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economia
L’OPEROSITÀ DELLA NOSTRA GENTE NELLA TRADIZIONE
I muratori
Una delle attività che hanno caratterizzato la vita della gente del nostro territorio comunale
è quella del muratore. Lo studioso di tradizioni popolari marchigiane Claudio Principi(25) ha
trattato con particolare attenzione e ricchezza di dettagli la figura di tale lavoratore, personaggio a volte rude ma schietto e concreto come pochi altri. Tutti sanno che, scherzosamente, ancora oggi gli abitanti di Potenza Picena vengono chiamati “carginelli” e tale spiritosa denominazione è diretta eredità dei muratori, specialmente attivi nella città alta per
tanti decenni. L’uso della carge, cioè la calcina, che ne imbrattava i pantaloni, ha finito per
dar luogo a quel nomignolo che continua, tenace, a resistere al tempo. Protetti dal loro
patrono San Claudio, i muratori sono stati, a lungo e ingiustamente, considerati artigiani di
livello inferiore, in quanto esercitavano la loro attività senza vottega, cioè senza poter
disporre di un laboratorio al coperto, dotato di luce artificiale. Essi hanno sempre lavorato
all’aperto, dipendendo necessariamente dalla luce del sole e dalle condizioni meteorologiche. A far ritenere poco rilevante il loro mestiere c’era la considerazione che non possedessero tecniche complesse o abilità che necessitassero di talento, inoltre maneggiavano
materiali di basso costo. Ad essi era richiesta soprattutto prestanza fisica e resistenza alla
fatica e alle intemperie, dovendo operare all’aperto.
Tradizionalmente, il periodo in cui i muratori erano più attivi – grazie alla più lunga illuminazione diurna – andava dal 3 maggio, giorno di Santa Croce, al 14 settembre, giorno
dell’Esaltazione della Croce: era, come più o meno scherzosamente dicevano, un tempo di
tribolazione e di “Calvario”, riferendosi alla presenza delle croci in quelle due date. I muratori usavano ritrovarsi per mangiare insieme in due momenti dell’anno: alla festa del loro
patrono San Claudio e la sera del Giovedì Santo, dopo la visita ai Sepolcri. Di solito il cibo
preferito in tali circostanze era costituito da fagioli, stoccafisso o sardelle, che venivano
gustati col consueto appetito proprio della gente abituata a lavorare duro. I pasti di lavoro
quotidiani, invece, prevedevano cibi portati da casa, preparati dalle madri o dalle mogli,
messi in gamelle o avvolti in grandi fazzoletti. Tre, normalmente, erano le pause che si concedevano durante il lavoro: intorno alle otto, per una quindicina di minuti, facevano colaziò;
a mezzogiorno era la volta de lo voccò, detto anche merenna, pasto che veniva rispettato
più degli altri perché annunciato dalla campana della chiesa; nel pomeriggio, intorno alle
diciassette, si passava alla merennetta, che occupava circa un quarto d’ora. Per la colaziò
i muratori portavano da casa grandi fette di pane o porzioni di pagnotte, tra le quali mettevano salumi affettati, frittate o verdure; quando non avevano a disposizione questi tipi di
companatico, si procuravano frutta di stagione nelle campagne vicino al luogo di lavoro. Lo
voccò, cioè il pasto principale della giornata, veniva a volte riscaldato nel cantiere, dove,
in certi casi, si riusciva anche a preparare, magari frettolosamente, un po’ di polenta.
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Muratori dell’impresa
edile di Pasquale
Clementoni e figli,
al lavoro sul campanile
della chiesa
di San Francesco
nel 1937
L’abbigliamento dei muratori era generalmente rappresentato da indumenti consumati e
rattoppati, impolverati, quasi sempre coperti da calcina; come copricapo avevano un berretto di panno o di carta, di solito ricavato da giornali vecchi, piegati a formare una specie
di bustina. Le scarpe erano, anch’esse, in male arnese, sformate, sporche, ovviamente, di
calcina. Spesso, dalla tasca posteriore dei pantaloni facevano capolino un metro pieghevole di legno – composto da stecche gialle o arancioni – l’estremità di una livella o una voluminosa matita, detta in dialetto làbbise (lapis).
Molti e interessanti sono gli attrezzi usati dai muratori; ne prendiamo in esame i più comuni. Col termine di cucchiare si indicano le cazzuole, che sono di vario tipo e si distinguono
in relazione al loro impiego. Lo frattazzo è una tavoletta di forma rettangolare – prima fatta
di legno duro e ora di acciaio o plastica – dotata di una impugnatura posta lungo la parte
mediana di una delle due facce; ci si posa la calcina per distribuirla uniformemente sulle
superfici piane, come fondi di pavimenti o intonaci. La callarella, una specie di secchio che
serve per trasportare la calcina e per prelevarla con la cazzuola durante le operazioni di
muratura; è utile anche per trasportare l’acqua e per contenere attrezzi. A forma di tronco
di cono rovesciato, è dotata di un manico arcuato, simile a quello del paiolo, lo callà, dal
quale ha derivato, in qualche modo, il nome. Altri arnesi di uso comune sono il martello, la
martellina da taglio, la tenaglia, lo scalpello, un piombino con lo spago, la livella a goccia.
