di avere ragione sulle sue “massime”, ma non tollerava
l’isolamento delle sue idee che, come tali, hanno bisogno di essere esposte e confutate così
come le persone stesse che le partoriscono. “Magari incontrassi qualcuno che mi mandasse
affanculo per un valido motivo!”
Il buio della cucina “resettò” quelle idee cariche d’idealismi riportando la mente del giovane
alle solite faccende quotidiane, tanto per cominciare: la colazione.
Le credenze e il frigorifero erano deserti o, meglio, ospitavano qualche cipolla e diversi
pacchi di pasta. Alimenti non certo adatti a preparare una colazione corroborante.
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<<Papà ma sti sorci quand’è che li cacciamo. Questi la notte razziano tutto!>>
<< Sì… sì, vedi di farci l’abitudine che là dove andrai certi lussi te li scordi!>>
avvisò Gerardo frattanto che si abbottonava fugacemente la giacca della divisa, poi
aggiunse avviandosi all’uscio della porta <<Pane duro e olio di gomito…!>>
<<Ma dov’è che vai così di corsa che pari un bersagliere?>> domandò ironico
Biagio.
<<Il sindaco m’aspetta, c’è da organizzare la festa del santo patrono entro il trentuno
del mese prossimo. E poi che bersagliere, non vedi la fiamma?>> chiese affannato
per quell’insolita fretta.
<<Capirai: fiamme, pennacchi, piume, per me siete tutti uguali…>> rispose beffardo
sottovoce .
Vestito di abiti comodi e con i capelli arruffati, di uno che ha l’abitudine di pettinarsi
facendosi esplodere petardi sul capo, scese per la breve scalinata che lo immergeva, come
un trampolino sull’orlo di una piscina, nella via principale del paese.
Scaltro e audace, non si perdeva mai d’animo ideando espedienti bizzarri ma spesso efficaci.
Il suono del silenzio era scandito dallo scalpito di un trattore proveniente dai campi lontani,
nella fascia inferiore del paese. Il sole diffondeva dai suoi raggi purpurei appena svegli, una
piacevolissima sensazione sulla pelle. Un “sole pallido”, quello di primo mattino che pochi
hanno la fortuna o la sagacia di conoscere. L’aria linda e pura, generosamente offerta
dall’abbondante vegetazione circostante, era scevra del risibile smog che raggiungeva il suo
punto di massimo, solo ad ora di pranzo con il transito di quattro o cinque automobili che
tagliavano le strade del paese per raggiungere quello limitrofo.
Un pollaio situato sotto una rustica casetta, sembrava essere il bersaglio di Biagio che, alla
sua vista, di colpo rallentò il passo. Svelto, superò una rete di cinta sgattaiolando alle spalle
del pollaio per imbucarsi, rannicchiato come un gattino, attraverso una tenue fessura.
Ad accoglierlo, il fastidioso chiocciare delle decine di galline ruspanti. Emulando lo stesso
gesto con il quale un abile giocoliere riesce a svellere una tovaglia da un tavolo
apparecchiato senza rovesciarne posate e bicchieri, Biagio, sfilò un uovo dal cestello sul
quale se ne stava adagiata comodamente una gallina, ignara di quanto fosse accaduto.
Una volta fuori, strada facendo, allungò disinvolto il braccio destro per raccogliere una
patata bollita da una coltre di altre patate. Quella disposizione “piramidale” gli ricordava,
umoristicamente, la scena di una vecchia pubblicità di cioccolatini che saltavano fuori dal
cruscotto meccanico di una limousine; ma quelli non erano cioccolatini e lui non era una
nobildonna presa da “un leggero languore”. Si trattava della “colazione” dei porci della
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signora Adelaide.
Proseguendo giù per le contrade, sempre più impervie e selvagge, un tappeto di terra secca
suggeriva la direzione verso una stalla lurida e con le travi di legno lordate da sterco e altro
sudiciume di natura escrementizia.
Dentro alloggiavano due corpulente bufale che salutarono Biagio muggendo sonoramente.
Senza indugi, il giovane “pensatore compulsivo”, come ironicamente amava definirsi,
scivolò sotto uno dei due giganti “a pois” immaginandosi di essere un meccanico che tenta
di riparare un’automobile. Strizzò le mammelle della mucca con garbo e delicatezza per non
infastidire quel mastodontico animale. Il latte caldo e cremoso inondava copiosamente la
sua bocca affamata come quella di un neonato a digiuno dalla sua poppata.
Inaspettatamente, il fogliame nei dintorni scricchiolò sotto la pressione dei piedi di
qualcuno: “Mastro Giulio!” esclamò allarmato Biagio, che guizzò felino sul soppalco della
piccola stalla. Mastro Giulio aprì appena la porta e un’esile lama di luce vi penetrò con
effetto laser, scandendo i granelli di polvere che svolazzavano nell’aria mefitica. Dopo una
fugace occhiata intorno, fece uscire le bufale per il pascolo e richiuse accuratamente la
porta. Biagio poté tirare un agognato sospiro di sollievo, ma solo in senso figurato; l’aria era
irrespirabile!
Mentre si allontanava dalle campagne, sorseggiava l’uovo fresco preso al “supermercato”
della signora Adelaide. Dietro il dosso di una ripida salita, comparve il “bar dello sport”
(altro non era che il circolo ricreativo del paese, noioso e desolato); l’Hard Rock cafè di
Montelepre!
<<¡Hola Ugo! Una cerveza por favor!>> esclamò con voce squillante destando il
sonno di un contadino che a quell’ora aveva già finito di lavorare.
<<Eh, che dici?>>
<<Niente scherzavo, ti pare che mi pianto una birra sullo stomaco alle nove del
mattino?!>>
(CAPITOLO III)
Ogni anno, la ricorrenza delle festività di Santo Strato, il santo patrono di Montelepre, è
attesa con ansia soprattutto dalle autorità politiche che ne sfruttano la devozione degli
abitanti, in particolare degli anziani, caldamente legati alle vecchie tradizioni.
Biagio paragonava questi espedienti propagandistici ai giochi gladiatori che avevano luogo
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nell’antica Roma. Anche lì, i tribuni, facevano incetta di voti e approvazioni per scalare la
vetta della carriera politica; quasi tutti i più illustri personaggi erano stati organizzatori dei
“giochi” come pure Giulio Cesare.
Anche per tale motivo “Giagio”, chiamato così dalla sorellina di Santino, aveva smesso di
seguire le partite di calcio in quanto trovava lo stesso stadio molto simile agli anfiteatri
romani. Anche lì i posti più ambiti (tribune) erano riservati a personalità di autorevole
rilevanza come potenti e magnati, mentre quelli più scomodi erano lasciati alla plebaglia
(curve).
<<Ti stai rincoglionendo, ma che ti frega?! Guarda la partita e basta!>> suggerì
vivamente Santino a Biagio che se ne stava seduto da solo fuori dal “biliardo” con un
quotidiano stretto tra le mani.
<<Chissà se capisce quello che legge? Ma che giornale è?>> si chiedeva Narciso,
osservando la testata d’ispirazione politica.
<<Non è cambiata una mazza! Anche nell’antica Roma lo sport, se così si possono
chiamare quei massacri, erano orchestrati per accaparrare consensi dal popolo.>>
Alla vista degli sguardi perplessi dei compagni, Biagio, fece spallucce e si reimmerse in
quell’ostica lettura decisamente molto poco in voga tra i suoi coetanei.
La quiete, anzi, la tediosa uggia del momento, fu spezzata dal suono reboante di grossi
motori in avvicinamento. Il fragore fu tale da destare anche i “clienti” più apatici come
“Barbetta”, l’ubriacone del paese; un ex musicista e cantante lirico che portava, su una
vecchia giacca ammuffita, i segni di un successo ormai decaduto da decenni.
Tutti accorsero fuori dal piccolo locale carichi di curiosità, tranne Biagio che si contenne
proseguendo nella sua “finta” lettura.
“Sono forestieri!” “Mai visti prima.” “Qualcuno lì conosce?” Queste le frasi, riportate come
un codice ripetuto a memoria ogni qualvolta che uno sconosciuto arrivava in paese.
Tre Gold Wing, motociclette americane da mezza tonnellata cadauna, munite di radio e
“addobbate” come alberi di Natale. Era come vedere un’astronave spaziale aliena atterrare,
con tanto di luci abbacinanti, nel mezzo della strada di una grande metropoli.
Cinque individui, vestiti in modo anomalo con giubbotti smanicati in pelle, occhialoni da
sole, stivali di serpente e spesse catene che dondolavano su petti nudi e pelosi, scesero dalle
moto e si sgranchirono le ossa in modo poco raffinato grattandosi con insistenza le terga.
L’assordante musica rock, riprodotta dallo stereo di una delle moto, tacque lasciando spazio
alle voci dei telecronisti sportivi ascoltati in religioso silenzio fino a qualche istante prima di
quell’insolito evento.
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Tre degli “stranieri” si avvicinarono, impettiti e con passo baldanzoso, verso il circolo
pullulante di occhi curiosi. Il più grasso e puzzolente dei tre, chiese con marcato accento
ligure, chi fosse il titolare.
<<UGO… ti cercano i marziani!>> avvertì Narciso schernendo gli ospiti.
L’energumeno di adipe maleodorante, si carezzò la folta barba mentre uno degli altri due
motociclisti si sedette di traverso sulla moto infilandosi le dita nel naso dilatandone le narici.
Ugo uscì frettolosamente asciugandosi le mani con uno straccio umido, fissò l’uomo
barbuto e chiese urbanamente cosa gli occorresse.
<<Cinque birrone gelate, dobbiamo subito rimetterci in marcia.>> dopo una rapida
occhiata indagatrice riprese <<C’è una stazione di servizio qui intorno? Siamo a
secco.>>
<<La più vicina è a San Bruzzano, due comuni più avanti.>>
Mentre i due dialogavano, uno degli avventurieri continuava a ravanare con l’indice nel
naso dilatandone le forge in cerca di “omini verdastri” da appiccicare con soddisfazione sul
parafango del “bestione a due ruote”.
<<Quanti chilometri?>> domandò lo “straniero” mentre sorseggiava avidamente la
birra ricoperta di condensa.
<<Mah? Saranno tre o quattro.>>
Santino chiese cortesemente da dove provenissero e i viandanti si abbandonarono ad una
leggera risata gonfia di superbia.
<<Da Sestri Levante, vicino Chiavari!>> rispose compiacendosi di se stesso.
<<Dove?>> rimandò Santo.
<<Liguria!>> intervenne Biagio rompendo la sua finta indifferenza.
<<Sei bravo in geografia eh figgeu?!>>
Biagio si alzò dalla sedia in plastica rossa, una di quelle tipiche seggiole dei baretti, e
intanto che ripiegava il quotidiano che stava fingendo di leggere, si avvicinò all’omone
barbuto che, dopo aver diligentemente “rovistato” con il mignolo nell’orecchio destro, gli
pose la sua manona callosa dalle nocche spellate.
<<Biagio!>> si presentò ricevendo una vigorosa stretta di mano.
<<Salvo!>> rispose il motociclista mentre gli stritolava metacarpo e falangi.
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Dopo aver recuperato la mano da quella morsa umana, domandò candidamente dove fossero
diretti con quelle bellissime moto.
<<Eh, bellissime ma luride di fango. Se le vedessi pulite e lucenti, allora sì!>>
<<Beh, le moto vivono in strada, quindi un po’ sporche devono essere, è la loro
natura.>> osservò Biagio aggrottando la fronte.
Salvo annuì sorridendo come se condividesse quell’acuta osservazione.
<<Sai, il nostro Biagio è “il Socrate” del paese. Ci fa due coglioni così e poi…>>
scherzò aspramente Narciso.
<<Non li stare a sentire questi, sono poveri di spirito, neanche lo sanno chi era
Socrate.>>
<<L’attaccante della Roma negli anni ’80!>> suggerì Santino facendo ridere tutti a
crepa pelle per poi schiacciare il palmo della sua mano contro quello di Narciso,
improvvisando un sonoro “cinque”.
<<Visto che gente?!>> fece notare Biagio al motociclista che approvò con un riso
velato da tristezza.
Salvo, dopo aver consumato la sua birra insieme alla banda, propose a Biagio di
accompagnarli a fare benzina poiché non erano pratici del posto. Giagio accettò montando
dietro uno dei tre “giganti della strada”. Alla vista di quell’evento inaspettato, gli amici del
bar impallidirono.
<<Ma dove cazzo va???>> si domandò Santo.
<<Adesso che lo vede il padre, senti la musica.>> ipotizzò Ugo mentre asciugava
un bicchiere.
<<Ugone, ma è vero che te a vent’anni avevi lo scalpo come quelli e facevi la vita
spericolata sulle moto?>> chiese sarcastico Santino, provocando l’ira di Ugo che
cacciò tutti via dal locale, i giovani clienti, infatti, finirono per allontanarsi
sghignazzando e stridendo come pipistrelli.
Al ritorno dalla stazione di servizio, il presagio di Ugo si manifestò puntuale.
Il papà lo attese sull’attenti davanti al caffè da cui erano partiti. Alla sua vista, il volto di
Biagio si colorò di bianco, come un cielo coperto da nuvolaglie primaverili.
<<Il caramba è tuo amico?>> chiese uno dei motociclisti.
<<Intimo!>> rispose Biagio, con voce tremolante come il lumicino di un cero da
cimitero.
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Gerardo, il padre, non proferì parola. Tutti pensavano che l’avrebbe redarguito per quell’atto
d’incoscienza ma lui si limitò a fissarlo con sguardo inquisitorio come sovente faceva con i
criminali o, se vogliamo, con i “rubagalline” del paese.
In quell’occhiata c’era tutto un discorso con tanto di punti, virgole e schiaffi.
Un “cazziatone” virtuale. Tra loro funzionava così. Bastava uno sguardo per dirsi tante cose,
si capivano telepaticamente; “wireless”, come sosteneva qualcuno che li conosceva.
Immediatamente, terminato il tacito rimbrotto, Biagio rientrò nei ranghi del gruppetto di
amici che sostava sulla piazzetta di fronte al circolo ricreativo, pronto ad essere travolto da
domande.
<<Vado con loro!>> improvvisò con un colpo di scena.
Tutti l’osservarono attoniti rispondendo, negativamente, senza parole. Poi, dopo una
sincrona scrutata negli occhi l’un l’altro, cominciarono a ridere. La risata contagiosa
persuase anche Biagio che spezzò il momento esilarante asserendo che “diceva sul serio”.
<<Ti sei rincretinito davvero? Se ti sente tuo padre t’ammazza!>>
<<Sì, con la telecinesi!>> intervenne Narciso ridendo da solo per quella ridicola
battuta.
<<Vanno in Calabria. Ripartono stasera, lascio un messaggio a mio padre e scappo.
A settembre, quando ritorno, riparto per il militare.>>
Sembrava convinto di quanto affermava, ma sotto sotto era dispiaciuto di lasciare solo
Santino in quell’uggioso paesino di periferia. La sera prima della “fuga”, i due si misero a
chiacchierare distesi sul muretto contiguo alla chiesa.
Discettavano su tutto con toni falsamente accordanti; risultava fin troppo chiaro che
entrambi giravano alla larga dell’argomento interessato.
Animoso, Santo, ruppe la mendace conversazione:
<<Se domani non parti con loro, ti prometto che lo facciamo insieme un viaggio con i
controcazzi!>> propose ostinato.
<<Ah sì, e dove?>>
<<Dov’è che volevi sempre andare tu?>>
<<Dai!!! Esagerato, se non mi presento in caserma a Bolzano, per l’arruolamento di
leva, m’arrestano, lo sai?
Santino, si fece più serio rassicurandolo che sarebbero tornati in tempo e che aveva già
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calcolato tutto; ovviamente mentiva pur di cimentarsi in un’avventura nella quale avrebbero
potuto insieme esaudire i propri desideri.
<<Non lo so, ci devo riflettere. Così almeno per stanotte mi ritrovo con qualcosa da
fare!>>
(CAPITOLO IV)
Il canto del gallo avvertiva, come la vedetta di un veliero dall’albero di prua, il sole che si
avvicinava arrampicandosi dietro le montagne ad est.
Le moto dei forestieri, erano posteggiate nella piazza e disposte in modo da disegnare un
cerchio con al centro un secchio pieno d’acqua, come un calderone nel mezzo di una
tregenda di streghe. I cinque avventurieri motorizzati avevano pernottato accampati con
delle tende da campo su, nella pineta.
Era l’alba e Santino, in trepida attesa, assisteva alla scena scorgendo dagli intagli della
persiana come un arciere dietro una feritoia.
Dopo un attimo di assopimento dal sonno, i suoi occhi si riaprirono e videro l’ombra di
Biagio camminare con passo marziale, verso la banda di motociclisti impegnati a
scialacquare i bolidi e a prepararsi per la partenza.
Dopo una laconica discussione accompagnata da qualche gesto di evidente negazione, le
braccia di Biagio si levarono al cielo per salutare l’intera comitiva. Santino guizzò in piedi
come un cavallo rampante e si precipitò in strada per raggiungere il suo amico non curante
di essere in mutande e ciabatte.
Alla sua inaspettata presenza, Giagio impallidì e domandò, scevro di entusiasmo:
<<Ma tu che ci fai sveglio a quest’ora?>>
I due si abbracciarono esultando come due tifosi allo stadio dopo un goal decisivo, uno di
quelli che possono cambiare le sorti di un intero match.
Dopo poche ore, l’orologio del campanile batté dodici rintocchi, e i due compagni
suggellarono la loro connivenza con un brindisi bevendo un bicchiere di Taurasi “rosso
come il sangue dei gladiatori” come regolarmente riproponeva Biagio, inducendo la
disapprovazione di Santo che provava disgusto per quella lugubre analogia.
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L’accordo era stato finalmente ratificato ma era tempo di passare all’azione e ordire un
piano sicuro per eludere il dissenso delle famiglie e “decollare” da quel monotono e angusto
paese di periferia.
Nel primo pomeriggio, coccolati dall’aria leggera e rinfrancati dalla freschezza del marmo
degli scalini della chiesa sul quale erano distesi ad acquietarsi, i giovani “prigionieri”
proponevano l’un l’altro possibili vie di fuga e altrettante probabili mete da raggiungere.
Ponderate e avvedute quelle di Biagio, stravaganti e superficiali quelle suggerite da Santino.
Biagio freddò il compagno:
<<Lasciamo perdere!>>
<<Cosa? Proprio adesso?!>>
<<Non mi riferivo al viaggio. Senza organizzare nulla, partiamo all’avventura.>>
Quell’idea fu talmente avventata che persino a Santo sembrò improponibile. Solo il legame
di affetto e fiducia che univa i due inseparabili amici, riuscì ad avallare quel temerario
cammino che si erano preposti di seguire. Più che un semplice viaggio era una ricerca
inconscia ma questo, loro, non lo avevano ancora realizzato e per il momento, forse, era
meglio così.
La notte prima dell’evasione, Biagio andò a salutare Bucefalo, che non era un cavallo come
quello di Alessandro Magno, ma l’asino di Don Saverio, un contadino che lavorava in una
terra non molto distante da casa sua.
Quasi tutte le notti, anche quelle più rigide d’inverno, Biagio andava a fargli visita
parlandogli dolcemente come si usa fare ad una persona cara e affezionata. Dava sfogo alle
sue considerazioni personali su svariati argomenti e spesse volte anche sulla sua vita privata:
cosa avrebbe potuto fare in passato e cosa gli riservasse il futuro sempre più torvo e incerto.
In altre parole, si sentiva solo, ma non solo nel senso più frivolo del termine. Solo, come se
parlasse un’altra lingua e provenisse da un altro pianeta con culture e colori diversi. Era quel
mondo che cercava, cimentandosi in quel viaggio ormai prossimo. Dialogare e
comprendersi, guardarsi dentro; si sarebbe finalmente sentito a casa. Non importa essere
d’accordo sugli argomenti, anche una sana discetta sarebbe stata ben accolta. In fondo,
anche quello è un modo per venire ad un contatto, un punto d’incontro.
Quasi con le lacrime agli occhi, come se stesse salutando un vecchio amico con cui aver
confutato su mille idee e dissertato su centinaia di temi. Era l’unico sollievo, anzi, l’unico
“sonnifero”, per placare la sua insonnia; non soltanto quella che gli impediva di dormire.
Una tenera carezza scivolò lungo quel muso lungo infastidito da insetti maleducati. Un
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docile raglio fu la risposta del vecchio e stanco somarello. La guancia di Biagio sfiorò le
lunghe e buffe orecchie di Bucefalo (nome che gli aveva dato lui,Don Saverio lo chiamava
con un frustino). Neanche t’immagini quanto sei forte, se solo te ne rendessi conto ti
liberesti da questa prigione!” pensava.