Prima di costruire una casa, i muratori preparavano un capanno, la varacca, per ospitarvi
gli attrezzi che avrebbero dovuto usare e i sacchetti di cemento, calce e gesso. Vicino alla
casa in costruzione venivano sistemati laterizi e materiali inerti, un vaglio a rete, un grosso
recipiente pieno d’acqua da utilizzare per bagnare i laterizi o per lo spegnimento della
calce. Nel cantiere vi era, poi, grande quantità di legname: esso serviva per preparare i
ponteggi, per realizzare le strutture provvisorie nella costruzione di scale o volte e per tante
Muratori
al lavoro in
un cantiere,
anni Sessanta
175
Muratori
al lavoro,
anni Sessanta
Muratori durante
la pausa pranzo,
fine anni Cinquanta
inizi anni Sessanta
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Costruzione della
casa del Fanciullo
(oratorio),
anni Cinquanta
altre esigenze. Tra i muratori vi era una precisa gerarchia, in cima alla quale si trovava il
capomastro che, normalmente, era colui che guidava l’impresa. La sua autorità era indiscussa: egli dirigeva tutti i lavori del cantiere, gestendo opportunamente le risorse umane
che aveva a disposizione. Conosceva bene i materiali da utilizzare e sapeva procurarseli a
prezzi convenienti. Oltre a supervisionare il lavoro dei suoi dipendenti, partecipava in prima
persona alle fasi più importanti della costruzione degli edifici, mettendo in mostra notevoli
abilità manuali. Alle dipendenze del capomastro c’erano i muratori, denominati cucchiare,
cioè cazzuole; loro sottoposti erano gli apprendisti abbastanza esperti o muratori di seconda categoria, ai quali era affibbiato il nome di menze cucchiare, e i manovali. Sul gradino
più basso dei rapporti gerarchici si trovavano li garzù, giovani che si avviavano al mestiere e che dovevano iniziare una lunga gavetta, imparando la tecnica dei loro “superiori”.
Quando si costruiva un muro, le cucchiare, cioè i muratori più esperti, si occupavano della
parete a facciavista, quella esterna, mentre alle menze cucchiare, notoriamente meno
esperte, si affidava il compito di occuparsi della parete interna. I manovali garantivano ai
muratori il rifornimento dei materiali necessari alla costruzione, dopo averli opportunamente preparati. Qualche volta la donna era presente in un’impresa edile: il suo compito era
quello di spostare da un luogo all’altro del cantiere i materiali che dovevano essere usati
dai muratori. Tali oggetti, sistemati in cesti di vimini o contenitori simili, venivano posti sulla
testa, sulla quale era preventivamente appoggiato un canovaccio per rendere meno rude
il contatto con il peso da sostenere. Come dicevamo in precedenza, l’attività del muratore
ha sempre dovuto fare i conti con le condizioni meteorologiche. Se il tempo era inclemente per un lungo periodo, necessariamente si andava incontro ad una disoccupazione che
metteva in grosse difficoltà economiche la famiglia. Quando non lavoravano, i muratori si
incontravano in candina, cioè in osteria, dove si concedevano qualche bicchiere di vino e
passavano il tempo a giocare a carte, alla morra o anche a bocce.
La sciabica
Muratori
in posa teatrale,
fine anni Cinquanta
inizi anni Sessanta
Nella tradizione marinara di Porto Potenza Picena un posto di assoluto rilievo spetta alla
pesca con la sciabica. Il nome indica una rete composta da due bracci uguali, simmetrici
rispetto ad un sacco centrale (manica), nel quale finiscono per rimanere i pesci catturati.
Per calarla in mare si utilizza una barca (lancetta) lunga sei o sette metri, spinta da quattro
remi che, a partire da poppa, sono: il remo de preme, che ha una funzione simile a quella
del timone; il remo de sgaezzo, che è quello che imprime la spinta maggiore al movimento della barca; il remo de bocca de gola e il remo de prua, quello più avanzato(26). Dopo
aver sistemato la rete sul ripiano di poppa (gràtena), quando il sole non è ancora sorto, inizia la cala della sciabeca: da bordo viene lanciata ad un uomo a riva la cima della resta,
una fune di canapa lunga circa un centinaio di metri. All’altro capo di essa possono esserne annodate altre, fino a sei o sette, se il padrone della barca (lo parò) ritiene che sia con-
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Marinai dopo
aver tirato
la sciabica,
anni Cinquanta
veniente calare più a largo del solito per catturare pesci più grandi, come sgombri, sugheri, bobbe e mojelle(27). Finito di lasciare in acqua le reste, comincia la messa in mare della
rete, il cui inizio è segnalato dalla mazza. Scende subito il primo braccio, caratterizzato da
maglie più larghe; il limite inferiore di esso è rappresentato da una corda munita di piombi
(lima piommata), che permette alla rete di toccare il fondale; il limite superiore è costituito
da una corda dotata di galleggianti in sughero (lima de scorzo), che consente alla sciabica di arrivare in superficie, formando una parete verticale di maglie.
Al termine della cala del primo braccio si arriva alla manica, una specie di sacco dalle
maglie fittissime, sostenuto a galla da sugheri molto voluminosi, che costituiscono il cosiddetto carriò, la cui visione rappresenta un importante punto di riferimento per i pescatori
che, successivamente, dovranno recuperare la rete fino a riva. Il carriò, infatti, è il punto
centrale di tutta la struttura di pesca e deve rimanere al centro anche durante tutta la fase
di recupero della sciabica. Calata in mare la manica, facendo attenzione a non pijà lo porco
(cioè ad evitare che la manica finisca erroneamente sotto la lima de piommo e che, di conseguenza, non si apra durante la pesca), i pescatori sulla barca mettono in acqua il secondo braccio della rete e, dopo di esso, le reste, di numero pari a quelle calate in precedenza. Quando il capo terminale dell’ultima resta giunge in mano ad un altro pescatore sulla
battigia, inizia il recupero della rete ad opera di due gruppi di sciabecotti, uno per ogni
capo della sciabica. Aiutandosi con lo collà (fascia di tessuto robusto, dotata di una corda
che termina con un nodo, lo groppo, utile per “agganciare” la resta), i pescatori si aggrappano alla fune di recupero e, indietreggiando con passo ritmato sulla spiaggia, recupera-
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no la resta e, di conseguenza, la rete. Col passare dei minuti, il grande arco disegnato sulla
superficie del mare dai galleggianti della lima de scorzo si approssima alla riva e si restringe, dato l’avvicinarsi dei due gruppi di recupero tra di loro. Quando la manica è in vicinanza della battigia, alcuni pescatori si occupano di tenere aderente al fondale la lima piommata e di alzare un po’ quella de scorzo, per impedire ai pesci di tentare la fuga.
Finalmente arriva a terra il sacco, e diventa comprensibilmente palpabile la curiosità degli
sciabecotti di controllare l’entità del pescato. La manica viene aperta con cura e, quando
la cattura è buona, agli occhi della “ciurma” appare il suggestivo spettacolo di un argenteo “pavimento” pulsante di vita, formato da pesci guizzanti, come sardoncini, agore, moielle, sgombri e via di questo passo. Si narra di catture notevoli che, per singola cala, hanno
portato a riva quintali di pesce, tanto da riempire qualche decina di coffe (i tipici cesti di
vimini e canne utilizzati per contenere il pescato).
Mentre il recupero della sciabica è in corso ad opera dei due gruppi di sciabecotti sulla
riva, alcuni giovani (morè) si dedicano alle reste arrivate in spiaggia: le raccolgono arrotolandole in volute sovrapposte, in modo da renderle disponibili per la cala successiva.
Importante è anche l’opera di chi rimane a bordo della barca in acqua (lo bordarolo), controllando che non finisca in secco o che non sia portata via dalla corrente. La prima cala
viene denominata cala dell’alba ed è quella che prevede l’uso di più reste; a seguire si
effettua la cala de scia; l’eventuale cala pomeridiana viene detta di calandro e può concludersi anche dopo il tramonto del sole. La pesca con la sciabica sulla costa portopotentina
Marinai mentre
tirano la sciabica,
anni Sessanta
181
Marinai aprono
il sacco della sciabica,
anni Sessanta
si praticava già nei primissimi anni del 1900. La prima “ciurma” fu quella di Neno de
Sciamoè (Giampaoli), poi furono attive quella degli Alleati (Bovari, Giri, Marconi), del Capitano (Giulio Carlocchia), dell’Ascaro (Arturo Giampaoli), di Nicola Giri, di Gino Giampaoli,
dei fratelli Marinelli, di Neno Carota, di Orazio Germondari, di Franco Babbini e di altri ancora. Il periodo più propizio per la pesca con la sciabica andava da aprile a fine ottobre ma,
non di rado, tali limiti temporali venivano superati.
Durante i conflitti mondiali, gli sciabecotti continuavano a pescare: proprio nei momenti di
maggiore difficoltà economica questa attività ha costituito fonte di sostentamento per le
famiglie del nostro litorale. Dopo la seconda guerra mondiale gli abitanti del luogo integravano le loro entrate ancora con la sciabica: chi, ad esempio, lavorava alla Ceramica
Adriatica o alla fornace Antonelli si assoggettava a levatacce per procurare il cibo o qualche soldo per i bisogni della propria famiglia. Dalla vendita del pesce catturato – effettuata dalle pesciarole con la caratteristica bilancia (vàscula) e con le coffe sul carretto, oltre
che direttamente alle pescherie di Civitanova Marche e Porto Recanati – lo parò ricavava i
soldi che venivano distribuiti ai componenti della ciurma, seguendo precise priorità: un
quarto del ricavato andava alla sciabica, cioè al suo proprietario; i restanti tre quarti venivano divisi in parti uguali nel modo seguente: una alla sciabica, una al proprietario, una ciascuno ai pescatori che avevano partecipato alla pesca. Erano previste anche divisioni più
piccole, fino alle quartarole (un quarto di parte), che andava ai novizi, cioè ai ragazzini alle
prime armi. Questi ultimi, a volte, nel periodo estivo, dopo aver trascorso la serata al cinema o con gli amici, andavano ad attendere le tre del mattino (orario consueto di partenza
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per andare a pesca con la sciabica) all’interno della barca, addormentandosi sotto un telone impermeabile. Nei pochi mesi in cui questo tipo di pesca si interrompeva, le barche
venivano portate a ridosso della linea ferroviaria e coperte per proteggerle dalle intemperie. In anni recenti i materiali per la costruzione della rete e delle reste sono cambiati: alla
canapa, pesante e da asciugare al sole dopo la pesca, è subentrato il nylon, più leggero e
non bisognoso di cure particolari. In passato, di pomeriggio era comune vedere distesa ad
asciugare sulla spiaggia la sciabica; e familiare era la figura de lo parò che, con la “linguetta” (un particolare attrezzo di legno) riparava i danni subiti dalle maglie della rete a causa
di qualche presura (oggetti sui quali la rete stessa si impigliava nelle operazioni di pesca).
Accanto a lui vi era la barca, poggiata sulle palanche, robuste traverse di legno a forma di
parallelepipedo, sulle quali, al momento del varo, essa scivolava grazie anche al grasso di
maiale (lo sego) che i pescatori vi mettevano per rendere meno faticosa la spinta verso le
prime onde. Alla fine della stagione di pesca, la rete veniva immersa in un grande recipiente (callara), contenente un liquido di colore marrone scuro, fatto riscaldare ad alta temperatura: aveva luogo la cosiddetta tenta (tinta), un trattamento che serviva a rinforzare la rete,
mantenendola in buono stato. Le sciabiche più grandi erano reti che raggiungevano anche
i 250 metri di lunghezza, sommando i due bracci e la manica che si apriva tra di loro.