Si voltò allontanandosi con incedere malinconico e affondando i piedi nel terreno arido.
Nella sua mente, riemerse uno dei suoi primi ricordi d’infanzia: era in una selva,
probabilmente in compagnia della sua famiglia. Un asinello smunto e lordato di fanghiglia,
lo fissava incalzante come se avesse intenzione di domandargli “Cos’hai da guardare?”
Dietro quell’animale fiacco e fragile, quasi insignificante, spuntò un enorme carro
tracimante di frutta e pesantissimi attrezzi da lavoro usati in campagna.
Biagio rimase sbigottito da quella visione. Sembrava incredibile che quel somaro sarebbe
stato capace di spostare, anche solo di un centimetro, quel mastodontico rimorchio. Era un
asino, non un elefante.
Allo schiocco della frusta, un ruggito ruppe il silenzio e gelò il sangue del piccolo Biagio,
che avrà avuto solo qualche anno di età e ciò rendeva quella scena ancor più sbalorditiva.
La bestia arrancò con tutte le sue forze e, sotto gli occhi esterrefatti di Giagio, mosse
quell’inamovibile zavorra ringhiando ad ogni falcata mentre il carro acquistava sempre più
velocità. Era un prodigio. Da quel momento, Biagio si convinse che quello era l’animale più
forte del mondo.
Nonostante la nebulosità del pensiero, tutte le emozioni vissute da bambino per quel
fenomenale spettacolo, si riproposero nello stesso modo quella sera. Era come se Biagio
stesse ricaricandosi dell’energia e del sostegno necessari per vivere quella nuova e ignota
esperienza, che forse, stava per cambiargli la vita.
Le luci soffici dell’alba non tardarono a colorare il cielo sopra Montelepre.
<<Nessuna notte è così lunga da impedire al sole di risorgere.>>
<<Che?!>> rugliò Santo mentre contava una risibile mazzetta di banconote.
<<Mishima… niente, un giapponese…>>
Erano le cinque del mattino, armati di zaini e vestiti con abiti comodi, i due ragazzi si
allontanarono dal paese per raggiungere, dopo qualche chilometro, il paese limitrofo dal
quale partiva la corriera che li avrebbe portati in città. Da qui, un treno, li attendeva per
condurli chissà dove.
Il piccolo pullman si riempiva ad ogni fermata. Le persone salivano affannate e
apparentemente irrequiete cambiando poi il proprio stato d’animo non appena si
accomodavano sui sedili. Molti contemplavano il paesaggio all’esterno, di colpo, il
finestrino si trasformava in un televisore senza audio e con un solo canale.
Biagio rifletteva su quest’osservazione, per consuetudine o per vizio. Relazionò quanto gli
si pareva dinanzi in quell’istante, al febbricitante zapping dei telespettatori della TV che
spesso non si accontentano di nessuno di quei numerosi canali con tanto di audio.
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“Perché invece quando ci si siede in autobus, oppure in treno, tutti fanno a gara ad
accaparrarsi il “posto vicino al finestrino? Se tutti sono stufi di tutti quei canali di svariato
interesse, com’è possibile che si acquietino guardando fuori da un semplice e monotono
finestrino?”
La domanda di Biagio stava per aprire un nuovo “dibattito mentale”, per non usare termini
salaci, ma tutto il processo di elucubrazione si arrestò quando, voltandosi meccanicamente,
vide Santino alle prese con un altro dilemma: la scomodità del poggiatesta inadatto ad una
decente dormita.
Il russare di Santo, fu interrotto dal suono metallico e squillante della voce dell’autista che
avvertiva i passeggeri dell’ultima fermata. L’aria inquinata e pesante della città, alla quale i
due ragazzi di campagna non erano certamente abituati, destò dal sonno Santo e Giagio che
avevano dormito entrambe ma in modi assolutamente diversi.
Il passo successivo consisteva nel trovare la stazione della ferrovia quindi, Biagio, dopo
aver chiesto ad un tassista l’informazione necessaria, scrollò Santino liberandolo dagli
ultimi fondigli di sonno. La stazione era a pochi passi dal capolinea degli autobus per cui fu
raggiunta rapidamente nonostante il passo fiacco dei due avventurieri.
Gli echi rimbalzavano tra le ampie pareti e il torreggiante tetto della galleria, l’odore
gommoso dei freni e il cigolio delle rotaie sui binari, acuì i sensi dei due ragazzi.
<<Dov’è che andiamo adesso?>> domandò assonnato Santino.
<<Una destinazione vale l’altra.>> appena dopo la risposta di Biagio, una voce
metallica annunciò “un diretto in partenza sul binario cinque per Trieste”.
I due si fissarono in uno sguardo d’intesa e si prepararono a raggiungere il treno che avrebbe
dato il via alla loro fuga. Senza biglietti e documenti, la loro avventura poteva trasformarsi
in dramma; il rischio aizzava l’eccitazione e spronava l’animo avventuriero e ribelle di quei
due giovanissimi uomini.
(CAPITOLO V)
L’allarme del capostazione siglò l’inizio dell’avventura. Le porte si chiusero scatenando un
breve reflusso d’ansia nei due giovani che mai avrebbero immaginato le loro fantasticherie
da bar dello sport, realizzarsi inverosimilmente.
Il treno sferragliava disinibito, mentre le rotaie mangiavano i binari di quella strada percorsa
chissà quante altre volte. Biagio pensava quanto fosse curioso il fatto che il personale di
viaggio: controllori, macchinisti ecc. si trovasse, per lavoro, in città diverse quasi ogni
giorno. Quest’idea lo intrigava, ma la risposta di Santino fu per lui sconfortante:
<<Già. Che cazzo di mestiere strano!>>
Sudati e seduti sulle borse, restavano allerta per il controllo dei biglietti che non avevano.
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Due ragazze, bionde e slanciate da sembrare due modelle saltate fuori da un qualche
settimanale di moda, entrarono nella cabina contigua al finestrino dove erano seduti Santo e
Giagio.
Parlottavano ridendo in una lingua sconosciuta, forse erano dell’est. Santino, per ammirarle,
si voltò compiendo un perfetto giro a 360° come un compasso su un foglio da disegno.
Biagio fece finta di nulla e, per enfatizzare la sua indifferenza, rivolse fortuitamente lo
sguardo su un signore ben vestito, con un borsello a tracolla, uno strano arnese per obliterare
biglietti…
<<OH! IL CONTROLLORE!!!>> abbaiò Biagio rompendo l’incantesimo che
imprigionava Santino.
I due, con un balzo felino, si rimisero in piedi e turbinarono verso la coda del treno, dove si
sarebbero certamente imbattuti in un altro controllore. Infatti, pronti dall’altra parte del
corridoio, ben due funzionari delle ferrovie gli si muovevano contro.
<<Bella idea della minchia!>> esclamò Santino trafelato.
Biagio non perse la calma ed escogitò un elementare stratagemma: il bagno. Un classico. Se
non fosse stato per la fila chilometrica in sosta davanti alla porta della toilette, il piano
sarebbe potuto andare.
<<È questo lo sportello delle raccomandate?!>> domandò Santino con tono serio
alla folla fiumana, in attesa che un grosso panzone con la diarrea uscisse dal bagno
ormai infestato d’aria asfissiante.
I due avventurieri, o meglio “sventurieri”, scivolarono davanti alla fila simulando una
copiosa epitassi. Un fazzoletto impresso sul volto di Biagio, coprì la falsa emorragia e
risparmiò a Biagio il traumatizzante impatto con quella che ormai era diventata una camera
a gas.
I due amici si contorcevano per il “fetor fetente” che sembrava assumere maggior impeto a
causa della totale mancanza d’aria fresca; c’era solo una minuscola finestrella in alto ma,
sfortunatamente, era bloccata.
I due giovani viaggiatori si unirono in uno squallido abbraccio di consolazione facendo
trapelare qualche accenno di riso dai volti coperti da carta igienica.
Il grido di Biagio fece tremare la ceramica del gabinetto:
<<NON HA TIRATO LO SCIACQUONE!!!>>
<<AAAAAH!>> berciò Santino alla vista di quell’ammasso di letame che avrebbe
trasecolato anche il più mirabile stallone da corsa.
Sbatterono la porta urlando a squarciagola “BOMBA BOMBA!”. La fila in attesa davanti
alla porta del bagno, si smembrò come le perle di una collana spezzata.
Qualcuno tirò la leva d’emergenza facendo arrestare repentinamente il treno impegnato in
una corsa sostenuta.
Il panico serpeggiò tra i passeggeri che furono, in larga parte, scaraventati bruscamente in
terra. L’arrivo tempestivo del personale delle ferrovie sedò lo sgomento, ma il treno rimase
fermo fino all’arrivo della polizia ferroviaria che avrebbe dovuto valutare la situazione e
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autorizzare l’eventuale ripresa della corsa. Il treno fu sgombrato. La calca di persone
colorava lo spazio di terra grigia attiguo ai binari. Controllori, macchinisti e viaggiatori di
buona volontà prestarono primo soccorso ai passeggeri feriti. A parte una coppia di ragazzi
che aveva riportato qualche contusione superficiale, le altre persone a bordo ne uscirono
illese.
I minuti passavano e il nervosismo cresceva in Santino e Biagio, preoccupati che qualche
testimone balzasse fuori ad incolparli per quel involontario “procurato allarme”.
Quatti quatti, si defilarono guardinghi tra gli alberi e lasciandosi cadere oltre un muro di
cinta. Il suono dei pneumatici volventi sull’asfalto a cadenza regolare, riproponevano lo
stesso suono delle onde del mare.
Era un’autostrada. I veicoli sfrecciavano ad elevata velocità; era impensabile percorrerla a
piedi poiché sarebbero stati prontamente segnalati e fermati da una pattuglia della stradale.
Marciarono come instancabili guerriglieri lungo il percorso alberato ai margini della
carreggiata per giungere, dopo ore di cammino, ad una stazione di servizio.
Si precipitarono di sotto atterrando delicatamente come libellule sul tetto del bagno
dell’autogrill. Per fortuna, nessuno li vide prodigarsi in quel performante salto atletico.
Intravedendo la tazza del water nascosta nell’ombra dall’insopportabile calura, Biagio
suggerì:
<<Nemmeno Bucefalo avrebbe potuto competere con una simile giogaia di m…>>
< E chi sarebbe Bucefalo… ah, l’asino di Saverio. Non si chiama così, gliel’hai dato
te quel nome.>> precisò Santo
<<Come si chiama si chiama, sempre cagate titaniche fa!>>
Risero di gusto per quella battuta di spirito, ma Santino invitò il suo amico di non ritornare
sul disgustoso argomento. Dopo aver abilmente rubacchiato qualche panino pronto al
reparto gastronomico dell’autogrill, si sedettero su una panchina immersa nel verde alle
spalle del piccolo parcheggio dei TIR, per ristorare gli stomaci e i corpi svigoriti dalla
durevole “passeggiata”. Santino disapprovò le ruberie di pocanzi domandandosi per quale
ragione avevano portato con sé i soldi se non ne stessero usando; Biagio rispose che serviva
a rendere il viaggio più appassionante.
Il profumo dell’erba riportava temporaneamente a casa le menti della coppia di avventurieri,
che cominciarono a fantasticare le infinite possibili reazioni di familiari e conoscenti.
Il cinguettio delle cince, si fondeva con il vigoroso rumore degli scarichi di quei bestioni
della strada, i TIR.
<<Cos’hai scritto nella lettera?>> chiese curioso Santo.
<<Che ci siamo rotti i coglioni di passare le giornate in quel paese monotono, che
siamo giovani in cerca di nuovi stimoli. La vita è breve e chi vuol esser lieto sia del
doman non v’è certezza!>> rispose Biagio, vago e sbrigativo, mentre mordicchiava
un ago di pino secco.
<<Bella! Del doman non v’è certezza. È tua?>>
<<No, è di uno che conosco… Lorenzo.>>
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<<Jovanotti?>>
<<Sì vabbè, buonanotte.>> concluse spocchioso.
Dormirono ninnati dal vociare confuso dei camionisti, spesso stranieri. Al loro risveglio un
solo camion, bianco e con dei cerchioni scintillanti piantati alle ruote motrici, li attendeva
fissandoli con i suoi grossi fari. I due giovanissimi viandanti si guardarono ostinatamente
negli occhi, come in attesa di una parola di condivisione.
Da dietro quello smisurato mezzo di trasporto, sgusciò un’ombra fine e minuta. Questa si
avvicinò, con passo lungo e felpato quasi a misurare ogni singola falcata, ai piedi dei ragazzi
senza proferire sillaba.
Pervasi dallo stupore, chiesero corali:
<<Desidera?>>
<<Cazzo ci fate stesi lì? Barbun!>> abbaiò in dialetto milanese.
<<Eravamo in gita scolastica ma il pullman è ripartito…>> spiegò Biagio, colpito
da un estemporaneo lampo di genio, poi Santo finì:
<<E noi ce la siamo presa nel culo!>>
Il camionista si massaggiò il mento e dopo una caduca pausa di riflessione ipotizzò:
<<Magari vi serve un passaggio fino a casa?>>
I giovani annuirono titubando e il milanese si presentò:
<<Io sono Ivano e vengo da Milano!>>
<<E io sono Santino e vengo da… Avellino!>>
<<Prendi per il culo? Mica è uno scioglilingua, davvero sono di Milano. Voi dov’è
che siete diretti?>>
<<Genova.>> rispose squillante Biagio.
<<Io devo scaricare a Ventimiglia, se volete uno strappo… Ma v’avverto, nel
camion: non si fuma, non si parla, non si canta…>>
<<E non si sale…>> completò Santino.
<<Esatto bagai, se non vi pulite quelle zampacce sporche di terra, non sarete
ammessi a bordo, te capì?>>
(CAPITOLO VI)
I tre giovani salirono sul TIR, Biagio si sistemò al centro e Santo di fianco al finestrino.
Ivano chiese ai ragazzi i loro nomi e gli strinse la mano, quindi, Santino sparò una delle sue
futili domande:
<<Ivano, ti posso chiamare Ivan?>>
<<No. Mi chiamo Ivano, quindi mi chiamerai Ivano. Se io ti chiamassi che so…
Santo, ti piacerebbe?>> rispose provocando le risa dei due compagni.
Il camion si tuffò, dalla rampa della corsia di accelerazione, nel flusso del traffico
dell’autostrada come un luccio rigettato in un fiume. Un cartello segnalava l’uscita
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“Grosseto ovest”; erano in Toscana. Mentre il ”bestione” a dieci ruote giganteggiava nel
traffico sempre più denso, Ivan interrogò:
<<Fatemi un po’ l’accento ligure…>>
A quel punto critico, ammirato dallo stupore di Santino, Biagio si dilettò ad imitare alla
perfezione il dialetto genovese parlando della spedizione dei Mille e delle repubbliche
Marinare.
<<Bah che roba! Spiccicato a Pietro!>>
<<Chi è Pietro?>> domandò santino.
<<Pietro Pastorino, un collega genovese.>>
Dopo qualche centinaio di chilometri percorsi in compagnia dell’assordante musica
dell’autoradio, il TIR sostò in una minuscola stazione di servizio all’altezza di La Spezia.
Biagio scese dal camion come se si trovasse in auto, spiaccicandosi in terra da oltre un
metro d’altezza.
I suoi timpani si beavano del gratificante silenzio ritmato dal canto degli uccelli. Nella
tavola calda, all’interno dell’autogrill, Ivano salutò altri camionisti che mangiavano e
chiacchieravano su qualcosa riguardante un incidente stradale. I loro volti si facevano
meccanicamente tristi nel pronunciare quelle parole ma l’ingresso di Giagio e Santo spezzò
la seriorità. Il barista chiese a Ivano chi fossero “quei due” e lui li presentò agli amici
raccontando del loro incontro e della loro meta.
Biagio confidò a Santino il suo sollievo nel costatare che nessuno dei colleghi di Ivano fosse
ligure, altrimenti la parte del finto genovese sarebbe stata quasi certamente smascherata.
La sigla del telegiornale regionale eresse un imperante silenzio nel locale. La voce di una
telegiornalista scandiva, con dovizia di particolari, l’accaduto poc’anzi discusso.
<<Questa mattina, la tratta A12 per Genova, è stata teatro di un cruento incidente
stradale che ha visto coinvolti un TIR e quattro automobili. Il bilancio è di una
vittima e cinque feriti tra cui un bambino di appena due anni. La polizia stradale ha
provveduto alla chiusura provvisoria, fino a tarda notte, del tratto autostradale per le
operazioni di rito.>>
<<Stasera ci tocca dormire nel camion. A proposito, da quant’è che non mangiate
voi?>>
Ivano era un tipo apparentemente scontroso e malaccetto ma sotto sotto, dietro quel
tegumento da classico duro, conservava un cuore benevolo e amorevole; come tutti i duri,
del resto!
La cena, un panino con hamburger e una sommessa fettina di scamorza, fu gentilmente
offerta da Ivano, il cui comportamento continuava ad aizzare la curiosità di Biagio.
Il nostro “pletorico pensatore” notava che qualcosa dentro di lui lo ingannava. Osservando
Ivano, all’inizio del viaggio, provava scetticismo e antipatia verso quell’essere burbero
etichettandolo in modi ben definiti. La sua ipertrofica immaginazione aveva già creato un
personaggio con una precisa storia alle spalle e una visione della società tutt’altro che
altruistica, perciò si accorse che la sua mente lo gabbava di continuo, poiché stava
scoprendo una persona risolutamente diversa da come lui l’aveva bollata.
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In fondo, erano solo pensieri! Forse cominciava a farsi avanti in lui qualcosa di più
profondo che andava decisamente al di là dei pensieri e della mente stessa. “Risolvere i
problemi senza pensare”; era ancora troppo lontano dalla meta e il viaggio era appena
cominciato.
Quella notte, Ivano, si distese su di una brandina accuratamente preparata in caso di una
simile evenienza. In fondo, quel bestione a dieci ruote era la sua seconda casa, semmai ne
avesse avuta un’altra.
Giagio e Santo, asfissiati dal caldo, per passare la notte si raggomitolarono sul prato della
stazione di servizio alle spalle del camion. Tutti russavano e godevano di un sonno lenitivo.
Biagio restò sveglio ad osservare il manto di stelle che ornavano il cielo come gioielli
preziosi e sfavillanti.
Un fiotto d’acqua, gelida come il fondoschiena di un cadavere, destò dal sonno i due
ragazzi. Su di loro, Ivano teneva nella mano destra una bottiglietta d’acqua mentre li fissava.
<<Sveglia! C’è da lavurà, möves!>>
Alcuni contenitori di pasta si erano mossi durante il viaggio e urgeva rimetterli a posto.
Biagio ebbe un’idea proprio durante lo “sgobbo”: la ditta per cui trasportava Ivano, riforniva
di pasta e altri generi alimentari numerosi ristoranti italiani in America centrale. I voli erano
privati e quindi i controlli più facilmente eludibili. La proposta di Biagio era lapalissiana.
<<Ti vorresti imbarcare su un aereo rinchiuso in uno di questi cosi? E come faremo
a tornare indietro? Come mangeremo una volta arrivati lì? E se dovessero
scoprirci?>>
Il tono di Santino era tanto segnato dal timore quanto dall’eccitazione. Pedissequamente,
cedette alle intenzioni del suo “complice” finendo per accettare.
Intanto che Ivano faceva colazione al bar con i colleghi camionisti prima di ripartire, Biagio
e Santo lasciarono un biglietto nella cabina di guida del camion nel quale comunicavano che
erano riusciti a trovare una coppia di ragazzi genovesi diretti a Genova. Non avevano tempo
per salutarsi poiché i due giovani genovesi erano in ritardo e avevano premura di ripartire.
Raccolsero poche cose per mangiare e bere, la pasta cruda non era il massimo. Si nascosero
dentro uno dei contenitori di legno, simili a piccoli containers, abbastanza grandi da
accogliere entrambi.
<<Andemm sbarbati!>> richiamò Ivano, uscendo dall’autogrill.
Dopo una rapida occhiata intorno al camion, si rimise alla guida farfugliando parole
incomprensibili in dialetto stretto.
Il TIR si rimise in moto facendo tremare i contenitori nel rimorchio. Biagio e Santino si
reggevano alle pareti del container che li ospitava, scivolando di continuo come se si
trovassero su una pista di pattinaggio sul ghiaccio. Il calore aumentava vertiginosamente col
passare dei chilometri, il sudore copioso divenne condensa sui loro corpi mentre l’aria
cominciava, appena dopo quindici minuti, a scarseggiare. Santino tirò fuori un coltellino
tascabile e aprì un foro di piccolo calibro nell’angolo più vulnerabile del contenitore; la
temperatura asfissiante di luglio pareva moltiplicarsi in quell’involucro di legno.