Spesso i nostri sciabecotti sceglievano come luogo di pesca le zone vicine alle foci dei
fiumi Chienti e Potenza: per arrivarvi dovevano remare per sette-otto chilometri, cosa di per
sé già molto impegnativa, dato il peso della barca, che raggiungeva o superava i dieci
quintali. Ovviamente la stessa distanza doveva essere coperta al ritorno, a volte ricorrendo
all’ausilio dell’arzana, cioè del traino della barca effettuato da alcuni pescatori sulla riva, tramite una resta. Fatica, sudore, sacrificio, ma anche entusiasmo: sono queste le caratteristiche della pesca con la sciabica, attività che univa tra loro le persone, rendendole un gruppo compatto, una sinergia di contributi davvero esemplare. L’attenzione massima nella cala
della rete, la sincronia dei movimenti nel suo recupero, il ritmo incalzante dei passi all’indietro sulla spiaggia, l’emozione dell’apertura del sacco che arriva sulla battigia: sono come
fotogrammi di un film senza tempo, le fasi di una rappresentazione che, appena terminata,
è pronta a ricominciare.
Un giorno con gli sciabecotti
Il cielo è ancora buio e la brezza di terra pettina la superficie del mare. Sulla spiaggia, nella
penombra, alcuni uomini spingono una barca, facendola scivolare sulle palanche, fino ad
incontrare l’acqua. A poppa è sistemata la rete, pronta ad essere calata per la pesca. Gli
uomini salgono a bordo e si mettono a remare verso il luogo dal quale inizierà la cala della
sciabica. Sulla spiaggia qualcuno cammina nella stessa direzione, in attesa di ricevere il
capo della fune di recupero della rete. L’ aria della notte è piuttosto fresca; per tenersi caldi
i pescatori indossano una maglia, sulla quale hanno già infilato il collare che li aiuterà nelle
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La lancetta, con la
rete sulla “graténa”
entra in acqua
fasi successive della loro attività. L’alba non è ancora spuntata e il paese, al di là della ferrovia, dorme; il silenzio è rotto solo dal passaggio di un treno che sferraglia solitario, fino a
scomparire in lontananza. Quando la barca arriva sul luogo scelto per la pesca, la fune di
recupero della rete viene lanciata a terra e presa in consegna da chi la stava aspettando.
Ci siamo: la cala della sciabica può iniziare. Mentre la barca si allontana dalla riva verso il
largo spinta dai remi, la prima a scendere in acqua è la resta, la fune di recupero il cui capo
è già in mano ai pescatori sulla battigia. Quando la corda è finita, gli uomini a bordo iniziano a mettere in mare la rete, descrivendo un arco: si comincia con la prima ala della sciabica, si passa successivamente al sacco, si prosegue con la seconda ala. Completata la
cala della rete, la barca si avvia verso riva, lasciando in acqua la seconda fune di recupero, il cui capo verrà affidato ad altri uomini a riva. Il grande arco è, finalmente, disegnato
sulla superficie del mare: le operazioni di recupero possono avere inizio. I due gruppi di
uomini cominciano il loro compito: aiutandosi con il collare, in fila indiana afferrano la corda
e indietreggiano sulla spiaggia, ritmicamente, come stessero interpretando un’antica
danza. Quanta forza mettano lo rivelano le impronte dei piedi sulla sabbia, profonde e
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nette, equidistanti tra loro. Aiutandosi con mani, braccia e spalle, i pescatori portano a riva
metri di fune, avvicinando sempre più l’arco di rete alla spiaggia. La corda recuperata viene
raccolta in modo ordinato, disponendola a cerchi sovrapposti, in modo che sia pronta per
il successivo utilizzo. Contemporaneamente i due gruppi di recupero cominciano a ridurre
la distanza che li separa, stringendo progressivamente l’arco della rete, segnalato sulla
superficie dell’acqua dai galleggianti. Il chiarore dell’alba ormai illumina lo scenario di
pesca: ai primi raggi del sole scintillano d’argento i cefali che cercano di sfuggire alla rete
provando a scavalcarla. A riva, intanto, sono giunte le parti iniziali delle due ali della sciabica: i gruppi di recupero sono adesso molto vicini tra di loro e aumentano il ritmo della loro
azione. I pescatori, per evitare che i pesci scappino sul fondo, tengono il più possibile
bassa l’estremità inferiore della rete. Il sacco, con le sue maglie fittissime, è a pochi metri
Gli sciabecotti
recuperano l’ultima
parte della sciabica
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da riva: l’animazione dei pescatori aumenta, c’è gran voglia di vedere quanto pesce contenga. Come già avvenuto per la resta, anche la rete viene raccolta a cerchi sovrapposti,
pronta ad una nuova cala. Con un ultimo sforzo gli sciabecotti tirano il sacco sulla battigia
e, disponendosi a cerchio, pian piano lo aprono. Ai loro occhi appare un argenteo tappeto
palpitante di vita: papalina, sardoncini, mojelle, àgore (28), anche qualche triglia, si dimenano sul fondo del sacco, tra alcune foglie verdi d’alga. E’ tempo di mettere il pescato nelle
coffe, preparandolo per la successiva vendita, cui provvederanno le pesciarole. Agli uomini non resta che caricare sulla barca funi e rete e riprendere il mare per un’altra cala: c’è
tempo per pescare ancora, a casa aspettano fiduciosi pesce per la tavola e qualche lira
per tirare avanti.
I pescatori sistemano
“reste” e rete per una
nuova cala
LE AZIENDE NEL NOSTRO TERRITORIO
L’Istituto Santo Stefano, una realtà preziosa
L’Istituto di Riabilitazione Santo Stefano intreccia la sua esistenza con quella di Porto
Potenza Picena ed è opportuno conoscere, seppure a grandi linee, come è nato e come si
è sviluppato il rapporto tra l’importante struttura sanitaria e la cittadina che la ospita. Nel
1923, il conte Gian Carlo Conestabile della Staffa, di nobile e generosa famiglia perugina,
venne a Porto Potenza e acquistò un terreno in riva al mare(29). Vi costruì un edificio che,
negli anni successivi, ospitò gratuitamente dapprima vedove e orfani perugini della guerra
mondiale, poi fanciulli di Perugia (in luglio) e di Assisi (in agosto), predisposti alla tubercolosi. La grande struttura, successivamente, divenne ospedale e prese il nome di Istituto
Chirurgico Elioterapico Divina Provvidenza.
Nel 1961(30), visto che un numero crescente di posti-letto non veniva utilizzato per mancanza di richieste di ricovero, venne valutata la possibilità di orientare la struttura assistenziale verso nuove forme di ricovero con soggetti diversi. L’amministratore unico, il conte
Alessio Conestabile della Staffa, fratello del già citato Gian Carlo, nel marzo 1961 organizzò a Roma un incontro cui presero parte l’Avv. Giuseppe Cassano, suo genero, il dottor
Gualtiero Bugatti, suo procuratore, e il dottor Lanfranco Ricchi, direttore amministrativo del
“Divina Provvidenza”, per l’avvio di una valida soluzione alternativa. La via scelta fu quella
del ricovero di pazienti spastici, soggetti necessitanti di ricovero per cure riabilitative. Su
delega del conte Alessio, il dottor Ricchi prese contatti con il Ministero della Sanità e a
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Roma consegnò la documentazione relativa all’esecuzione di alcune modifiche necessarie
per trasformare la struttura portopotentina, accogliendo non più malati sanatoriali ma invalidi civili, necessitanti di riabilitazione fisica e mentale. Il Ministero consigliò la scelta del
prof. Maurizio Formica, della Clinica Neurologica dell’Università di Roma, che divenne
responsabile medico del programmato istituto di riabilitazione. Egli seguì con grande cura
l’organizzazione della nuova struttura e la ricerca del personale specializzato per le attività
di fisiochinesiterapia, logoterapia e terapia occupazionale. Tutto il piano terra del padiglio-
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Pazienti durante
la elioterapia,
anni Sessanta
ne “Nord” del Divina Provvidenza (familiarmente noto come Santo Stefano
perché posizionato nei pressi di un’abitazione privata nella cui prossimità era
funzionante una cappella intitolata al
Protomartire) venne interessato dai
lavori di trasformazione.
Quando fu realizzato il complesso
“Divina Provvidenza”, nella zona nord
di Porto Potenza c’erano poche case,
per cui esso veniva chiamato dalla
popolazione locale “La Colonia”, data
la sua posizione isolata e anche per via dell’attività promossa dalla Famiglia Conestabile
della Staffa, volta ad ospitare gratuitamente tanta gente umbra. A fine giugno 1962, tutto il
piano terra del padiglione Nord era pronto con le sue camere di degenza, i servizi igienici
rinnovati, il refettorio, le sale di terapia, l’ambulatorio medico e altre importanti dotazioni. Il
dottor Ricchi propose di intitolare la nuova struttura “Istituto di Riabilitazione Santo Stefano”
e tale denominazione venne accettata dal presidente Alessio Conestabile della Staffa e
dagli altri suoi collaboratori. Il 4 agosto 1962, con diciotto giovani, iniziò ufficialmente la vita
dell’istituto, organizzato per accogliere gli adolescenti invalidi che necessitavano di cure
per il recupero globale. La benedizione dei locali venne impartita da don Angelo Panicciari,
cappellano dell’Istituto.
Nell’ottobre dello stesso anno prese avvio la prima classe dell’Avviamento Professionale –
inizio di una lunga e proficua collaborazione con la Scuola pubblica – e gli insegnanti si
Interno del giardino
dell’Istituto
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posero il problema preliminare della formazione avviando lo sviluppo della personalità,
dando fiducia e sicurezza agli allievi. Nel marzo 1963 gli ospiti erano già cento e provenivano da tutta Italia; nell’ottobre 1965 il numero era salito a duecentocinquanta. La preziosa
e competente attività del “Santo Stefano” venne apprezzata da vari Ministri della Sanità che
si succedettero negli anni: a Porto Potenza arrivarono, nell’ordine, Giulio Pastore, Camillo
Ripamonti, Remo Gaspari e Vittorino Colombo. La crescente richiesta di ricoveri da tutto il
territorio nazionale impose alla dirigenza dell’istituto l’ampliamento della struttura esistente:
il modo più rapido fu quello di riconvertire il contiguo istituto “Divina Provvidenza” in centro
per invalidi civili, che fornì altri trecentocinquanta posti letto. Nel contempo, nella zona nord
venne realizzato il palazzo degli studi, con ben ventiquattro locali destinati alla didattica.