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Il forno nel quale si erano rinchiusi, mise alla prova la loro tenacia. Avrebbero potuto
abbandonare la folle idea di quell’avventura in qualsiasi momento, nessuno glielo impediva.
A pensarci bene, si trattava di una vera pazzia ma erano attratti, nel profondo dei sensi, da
qualcosa di ammaliante che li spingeva a proseguire oltre vincendo paure e indecisioni,
risvegliando in loro tutte le capacità assopite dalle noiose e sterili giornate in paese.
Il tremore dell’enorme veicolo si smorzò dopo una breve sosta: erano arrivati a
destinazione?!
Dopo una manciata di minuti passati in silenzio assoluto, si udì il cigolio del portellone
aprirsi accompagnato dal rumore di un muletto.
Santino, Biagio e i pacchi di pasta furono sollevati chissà per quanti metri d’altezza per poi
essere trasportati all’esterno. L’aria fresca penetrò lentamente nel container passando da
alcuni intagli, ma il tripudio durò solo per poco.
<<Dove cazzo siamo capitati adesso?>> si domando nervoso Santino.
Il rombo frastornante rispose macabramente alla sua domanda.
<<AEREO!!!>> urlò.
<<E certo! Che ci volevi arrivà col camion in America!>> sminuì Biagio.
(CAPITOLO VII)
<<Uno… due… tre. BOOM!>> un calcio ben assestato all’involucro di legno, aprì
una via d’uscita.
Fu come aprire una scatoletta di carne in scatola imbottita di abbondante gelatina. Dopo
qualche bestemmia, fecero il punto della situazione: dov’erano diretti? Guatemala, Messico,
Belize, Nicaragua, Panama… e quante ore di viaggio avrebbero dovuto sostenere? Otto,
dieci, dodici?
<<Capirai, morire di fame con tutta sta pasta a disposizione. È il colmo!>> osservò
Santino.
<<L’importante è che abbiamo da bere, ma che c’inventeremo quando verranno ad
aprirci? Che siamo due cannelloni ripieni?!>>
La stiva dell’aereo cargo non era pressurizzata e la temperatura cominciò a scendere
vertiginosamente e, insieme ad essa, anche il morale dei due ragazzi, irritati dallo sbalzo
termico. Rindossarono le t-shirt stringendosi nelle braccia, successivamente, pensarono bene
di ritornare nel container che li aveva “partoriti” beneficiando del poco calore rimasto
all’interno.
Di nuovo, la loro forza di volontà, fu saggiata da un’entità sconosciuta che li seguiva nel
viaggio. Almeno questa era la supposizione di Biagio che fu mandato a qual paese da un
Santino infreddolito e affamato, con il moccio penzolante come le stalattiti nelle grotte del
Nuovo Messico.
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Dopo chissà quante ore, lo stesso rumore meccanico che accompagnò l’inizio di quella
tragica esperienza, destò dal sonno i due giovani e con essi il loro entusiasmo assopito.
Rintanarono nella cassa che, essendo visibilmente danneggiata, richiamò l’attenzione di due
magazzinieri addetti allo scarico merci.
<<Hey, ¿Qué estás haciendo aquí?>> intimò l’operaio con determinazione.
Biagio propose, con un semplice sguardo rivolto verso Santino, di filare a rotta di collo
senza tentare inutilmente di trovare spiegazioni, perdendo l’unica possibilità di prendere il
volo.
<<CONTRABANDISTA!!!>> allertò l’operaio.
Corsero valicando temerariamente oltre ogni soglia di resistenza cardiaca mentre l’acido
lattico inondò i muscoli delle gambe recando un fastidioso bruciore.
Una volta fermi, si ritrovarono nella piccola cittadina di Tepic, guarnita di minute palazzine
“disegnate” su stradine poco trafficate e negozietti, per lo più macellerie, sgombri di clienti;
una versione americanizzata di Montelepre.
<<Ok, ma dove minchia è Tepic?>>
<<Conosciamo il nome del luogo dove ci troviamo ma non sappiamo a quale
nazione appartenga!>>
<<Questa frase di chi è?>>
<< Mia. Vuol dire che siamo in una marmellata di me…>>
I due avventurieri si misero alla ricerca di un indizio che gli consentisse di reperire
informazioni sul luogo dove si trovavano.
<<Te parli spagnolo, no?>>
<<Un po’. Non vorrai che fermo qualcuno e gli chiedo: “Scusi buon uomo, ci siamo
persi, sa mica in quale nazione ci troviamo, por favor?!”>> riferì sbuffando
<<Piuttosto cerca una macchina.>>
<<Per fare che?>>
<<La targa, ci dev’essere scritto qualcosa.>>
“MEX 1658KPB”. Erano finiti in Messico! Sprovvisti di passaporti e soldi, senza conoscere
esattamente la loro posizione. Il sangue freddo prevalse sul panico, la ragione ebbe quindi
modo di sopravvivere alle brame di quel momento critico.
Una pattuglia della polizia svoltò da una curva per arrestare la sua corsa a pochi metri da
loro. Sospettosi, i due poliziotti a bordo della gazzella fecero segno di fermarsi. Uno dei due
agenti, il capopattuglia, smontò dalla vettura e, con la mano pronta sul calcio della pistola
infilata nella fondina, si mosse verso di loro con passo sagace. Due massicci baffoni neri ne
eclissavano il volto dal colore olivastro.
Come in una scena da film western, trepidazione e suspense crescevano di pari passo con
l’accorciarsi della distanza che si frammetteva tra loro.
<<¿Contrabandistas? Policía de Tepic! No te muevas, quédate quieto.>> ordinò il
poliziotto.
<<Ti sei riposato abbastanza?>> chiese Biagio rivolgendosi a Santino.
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Di nuovo, scapparono vorticosamente verso mete sconosciute, come del resto avevano
cominciato a fare partendo da Montelepre qualche giorno prima.
Il poliziotto appiedato li rincorse portandosi dietro, anzi davanti, un’ingombrante zavorra:
un pancione gravido di birra e nachos. L’altro collega fu costretto a fermare la gazzella ai
piedi di una scalinata dove Giagio e Santo si arrampicarono per seminare i loro burleschi
inseguitori.
Un pullman colorato come un frutto esotico e senza porte, passò sulla strada adiacente. I
ragazzi ne approfittarono tuffandosi dentro in modo a dir poco fantoziano, rischiando di far
venire giù almeno la metà dei passeggeri a bordo.
<<¿Turistas?>> domandò un vecchio messicano seduto con un sigaro di cinquanta
centimetri incuneato tra le dita.
<<No, stronzis!>> rispose Santino boccheggiando per l’affanno.
Ripreso fiato, Biagio osservò:
<<Che strano! Ci pensi che fino a poche ore fa eravamo in uno sperduto paese di
periferia e adesso ci troviamo in Messico?>>
<<Bella stronzata, speriamo di riuscire almeno a mangiare qualcosa, ho un quasar
nello stomaco!>>
Alla quarta fermata del autobus, Biagio ebbe un sussulto. Prese l’amico brutalmente e lo
spinse fuori senza riferire ragioni. “Punta de Mita”, segnalava il cartello alla fermata.
Un mare ceruleo e una vista mozzafiato accolse i giovani viaggiatori. Santino, stupefatto,
interrogò l’amico chiedendogli come faceva a sapere dove si sarebbero dovuti fermare,
scontrandosi con una risposta poco esaustiva: “Non ne ho idea!”
Un peschereccio era in procinto di lasciare il piccolo porticciolo per raggiungere il largo,
Biagio si avvicinò ai due pescatori, entrambe sulla sessantina, parlando di qualcosa senza
confrontarsi prima col suo compagno di viaggio.
<<Cosa vi siete detti?>> curiosò Santino.
<<Loro vanno all’Isla Magdalena, sento che dovremmo seguirli.>>
<<Adesso mi fai paura con questo sesto senso! Vabbè, speriamo bene.>> accettò
Santino, manifestando una magra fiducia.
Mentre la gracile imbarcazione scivolava sull’acqua tersa e trasparente, Biagio elucubrava
assiduamente nel vano tentativo di trovare una risposta a quelle inspiegabili intuizioni che
continuavano a tempestarlo. Santino fantasticava le innumerevoli meraviglie che avrebbe
trovato su quell’isola: due giovani e avvenenti isolane lo avrebbero accolto con una collana
di fiori e tante altre attenzioni. Come sempre, la distanza intellettuale tra i due amici, si
confermava siderale.
La quiete dovuta all’isolamento della piccola barca da pesca nel mezzo del mare, si
riversava in loro pacificandone le menti arroventate da pensieri di preoccupazione. Ora,
anche Santino cominciava a fare conoscenza con il suo “lato pensante”.
Una scaglia di terra si disegnava all’orizzonte, quasi come se stesse riemergendo dalle acque
salate del mare. Biagio gridò sottovoce “terra!”, narrando la storia di Colombo e il modo
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fortuito in cui scoprì l’America sbarcando a San Salvador, credendo che si trattasse di un
altro paese: l’Asia. La loro storia era simile: anche per loro quell’isola, avvolta da una rada e
misteriosa foschia, era sconosciuta e non immaginavano minimamente cosa vi celasse.
Una coppia di fradici copertoni attutì l’urto dell’attracco mentre un uomo molto anziano,
con il palmo delle mani ricoperte da rigidi calli, li aiutò a scendere su quel frammento di
terra ferma. Biagio tentò, con il suo esiguo spagnolo, d’informarsi su dove avrebbero potuto
mangiare qualcosa, magari in cambio di qualche lavoretto, dato che i pochi soldi che
avevano a disposizione erano lire e non pesos.
<<¿Usted no es turistas?>>
<<No, somos… avventureros!>>
<<Para mí, estás locos!>> fu la risposata del vecchio pescatore.
<<Che t’ha detto?>>
<<Che siamo due matti!>>
Uno dei due pescatori che li aveva traghettati sull’isola, li indirizzò ad una tavola calda che
distava a circa mezzo miglio dalla baia. Santino chiese a quanto equivalesse un miglio in
metri e Biagio rispose che era meglio non lo sapesse.
La dritta del pescatore fu precisa, purtroppo. Dopo circa ottocento metri di cammino, una
sorta di baita fece capolino da uno spesso viluppo di alberi. Una volta dentro, si accorsero
che si trattava di una versione esotica, stavolta del baretto di Ugo. Si sedettero, esausti, ad
uno dei tre tavolini che arredavano il locale, ipnotizzati da un opulento profumo di fagioli
che aleggiava insistentemente sotto i loro nasi.
L’ambiente era buio e la fioca luce filtrava dagli stretti intagli della finestra per posarsi,
come raggi di sole, su un essere molto simile ad una donna.
I morbidi capelli di mogano si adagiavano stanchi e appesantiti su due piccole spalle per poi
ricadere su fianchi armoniosi e delicati come neve d’autunno. Due nocciole supplivano gli
occhi ed entrambe accompagnavano un nasino dolcemente pronunciato. Le orecchie si
nascondevano, timide, dietro quel groviglio d’erba profumata che erano i suoi capelli.
I seni sbirciavano appena da una garbata scollatura, mentre le gambe sfilavano
sincronicamente, una di fianco all’altra, come due delfini danzanti in mare.
Le ciglia sventolavano come farfalle sui prati e due petali di rosa fungevano da labbra.
Le esili ma forti braccia, erano flesse per sorreggere due piatti colmi di burritos caldi.
<<Bona!>> fu l’esclamazione diretta di Santino che provocò una smorfia di
disgusto nell’amico.
<<Che c’è, non ti piace?>> aggiunse.
<<Sh! Bona, non è il termine giusto!>> rispose estasiato, con la stessa espressione
del volto di un Buddha.
(CAPITOLO VIII)
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<<¿Qué ordenade?>> chiese, diverse volte, la bellissima cameriera, nel tentativo di
risvegliare dall’ipnosi i due ragazzi.
Biagio provò a spiegare la loro situazione delucidandola sui particolari sottolineando che
erano amici di Pedro, il pescatore che gli aveva consigliato di recarsi in quel locale. Lei lo
ascoltava con distacco guardando altrove, poi si divincolò dalle parole di Biagio per
rimettere in piedi un ubriacone barcollante su uno sgabello, vicino al bancone del bar.
Ritornò al loro tavolo per stabilire le condizioni del soggiorno: avrebbero lavorato in quello
stesso fine settimana facendo pulizie e lavando piatti, in cambio avrebbero avuto diritto a
qualche pesos e ad un letto per in resto della settimana. Al “Babel”, si lavorava quasi
esclusivamente nei week-end, inondato fino all’alba da turisti di nazioni ed etnie diverse.
Intanto, un piccolo anticipo fu servito a Biagio e Santino: due tegami contenenti
un’abbondante porzione fumante di carne e chili, una birra avrebbe smorzato le fiamme nei
loro esofagi abbrustoliti.
Il tempo scorreva fluido e le sei del pomeriggio non tardarono ad arrivare. La coppia di
“sventurieri”, fu istruita sulle disposizioni necessarie circa il da farsi: pulire cucina, bagni,
friggitrici, pavimenti. “In fondo siamo o no degli sventurieri?” commentò Biagio.
Quel sabato fu il più faticoso della loro vita. Avendo vissuto in un paesino, non erano
abituati a quei ritmi concitati all’interno dei quali Carmen, la giovane cameriera, si
barcamenava funambolicamente lasciando di sasso i due giovane “addetti alle pulizie”, ma
non solo per le particolari doti lavorative.
Santino, di tanto in tanto, accorciava le distanze con la bellissima cameriera nel tentativo di
vincere l’usbergo di ghiaccio che l’avvolgeva; Biagio, patologicamente timido, si limitava a
guardarla e a sognare, ma la sostanza della quale sono fatti i sogni non restituisce le stesse
emozioni di quanto possa fare la realtà. Sono emozioni finte che, prima o poi, si ritorcono
contro.
Un candido sole si stiracchiò con i suoi raggi nel cielo limpido e, come la campana di fine
turno di un cantiere, annunciava il termine della giornata, anzi, della nottata di lavoro.
Il gruppetto del personale di servizio del Babel, si riunì nel retro del localino. Due uomini,
Paco, lo zio di Carmen e Álvaro, uno straordinario cuoco che aveva vissuto per tanti anni
negli Stati Uniti. Dopo essersi separato dalla moglie, un’assicuratrice di Huston, decise di
ritornare a Tepic e di ritirarsi su quella stupenda isola rilassante e pacificatrice di anime
inquiete, come quella di Giagio.
I cinque chiacchierarono per una decina di minuti sorseggiando ”agua de horchata”, una
bevanda risanante fatta con il riso. Tutti si alzarono dalle scricchiolanti seggiole del
retrobottega per andare a riposare, tutti tranne Carmen e Biagio.
Era l’occasione giusta per parlarle, per ascoltare la sua incantevole voce e ubriacarsene
dolcemente. Lei si carezzava le braccia con un cenno di riso tenendo gli occhi bassi quasi da
sembrar chiusi. Il cuore tachicardico di Biagio tambureggiava come quello di una sediziosa
tribù indiana, forse voleva dirgli qualcosa ma Biagio non lo ascoltava, era troppo impegnato
a perdersi nello sguardo di Carmen, ma soprattutto, nei sui modi gentili e delicati.
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Avrebbe preferito fare a botte con un camionista ucraino ubriaco dal peso di mezza
tonnellata, piuttosto che sussurrare dolci parole ad una bella ragazza come Carmen.
Alla fine cedette, i sentimenti prevalsero sui pensieri. Cominciò ad intavolare argomenti
futili, come le condizioni climatiche o la stanchezza dovuta al duro lavoro. Mentre parlava il
suo cuore riprendeva fiato calandosi in una lenitiva brachicardia, regolarizzando il battito.
Carmen l’osservava con interesse facendolo sentire importante come la luna in un cielo
stellato; lui l’ascoltava come un fiore che ascolta il primo sole della primavera. Per la prima
volta, nella sua vita, si sentiva solare come i colori di una farfalla dipinta da un arcobaleno.
Si fissavano, coccolati dal silenzio; per Biagio, mai fu tanto lungo e benevolo un silenzio.
Carmen rise. Un suono che i timpani di quel giovane ragazzo di campagna non avevano mai
assaporato. Incantevole, sonoro. Forza e tenerezza si univano in un intenso e passionale
abbraccio, le sue labbra si schiusero come un ciclamino lasciando ammirare denti
bianchissimi come nuvole d’agosto. Il tripudio durò pochi secondi, bruscamente interrotto
da una malinconica frase di Biagio. Il volto di Carmen si fece cupo e serio, come se il
giorno radioso avesse accolto in se il fascino della notte. In quell’eclissi, Biagio provò gioia
e dolore; un altro dualismo rifletteva in lui. Come avrebbe potuto lei innamorarsi di lui?
Adesso, gli occhi di Carmen lo fustigavano ogni istante; quel tripudio mutò in angoscia.
Potevano solo parlare, ridere, condividere le loro idee; ad uno come lui non era concesso
altro. Intanto quello sguardo serio e acuto lo perseguitò nelle ore avvenire.
Per lui, quella giovane donna, era bella come Antinea. Forse era solo un sogno, le sue
sensazioni divennero oniriche. Oppure, era per lui davvero tanto bella quanto dannata.
Stremato, come se avesse preso parte ad una prostrante maratona composta da atleti
esclusivamente di colore, si accasciò in terra non appena Carmen lo salutò affettuosamente
per andare a dormire nella sua camera.
Biagio rimase sveglio ancora per un po’ ad ammirare le prime luci dell’alba, pensando a
quanto Montelepre, nello spazio e nella mente, fosse lontana da quelle fragranti distese di
erba lucente al ridosso di collinette che sovrastavano, tronfie ed impettite, le trasparenti
acque dell’Oceano.
Il flebile canto degli uccelli accompagnò Biagio a coricarsi. Si tuffò su quello scomodo
giaciglio come se fosse stato il letto del Grand Hotel. Il tratto lombare gli doleva
rilasciandogli, nel contempo, una forte sensazione analgesica che lo fece scivolare in un
sonno profondo. Forse, quella sgropponata di lavoro, era l’unico modo per combattere la sua
irriducibile insonnia.
<<¡Despierta dormilones!>> richiamò la soave voce di Carmen da dietro la porta.
Biagio si risvegliò con un atipico sorriso, come se avesse dormito tra sette guanciali invece
che su di un letto di paglia e tra settantasette piattole.
<<Queste le diamo ad Álvaro, bravo com’è riuscirebbe a cucinare pure queste!>>
suggerì Biagio sollevandone una dal pavimento ai piedi del letto.
<<Capirai, tanto con quello che magnano sti turisti, ma hai visto che schifezze ieri
sera?>>
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Entrambi scesero in cucina e ad attenderli trovarono lo zio Paco che affilava una coppia di
coltelli apparentemente ben affilati, trasmettendo un alone di terrore nei volti assonnati e
stropicciati dai cuscini dei due inseparabili avventurieri.
<<¡Tranquillo, no quiero matarve!>> sorrise Paco, captando il loro timore.
Dopo aver consumato una frugale colazione con qualche piccola tortillas, si organizzarono
per fare un’escursione fino alla spiaggia e per assaggiare il profumo della salsedine
rinfrescandosi in quelle chiare acque messicane. La strada in andata era in discesa, quindi,
si mossero celermente improvvisando una gara fino all’arenile, ma la corsa di Santino fu
bruscamente arrestata come se un’ancora invisibile fosse stata lanciata alle sue spalle,
bloccandone la spedita andatura.
<<SANTODIO!!!>> urlò tenendosi la bocca con una mano.
Biagio lo raggiunse e, senza fare domande, guardò nella stessa direzione dell’amico: delle
papere galleggiavano sull’acqua calma e senza increspature di un piccolissimo laghetto.
Come il tonfo di un’eruzione vulcanica, il corpo di Carmen riemerse da quella tavola
d’acqua dolce facendo impietrire Giagio e Santo come due statue di sale. La luce del sole
penetrava tra i rami degli alberi intorno, riflettendo sulla sua pelle bagnata. Carmen si
raccolse i capelli strizzandoli delicatamente per adagiarli sulla spalla destra, lasciando
ammirare il colorito scuro della morbida pelle sul dorso.
<<Andiamo via, adesso!>> ordinò Biagio strattonando Santino che non pareva
essere d’accordo con quella proposta. La rivalità cominciava a crescere
marcatamente tra i due compagni di viaggio.