Nel marzo 1969 il conte Alessio, per ragioni di salute, lasciò la carica di presidente del consiglio di amministrazione al genero, l’avv. Giuseppe Cassano. Il primo ottobre 1969 nacque
la “Comunità Santo Stefano”, concreta testimonianza di inserimento nella società dei giovani dimessi dal Santo Stefano; l’inaugurazione ufficiale della casa comunitaria ebbe luogo il
23 gennaio 1970. Tale casa chiude il ciclo di riabilitazione e segna lo sbocco logico dell’opera dell’Istituto, dedicata al recupero dei suoi ospiti. Il 3 febbraio 1970 morì il conte
Alessio, che aveva vissuto nell’umiltà e nella dedizione e che aveva scelto di vivere nella
semplicità e nella povertà di una cameretta all’ultimo piano del grande istituto per essere
più vicino agli ospiti. Il ”Santo Stefano” diede impulso alla realizzazione di due scuole, una
per terapisti della riabilitazione e una per educatori specializzati. Il 30 marzo 1972 alla presidenza del consiglio di amministrazione giunse il prof. Bruno Fida.
Nel maggio 1973 nacque la Società Cooperativa di lavoro a responsabilità limitata, che
diede concreto sbocco occupazionale ad una trentina di ricoverati: è il superamento della
emarginazione e l’affermazione del diritto alla vita e alla convivenza tra uguali, principio fondamentale del vivere civile. Nel 1974, a seguito della crescente richiesta di ricoveri e della
assoluta indisponibilità di posti letto liberi, il dottor Ricchi suggerì al prof. Fida la realizzazione di un incontro con vari medici provinciali per studiare qualche iniziativa per rispondere positivamente alle richieste di famiglie con figli necessitanti di assistenza riabilitativa. Il
prof. Fida accettò la proposta e affidò al dottor Ricchi l’incarico di provvedere a vari incontri con i medici provinciali di Marche, Abruzzo e Molise.
Il primo centro ambulatoriale “Santo Stefano” nelle Marche fu inaugurato il 7 Settembre
1974 con la presenza del Sottosegretario alla Sanità, on. Franco Foschi. Nel tempo sono
stati aperti numerosi altri centri ambulatoriali nelle Marche e in altre regioni. Nel 1985 divenne presidente del CdA del Santo Stefano il prof. Cosimo Cassano. Ulteriori lavori edili permisero l’aggiornamento di vari padiglioni per la riabilitazione ospedaliera post-acuzie, di
nuovi uffici amministrativi; si è ristrutturato un edificio per un centro diagnostico di elevato
livello specialistico. Il 9 marzo 1998 morì il prof. Cosimo Cassano; alla presidenza lo sostituì il dottor Antonio Rosali, dimessosi nel 2006. La carica è stata, poi, assunta dal dottor
Mario Ferraresi. Il 15 Giugno 2007, a Milano, presso la sede del Gruppo De Benedetti, si
sono incontrate la presidenza dell’Istituto di Riabilitazione “Santo Stefano” e la “HSS”, la
Holding Sanità e Servizi del Gruppo CIR. Le due parti hanno sottoscritto un contratto con il
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Suore della Carità
“Cappellone”, in servizio
presso l’Istituto,
fine anni Cinquanta
Infermiere in posa,
anni Sessanta
191
Pulizia delle tazze,
anni Sessanta
Ospiti dell’Istituto,
anni Sessanta
192
quale la “HSS” ha acquistato il 100% della “Santo Stefano SpA”: in base a tale accordo il
gruppo marchigiano mantiene la piena autonomia operativa, con mandato a qualificare i
servizi erogati nella Regione Marche e di espandere la sua attività nel centro Italia e lungo
la dorsale adriatica. Conservati anche i livelli occupazionali e confermato il management
del “Santo Stefano”, con il dottor Ferraresi che resta presidente e con il dottor Enrico Brizioli
amministratore delegato.
La popolazione locale deve molto all’Istituto Santo Stefano, sia dal punto di vista occupazionale che da quello dell’alto valore morale e sociale della sua lunga e lodevole attività. In
questa grande struttura, ora unanimemente riconosciuta come una delle più importanti nel
panorama sanitario nazionale e internazionale, si è sempre lavorato con impegno a favore
di chi dalla vita ha avuto meno, contribuendo alla costruzione della società dell’uomo per
tutti gli uomini. Oltre all’alto livello di aggiornamento tecnico e scientifico, l’istituto si è meritato la fiducia della gente per essere una comunità di vita, una frontiera avanzata di una
umanità più consapevole, verso la piena affermazione di ogni singola personalità, al di là
del dolore, della compassione, avendo ben presente il senso della libertà nella società e
della pari dignità degli uomini.
Architettura
dell’interno,
anni Sessanta
193
L’Aeronautica Militare
Stemma del
14° Gruppo Radar
Da vari decenni l’Aeronautica Militare è una presenza familiare sul
nostro territorio comunale. La decisione di costituire in loco un Centro
Radar, che contribuisse ad assicurare la difesa aerea sui nostri cieli,
venne presa dallo Stato Maggiore aeronautico nell’Aprile del 1956(31).
Così, da tanti anni, giorno e notte, il personale militare del 14° Centro
Radar sta operando per garantire l’efficienza degli apparati e la loro migliore utilizzazione. Il
compito primario è quello di fornire, via radio, informazioni ai piloti dei velivoli intercettori, realizzando il controllo dello spazio aereo, l’avvistamento, l’intercettazione, l’identificazione, la
guida caccia, per impedire violazioni dello spazio aereo stesso. Dal 1° gennaio 2000, a seguito della chiusura del 14° Gruppo Radar, le strutture logistiche site a Porto Potenza sono state
acquisite dalla Scuola Perfezionamento Sottufficiali A.M. di Loreto, e quindi impiegate per la
ricettività dei frequentatori dei corsi di perfezionamento sottufficiali e dei corsi I.G.P. per sergenti maggiori. Tali strutture sono state incrementate per ospitare circa duecento unità, con
alloggi, laboratorio di informatica e multimediale, sistema di videoconferenza, mensa unificata
e altro ancora, per permettere lo svolgimento dei compiti istituzionali. Dal 2000 si ospitano
anche corsi di perfezionamento per il personale volontario di truppa, appartenente alle diverse categorie professionali e distaccato nei vari settori di impiego della Forza Armata. La base
operativa, nel complesso delle sue strutture tecnico-operative, è rimasta sul territorio potentino. Nel corso del tempo, il legame tra l’Aeronautica Militare e la popolazione locale si è fatto
sempre più stretto e molte famiglie si sono costituite tra i militari e le giovani del luogo.
Il radar del 14° Centro
dell’Aeronautica
Militare
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La Società Ceramica Adriatica
E’ stata un’azienda particolarmente importante nella storia
della nostra realtà locale,
avendo dato lavoro a centinaia di famiglie, contribuendo
allo sviluppo sociale ed economico del territorio. Sorto
nel 1923 con il nome di
“Stabilimento
Mattonelle
Antonelli-Tebaldi”, ebbe un
inizio di attività molto difficile,
che richiese ingenti capitali
per far fronte alle perdite che
si verificavano con disarmante regolarità. Ci furono vari tentativi di dare una soluzione definitiva alle frequenti difficoltà economiche, ma, nonostante tutto, nel 1941 venne decisa la
chiusura dello stabilimento, che fu posto in liquidazione, vendendo i macchinari che vi si
trovavano. Sembrava il malinconico tramonto di un’azienda importante e delle speranze di
occupazione per tanta gente, ma non fu così. L’anno successivo, infatti, un gruppo di
imprenditori tosco-liguri, dimostrando coraggio e fiducia nel futuro, presero lo stabilimento
dall’ I.R.I., con l’intenzione di evitarne lo smantellamento e di farlo tornare operativo, nono-
Operai al lavoro,
anni Trenta
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stante le pessime condizioni in cui si trovava. Il lodevole intento, però, trovò sul suo cammino le difficoltà relative alla seconda guerra mondiale, che videro la fabbrica requisita
prima dall’Aeronautica Militare Italiana, poi dalle forze repubblichine, successivamente
dalle forze alleate e infine dai soldati polacchi, che lo lasciarono alla fine del 1946. Le profonde ferite del terribile conflitto mondiale non scoraggiarono quel gruppo di industriali
tosco-liguri di cui si è detto qui sopra: con grande impegno, sia professionale che finanziario, essi ricostruirono lo stabilimento, che riprese a funzionare nell’agosto 1947. Da allora e
per molti anni la Società Ceramica Adriatica ha conosciuto un costante sviluppo industriale che l’ha portata ad essere una delle migliori d’Europa nel suo campo produttivo e che ha
dato lavoro a parecchie centinaia di persone. Tale successo imprenditoriale ha visto come
maggiore protagonista il Comm. Eugenio Quaglia, presidente e amministratore delegato
della S.C.A.: era un uomo che aveva la rara qualità di possedere, ad un tempo, doti di illuminata imprenditoria e di sensibilità umana. Oltre che per i suoi successi industriali, seppe
distinguersi per iniziative di carattere sociale, tra le quali la realizzazione di un asilo nido e
di un doposcuola a Porto Potenza Picena, una colonia montana a Penna San Giovanni, il
tutto per accogliere e assistere i figli dei dipendenti della sua azienda. Nel 1958 ad Eugenio
Quaglia il presidente della Repubblica conferì il titolo di Cavaliere al Merito del Lavoro, onorificenza meritata con una professionalità davvero notevole. La posizione di prestigio della
S.C.A. nel campo industriale nazionale e internazionale durò per altro tempo, poi venne
progressivamente perduta per l’affermarsi di aziende concorrenti. Nella storia locale, però,
l’attività di questo stabilimento ha lasciato un’impronta indelebile e ad esso il ricordo della
popolazione corre ancora con sincera gratitudine.
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Donne alla scelta
delle mattonelle,
fine anni Cinquanta
inizi anni Sessanta
La Fornace Antonelli
In posizione collinare, lo Stabilimento Laterizi Antonelli (popolarmente noto come Fornace
Antonelli) è stata una delle industrie ‘storiche’ del nostro territorio. Venne fondato da
Francesco Antonelli intorno al 1860 e iniziò l’attività produttiva con la fabbricazione a mano
di laterizi. Nel 1910, grazie ai progressi tecnologici del tempo, l’azienda introdusse i primi
macchinari, con la conseguente soppressione della lavorazione a mano e con un notevole
aumento della produzione. La ‘Fornace’ seppe distinguersi per la validità dei suoi prodotti,
realizzati con l’ottima qualità dell’argilla ferruginosa usata. La fabbrica seppe costruirsi una
vasta clientela, sia in Italia che all’estero: particolarmente rinomate erano le “tegole
Antonelli”, le cui caratteristiche erano apprezzate ovunque. Lo stabilimento diede lavoro a
tante persone locali nel corso dei decenni, costituendo una importante fonte di reddito per
numerose famiglie.