La spiaggia era spoglia di ombrelloni e scevra di schiamazzi come la musica delle radio o i
berci richiami dei venditori ambulanti. Un’oasi di tranquillità che accoglieva solo qualche
turista, perlopiù tedeschi, impegnati ad assorbire la pace di quella località lieta e serafica.
Un uomo sulla cinquantina disteso al sole, grondante di sudore e cosparso di crema
abbronzante, si alzò per sorseggiare avidamente una bibita idrosalina. Solo dopo alcuni
secondi, Biagio e Santino, si accorsero che era totalmente nudo, con delle lattescenti
natiche ben esposte alla luce del sole. Le gioviali risate dei due giovani rimbombavano
nonostante fossero all’aria aperta, quell’esilaranza ingoiò la competitività creatasi tra loro.
Sul limite della riva, l’acqua del mare sembrava gelida tanto da far tentennare i due ragazzi
nel tuffarsi. Biagio si guardò intorno e notò che le poche persone sulla spiaggia erano tutte
completamente prive di costume.
<<Dove siamo capitati? Nel lido “dei piselloni”?>> scherzò Santino che fisso negli
occhi Biagio e, senza pronunciare sillaba, gli propose di seguire gli altri bagnanti.
<<Non ci pensare neppure!>> rispose Biagio con tono perentorio.
Alla fine il contegno di Biagio portò a far saltare quell’occasione di esibizionismo, quindi,
fecero il bagno tradizionalmente.
Santino attaccò discorso con due ragazzi tedeschi scegliendo come argomento d’interesse il
calcio, ovviamente. Parlavano lingue diverse ma s’intendevano come se avessero avuto
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un’interprete al loro fianco. Biagio, misantropo come al solito, rimase in disparte a lanciare
pietre sulla cresta dell’acqua del mare.
(CAPITOLO IX)
Ritornarono al Babel con dieci minuti d’anticipo prepararsi ad affrontare quella domenica
sera, avrebbero poi avuto cinque giorni di “licenza” e un modico gruzzolo per visitare
l’isoletta. Carmen e Santino si salutarono caldamente mentre quest’ultimo imbastiva
argomenti sempre più futili e insensati. Con Biagio aveva un rapporto diverso; parlavano
guardandosi dentro l’un l’altro, eppure Carmen non gli dimostrava le stesse attenzioni che
esternava riservava a Santino. Durante la serata di lavoro, immersi nella confusione del
locale, si scambiavano ammalianti parole all’orecchio seguite da risatine, che per Biagio,
diventavano taglienti. Quella notte il sole tardava a sorgere e il lavoro si faceva sempre più
logorante.
Verso le 23.00, la musica tonante invase il locale accompagnata da abbaglianti luci colorate
nascoste negli angoli della piccola sala, fomentando una sfrenata febbre da ballo.
Tutti, anche Àlvaro, lo zio Paco, Carmen e Santino furono assorbiti dallo sciame
folleggiante di ragazzi, fino all’esterno del locale.
Biagio rimase in disparte, poggiato ad un pilastro e con le braccia conserte, sembrava una
specie di buttafuori anche se notevolmente magrolino. Carmen lo invitò a gettarsi nella
mischia tirandolo per le mani, ma lui rifiutò con un sorriso e un cenno negativo con la testa.
Rientrò nella cucina a sistemare un po’ di cose, anticipandosi sul lavoro, quando la musica
fu smorzata, ritornò fuori e vide lo zio Paco asciugarsi il sudore sul capo calvo e lucido.
Chiese dove fosse Santino e lui rispose che, un attimo prima, era lì a ballare con la nipote.
Un lugubre presentimento infiammò il petto di Biagio, andò nella camera di Carmen
sapendo quale amara verità avrebbe dovuto sopportare. Si fermò nei pressi della stanza; il
suo udito gli falcidiò l’anima.
La notte obbligava, con il suo silenzio, ad ascoltare i fervidi gemiti della passione di due
amanti qualunque. Una vecchia canzone messicana, intonata da una calda voce femminile,
narrava della triste storia di due amanti che avrebbero passato insieme la loro ultima notte
d’amore. Quelle note e quelle parole, sembravano prendersi beffa di Biagio mentre si
arrampicava per una salita ripida fiancheggiata dalle luci giallastre, profuse da una fila di
lampioncini, allineati disciplinatamente come soldati.
Niente sembrava solleticarlo: il frinire dei grilli, l’incantevole cielo stellato, il profumo della
natura, il fastidio dell’affanno, il musicale gorgheggio dell’acqua sotto un vecchio ponte nei
paraggi.
Nulla. Sembrava aver perso l’uso dei cinque sensi; intrappolato dentro se stesso.
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Il suo sguardo mirò oltre quello che i suoi occhi potessero vedere. Ancora una volta, la sua
immaginazione lo condusse in una realtà ostile, cruda. Pianse. Un pianto breve ed intenso,
come una pioggia d’estate.
Le immagini inondavano la sua mente come un fiume in piena: una corsa campestre gli si
materializzava dinanzi. Tutti, anche quelli nettamente fuori forma e infiacchiti, lo
superavano magistralmente; lui arrancava sotto la derisione degli altri concorrenti.
La collera lo avvolse come una nube grigia imperversando in ogni angolo del suo corpo.
Strinse i denti, come se stesse resistendo ad un lancinante dolore fisico, m non si trattava di
un dolore al braccio, a una gamba o di un forte mal di testa. La mente, con la quale s’era da
sempre identificato con convinzione, diventava una parte distaccata da sé.
Prese un foglio e scrisse di getto:
“ In certi momenti, questo strumento così utile e vitale, mi si rivolta contro come
un’animale impazzito si ribella al proprio padrone. Sembra che, bramosa e ingorda, non
voglia più riprendere a svolgere le straordinarie funzioni per le quali è stata concepita.
Capricciosa, come un bambino che non vuole più scendere dalla giostra.
La mia mente, come fumo, mi adombra la vista e non mi permette di vedere le innumerevoli
strade che la vita mi offre. Famelica di quesiti da risolvere, ne crea anche laddove
dimorano soluzioni e semplicità.
Insapore, non mi da il piacere né la delizia di provare i gusti, privandomi
dell’indispensabile diritto d’inseguire cosa davvero può rendermi appagato. Incolore, mi fa
vivere in “bianco e nero” in un mondo straripante di colori.
Cinica, mi ruba la voce, negandomi la gioia di esprimere ciò che provo per le perone che
mi sono vicine. Come caos, m’impedisce di percepire i suoni, facendomi sentire solo nel
mezzo della folla. Sadica, mi fa patire sofferenze che non mi appartengono. Come incallita
da un vizio, consuma i congiuntivi.
Ogni volta mi uccide perché uccide il presente; come una spetrale macchina del tempo, mi
accompagna brutalmente in viaggio nel passato avvelenandomi con i suoi “se” e
intossicandomi dei suoi “ma”.
Eppure, non riesco a separarmene. Come un’amante infida ed egoista mi seduce, mi usa,
lasciandomi poi solo e inerme in una realtà ostile.”
Gli occhi di Biagio si dischiusero, liberando sulla guancia una gracile lacrima.
Salì in piedi sull’esile parapetto del pontile, come un acrobata pronto per la sua funambola
esibizione. “Cosa mi passa per la testa? Dove trovo il coraggio?” si ripeteva ossessivamente.
“Il coraggio? La rabbia avrebbe fatto il resto!”
Esalò un respiro profondo come se stesse per emettere un urlo assordante. Di colpo, una
voce calda e roca nascosta nell’ombra, lo freddò:
<<Cosa ti turba ragazzo?!>>
Cosa ci faceva quel vecchio barbone a quell’ora di notte in un posto selvaggio e desolato
come quello?
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A mano a mano che quell’essere misterioso avanzava, Biagio realizzò, solo dopo svariati
secondi, che riusciva a vederlo benché il timido bagliore della luna non trapelasse oltre la
fitta vegetazione circostante.
Era come se brillasse di luce propria. Nella mano destra stringeva al guinzaglio un pastore
tedesco piuttosto mal ridotto che deambulava su tre zampe; dall’altra mano ciondolava una
busta della spesa. I suoi occhi erano oscurati da un paio d’occhiali specchiati di nero e dalla
tipica montatura tondeggiante da non vedente.
Un sorriso si stiracchio sul suo viso avvizzito dal tempo. Biagio attaccò a parlare della sua
sofferenza latente, delle insoddisfazioni e del futuro inquieto e sibillino, il tutto con la
spigliatezza di qualcuno che conosce il suo interlocutore tanto da fidarsene senza
discernimenti.
Quei patimenti non li avrebbe rivelati né ai suoi genitori né a Santino, ma li stava esternando
franco e disinibito, ad un vecchio cieco sconosciuto, tra le collinette di un piccolo isolotto in
Messico.
Il cieco, corrugò la fronte e col capo fece cenno d’indifferenza. Poi aggiunse:
<<Io sono cieco, ma tu non ci vedi!>>
<<Ah sì? E quale sarebbe la differenza, sentiamo.>> rimandò Biagio, tremante sulla
ringhiera di legno che cominciava a scricchiolare.
<<Beh io, il cane, c’è l’ho come compagnia!>> esclamò il vecchio.
Effettivamente, non sembrava che quell’adorabile bestiola fosse un cane guida,
specialmente per le condizioni fisiche in cui versava. Il vecchietto, infatti, mostrava una
notevole agilità nei movimenti benché il territorio risultasse disagevole.
<<Molti mi domandano come faccio ad essere così sereno e rassicurato nonostante
questo mio handicap. Non si vede solo con gli occhi!>> riprese.
<<Non sono un masochista. Che senso ha vivere tutti i restanti anni della mia vita
soffrendo come uno stupido! Tanto vale essere saggi e smettere adesso, evitando
inutili supplizi!>> la voce di Biagio si faceva sempre più collerica, mentre sul volto
del vecchio cieco cresceva gradualmente uno strano sorriso.
<<FALLO!!!>> tuonò.
<<Non ci riesco se mi “guardi”!>> spiegò, Biagio, con voce tremolante.
<<Almeno riusciresti a fare qualcosa di coraggioso nella tua inutile vita!>> istigò il
vecchio.
Biagio era confuso. Era solo un vecchio pazzo, “ma aveva ragione” pensò. Quell’insulto fu
la spinta che fece carambolare il suo giovane corpo nell’abisso di quel fiume, colorato di
nero dal riflesso di quella stupenda notte.
Il cieco rise fino a scompisciarsi. Chissà, forse si trattava davvero soltanto di un pazzo!
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(CAPITOLO X)
Il tonfo sordo e spesso, seguito da un grido di dolore, non fece altro che incrementare le risa,
ormai incontenibili, di quell’ambiguo vecchietto.
Biagio ritornò in superfice bagnato fin dentro i calzini e incazzato come una biscia. Il suo
sguardo oscillava tra la rabbia e la disperazione. Poi, chiese incuriosito:
<<Sapevi che l’acqua era bassa, non è vero? Per questo hai lasciato che mi
buttassi.>>
Il cieco fece un lungo ma lento respiro.
<<Il suicidio non è così biasimevole come credi.>>
Il suo viso, che un attimo prima rimandava una smorfia di esilaranza, mutò repentinamente
forma facendosi austero. Questa trasformazione catturò l’attenzione di Biagio che chiese di
essere elargito approfonditamente su quell’argomento.
<<Occorre “suicidare” la tua mente. Liberarti da tutti i pensieri e le frustrazioni che
t’inseguono ossessivamente. È anche un modo per liberare la tua anima!>> rispose
spocchioso il vecchio.
L’aspetto di Biagio non celava la sua preoccupazione che fu tempestivamente sedata da una
nuova frase del cieco:
<<Tranquillo! C’è un altro modo per risolvere la questione.>>
Biagio domandò quando e lui lo freddò:
<<Regola n.1: il tempo non esiste!>>
<<E questo, lo usi come braccialetto?>> chiese sprezzante, Biagio, toccando
l’orologio sul suo polso.
<<No, è una torcia!>> chiarì sorridendo, mentre un fascio di luce bianchissimo si
diramava nell’oscurità illuminando i loro volti.
Biagio esitò grattandosi il mento, poi domandò:
<<Se sei cieco, cosa te ne fai di una torcia?>>
<<Io non ne ho bisogno, è vero, ma può tornare utile a qualcuno che gode del dono
della vista. Regola n.2>> sentnziò con tono marziale <<Dona senza nessun
tornaconto personale, questo rinvigorirà la tua fonte di energia o di amore, come lo
chiamano i poeti.>>
Biagio scosse il capo segnalando la sua confusione scontrandosi con un secco “A suo
tempo!” Se era cieco e non lo vedeva, come aveva fatto a notare il suo smarrimento. Adesso,
cominciava a dubitare della sua cecità.
<<Vediamoci domani, nell’orto dietro la parrocchia, di buon mattino. Ops! Ho detto
“vediamoci”? Scusa, dimenticavo che tu non ci vedi!>> concluse allontanandosi e
ridendo a crepapelle.
L’indomani, Biagio si presentò di mattina presto, come concordato col vecchio. Solo dopo
circa due ore una figura si avvicinò sorreggendosi ad un bastone. Biagio lo ammonì per il
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ritardo e lui lo rimbrottò per aver dimenticato una delle due regole rivelategli la sera prima:
“Il tempo non esiste!”
<<Scusa ma non so nemmeno come ti chiami, io sono Biagio, piacere.>>
Il vecchio rimase fermo per alcuni secondi, poi rispose borioso:
<<Piacere? Se non sai chi sono come fai a sapere di avere il piacere di conoscermi?
Parli con frasi fatte, sorridi quando si deve sorridere, come fa molta gente quando
vede l’obbiettivo di una macchina fotografica, t’incazzi perché senti il dovere
d’incazzarti e mangi semplicemente perché è ora di pranzo, ma non sei nulla di tutto
questo!>>
Biagio non disse una parola, poi si sforzò d’inventare qualcosa per rompere il fragore del
silenzio, come se fosse doveroso evitare di lasciare spazi vuoti nella conversazione.
Il cieco domandò perché avesse tanta paura del silenzio e Biagio rispose vagheggiando,
quindi il vecchio aggiunse:
<<Chiamami come ti pare, i nomi di persona meno sono usati meglio è. Si corre il
rischio d’identificarsi con quel nome e la sua storia, impedendoci di trovare noi
stessi.>>
<<Non sono chi credo di essere?>> dopo una pausa <<Comunque ti chiamerò
Flavian, un mio vecchio amico.>>
<<Scommetto che hai associato questo nome a qualcosa che lega me a questo tuo
amico. Chi era Flavian?>>
Biagio, dopo un fugace sguardo nel vuoto, gli raccontò di Flavian: si trattava del vecchio
parroco di Montelepre. Con quel prelato amava dialogare e più spesso litigare poiché si
finiva spesso a parlare di religione, materia sulla quale i due interlocutori cozzavano
cruentemente.
Quel sacerdote, era una delle pochissime persone con cui riusciva a condividere
ragionamenti e introspezioni.
Quel cieco aveva colpito nel segno! La sua mente aveva associato quel nome ad un vissuto.
Biagio carezzava il cane del cieco senza mai staccare lo sguardo del volto di quello strano
individuo.
<<La tua mente teme il silenzio, Biagio. Scommetto che non riusciresti a smettere
di pensare nemmeno per un minuto.>>
<<Sì, lo ammetto.>> rispose Biagio arrendendosi.
Flavian fece un respiro intenso trattenendo l’aria per svariati secondi, poi la espulse dal naso
facendo tremare i petali di un fiorellino adagiato in terra, vicino ai suoi piedi.
Poggiando bonariamente una mano sulla spalla di Biagio, con espressione paterna, spiegò:
<<Come ti sentivi ieri notte un istante prima di “morire”?>>
Biagio impietrì. I suoi occhi fissavano insistentemente il vuoto. Poi si posarono su un
gabbiano che si era appena lanciato da un’altura. Sembrava che stesse precipitando al suolo
ma, con un tempismo da far invidia anche al migliore atleta del mondo, spiegò le ali
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all’ultimo istante arrischiandosi in un’audace e temeraria planata, fino a rasentare con il
petto la limpida acqua del mare.
<<Ero libero! Niente più preoccupazioni, come se non avessi più obblighi!>>
<<Eri libero, sì, ma dai tuoi pensieri compulsivi. Un ottimo gesto liberatorio! È per
questo che ho intenzione di aiutarti ad uscire dalla tua mente.>>
Flavian balzò su di un albero nel volgere di una manciata di secondi per poi ritornare a terra
con l’elasticità articolare di un gatto. Il suo cane lo rimproverò con un abbaio.
<<Hai ragione, non ho più l’età per certe acrobazie!>>
Biagio rimase esterrefatto da quegli abili e arrischiati volteggi. Poi ricominciò a fissare il
nulla, come se contemplasse un’immagine proiettata dalla sua mente. Chiese con tono
commiserevole:
<<Sai, certe volte mi sento come se non avessi un’anima. Chissà forse è un dono che
non è riconosciuto a tutti. Vedo le altre persone rapportarsi in modo diverso tra loro.
Non so, mi sento diverso dagli altri…>>
L’espressione del vecchio Flavian divenne compassata, si sistemo gli occhiali sul naso e,
indicando il suo docile cane, consigliò:
<<Prova a fare una carezza alla piccola Sasa.>>
Biagio si accovacciò con scetticismo al cospetto della cagnetta, come se non vi trovasse
alcun nesso riconducibile alla considerazione da lui espressa poc’anzi.
La pelle morbida sul capo e sul dorso di Sasa, si rilassava sotto le mani di Biagio. I suoi
occhietti stanchi si chiudevano delicatamente in segno di gratificazione. Di colpo, un’aura
biancastra li avvolse entrambi e gli occhi di Biagio si velarono di lacrime cristalline.
Flavian rimase immobile ad assistere alla scena, poi intervenne:
<<Poi dici di non avere un’anima? La fitta nebbia dei tuoi pensieri ti adombra la
vista, ragazzo>>
A questo punto, Giagio, era convinto di vivere in un sogno e chiese febbrilmente cosa
avrebbe dovuto fare per raggiungere la pace nel mezzo di quella burrascosa tempesta.
Flavian lo avvertì:
<<Una volta iniziato il viaggio, non potrai più tornare indietro perché niente sarà
più come prima. Avrai nuovi occhi e altre aspirazioni. Non diventerai un’altra
persona, sarai semplicemente te stesso. Dovrai debellare tutte le leggi e le
convenzioni dal tuo cervello accumulate dalla nascita. Smetterai di cercare
all’esterno quell’energia che guizzerà dal tuo cuore come un gayser. Adesso,
dobbiamo “suicidare” la tua mente!>>
Biagio aveva trovato un validissimo mentore per i suoi scopi. L’obiettivo del suo viaggio era
appena stato raggiunto con inaspettato successo.
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(CAPITOLO XI)
Il pomeriggio di quella stessa giornata portò con sé, oltre ad una fitta pioggerella estiva,
anche l’ira di Santino che redarguì aspramente l’amico per la sua inavvertita scomparsa.
<<Si può sapere dov’è che te ne vai senza dire nulla? Siamo stati in ansia tutta la
mattinata!>> indicando Carmen avvolta in uno scialle azzurro.
<<Anch’io ho conosciuto qualcuno interessante, ma non c’ho scopato; non è il mio
tipo!>> rispose pungente.
Santo gli si avvicinò e, con discrezione, gli domandò di chi stesse parlando. Biagio svelò
solo vagamente la situazione che si era creata quella notte, tenendo segreta l’identità del
vecchio Flavian.
Santino si accontentò di quelle frammentarie parole e invitò Biagio ad una festa che si
sarebbe svolta la sera stessa, lì gli avrebbe fatto conoscere qualcuno o “qualcuna” in modo
da liberarlo dalla morsa dei suoi pensieri per un po’. Per Biagio, però, non era quello
l’obiettivo del viaggio, quindi non accettò e lasciò intuire che si sarebbe visto col suo
misterioso amico per chiarire alcune faccende.
<<Sei strano davvero tu, hanno ragione in paese. Invece di venire a divertirti
preferisci “fare quattro chiacchiere” con uno che nemmeno conosci? Mi dici quando
ci ricapiterà di partecipare ad una festa in Messico?>>
<<Santo.>> disse dolcemente Biagio, adagiandogli una mano dietro il collo.
<<L’unica cosa che ci accumuna di questo viaggio è la strada percorsa, ma gli scopi
sono diversi. Avevamo e avremo sempre affetto e stima l’un l’altro, ma i nostri
desideri sono differenti. Molto.>> aggiunse con un sorriso mezzo malinconico.
Come stabilito, quell’afosa sera, Biagio si avviò verso il cortile della chiesa, mentre da
lontano sfavillavano tremolanti le luci in paese e scemava la musica che da altisonante
divenne semplicemente di sottofondo. L’aria umida smorzava i pensieri e i quesiti di Biagio,
affievolendolo dal loro insostenibile peso. Sasa, la cagnetta di Flavian, gli andò incontro
facendo le feste mentre il suo padrone se ne stava comodamente seduto su di un muretto.
<<Aspettavi me?>> chiese Biagio con entusiasmo.
<<Aspettare? Gli incoscienti passano il tempo aspettando! Ricorda che in
qualunque momento accade sempre qualcosa. Anche quando sembra tutto
tranquillo, magari mentre sei al sicuro come me seduto su questa pietra. Tutto può
succedere ma nulla deve accadere!>> rispose Flavian aggrottando la fronte.
<<Avrei dovuto portarmi un taccuino per prendere appunti!>>
<<Dimentichi facilmente le cose, eh?>> intuì Flavian. Poi aggiunse lentamente:
<<Se ti dicessi che imparando quello che t’insegnerò e conoscendo ciò che ti
svelerò diventerai: attento, sveglio, abile, riuscirai a ricordare eventi remoti
esattamente come se li stessi rivivendo nel presente e potrai dormire beatamente
come un angioletto, mi crederesti?>>
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Biagio mostrava scetticismo misto ad un’acuta curiosità. Fu quella la sua risposta non
verbale quindi, Flavian, concluse:
<<E se ti dicessi che non sei neanche una parte infinitesima di ogni pensiero che ti
balena per la mente, mi crederesti?>>
<<Come sarà possibile tutto questo? Prendendo medicinali, droghe, dopanti?>> fu
la replica di Biagio accompagnata da un sorriso.
<<Niente di tutto questo è più deleterio per il tuo cervello.>>
L’allievo e il maestro, iniziarono meccanicamente a passeggiare tra le vallate sincronizzando
involontariamente il passo.
<<Che fai, mi segui?>> intervenne Biagio
<<Mi sa che sei tu a seguirmi! Sei il riflesso di tutto ciò che ti circonda. La tua
mente assorbe come una spugna ogni cosa che si manifesta all’esterno per poi
strizzarsi dentro di te. Credi di sapere ciò che ti serve per star bene ma, in realtà, i
tuoi desideri sono falsati dalle leggi che ti sei fatto imporre. Sei uno schiavo!
Esisteva, più di un secolo fa, un tedesco che disse “Il vero schiavo è colui che non
sa di essere in catene”. Adesso, dobbiamo fare in modo che tu realizzi di essere
prigioniero della tua mente. Sei come un uccellino nato in una gabbia; siccome ci
sono sempre state, credi che le sbarre che ti recingono siano parte lecita e
inamovibile della tua vita.>>
Flavian si fermò e infilò una mano nella tasca del gilet estraendo un pugno chiuso, come se
vi nascondesse qualcosa. Avvicinò le mani a pochi centimetri dal volto di Biagio e con uno
strano sorriso aprì le mani dalle quali schizzò via volando un colibrì tutto rosso.
<<Chissà dove se ne va?>> si domandò Giagio. Flavian rispose, con la sua solita
implicitezza:
<<Altra regola. Il “dove?” e il “quando?” non hanno alcuna importanza… presto
capirai.>>
Dopo essersi strofinato le mani sui pantaloni, riprese il suo monologo:
<<Chissà magari, un giorno, anche tu ti libererai!>> diversi colpi di tosse grassa lo
fermarono, ma non per molto, infatti, ricominciò:
<<Il problema è che sei convinto di essere la tua mente, ed è per questo che ti
omologhi agli altri. Se non hai abbastanza soldi, se non fai un mestiere di rilevanza,
se non scopi come un coniglio, allora sei un “fallito”.
Sai esistono diverse tipologie di leggi: esplicite e chiare, come quelle enunciate da
uno Stato che puoi facilmente consultare dalla Gazzetta Ufficiale, ma è difficile che
tu possa conoscerle tutte; poi ci sono quelle astratte, ma quelle le conosci tutte, una
per una, come se fossi dei giurista esperto.>>
<<Mi sto perdendo, spiegati meglio.>>
<<Sai qual è il reato più grave in uno Stato costituito? No, non l’omicidio!>> disse,
stroncando sul nascere le parole dalle labbra di Biagio.
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<<La diserzione! Il disertore è un traditore della patria, della sua gente, dei suoi
fratelli che combattono rischiando una gamba, un braccio o persino la vita. Ti senti
un disertore e non sei riuscito a sostenere l’onta del tradimento. Ti senti diverso,
giusto? Diverso da “loro” che seguono quelle regole. Diverso da Santino?>>
Udendo quel nome, Biagio sobbalzò:
<<Come fai a ..?>>
<<A suo tempo. Tranquillo, non sono uno stregone!
Ogni volta che cerchi d’identificarti con qualcuno o qualcosa che si trova all’esterno,
finisci per allontanarti dalla tua vera essenza. Gli amori, le amicizie, i mestieri sono
sottoposti a continue trasformazioni; persino il tuo stesso corpo fisico, invecchiando
ad esempio. Tali elementi sono troppo effimeri per il tuo scopo. Quello che tu stai
cercando, invece, è qualcosa di eterno. Solo quando l’avrai trovato potrai gioire e
comprendere davvero tutto ciò che vive al di fuori di te, senza dipendenze o
attaccamenti.
Vedi, anche il giudizio altrui può diventare fonte di sostegno e identificazione, questo
succede proprio quando si è lontani da se stessi, quindi si assecondano le aspettative
degli altri trascurando le proprie; in altre parole ciò che è bene per gli altri non è detto
che sia lo stesso pure per te.
Immagina un alcolizzato.>> suggerì <<È temporaneamente felice e sereno nel
momento dell’ebbrezza ma quando essa si esaurirà, egli proverà più freddo di
prima.>> si soffermò per la sua consueta pausa <<Biagio, è per questo che volevi
farla finita l’altra notte! Cosa cerchi lì fuori? Cosa sentivi intorno a te? Il vuoto, per
caso?>> Biagio si limitò soltanto ad annuire.
Dopo svariate centinaia di metri Biagio, sfinito ed esausto, agognò alcune parole confuse:
<<Puf! Non ce la faccio più! Ma come fai ad aggrapparti a queste salite, quanti anni
hai. Già scusa, il tempo non esiste, suppongo neanche l’età?>>
<<No, l’età esiste eccome, sei tu che sei fiacco, ah ah ah! E poi chi ti dice che questa
sia una salita? Vedi, io sono fresco e riposato perché la prendo come una discesa!>>
<<Adesso dai i numeri! È una salita, Flavian, non senti il fiatone?>>
<<Qual è la differenza?>>
<<Beh, dipende da come la si percorre. Può essere una salita oppure una discesa!>>
<<Bravo Biagio! È per questo che nella vita sei sempre affannato, la prendi come una
salita, non come una discesa come faccio io.>>
La filosofia di Biagio veniva messa alla prova ancora una volta come mai prima.
La notte, coperti da un manto di stelle brillanti come un collier di diamanti, Santo e Giagio
raccontavano le proprie avventure del giorno. In realtà era solo Santino a parlare mentre
Biagio fingeva di ascoltare le parole dell’amico.
Provava un senso di sfida nei confronti del suo “maestro”, come se venisse continuamente
dileggiato da quegli eruditi insegnamenti ma, di pari passo, cresceva in lui una gran voglia
d’imparare.
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(CAPITOLO XII)
I giorni e le notti si alternavano ciclicamente e il tempo veniva soffiato via come polline dai
fiori. Il trentuno del mese corrente, agosto, era emblematicamente il fondo della clessidra.
Entro quel giorno, ovverosia la festa del santo patrono di Montelepre, i due giovani
avventurieri avrebbero dovuto fare ritorno a casa.
Nel frattempo, le fievoli luci del mattino, annunciavano l’inizio di una nuova giornata.
Certamente quei ritmi di vita e quella quotidianità imprevedibile e ricca di forme e colori
sempre nuovi, avrebbero pesato sul ritorno ad una monotona e tediosa “normalità”.
Santino sarebbe stato accolto dalla bottiglieria del padre, con il suo perenne tanfo di vino
incollato alle pareti, alle sedie, alle porte… insomma dappertutto.
Ad attendere Biagio, invece, dieci mesi di caserma; solo questo è tutto un programma.
Santo si divertiva con i suoi nuovi amici, benché non pronunciasse nemmeno una sillaba di
spagnolo. Giagio, al contrario, seppur avesse una certa dimestichezza con quella calda e
musicale lingua, preferiva “meditare” in solitudine oscillando come un pendolo tra la
montagna e il mare, assaporando i suoni egli odori di entrambe i paesaggi naturali.
Giunta la sera, la sua mente straripava di quesiti e interrogativi che, soventemente, venivano
ignorati da Flavian che elargiva soluzioni nei riguardi di problematiche differenti; in fondo
era il maestro e stava a lui decidere il programma da seguire!
L’abitazione del vecchio Flavian, altro non era che una romita casupola nascosta tra gli
arbusti di una collinetta che torreggiava sul mare aperto sottostante. Un tappeto di ciottoli
evidenziava la strada verso la porta d’ingresso che presentava, ad altezza d’uomo, un
rudimentale anello di ferro arrugginito, usato per bussare alla porta; il campanello, in
sostanza.
La luce era spenta quindi, Biagio, pensò che fosse fuori, magari al giardino della parrocchia.
“Aspetta un minuto” pensò, “Perché mai dovrebbe aver bisogno della luce, è cieco!”
Le nocche della mano di Biagio picchiarono garbatamente sulla porta. Una figura apparì
lentamente dinanzi ai suoi occhi:
<<Una tazza di zuppa calda?>>
<<Flavian, la zuppa? Siamo in pieno agosto!>>
Dopo una risatina di biasimo, obbiettò:
<<Io credo che ti rifiuti di mangiare il brodino ad agosto, non perché tu abbia caldo,
ma semplicemente perché è agosto! Dimmi un po’ giovanotto, se domattina, che è
una mattinata d’agosto, la temperatura scendesse radicalmente, magari fino allo zero,
cosa indosseresti? Un costume da bagno o un maglione?
<<Mah, un maglione ad agosto…>>
Flavian soppresse l’impaccio di Biagio e intervenne:
<<Le persone cambiano abiti secondo le stagioni che corrono. Anche se tu fossi un
tipo freddoloso, faresti fatica ad indossare qualcosa di pesante a luglio. Oppure,
vedere qualcuno in maniche corte a gennaio sarebbe buffo, non ti pare?>>
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Biagio si sforzava di comprendere quelle inesplicabili analogie, poi, la sua smania di
domande lo persuase e, come un cacciatorpediniere della luftwaffe, ricominciò a sparare:
<<È curioso. Il fatto che hai la luce spenta, intendo.>>
<<Sai, molte persone che, per loro sfortuna, diventano cieche, continuano a tenere la
luce di casa accesa.>>
<<Come fosse un’abitudine?>> intuì Biagio.
<<Esatto, una sorta di abitudine, sì! Ed è proprio da questo tipo di abitudini che devi
liberarti, ragazzo.>>
Dopo una tazza di thè freddo, s’incamminarono verso il paese. Era la prima volta che Biagio
vedeva Flavian tra la folla, seppur si trattasse di una folla molto diradata come quella
dell’Isla Magdalena.
Un uomo, evidentemente disturbato di mente, procedeva con andatura irregolare,
trascinando il proprio corpo piegato in due e parlando da solo ad alta voce, Flavian arrestò il
passo.
<<Secondo te… quest’uomo…>>
<<È matto!>> concluse Biagio baldanzoso.
<<Bene! L’esercizio di oggi consisterà nel riportare ad alta voce tutti i tuoi
pensieri.>>
Il volto di Biagio divenne terreo. Lo sconforto si disegnava in ogni angolo del suo viso fino
a ramificarsi nel resto del corpo.
<<Stai scherzando?!>>
<<Fallo e senza discutere. Fino a domani sera ti accorgerai chi tra voi due è più
matto, io una mezza idea me la sono fatta… vedi, quell’uomo di tanto in tanto si
concede qualche pausa nelle sue “discussioni”! Eh eh eh!!!>>
Biagio e Santo si svegliarono di buon mattino. Santo andò a defecare dietro un bronco di
fogliame ammassato, Biagio si dilettò in una serie di esercizi nemmeno lontanamente
somiglianti al Tai-chi. Si ricordò del compito di Flavian: riportare ad alta voce tutto ciò che
gli passava per la testa.
<<Chissà stasera cosa s’inventerà quel vecchio pazzoide, ed io che gli sto dietro! Ma
che mi prende? Bah!>>
<<Che fai, parli da solo?>> disse Santino, con la voce soffocata dallo sforzo dovuto
all’atto fisiologico espletato nell’aperta natura selvaggia. Poi riprese:
<<Devi essere proprio diventato matto!>>
Udite quelle parole, Biagio fu colto da un sussulto che lo bloccò facendogli perdere
l’equilibrio nella gamba sinistra. Cadde schiacciando, col peso del suo esile corpo, un
corpulento plecottero, un insetto simile ad uno scarafaggio.
La giornata passò e Biagio si aggregò a Santo, Carmen e i loro amici per pranzare sulla
spiaggia.
Come detto, Giagio conosceva discretamente lo spagnolo ma lo parlava molto poco; come
l’italiano del resto! Quel pomeriggio, invece, mantenne la promessa fatta al suo eccentrico
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maestro. Parlò tra se e se suscitando la curiosità della comitiva e la preoccupazione di
Santino. La luna, quel pomeriggio, sembrava tardare più del solito a dipingersi sullo sfondo
blu notte della sera.
Finalmente Biagio poté correre da Flavian per raccontargli quell’imbarazzante esperienza e
trovarvi un rimedio, subito.
<<FLAVIAN!!! SONO BIAGIO, APRI TI PREGO!>> tuonò ansimante.
Di colpo, come in un film dell’orrore, una mano avvinghiò la sua spalla destra.
Biagio inspirò violentemente aria emettendo un sibilo di paura. Alla vista di Flavian, il suo
respiro riprese con regolarità scandito da un leggero affanno.
<<Ah, sei tu?! Ma come hai fatto? Non ti ho sentito arrivare…>>
<<Già dimenticavo, oltre ad essere cieco sei anche sordo, ah ah ah.>>
<<Lascia perdere, aiutami ti scongiuro! Credo di essere sull’orlo della pazzia. Ho
passato l’intero pomeriggio a parlare come quel matto di ieri. Liberami…>>
<<Bene…>> fu l’unica parola accompagnata da un insolito sorriso estasiato.
<<Fino adesso avevi solo capito di essere in catene. Adesso ne sei consapevole. Il
primo passo, quello più importante, è stato fatto.>> spiegò Flavian, mentre si
accomodava su una seggiola dinanzi a Biagio che restò dritto e immobile come un
palo.
La masserizia di quella casetta era a dir poco spoglia: un lavabo, un paio di mobiletti
in legno logori e tarlati, un minuscolo bagno e un tavolo con due seggiole pieghevoli.
<<Prima non mi capitava di stare così male, perché ora…>>
<<Adesso stai imparando ad ascoltarti senza fare domande. In altre parole, non
t’identifichi più con i tuoi pensieri. Li contempli da fuori come fossero uccellini che
svolazzano felici tra gli alberi. La tua mente si sente minacciata da tutto questo, la
luce gli da fastidio…>>
(CAPITOLO XIII)
Il calendario della vecchia e maleodorante bettola dove erano abituati a riunirsi Santino e i
suoi amici messicani, segnava il 15 di agosto. Nel paesino si teneva una festa alla quale
avrebbe certamente partecipato Santino. Biagio non ebbe il coraggio di rifiutare di
prenderne parte, sarebbe stato troppo sgarbato nei confronti dell’amico.
I due irriducibili compagni passarono insieme gran parte della giornata da soli, come non
facevano ormai da diversi giorni. Andarono all’ufficio postale per spedire una lettera alle
loro famiglie rassicurandole che andava tutto bene e addolcendo le parole nel tentativo di
rendere più indulgente l’accoglienza al loro ritorno a casa.
Risero e scherzarono per tutta la durata del giorno come non facevano da parecchio, ma
nessuno dei due accennava alle esperienze vissute con le rispettive “compagnie”.
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Si distesero sulla battigia accarezzati dalle deboli onde del mare. Qui, Biagio ruppe il
silenzio:
<<Ci si accorge subito, dal suono, che ci troviamo su una spiaggia e non sugli
scogli.>>
<<Da cosa? Che differenza di suono ci sarebbe?>>
<<Beh, quando il mare “carica” in spiaggia, si ode un rumore simile ad un applauso.
Sono i granelli di sabbia e pietre che urtano tra loro; sulla scogliera si avverte, di
tanto in tanto, solo qualche “schiaffo” del mare sugli scogli.>>
<<Come questo?!>>
<<Eh eh, smettila!>>
Santino sapeva bene che Biagio non parlava “tanto per dire” e che stava preparandosi per
intavolare una discussione ben più sferzante.
<<Com’è lei?>>
<<A chi ti riferisci?>> rispose falsamente ignaro.
<<Dai, che lo sai.>>
<<Che non l’hai vista? Bona no? Te lo dicevo io!>> disse sorridendo.
<<Sì vabbè, ma che profumo ha, come ti guarda, la sua voce…>>
<<Giagio. È una ragazza. Abbiamo solo fatto sesso… tu sei troppo complicato.>>
<<Hai ragione, devo imparare ad essere più semplice…>> rispose infastidito.
<<Quante storie, dai che ci parlo io, stasera ti faccio passare un ferragosto caliente!
>>
<<Vaffanculo!>>
Mentre imbruniva la sera, i due amici si allontanarono rincorrendosi, lasciandosi alle spalle
un tramonto mozzafiato che sembrava esser saltato fuori da una cartolina.
Quella sera, Biagio tardò all’appuntamento con Santino poiché aveva bisogno di confidarsi
col suo maestro.
Erano le nove di sera quando arrivò alla casetta di Flavian e ad accoglierlo fu un foglio di
carta con su scritto “Alle spalle della casa, terzo sentiero sulla destra. Ti aspetto.”
Dopo diverse decine di metri di terreno insidioso e sconnesso, per giunta in salita, comparve
una catapecchia fatiscente illuminata da una lampadina penzolante e colma di frutta
dall’aspetto poco appetitoso. Le domande di Biagio, come bocce da bowling sul canestrello,
erano già tutte belle in fila, pronte per essere lanciate. Prima di tutto, come aveva fatto
Flavian a salire lassù, vecchio e cieco com’era? Quei misteri alimentavano l’attrazione verso
quello strano uomo di montagna.
Mentre Flavian accartocciava alcuni frutti in un sacchetto di carta a forma di cono per poi
servirli ad una donna molto anziana, la voce di Biagio irruppe:
<<IL FRUTTIVENDOLO! Sei un fruttivendolo!>>
<<Faccio il fruttivendolo, ma non lo sono!>> rispose tranquillo, Flavian, come se si
aspettasse la presenza di Biagio. Poi riprese:
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<<Non siamo ciò che facciamo, Biagio. C’indentifichiamo anche con il ruolo che
svolgiamo nella società, questo ci provoca ogni sorta d’infelicità perché ci allontana
da noi stessi.>>
<<Senza offesa eh, ma chi comprerebbe questa frutta… marcia?>>
Dopo una rauca risata invitò Biagio ad assaggiare una mela. L’estasi si effuse nel riflesso dei
suoi occhi. L’espressione di gratificazione provocò un forte languore alla piccola Sasa che lo
manifestò leccandosi i baffi.
<<Peccato che tu non mangi la frutta, non sai cosa ti perdi!>> disse al cane.
<<A proposito.>> proseguì <<Questa specie di mela che frutto è?>>
<<È una mela buffone!>>
Biagio non credeva alle proprie orecchie. Di mele ne aveva mangiate a nugoli, ma non
aveva mai gustato un sapore del genere. Era come se, fino a quel giorno, avesse mangiato un
altro tipo di frutto. Eppure, quelle mele avevano un’apparenza tutt’altro che squisita a
differenza delle mele di “Biancaneve” del supermarket.
Il vecchio saggio si preparò ad elargire un’altra delle sue perle di saggezza:
<<Valuti attraverso i pensieri senza sentire nulla, non vivi ciò che ti circonda, ti limiti
ad osservarlo con gli occhi della mente. T’immagini cose o persone bollandole come
“buone o cattive”. Avresti molto da imparare dai bambini! Loro sanno essere molto
più saggi degli adulti, esplorano tutto e lo fanno carichi di curiosità, senza nessun
timore. Anche il modo in cui gestiscono le emozioni; le lasciano andare: prima
piangono, un secondo dopo ridono a crepapelle con le lacrime che ancora gli rigano
le guance. Impara a vivere il tuo viaggio come un esploratore.>>
<<Quale viaggio?>>
Flavian non rispose, fingendo palesemente di non sentire.
Dopo una lunga pausa, atta a metabolizzare il concetto, Biagio cambiò argomento:
<<Sai, stasera c’è una festa in paese e Santino ci tiene molto che partecipi anch’io.
Il problema è che so già che sarò impacciato e farò delle figuracce. Magari domani
tutti mi derideranno ed io sarò costretto a rintanarmi con te tra le montagne!>>
<<Molti anni fa, un fisico e filosofo tedesco disse “Non ha mai commesso un errore
solo colui che non ha mai tentato davvero di fare qualcosa”.>>
<<Questa la so: è di Einstein!>>
<<Va… domani avremo molto lavoro da sbrigare. Stasera ti aspetta
un’importantissima lezione.>>
Biagio lo salutò e portò con sé una pera “marcia” da far assaggiare a Santino.
La piazza principale dell’isola straripava di persone e i localini intorno accoglievano un
tramenio di giovani provenienti da nazioni diverse. Gli idiomi si confondevano
concatenandosi in un unico vociare, come accade nelle caserme italiane. Lo sguardo di
Biagio incappò casualmente in una panchina ricoperta da una coltre di ragazze e ragazzi.
Il profilo di Carmen in lontananza lo catturò, e il suo cuore iniziò a ricalcitare
vorticosamente come un cavallo rinchiuso da secoli in una stalla.
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La giovane messicana si voltò e, non appena lo vide, per richiamarlo alzò la sua morbida
mano dalla quale si distinguevano unghie corte color vermiglio. Di rimando, Biagio sollevò
un braccio e si diresse verso la panchina, sorretto sulle gambe indebolite dall’ansia che
cominciò ad impossessarsi, come una creatura reproba, dell’intero corpo.
Fu subito accolto dall’abbraccio affettuoso di Santino entusiasta di vederlo, anche se
largamente in ritardo.
Come al solito, Biagio restò in disparte sentendosi a corto di parole. Poi si ricordò della pera
di Flavian e insistette nel farla mangiare a Santino; nessuno avrebbe creduto che quel frutto
putrefatto sarebbe stata la cosa più buona mai assaporata. Tentò di fare colpo sulla comitiva
di amici con quest’espediente ma, dopo un piccolo morso a quel frutto misterioso, Santino
mutò repentinamente espressione elargendo un profondo disgusto, come se avesse
assaggiato la carne rancida di un animale in decomposizione.
<<Ma sarai scemo?!>> farfugliò, mentre le risate dei presenti si frinivano
diffondendosi sullo sfondo.
“Cominciamo bene!” pensò Biagio. “Appena ribecco Flavian domani… sono curioso di
sentire uno dei suoi aforismi. Voglio vedere come se la cava stavolta!”
I ragazzi, una decina tra tedeschi, messicani e italiani, organizzarono un falò sulla
spiaggetta, la stessa dove Biagio amava meditare al mattino. Anche se quello che lui
chiamava “meditare”, spesso sfociava in una baraonda di pensieri rovinando il vero scopo
della meditazione stessa.
Seduti sull’arena fredda, Biagio attaccò discorso con una bella ragazza spagnola. Il gruppo
s’infoltì notevolmente allacciandosi ad altre compagini di giovani stranieri perlopiù
teenagers o comunque poco più che adolescenti.
La serata lasciò spazio alla notte. Le scintille del fuoco brillavano nel cielo per poi dissiparsi
nell’oscurità, come i bagliori delle luci di un paesaggio in lontananza.
L’accompagnamento musicale era fornito dallo scoppiettare del legno arso. Quella scena
infuse una struggente malinconia nell’animo di Biagio provocandogli un forte senso di
abbandono e incompletezza. Quel momento così allegro e spensierato fu ispidamente
minato da quell’emozione proveniente da chissà dove.
D’improvviso, il volto pacioso e rassicurante di Flavian si ravvivò tra le vampate del falò.
Senza proferire parola comunicò tacitamente a Biagio di darsi alla pazza gioia senza badare
a nulla, facendo cose che non aveva mai provato prima.
(CAPITOLO XIV)
Come c’era d’aspettarsi, quella “notte” terminò molto tardi dilungandosi oltre l’alba. Al suo
risveglio, Biagio si ritrovò in casa di un cinese e quella circostanza lo spaventò alquanto.
Spalancò le palpebre, mentre la sua mano urtò una serie di bottiglie di birra che
traboccarono una sull’altra con effetto domino. La sua attenzione fu richiamata da un
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mugugno di sonno; era la ragazza spagnola conosciuta la sera prima sulla spiaggia che ora
dormiva agiatamente accanto a lui.
Che ci faceva lì? Forse una mezza idea stava già plasmandosi nella sua mente. “Non è
possibile! Ma che cavolo è successo ieri notte? SANTINO!”
<<Italiano eh?>> disse il cinese, avvolto in un kimono rosso, mentre fumava una
pipa. Biagio corse fuori dalla stanza senza nemmeno sapere in che razza di posto si trovasse.
Poi intuì che si trattava di un Bed and Breakfast straripante di ragazzi che dormivano
tramortiti sui pavimenti. Come un soldato in un ospedale da campo, cercava disperatamente
tra i “superstiti” il suo amico.
Dopo aver svegliato erroneamente: tre tedeschi, cinque messicani e una decina d’inglesi,
finalmente, in un frammisto di statunitensi ammucchiati piramidalmente come pelati al
supermercato, si distingueva la testa tozza di Santino.
<<OH! SVEGLIATI? Si può sapere che cazzo è successo stanotte?!>>
<<Buongiorno fenomeno!>> sibilò la voce assonnata di Santino, mentre si strofinava
energicamente gli occhi.
Biagio lo aiutò a rialzarsi e insieme raggiunsero l’uscita, accompagnati da parole
incomprensibili degli altri giovani turisti scandite da qualche risata.
Santino non si reggeva in piedi e Biagio non era da meno, diciamo che si reggevano l’un
l’altro in un disarmonico equilibrio. Come sempre inseparabili, adesso anche nelle sbronze,
andarono a ripulirsi raffazzonatamente ad una fontanella pubblica poco distante.
<<Dev’essere stata quella pera che m’hai fatto assaggiare. A proposito, ma dove l’hai
rimediata quella roba così disgustosa?>>
<<Lascia perdere, piuttosto mi spieghi cortesemente che cazzo è successo ieri. Io non
ricordo nulla. Eravamo sulla spiaggia a bere e cazzeggiare, poi?>>
<<Vorresti farmi credere che non ricordi niente di quello che abbiamo fatto? Ah ah
ah, questa sì che è sfiga?>>
Lo sguardo di Biagio rimase perplesso in attesa che il mistero venisse svelato.
<<Ti sei scolato una cassa di birra perché non ti andava di ballare, hai rischiato di
incendiare mezza spiaggia perché, siccome avevamo finito la legna, hai bruciato le
tende e le sdraio del lido vicino. Ti sei messo pisciare sul fuoco davanti a tutti mentre
cantavi “Guantanamera” a squarciagola, dopodiché abbiamo fatto il bagno e tu sei
schizzato via dall’acqua nudo, urlando che un pesce cane ti aveva morso il culo…
devo andare avanti?!>> terminò Santino, trattenendo faticosamente le risate.
Il volto di Biagio rimandava il bianco dei ceri adoperati nelle processioni di Montelepre.
Poi, riprese fiato e coraggio, quindi ordinò con rammarico:
<<Continua…>>
<<E che continuo? Non ricordo nulla nemmeno io! A parte Jonathan che ci ha invitati
a dormire nella pensione del cinese. Lì ti ho visto entrare in una camera con Estela, il
resto chiedilo a lei, questa sfera non è di mia pertinenza!>>
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Biagio fu raggiunto da un subitaneo reflusso d’autostima. Si sentiva al pari degli altri,
quindi non era più un diverso. “Strano!” pensò, “Mi sono comportato come coloro che ho
sempre biasimato, assecondando quegli stessi principi che una volta condannavo
drasticamente.”
Raggiunse, fulmineo, le colline alla farraginosa ricerca del suo maestro; stavolta gli
interrogativi ribollivano come magma sul punto di esplodere da un cratere pronto a liberarsi
nel cielo. Il nervosismo si cronicizzava e Flavian sembrava svanito nel nulla; non era in
casa, né alla bottega della frutta e benché meno nell’orto della parrocchia.
A questo punto, Biagio, si fermò inginocchiandosi ai piedi di una spessa quercia, annichilito
sotto il peso delle domande e della confusione sempre più nebulosa. “Dov’è andato? E se
avessi immaginato anche lui?”
Avvilito e abbattuto, voltò le spalle e si avviò per il sentiero che conduceva sulla via
principale dell’isoletta, tenendo a freno i passi sulla discesa ripida. Come il boato di un
tuono, la voce calda e rauca di Flavian si scandì nel silenzio della natura selvaggia.
<<Cosa ti turba ragazzo?>>
Biagio corse ad abbracciarlo esternando tutta la sua gioia come non era abituato a fare da
anni.
<<Bravo! Stai imparando a lasciare andare le tue emozioni proprio come un bimbo!
>> si congratulò facendo imbarazzare Biagio che occultò il viso dietro una mano, con
la scusa di grattarsi il naso.
<<Flavian è assurdo quello che è successo ieri notte, non ci crederai!>>
<<Immagino che tu ti sia dato alla pazza gioia, eh?>>
<<Esatto! Ho fatto cose che credevo non sarei mai stato in grado di fare. A te non
nascondo che mi sono sentito finalmente completo, un leone!>> concluse ridendo.
Flavian lo freddò:
<<Pochi minuti, non di più.>>
<<Cosa? Ma hai sentito cosa ti ho detto?>>
<<Entro pochi minuti sarà tutto finito. Questa è una vittoria di paglia, Biagio!
Hai cercato all’esterno una medicina che fluisce solo dentro di te. Ti sei riscaldato ad
un fuoco provvisorio allontanandoti ancor di più dalla tua essenza.>> si fermò e,
dopo il solito respiro profondo, riprese <<Anche le persone che amano troppo,
finiscono per sottomettersi al proprio amante e quando qualcosa tra loro va storto,
sono assalite da un senso di vuoto e solitudine poiché si sono allontanate
eccessivamente da se stesse.>>
<<Quindi, vorresti dirmi che anche l’amore…>>
<<L’amore e l’egoismo sono divisi da una membrana molto labile. Quello che
conosci come “amore”, spesso si basa sulla ricerca di qualcosa che possa colmare dei
vuoti, oppure, esorcizzare delle paure come quel senso di smarrimento che avverti tu
e milioni di altre persone a questo mondo.
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Ci si barrica dietro una relazione per sentirsi più sicuri e protetti, ma l’amore non è né
limitato né tantomeno una chiusura, ma una sorgente che non conosce fine, un fluire
continuo. Per tale motivo, spesso, sfocia in gelosia, dipendenza, possessività: TI
VOGLIO bene, MIA moglie, MIO marito, i MIEI figli, la MIA migliore amica…
Biagio, non esiste cosa più bella che ascoltare la propria voce pronunciare il nome di
una persona amata.>>
<<Adesso che mi ci fai pensare, conosco molte persone che soffrono per amore!>>
Flavian annuì lasciando trapelare un timido sorriso.
<<Sei mai stato innamorato?>> fu la domanda secca di Biagio.
<<Io amo di continuo! Quando raggiungerai la tua vera essenza e sarai in pace con te
stesso, allora capirai.>>
Meccanicamente, allievo e maestro, s’incamminarono lungo un fitto dirupo senza proferire
sillaba. Biagio attaccò discorso con una nuova domanda, avvertendo un lieve tedio
nell’espressione di Flavian.
<<Flavian, siamo stati abituati da televisione, canzoni, film, a credere che soffrire per
amore sia normale e talvolta necessario. Insomma, voglio dire, esiste una differenza
nell’amare e il bisogno d’essere amati?>>
Flavian si massaggiò la barba e rispose:
<<Quando si avverte il bisogno di essere amati, vuol dire che si è diventati dei
mendicanti.>>
<<Che genere di mendicanti, spiegati meglio.>>
<<Beh, di quelli che hanno dentro di sé le più laute e sfarzose ricchezze ma, siccome
non sanno di averle, le elemosinano dall’esterno.>>
Biagio rammentò, in un secondo momento, la figuraccia fatta dinanzi a Santino e ai suoi
amici esigendo spiegazioni; quella mela, a differenza da quella che lui aveva assaggiato,
restituiva un sapore tutt’altro che squisito.
<<Ciò che piace a te non è detto che piaccia anche ad altri e viceversa. Ognuno di noi
è unico in se stesso seppur si possano condividere gioie e dispiaceri con altre
persone.>> spiegò allungandogli una pacca sulla spalla.
“Ecco, lo sapevo!” pensò Biagio, “Ne trova sempre una giusta.”
L’allievo e il maestro si deposero all’ombra di un pino a magiare dei pinoli. Il vecchio
Flavian, nonostante la cecità, armato di una pietra, colpiva i pinoli con una pedante
precisione.
Dopo qualche secondo di silenzio, Biagio domando con ovvietà:
<<Allora, per quale motivo mi hai spinto a partecipare a quella festa?>>
<<Perché c’è una bella differenza nel capire le cose e nel provarle. Altrimenti per
quale ragione mamma aquila lancia giù dal nido i suoi piccoli?... perché quegli
aquilotti devono scoprire di avere delle grandi e forti ali con le quali poter volare.
Avevi bisogno di renderti conto delle profonde discrepanze che separano la mente dal
tuo spirito.>>
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<<OK, ho imparato la lezione, ma ora come faccio a trovare dentro di me l’essenza
di cui ho bisogno?
<<Tu, come il più delle persone, sei abituato a risolvere i problemi pensandoci.
Dovrai imparare ad occupartene senza l’ausilio della mente.>>
Biagio appariva confuso.
<<Sarà come allenare dei muscoli che neanche sapevi di avere. Molte persone
praticano la meditazione per raggiungere questo scopo, ma è tremendamente
complicato, pertanto, opereremo in un modo diverso ma nel contempo simile; ti
spiegherò in seguito a cosa mi riferisco. Ora, ricordi la regola numero uno?>>
Dopo una breve esitazione, Giagio rispose squillante:
<<Il tempo non esiste, giusto?>>
<<Esattamente, ma per la tua mente esiste, eccome! Quindi, ci soffermeremo sul
momento presente, tutto il tuo corpo e i tuoi pensieri saranno impressi QUI in questo
momento. Ti dedicherai all’azione che stai compiendo.>>
<<Tutto qui? Devo solo pensare a quello che faccio adesso, ho capito bene?>>
<<Ti renderai conto delle innumerevoli chiacchiere della tua mente e quanto sarà
difficile all’inizio. La tua mente rifiuterà di prendere questa medicina. La sfera delle
emozioni e delle sensazioni istintive si risveglieranno, solo a quel punto sarai
completo dentro di te, Biagio.>>
Biagio diede segni di disorientamento, quindi il suo maestro, dopo essersi schiarito la voce,
esemplificò:
<<Mettiamola in questi termini: diciamo che albergano in te due forze energetiche
distinte: la prima, avvertita come “razionale e logica”, alimenta ogni malessere
interiore; l’altra, si presenta “irragionevole e profonda” ed è capace di placare
magistralmente le tue inquietudini, ma è come gettare acqua su un fuoco che si
alimenta di continuo. Ambedue si fronteggiano in un’estenuante braccio di
ferro, bloccato in una fase di stallo senza vincitori né vinti.>>
<<Quindi non ne usciamo?>>
Flavian addentò garbatamente una pera sfilata dal suo sacchetto della spesa, poi riprese con
pazienza:
<<Nessuna delle due forze prevarrà mai sull’altra poiché, entrambe,
fanno e faranno per sempre parte di te, bilanciandosi secondo le evenienze che
la vita ti riserverà. Il problema sta nel fatto che tutto questo non devi solo apprenderlo
mentalmente ma… beh diciamo che opereremo sul piano spirituale, quello che in te è
assopito, è per questa ragione che devi “allenarti” come ti ho consigliato. Sai. >>
riattaccò <<È come guidare un’automobile; devi essere tu a guidarla non devi
lasciare che sia lei a guidare te, altrimenti…t’ immagini i risultati no? Ma sì, tu hai
una fervida immaginazione, ah ah ah!>>
<<Mi stai chiedendo d’imparare a guidare la mia mente?>>
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<<Esatto, ma è di gran lunga più complicato che guidare una macchina! Almeno
nove persone su dieci, in una metropoli, guida un mezzo di trasporto, basta prendere
una patente ma non è detto che con il suo conseguimento tu sappia guidare.>>
Biagio rise pensando a suo nonno che impiegava circa tre quarti d’ora nel posteggiare l’auto
sotto casa. Sua nonna, non appena lo vedeva arrivare dalla finestra, capiva che poteva
mettere a bollire l’acqua per cucinare, giusto il tempo che avrebbe impiegato a
parcheggiare!
<<Inoltre, ammesso che tu ci riesca, non hai un gran bisogno di conoscere il
funzionamento del motore nei suoi particolari. Nel nostro caso, sarà diverso.
Gli antichi credevano che i terremoti fossero causati dall’ira degli déi,
quindi erano completamente fuori strada così come tu, in passato, ignoravi le
cause di questo tuo tormento interiore. Come un esploratore, ti sei
addentrato “all’interno della terra” così come fecero geologi e scienziati per
scoprire i misteri che essa celava, esautorando le vecchie ed erronee credenze.>>
Flavian si sedette su una roccia a forma di sgabello che sembrava fatta apposta per sedersi.
Per la prima volta, tolse i suoi occhiali scuri. I suoi occhi, seppur visibilmente stanchi e con
le sclere oculari ingiallite, irradiavano una pace ed una serenità come se quell’uomo non
vivesse su questa terra caotica e farraginosa. Il suo tono di voce commutò.
<<Il mio lavoro sta per terminare caro ragazzo! Tra non molto saprai fare a meno di
me, poiché potrai contare su tutti i mezzi necessari per iniziare a vivere sul serio, ma
attento, la lotta non finirà. Essa proseguirà dentro di te, come nel braccio di ferro di
cui ti parlavo prima… te lo ricordi o te ne sei già scordato?!>>
Risero amaramente e Biagio covava nel cuore paura e disperazione.
(CAPITOLO XV)
Il sapore dell’erba bagnata era percepito da Biagio mediante l’olfatto maggiormente
acuminato per la vasodilatazione delle vie respiratorie, dovuta alla febbricitante corsa.
Il giovane scappava facendo slalom tra gli alberi e intravedendo appena il terreno rischiarato
dalla candida luce lunare.
Un’entità malvagia, non ben riconosciuta, lo inseguiva con accanimento. Il panico e
l’adrenalina crescevano sincronicamente accelerando la falcata. Un burrone, forse il letto
secco di un vecchio fiume, gli sbarrò volitivamente la strada. Non meno di una dozzina di
metri lo separavano dall’altra parte della boscaglia; “saltare? Non ci penso nemmeno, non
sono un ninja!”, pensò Biagio.
Intanto, ad approfittare della sua indecisione, il “mostro”, o qualunque altra cosa sia stata,
mangiava il terreno e si avvicinava speditamente, senza indugi.
La paura di saltare non era altro che una bazzecola in confronto al timore di cosa avrebbe
trovato dall’altra parte, qualora il “grande salto” sarebbe stato sufficiente a conquistare
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quella presunta salvezza verso l’ignoto; in fondo, “chi parte sa da cosa fugge ma non sa di
cosa è in cerca”, rimuginava Biagio citando una frase di Montaigne.
Sforzandosi di muggire e ringhiare, come un toro alla carica, indietreggiò di diversi metri
per guadagnare una modesta rincorsa, muovendosi lentamente per acquistare elasticità,
come se stesse sistemandosi su di una fionda immaginaria. Si sarebbe lasciato alle spalle le
vecchie credenze e gli indiscussi dogmi creati dalla sua mente, fortificati vigorosamente
durante gli anni passati.
Come un fascio di luce accecante, una delle prime frasi, anzi, avvertimenti del vecchio
Flavian, riemersero dalla mente per arrivare ad essere metabolizzate dal cuore, niente più
pensieri: “Una volta iniziato il viaggio, non potrai più tornare indietro perché niente sarà più
come prima. Avrai nuovi occhi e altre aspirazioni. Non diventerai un’altra persona, sarai
semplicemente te stesso. Dovrai debellare tutte le leggi e le convenzioni dal tuo cervello
accumulate dalla nascita. Smetterai di cercare all’esterno quell’energia che guizzerà dal tuo
cuore come un gayser”.
Adrenalinico, lanciò un urlo che, come uno sparo ad una gara podistica, avviò quella
temeraria impresa. Pochi passi e un’altra voce, rassicurante ed energica, strepitò nel silenzio
della notte:
<<FERMO, ZUCCONE!!!>> era Flavian, in piedi dall’altra parte del dirupo,
visibilmente sereno e impassibile.
<<Lì vicino, alla tua destra, c’è un ponticello stretto e fragile. Attraversalo con passi
oculati.>>
Biagio ubbidì, rinfrancato di non essersi lanciato nel vuoto. Ad ogni passo, Flavian ripeteva:
“Leggerezza, morbidezza” in maniera così placida da far venir voglia d’addormentarsi
all’istante.
Giunto dall’altra parte, con l’insostituibile aiuto del suo maestro, rovesciò di sotto la tavola
di legno udendone il frastuono dell’impatto solo dopo una decina di secondi. Biagio si voltò
per vedere dov’era mai capitato e se non fosse caduto dalla padella alla brace.
I suoi occhi si aprirono alla realtà come le ante di una finestra spalancate dalla forza
impetuosa del vento. “Era solo un sogno!” pensò. Santino dormiva al suo fianco ghermendo
stretto al petto un cuscino ripieno di pagliuzze. Si trovavano in una locanda vecchio stampo
tra le collinette dell’Isla Magdalena. La sera precedente, decisero di albergare lì in cambio di
qualche lavoretto di restaurazione all’edificio, fatiscente e antiquato, un rudere insomma.
Giagio si liberò delle lenzuola, sottili come un’ostia, l’avvolgevano e, senza avvertire Santo,
si precipitò da Flavian servendosi dell’ausilio di una bicicletta, anch’essa obsoleta come la
pensione e i rispettivi titolari, i signori Peréz, due coniugi entrambi quasi centenari.
La porta di casa o, meglio, della baracca, era aperta e ad accoglierlo furono le affettuose
feste di Sasa seguite da un sonoro “Ben risvegliato!” del vecchio Flavian.
Biagio, preso dall’entusiasmo e dalla fretta di capire qualcosa riguardo il sogno fatto poche
ore prima, si spiegò raffazzonatamente, tanto da ricominciare a raccontare daccapo,
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convinto che il suo maestro non avesse compreso neanche una virgola; proprio non gli
riusciva d’essere compendioso.
<<Uhm, senz’altro una bella esperienza.>> annuì, come se fosse già a conoscenza di
tutto nei particolari, ancor prima dell’arrivo di Biagio.
<<Questo è tutto? E poi, quale esperienza? Si tratta di un sogno, Flavian.>>
<<Certo, un sogno. Secondo te per quale ragione ho esitato tanto a mostrarti la strada
più sicura, evitandoti di andare in mille pezzi?>>
<<Non saprei… ti sarai accorto di me solo in un secondo momento, forse?>>
ipotizzò Biagio, pur sapendo che si trattasse di una supposizione erronea.
<<Non basta capire, giovanotto. Ci sono quesiti che si risolvono pensando, come
equazioni aritmetiche, costruire grattacieli, guidare aerei, auto, pullman, moto; altri
quesiti si risolvono semplicemente senza pensarci. La tua essenza interiore saprà
sempre dove andare e cosa è bene per te. Guarda Sasa come sceglie accuratamente
cosa mangiare. Sa bene che ci sono cibi che potrebbero esserle letali, eppure né io né
chiunque altro le abbiamo mai insegnato cosa può o non può mangiare. La mente
spesso si accolla compiti verso i quali non dispone di mezzi necessari ad eseguirli.
Sei pronto, ora possiamo cominciare!>>
Biagio si chiedeva maniacalmente se Flavian centrasse qualcosa con il suo sogno.
<<Prima d’iniziare, mi spieghi cosa c’entri tu con il mio sogno. Voglio dire…>>
<<Il più delle persone non riesce a distinguere il sogno dalla realtà, trasferendo nella
realtà ciò che elaborano nella loro mente. Osservi una persona e già nella tua testa
essa assume forme ben precise provocandoti sentimenti falsati come: amore, odio,
simpatia, antipatia o anche paura… stesso dicasi con delle situazioni particolari.
Magari, quando vieni a contatto con questi “fattori esterni” ti accorgi che non sono
nulla di tutto questo.
<<In effetti, mi capita spesso. L’ultima volta è successo con un camionista
milanese.>>
<<Ivano, giusto?>> chiese Flavian, mentre lo sgomento si colorava negli occhi di
Biagio <<Te l’ho detto, non sono uno stregone. Semplicemente sei molto distratto e
non ricordi che mi hai parlato di lui almeno una decina di volte e mentre lo facevi
“sognavi”. La tua mente vagava altrove nello spazio e nel tempo.
<<Giacché siamo in tema, una delle mie più grandi paure è quella del futuro…>>
Flavian continuava a lavorare riempiendo grosse ceste di frutta fresca e dall’aspetto
succulento. Biagio, per non apparire indolente, partecipò offrendogli una mano di tanto in
tanto. Decise poi di assaggiare una pera, questa volta tutt’altro che marcia. Il disgusto gli
fece corrugare i muscoli del viso, quindi Flavian aggiunse:
<<Almeno non ti sei leccato i baffi prima di morderla. Stai imparando qualcosa
allora!>> poi riprese rispondendo all’inquietante interrogativo dell’allievo:
<<Un cantante inglese disse che “la vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a
fare progetti per il futuro”.
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Ad ogni modo, il tempo non esiste, questo avresti dovuto impararlo. È un’illusione
della mente: il passato non esiste più; il futuro non esiste ancora. Se non ti liberi del
passato, esso influenzerà la tua vita nel solo tempo che conta: il presente. Siccome
non sei mai riuscito a scalare l’Everest in passato, ciò non vuol dire che non ci
riuscirai mai, oppure, poiché non ti sei mai imbattuto in incidenti stradali, puoi stare
tranquillo e guidare senza badarci troppo ostentando la tua sicurezza. Ad ogni modo,
ti farai dal male per qualcosa che esiste solo nei tuoi pensieri.>> con uno straccio
umido asciugò un rivolo di sudore intenzionato ad arrestarsi sul sopracciglio destro.
<<Sai qual è il metodo migliore per estinguere un fuoco?>>
<<Beh, occorre soffocarlo, generalmente si usa l’acqua ma dipende dai casi…>>
<<Bravo sapientone! Il fuoco arde grazie all’ossigeno presente nell’aria, privalo di
quest'elemento e la fiamma si dissiperà. Se privi la tua mente del tempo otterrai lo
stesso effetto. I pensieri, come le fiamme di un incendio, si dissolveranno come fumo
nell’aria. Molti maestri spirituali, nel mondo, perseguono questa disciplina basata sul
momento presente “il qui e ora”.
(CAPITOLO XVI)
L’allievo e il maestro s’incamminarono per la stradina che portava alla bancarella della
frutta. Flavian parlava del canto degli uccelli e dell’ubriacante profumo dei fiori. La natura
procedeva nel suo corso senza fretta e senza sottoporsi a tanti giudizi, proprio come “un
ragno su una ragnatela che si nutre di una mosca”.
Un bambino. Un bimbo di sessant’anni circa! Si crogiolava tra quei colori e quelle forme
come se le scoprisse per la prima volta. Biagio quasi lo invidiava: cosa ci vedeva di tanto
stupefacente, certo era un bel posto, lontano dal caos e dai problemi della vita moderna, ma
lui era eccessivo.
<<La mente si nutre di tempo e di problemi, tanto che se non li ha ne inventa
apposta. Quando te ne sarai liberato anche tu, allora vedrai davvero. Ti accorgerai
della presenza di cose che non immaginavi lontanamente potessero vivere su questa
Terra. Per adesso sei solo un povero cieco…>>
<<Ok, ma non mi hai ancora istruito su come liberarmi dalla morsa dei pensieri. Non
ti nascondo che certe volte mi sembra una stupidaggine tutta questa storia.>>
<<Ti avevo avvertito: la mente ti porta verso una strada diversa. Si sente minacciata
dal silenzio e dal presente. Tenta con fermezza di persuaderti dall’evasione.>>
<<Quindi?>>
<<Prova a portare il pensiero solo ed esclusivamente sull’azione che stai compiendo
adesso, sii nel momento che passa. Avverti la posizione del tuo corpo sulla terra,
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osserva le tue mani toccare le casse di frutta, ascolta i muscoli contrarsi. Respira.
Senti l’aria invadere i tuoi polmoni e fluire fuori dalle narici. Piano. Non c’è fretta.
<<Scusa.>> interruppe Biagio impacciato <<Non riesco ad avvertire la posizione del
mio corpo…>>
<<Perché sei abituato ad orientarti servendoti degli occhi, facendo riferimento
esclusivamente a ciò che vedi. Un famoso pugile anni fa disse: “le mani non
colpiscono quello che gli occhi non vedono”. Prova a chiudere gli occhi e a restare in
piedi su una sola gamba.>>
<<È vero! Riesco a percepire l’intero peso del mio corpo.>>
Flavian salì sul tronco tagliato di un albero aprendo le braccia e tenendo le mani tese e in
pronazione, come se emulasse la posizione di un’arte marziale. Rimase in tale stato di quiete
per oltre quindici minuti senza scomporsi di un millimetro. Un grosso albatro gli si posò
sull’avambraccio e un’improvvisa folata di vento investì improvvisamente quella zona del
bosco.
La bufera infuriava sempre più violentemente, tanto che il povero Biagio dovette ripararsi
dietro lo spesso tronco di un albero interrato nelle vicinanze. Flavian sembrava non
accorgersi di quanto imperversava intorno. Un’aura di luce segnava i contorni del suo corpo
sfiorito e rugoso, come accadde la notte in cui incontrò Biagio per la prima volta.
Cessata la tempesta passeggera, Flavian ritornò ad assumere una postura normale,
lentamente, come se avesse avuto delle uova sotto i piedi. Invitò, poi, il suo giovane allievo
a compiere lo stesso esercizio.
Biagio barcollava come un ubriaco appena uscito dall’osteria. Sembrava impossibile restare
in equilibrio come Flavian.
<<È inutile, non ci riesco!>> s’innervosì. <<Dov’è il trucco? Hai della colla sotto le
scarpe o cosa?>>
Flavian gli ordinò perentoriamente di riprovare. Giagio si lasciò guidare dal suono dalla sua
voce che divenne della stessa omotonia di una serie Wind chimes suonate da un leggero
soffio di vento.
<<Sei il momento che passa…>> ripeteva Flavian.
I fantasmi nella mente di Biagio scomparvero con la stessa dolcezza della voce di quel
vecchio e bizzarro cieco. I cinque sensi si risvegliarono: il suono delle onde del mare in
lontananza, il profumo dell’erba, la percezione dell’aria nitida e frizzante a contatto sulla
pelle, il flusso del sangue nelle vene, i battiti del cuore sempre più radi, il sapore
dell’ossigeno che risanava ogni cellula del corpo. L’essenza che emergeva splendente come
il riflesso delle stelle in cielo. Sembrava impossibile. Il suo cuore era tracimante di gioia
senza ragione alcuna. Mai si era sentito in quel modo: la mente continuava a svuotarsi di
pensieri diventando sempre più efficiente nelle sue funzioni vitali. Era in pace…
<<Basta così, sembri un fenicottero!>> consigliò Flavian.
Biagio ripoggiò la gamba destra in terra percependo la lenitiva sensazione di riposo risalire
lungo l’arto inferiore. Senza proferire parola, s’inginocchiò in terra e cominciò a piangere
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come un neonato, senza però intuirne il motivo. Flavian si avvicinò carezzandogli
paternamente il capo.
<<Questo è solo l’inizio! Prendila come una dimostrazione.>>
(CAPITOLO XVII)
All’imbrunire, il giovane adepto di Flavian, ritornò alla locanda dei Pérez. Camminando per
i sentieri, tutto sembrava così diverso e pieno di energia. Era come risvegliarsi in una realtà
diversa abitata da una natura tutta nuova e da scoprire. La verità è che non era cambiato
nulla, la trasformazione si era manifestata dentro di lui. Adesso, Biagio aveva altri occhi e
altre orecchie per percepire il mondo che lo circondava senza lasciarlo mai solo. Il sole
sembrava nascondersi burlesco dietro i rami degli alberi. Una breve ma intensa brezza estiva
proveniente dal mare, ne rilassò la mente a tal punto da fagocitarlo nella natura selvaggia
circostante, in un estasiante e beato panismo. Solo ora poteva capire quelle il
comportamento di Flavian quando passeggiava fondendosi nella vitalità degli esseri viventi
intorno a lui.
Quella sorta di “sogno lucido” fu interrotto dalla voce adirata di Santino che lo colpevolizzò
di aver lasciato a lui tutto il lavoro da fare. Biagio era inebetito, come incantato da un
magico sortilegio che gli impediva di riprendere conoscenza. Riprese pian piano contatto
con la realtà scusandosi con Santino.
L’irritazione di Santino sminuì velocemente poiché c’era una buona notizia.
<<Ho trovato il modo di ritornare a casa!>> rivelò euforico al compagno di viaggio
che, ascoltando quelle parole, s’intristì vistosamente.
Aveva perso completamente la cognizione del tempo, dimenticando che mancavano
pochissimi giorni alla fine del mese; il calendario segnava il ventisette di agosto.
Un pensionante italo-messicano, el caballero Armando Sanchez, ex ufficiale dell’esercito
messicano, avrebbe potuto aiutarli a rimpatriare in pochissime ore. Un contadino del posto
era disposto a dare loro uno strappo fino al distretto militare di Guadalajara. Qui, avrebbero
preso un aereo diretto a Ciampino per motivi diplomatici. Senza documenti e “scocciature”
burocratiche perditempo.
<<Il colonnello m’ha preso in simpatia! Domani te lo presento.>>
L’espressione di Biagio era chiaramente segnata da meraviglia e avvilimento. Non si sentiva
del tutto pronto per ripartire, si trovava ancora in fase di “rodaggio”.
Santino colse il disagio del suo compagno e chiese:
<<Che c’è? Non sei contento?>>
<<Ce-Certo che sono contento! Solo non mi ero reso conto che fosse passato tanto
tempo.>> s’interruppe <<Siamo su quest’isola da sole due settimane ma sembra
passato un anno intero. Flavian ha ragione, il tempo non esiste. Si tratta di un raggiro
della mente: un minuto può essere molto più durevole di un’ora.>>
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Santo percepì che qualcosa era cambiato in Giagio ma non ne era preoccupato, anzi.
Finalmente il suo caro e insostituibile amico, grazie a quel rocambolesco viaggio, era
riuscito a raggiungere il suo scopo. Anche se non sapeva delle erudite lezioni impartite da
quel bizzarro maestro di spiritualità, capì che Biagio aveva bisogno di tutto il tempo rimasto
per terminare il suo “addestramento”.
<<Vai dove devi andare, ci penso io qui. Tanto un po’ di ginnastica non potrà farmi
che bene!>> rassicurò sorridendo.
Biagio lo ringraziò ricambiando il sorriso per poi turbinare via per i sentieri di montagna,
ormai era avvezzo nel percorrere quelle impervie stradine sterrate.
Quelle calde notti d’estate, la selva si trasformava in un gigantesco lettone mentre la soffusa
luce della luna imitava quella di un lume da comodino.
La soave melodia di un tango argentino accompagnava i passi sempre più morbidi e
misurati del giovane Biagio. La musica dei bandoneón lo seducevano come le sirene
ammaliatrici dell’Odissea.
Le rasserenanti note fuoriuscivano, come il profumo di un delizioso dolce appena sfornato,
dalla finestra della casetta di Flavian per espandersi nella radura circostante. Biagio si
appollaiò alla finestra come un pappagallo curioso, il vecchio Flavian era impegnato a
scaldare della frutta secca simile mai vista prima, muovendosi meticolosamente a tempo di
musica.
<<Che fai lì? Entra!>> sbottò.
Giagio si sedette sulla breve scalinata che conduceva al piano superiore dove c’era una sorta
di “deposito della frutta”. Avvertì il suo maestro che il tempo era agli sgoccioli, riferendogli
dell’insicurezza nel mettere in pratica quanto aveva imparato in quei pochi giorni.
<<Immagina ciò che hai appreso come un disegno imprigionato in un foglio. Ora
riportalo nella realtà, come hai fatto questa mattina. Non pensare di doverlo fare,
ricorda quello che ti ho detto: ci sono quesiti risolvibili grazie all’ausilio della mente,
ed altri in sua totale assenza.>> ripropose, fintanto che finiva di cucinare quelle strani
noci.
<<Il corpo è solo un mezzo che ci consente di nutrire l’anima permettendole di
raggiungere il suo scopo nella vita! Ricordi? Lo dicesti tu qualche giorno prima di
cimentarti in questo viaggio.>>
Biagio pietrificò. La paura gli fece mutare drasticamente espressione:
<Insomma, si può sapere chi diavolo sei?!>> chiese aggressivamente.
Flavian continuò il suo sermone con indifferenza:
<<Non solo il corpo, ma anche la mente è un mezzo. Le passioni, l’amore,
quell’inspiegabile gioia che hai provato oggi, dimorano nell'essenza. La chiave per
giungere ad essa la troverai semplicemente senza pensarci.
Ci sono stati donne e uomini che, di punto in bianco, una mattina qualsiasi della loro
vita, si sono ritrovati con abilità straordinarie senza averle apprese da nessuna parte.
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Non sforzarti di amare o di seguire passioni e ti stupirai di cosa sarai capace di fare...!
>>
L’ira di Biagio si lenì masticando un acidulo ma rinfrescante anacardio. Domandò, con aria
spenta e afflitta:
<< Ho sempre creduto che un giorno sarebbe cambiato tutto e sarei stato felice per
sempre.>>
<<NON ESISTE!>> rintronò Flavian <<La felicità è un’illusione commerciale creata
per manipolare le menti delle persone. Ti faranno credere che solo acquistando questo
o quell’oggetto oppure comportandoti in un certo modo, nella vita, sarai felice.
Corriamo come pazzi in tutte le direzioni con gli occhi colmi di paura, instancabili
come formiche alla famelica ricerca di una fetta di felicità, per arrivare al termine
della vita e domandarsi a cosa sono valsi tutti quegli sforzi, immolati ad un’idea che
non è mai esistita. Ti sei mai chiesto per quale ragione nelle società moderne,
soprattutto industrializzate, l’ansia, il panico ed altri tipi di disturbi spadroneggiano
incontrastati?>>
<<Adesso sei anche psicologo?>> scherzò Biagio.
<<Psicologo? Ah ah ah. No, non io…>> farfuglio con un’inflessione di voce dolceamara, come se un ricordo fosse emerso rampollando dalla memoria.
<<Se solo la smettessimo di sfinirci e ci fermassimo, anche solo per un istante…>>
Flavian tossì violentemente spaventando Biagio che, tempestivamente, lo aiutò a distendersi
sul letto e a bere dell’acqua, pregandolo di non strapazzarsi troppo. Quel vecchio cieco ci
stava mettendo l’anima in quegli insegnamenti. Chi meglio di lui sapeva come servirsi
dell’essenza interiore.
Il viso di Flavian riprese presto colorito. Non era mai successo, nel corso di quelle due
settimane, che desse segni di squilibri fisici. Biagio chiese educatamente se ed in che modo
avesse potuto aiutarlo, ma lui lo ignorò proseguendo nella sua acuta filippica.
<<Di la verità, hai avuto paura che stessi per andarmene all’altro mondo, non è così?
>> interrogò Flavian.
Biagio lascio intravedere un accenno di preoccupazione.
<<”Nulla si crea. Nulla si distrugge. Tutto si trasforma”.>> intonò cadenzando le
parole. <<Sono certo che abbia già sentito questa frase. >>
<< È di Lavoisier, giusto?>>
Flavian si rialzò dal letto e cominciò ad eseguire una serie di piegamenti sulle braccia senza
il minimo affanno, dopodiché, si dedicò al giardinaggio innaffiando delle piantine di
basilico e menta poggiate sul davanzale della finestra, come se nulla fosse successo.
Altre volte consigliò Biagio di tenersi in forma, mangiando cibi sani e riposando a
sufficienza, “È vero che il corpo è solo un mezzo, ma rispettalo e abbine cura!”
“Come accidenti è possibile” pensò Biagio, “Un attimo fa lo visto con un piede nella
fossa!”.
<<Hai paura della morte?>>
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<<Certo che ho paura! Altrimenti perché avrei esitato tanto quella sera sul ponte?>>
<<Un’altra illusione; non sei tu a temere la morte ma la tua mente, attaccata com’è
alla vita materiale. Essa è rigida, plasmandosi in una forma ben definita.
Spesso, l’essere umano, nelle sue credenze contorte, cerca la perfezione e la sicurezza
per tutto l’arco della propria esistenza.>> spiegò, intanto che le goccioline d’acqua
dell’innaffiatoio piovevano sulle foglioline profumate delle piantine.
<<Siamo energia, ragazzo mio. Non abbiamo una forma, cambiamo secondo gli
avvenimenti che la vita ci riserva. Se ci opponiamo a tali cambiamenti, creiamo una
resistenza che c’impedisce di proseguire nel viaggio.>>
<<Un po’ come cambiare marcia…?>>
<<Esattamente, bravo!>> si congratulò voltandosi e rovesciando, inavvertitamente,
l’acqua sul pavimento.
<<Di quale viaggio parli?>> domando Biagio ingenuamente, ricevendo come
risposta un sorriso ammiccante.
(CAPITOLO XVIII)
L’ultima notte trascorsa su quella magica e incantevole isola, Biagio decise di passarla
dormendo da Flavian. Si svegliarono all’alba e, immediatamente dopo aver consumato una
frugale colazione composta prevalentemente da frutta fresca, piombarono giù in spiaggia
scivolando come alci per i sentieri scoscesi dell’isola. Il profumo e l’evirata brezza marina,
erano il conforto giusto per allenare la mente e lo spirito. La vegetazione incontaminata
sovrastava tronfia l’esile striscia di sabbia. Quella zona dell’isola sembrava totalmente
disabitata.
<<Non sono mai stato qui. È bellissimo!>> asserì Biagio ammirando quel luogo
paradisiaco in un solo sguardo.
<<Ci sono dei luoghi su quest’isola che nessuno conosce, nemmeno chi l’abita da
secoli.>>
<<È un vero peccato…>> commentò Biagio.
Flavian si sedette sulla battigia con le gambe incrociate e le mani poggiate all’interno delle
ginocchia, sui menischi. Serrò lentamente gli occhi e tacque per diversi e interminabili
secondi.
Una visione onirica si palesò dinanzi agli occhi in tripudio di Biagio: Carmen!
Usciva dall’acqua in costume completamente bagnata. I capelli si attaccavano, appesantiti
dall’acqua salata, sulle spalle e sul petto. Il suo corpo era scultoreo ed il suo viso sensuale
ma grazioso. Si passò una mano tra i capelli, mentre il cuore di Biagio tentava di schizzare
via dal torace scalciando freneticamente.
Il suo sguardo urtò contro quello inebetito di Biagio. Gli si avvicinò con passo lento e
voluttuoso finendo per sedersi dinanzi a lui. I loro volti si avvicinarono come attratti da un
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invisibile e inspiegabile magnetismo. I nasi s’incrociarono come le spade di duellanti carichi
d’impeto e ardore. Le dita della mano di Carmen sfiorarono, madide di sabbia bagnata, le
labbra socchiuse di Biagio che provò una sensazione simile all’ansia, ma decisamente più
piacevole.
<<HAI FINITO DI RONFARE???>> echeggiò la voce rauca di Flavian.
Erano sulla stessa spiaggetta e Flavian continuava a meditare nella stessa posizione assunta
pochi minuti prima.
<<Accidenti Flavian! Perché mi hai svegliato? Stavo facendo un sogno bellissimo…
>>
<<Siamo qui per questo. Questa piccola oasi e quello che vi accade, rappresenta il
riflesso di quanto succede dentro di te.>>
<<Non capisco.>> scosse la testa ancora mezzo intontito.
La natura di quegli strani sogni rivelatori restava ancora un enigma.
<<Sai, quando penso a lei sono raggiunto da una ventata di beatitudine mista ad
angoscia. Forse perché rimarrà solo un’illusione.>>
<<Non è l’oggetto o la persona desiderata che ci infonda benessere, ma è il rapporto
che si crea con essi.>>
<<Quindi, se ti chiedessi “se i soldi fanno la felicità” quale risposta riceverei? Di no,
per caso?>>
<<Ci sono persone che con molti soldi hanno rovinato la propria esistenza o l’hanno
rovinata ad altri; ce ne sono altre che, con pochi spiccioli, hanno saputo vivere molto
più serenamente. È assiomatico, questi sono fatti.>> accortosi del disaccordo di
Biagio, pur essendo cieco come una talpa, approfondì <<Hai notato mai uomini che
diventano schiavi della propria automobile? Magari qualcuno ne compra una nuova,
bella, potente, scintillante. Poi ha paura che gliela righino, che si possa rompere
oppure che possano rubargliela. Allora vive costantemente accompagnato da uno
stato d’ansia e d’angoscia, sino a diventare veramente infelice. Sai, ho un amico da
queste parti, ha un furgoncino che somiglia ad un macinino sgangherato, vecchio e
rotto, ma non immagini l’aura di serenità che lo circonda, ah ah ah…>>
Biagio rimase per un po’ ad elaborare dentro di se quelle filosofiche analogie, quindi
domandò:
<<Il discorso vale anche per i rapporti con le altre persone, deduco.>>
<<Assolutamente.>> confermò <<L’essere umano, nel corso dei secoli, è stato
inculcato nel raggiungere sempre traguardi davanti a se. Anche se tu guadagnassi un milione
di pesos al giorno, non ne saresti mai sazio.
<<Come accade con le persone che mangiano oltre il loro fabbisogno?>> domandò
Biagio aguzzando gli occhi.
<<Esattamente, la chiamano fame psicologica. Come vedi, il discorso che ti ho
appena elargito, si ripercuote su molti altri aspetti della vita quotidiana.
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Flavian si alzò e cominciò a stiracchiarsi come un gatto, Biagio lo seguì, imitando gli stessi
gesti di allungamento dei muscoli. Inalò una cospicua quantità d’aria sprigionata dal mare,
sollevando il capo verso i primissimi bagliori del cielo albeggiante. Con un’espressione di
totale prontezza e preparazione, domandò:
<< OK, da dove si comincia. Con cosa mi esercito?>>
<<Con la vita. Con ogni singola azione che compi; senti il respiro armonizzarsi con i
gesti, i movimenti. Percepisci il corpo spostarsi sulla terra, l’attrito dell’aria sulla pelle, i
suoni, gli odori, la vita che ti circonda… c’è sempre qualcosa da fare, Biagio. Non sei mai
stato solo, soltanto un po’ cieco!>> le onde del mare e il garrito dei gabbiani erano il
solenne sottofondo a quelle ieratiche parole. <<Adesso ci vedi, Biagio! Sei padrone della
tua mente molto di più di quanto lo sei delle mani e di ogni altro muscolo del tuo corpo.>>
<<Grazie di avermi insegnato tutto questo…!>> fu l’unica frase espressa con voce
rotta dall’emozione.
<<Non devi ringraziarmi.>>
<<Dai, non fare modesto!>>
<<Sciocco, io non ti ho insegnato un bel nulla. Tutto quello che hai conquistato
albergavano già dentro di te, io mi sono solo limitato ad illuminarti la strada. >>
Si salutarono e Biagio si allontanò dalla spiaggetta dirigendosi al casolare dei Peréz, pronto
ad aiutare Santino nei lavori di muratura. Un’insolita energia lo raggiungeva un minuto
dopo l’altro semplicemente senza fare nient’altro che tenere la mente alla larga da pensieri
inutili. Era come se un ingombrante groppone gli fosse stato rimosso dalle spalle rendendolo
leggero e scattante, indomito come un cavallo, anzi, come un somaro affrancato dalle sue
draconiane vessazioni.
Con un interminabile allungo di corsa per i prati di quell’isola incantata, giunse
tempestivamente da Santino che era occupato a squarciare una caterva di mattoni in tufo
giallo. Con gli occhi lacrimanti a causa dell’alta velocità, come se fosse arrivato in moto,
salutò il suo carissimo amico facendogli intendere con lo sguardo che aveva raggiunto il suo
obiettivo ed era felice di condividere quella sfibrante fatica con lui. Si lanciò a capofitto tra
pale, scalpelli e sacche di cemento, famelico di lavoro.
I movimenti si facevano sempre più oculati e coordinati al respiro. L’aria veniva espulsa
lentamente senza emettere alcun rumore, mentre un muro di mattoni cresceva a dismisura
sotto gli occhi increduli di Santino che cominciava a interrogarsi su cosa avesse fatto in quei
giorni misteriosi su quella fetta di terra bagnata dal mare.
Il campanile dell’isoletta batté dodici rintocchi; finalmente era ora di pranzo.
Dopo essersi rifocillati bagordamente lo stomaco di totopos turgide e ripiene di mais.
Sazi e saturati di cibo, optarono per una breve pennichella ristoratrice all’ombra di un
possente tassodio.
<<Me lo presenti prima di partire?>> fu la domanda inaspettata di Santino.
<<A chi ti riferisci?>>
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<<Dai, che non sono poi così scemo! Ho capito che è stato quel vecchio cieco di cui
mi parlavi appena siamo arrivati. È stato lui che ti ha cambiato, non è vero?>>
Biagio faticava a nascondere la verità ora che era stato francamente scoperto. Pensò: “e se
gli proponessi di venire con noi in Italia? Al paese avrà certamente modo di continuare la
sua professione aprendo una frutteria.”
Come una trota che con un guizzo schizza via dall’acqua, Biagio si rimise in piedi e corse
via senza dare spiegazioni a Santino che si era da poco addormentato.
Un fulmine attraversò la fitta vegetazione della collinetta passando da quelle contrade che
ormai gli erano familiari. Anche l’istinto si era risvegliato grazie a quell’atipico
allenamento, adesso gli consigliava di fermarsi nell’orticello della parrocchia abbandonata
senza però rivelargli il motivo.
Così fece. Dal vialetto contiguo alla chiesetta, scorse la sagoma della piccola Sasa che,
stranamente, rimase immobile privandolo delle sue briose feste. A mano a mano che si
avvicinava, la scena si completava rendendogli lo stesso compiacimento di un pittore che
vede terminare il suo quadro.
Flavian era lì, in piedi, con l’identica espressione di quella “fredda” e buia notte di due
settimane prima. Una busta della spesa in una mano e il guinzaglio del cane nell’altra.
Biagio non si chiese il perché di quella strana e astrusa situazione, fece finta di nulla e si
limitò a fare la sua proposta:
<<Ascolta Flavian, noi partiremo in giornata. Mi chiedevo se… insomma…>>
balbettò.
<<Lo so che ti sei affezionato a me e a Sasa. Come vedi, non è stato importante
conoscere il mio vero nome o il mio passato per creare un saldo legame>> disse
carezzando la testolina scarna del piccolo pastore tedesco. <<Anche noi ti vogliamo
bene, ma è importante che le nostre strade si separino perché tu possa comprendere il
senso del viaggio.>>
Biagio sorrise con evidente amarezza e tentò ostinatamente di convincerlo, ma a nulla
valsero quei tentativi.
<<Fa parte dell’addestramento, Biagio. La vita è un continuo mutamento: persone,
luoghi, passioni, non saranno mai eterni. Non essere rigido, sei energia senza forma,
come quella nuvola che “galleggia” su nel cielo. Ammira la saggezza di quegli alberi:
si flettono alla forza del vento, altrimenti si spezzerebbero. Sii cedevole in questo
viaggio, ragazzo mio. Cambia forma secondo gli ostacoli che ti ritroverai di fronte;
solo così la tua sarà davvero vita.
Questa era l’ultima regola. Ora conosci la strada… cerca di non perderti più, mi
raccomando!>>
Finì le sue ultime raccomandazioni sfilandosi gli occhiali e porgendole al suo allievo per un
motivo che, al momento, Biagio non riusciva ad intuire.
Li raccolse come fossero state una reliquia e li ripose prudentemente in tasca.
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Non volle deludere il suo maestro il giorno del suo “diploma”, quindi lasciò andare le
emozioni come aveva imparato e subito dopo fece un respiro profondo.
Si voltò e percorse a ritroso la stessa strada che, una “fredda” sera d’agosto, l’aveva
condotto su quel ponte dove, per un magico mistero, s’incontrarono le loro anime.
(CAPITOLO XIX)
Nel tardo pomeriggio, dopo essersi dati una corroborante ripulita con un bagno fresco e
lenitivo, si prepararono ad affrontare lo stress del viaggio di ritorno.
Il contadino che li avrebbe accompagnati a Guadalajara, un certo Beto De Toño, li attendeva
nel furgoncino con sguardo seccato. Salutarono i signori Perèz con un fugace abbraccio ed
entrarono nell’abitacolo di quel precario mezzo di trasporto. Beto possedeva un girovita
abbastanza ingombrante, tanto da schiacciare i due passeggeri contro il finestrino
dell’abitacolo. Inoltre, emanava un tanfo alquanto maleodorante e i peli all’interno delle
orecchie erano abbastanza lunghi da poterci ricavare dei bellissimi colpi di sole.
Il fetore infestò l’intera cabina di guida senza lasciar scampo ai poveri nasi dei due ragazzi.
<<¿Escuchame, recientemente usted ha estado en un tren en Toscana?>> chiese
Biagio, coprendosi il volto con la t-shirt.
L’andatura claudicante di quello sgangherato mezzo di trasporto, suscitò in Santino un
interrogativo:
<<Mi tolga una curiosità, buon uomo, ma lei ci mette la benza o la birra nel furgone?
>>
<<No entiendo.>> rispose adirato.
Dopo essersi imbarcati con il furgoncino su un piccolo traghetto, raggiunsero l'aeroporto in
meno di mezz’ora.
Il colonnello Sanchez accolse calorosamente Santino facendogli alcune raccomandazioni sul
viaggio. Sarebbero arrivati a Roma, all’aeroporto militare di Ciampino, il 31 agosto, giusto
in tempo per le celebrazioni di Santo Strato. Dalla capitale sarebbe stata una passeggiata
ritornare a Montelepre.
Nel cortile contiguo alla pista d’atterraggio, un albero spuntava alle spalle di un hangar.
Nell’attesa del volo, Biagio si sentì sfidato da quell’enorme palo di legno.
Come un bambino voluttuoso di giocare, si avventò contro quel colosso, emulando gli stessi
movimenti di Flavian. Riuscì ad arrivare fino a metà strada per poi voltarsi verso il basso; le
vertigini lo rapirono e un ramo secco si spezzò, inavvertitamente, sotto la pressione del suo
piede. La violenza fu tale da fargli mollare la presa nella mano destra, rimanendo penzolante
come un frutto maturo in procinto di precipitare sul terreno brullo. “Devo sbrigarmi!” pensò,
il muscolo dorsale e i tendini dell’avambraccio iniziarono a bruciare.
Fece appello ai preziosissimi insegnamenti del vecchio Flavian, custoditi gelosamente.
Trattenne il respiro rilassando i muscoli, tentò di portare l’attenzione a quel preciso istante,
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elidendo dalla sua mente tutti gli altri pensieri. Senza esitare, spinse le gambe verso l’alto
per slanciarsi, con la mano libera afferrò saldamente una cavità nel tronco. Da un momento
all’altro, si ritrovò seduto su di un “ramo maestro”.
Sollevato ed euforico, si compiacque con se stesso, ma una domanda angosciante e scurrile
gli fece gelare il sangue: “Sì, vabbè bravo, ma adesso come cazzo scendo da quassù?!”
Santino si ritrovò a passeggiare lì sotto, impegnato a sorseggiare una bibita.
<<Che dici, me la daresti una mano?>> chiese, vedendo Santino bighellonare
tranquillamente sotto l’albero.
<<Che minchia ci fai lassù? Come ci sei arrivato?>>
Dovettero mobilitare un’autobotte dei pompieri con tanto di scala estendibile per farlo
ritornare a terra.
Finalmente, dopo diverse decine di minuti, furono fatti accomodare nell’aereo, un vecchio
Douglas C-47 Dakota. Il colonnello Sanchez percorse il tenue corridoio alle loro spalle per
arrivare da loro a portare gli ultimi saluti.
Salutò entrambi, raccomandando Biagio:
<<E lei, giovanotto, la smetta di salire sugli alberi altrimenti, prima o poi, si farà del
male!>> consigliò, con il suo italiano acciaccato.
L’aereo si degnò di decollare solo a tarda serata con arrivo previsto a Ciampino nel
pomeriggio. Non ebbero nemmeno modo di salutare Carmen e lo zio Pedro; chissà come
sarebbe proseguito il loro “viaggio”?
A rincuorare Biagio, fu il ricordo di quello stranissimo cieco: chi era? Come poteva un
semplice barbone raggiungere quella condizione di pace interiore e fruire di tutta quella
straordinaria conoscenza?
Dall’alto, la piccola Isla Magdalena sembrava esser fluorescente nel buio della notte. La
luminescenza dell’isolotto scemava in lontananza e le sue luci brillavano come le fiamme
dei carboni arsi di un fuoco, infondendo malinconia nei cuori dei due ragazzi, ignari del
futuro che li attendeva e delle altre mille traversie che la vita gli avrebbe inviato contro.
I passeggeri a bordo, in maggioranza militari e funzionari di Stato, si lamentarono delle
frequenti scosse che rendevano il volo sconfortevole. Biagio e Santino risero a quelle parole,
rammentando il viaggio d’andata passato alla diaccio chiusi dentro un container.
Il comandante invitò i passeggeri ad allacciare le cinture; l’atterraggio sul suolo nostrale era
imminente.
<<Avessi saputo, l’avrei guidato io sto trabiccolo!>> disse Santino, infastidito per
l’impatto di quel brusco atterraggio.
Il sole sembrava essersi fermato nel cielo al momento della partenza, il fuso orario, di circa
otto ore, avrebbe perdurato con i suoi effetti nei giorni avvenire.
Un’auto dell’aeronautica militare li “scortò” fino alla stazione ferroviaria, questa volta
decisero di acquistare i biglietti, vista la spiacevole esperienza precedente.
Una volta giù dal treno, si tuffarono dentro un autobus di linea diretto a Pédimonte, il
comune contiguo di Montelepre.
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Biagio si svegliò a pochi chilometri dalla destinazione, accorgendosi che erano da pochi
secondi passate le 23.00. Corsero come dannati per i due chilometri che li separavano da
Montelepre, poi un miraggio comparve dinanzi ai loro occhi: il trattore di Don Saverio.
Si aggrapparono su quel mulo meccanico a quattro ruote motrici, quindi, salutarono Saverio
che li aggiornò sulla situazione in paese e della festa che era quasi allo scadere. Inoltre, li
mise al corrente della collera delle loro famiglie, divorate dall’ansia per quell’imprevidente
bravata.
<<Bucefalo come sta, gli sono mancato?>>
<<Quel figlio di un’asina è scappato qualche giorno fa, mi ha anche distrutto il
box.>> rispose Saverio, digrignando i denti dalla rabbia.
<<Mi dispiace.>> consolò Santino.
<<A me per niente!>> esclamò Biagio.
Biagio s’immaginò la scena dell’evasione di Bucefalo:
Il calpestio degli zoccoli risuonava nell’aria; non era libero, era la libertà a scorrere in lui.
Essere liberi vuol dire fondersi con il mondo intorno: ora era una robusta quercia, adesso
una pietra e ancora un docile ruscello di montagna. Non aveva forma, non era nel tutto, era
il tutto.
Una folla errante si aggrappava, come una funicolare, per le salite del piccolo paesino di
periferia. Alla testa del corteo, il parroco, il sindaco e il papà di Biagio con tanto di
pennacchio sul berretto. I due viandanti si fusero con il gregge di persone salutando amici e
conoscenti che, alla loro vista, furono scossi da un sussulto, come se avessero visto i loro
fantasmi.
Senza un apparente motivo, Biagio sentì il bisogno di tirare fuori gli occhiali di Flavian,
forse perché ne avvertiva già la mancanza.
Rovistò convulsamente nel borsoncino senza reperirne traccia; il panico si disegnò sul suo
volto.
<<LI HO PERSI!!!>>
<<Cosa?>> domandò Santino.
In quel preciso istante, una strana creatura fuoriuscì dalla borsa: era un colibrì tutto rosso
che volò altissimo nel cielo per spegnersi nella sera vespertina.
<<Chissà dove se ne va?>> si domandò Santino. Biagio gli rispose:
<<Dove? Non ha alcuna importanza…!>>
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