Operai della Fornace
con il conte Antonelli,
anni Trenta
Stabilimento
conserviero
Massalombarda,
anni Cinquanta
La S.I.F. (Società Italo Francese)
Negli anni Trenta del secolo scorso era attiva a Porto Potenza Picena la S.I.F.: si occupava
della produzione di conserva di pomodoro e, successivamente, di pomodori pelati. Lo stabilimento, che inizialmente operava con l’energia fornita da un motore a vapore, lavorava
stagionalmente, garantendo l’occupazione a varie decine di persone. Nel corso degli anni
l’azienda ha cambiato denominazione: è stata la Ditta Alberto Cavalli, la S.I.L.A. (della
Federconsorzi), la Massalombarda. Lo stabilimento conserviero, che è stato attivo fino al
1959, presentava la caratteristica ‘ciminiera’, un’elevata costruzione che gareggiava in
altezza con la torre quadrata vicina alla chiesa di Sant’Anna e che rappresentava una rilevante peculiarità del paesaggio portopotentino. Il conferimento dei pomodori all’azienda
avveniva, nei primi tempi, utilizzando carri trainati da buoi, mezzi di trasporto poi sostituiti
dai camion.
La S.A.P. (Società Automobilistica Potentina)
Nasce nel 1923 e si sviluppa nel trasporto pubblico locale. Negli anni allarga la sua attività con il trasporto da noleggio e attività di scuolabus per i comuni del comprensorio maceratese. Attualmente sono trentacinque i mezzi a disposizione della società.
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La Bontempi
Operai mentre
accordano le
fisarmoniche,
anni Cinquanta
Nel 1937 iniziava la sua attività un’azienda destinata a diventare leader mondiale nel suo
settore, contribuendo a far conoscere ovunque il nome di Potenza Picena. Fondata da
Egisto Bontempi, nasceva la Bontempi, all’inizio azienda produttrice di fisarmoniche; successivamente diventerà protagonista assoluta nella produzione degli strumenti musicali
giocattolo. Negli anni Sessanta, con l’avvento dell’elettronica, l’ ing. Paolo Bontempi ha iniziato una nuova grande fase di sviluppo industriale, che ha portato l’azienda ad essere protagonista nel settore strumenti musicali per oltre quarant’anni nei mercati nazionali e internazionali. Puntando sulla tecnologia e sulla qualità, la ditta potentina ha meritato fin da subito la fiducia di una clientela sempre più vasta, divenendo autorevole ambasciatrice del
“made in Italy” nel mondo.
La ditta Bontempi, mentre dava lavoro a centinaia di famiglie del nostro territorio e diventava punto di riferimento irrinunciabile per l’economia locale, diffondeva i suoi prodotti in ogni
angolo del pianeta, permettendo ai bambini di ogni continente di familiarizzare con la musica e di imparare a suonare. La realizzazione degli strumenti musicali giocattolo è sempre
avvenuta all’interno dell’azienda, grazie ad uno staff di progettazione di elevato livello tec-
nico: una generazione di professionisti si è presa cura dell’elettronica, degli stampi, della
qualità e delle certificazioni, fino ai metodi produttivi. L’avvento delle tecnologie informatiche ha trovato pronta la Bontempi a rispondere alle nuove sollecitazioni del mercato, sempre garantendo l’assoluta bontà degli strumenti prodotti, nel rispetto delle attese e della tradizione maturata. Alle notevoli difficoltà che hanno investito il settore a livello globale, sorte
soprattutto per la concorrenza dei Paesi asiatici, l’azienda ha risposto senza perdere quote
di mercato, conservando quella posizione di prestigio che ovunque le viene riconosciuta.
Attualmente la Bontempi produce oltre il 60% della propria collezione di strumenti musicali in Italia, grazie a capacità organizzative e tecnologiche di primissimo livello.
Accanto agli strumenti musicali giocattolo, l’azienda potentina, con il brand Farfisa, progetta e introduce nei mercati internazionali prodotti elettronici di fascia medio-alta, strumenti
musicali tecnologici, destinati al settore professional. La filosofia di espansione dell’azienda ha portato alla nascita di una nuova società, la Bontoys. Creata per coprire tutto il settore del giocattolo, essa sviluppa e distribuisce una vasta gamma di prodotti legati all’immagine dei più amati personaggi televisivi. Nuove e importanti sfide rilanciate con successo dalla Bontempi sotto la guida dell’attuale presidente Cristina Ficozzi.
Operai durante
l’assemblaggio
delle fisarmoniche,
anni Cinquanta
La Rogin
Nel mondo dell’abbigliamento femminile e del “made in Italy”, la Rogin ha interpretato un
ruolo di primo piano. Le origini dell’azienda potentina risalgono al 1962, anno in cui partì il
percorso creativo e imprenditoriale dei titolari Alberto Rosciani, Juska Rosciani e
Cameranesi. Nata come laboratorio nel quale operavano poche sarte e animata dalla
determinazione di entrare a far parte dei grandi protagonisti della moda italiana, la Rogin
si è imposta progressivamente all’attenzione generale per la sua creatività, la raffinata qualità dei suoi capi e la professionalità di chi vi ha lavorato. Messasi in luce anche attraverso
le partecipazioni a manifestazioni importanti come Pret-à-Porter di Parigi, Pitti Donna a
Firenze e Modit a Milano, l’azienda di Potenza Picena divenne una realtà economica di
grande valore per il nostro territorio comunale, dando lavoro ad oltre duecento donne e
contribuendo al benessere della popolazione locale e del circondario. Le collezioni disegnate da Juska Rosciani hanno saputo emergere nel panorama della moda e dell’eleganza, tenendo ben presenti i valori della tradizione e dando il giusto spazio ad un tocco di
modernità che proietta lo stile nel futuro. La Rogin ha meritato riconoscimenti internazionali, come il premio Style, conferito dal Club della Mela di New York, il premio alla carriera Pitti
Donna di Firenze, l’Ambrogino d’Oro Città di Milano, il premio Bizarre della Atkinsons
Profumi, il premio Smile di Milano.
Sfilata di moda,
al centro della
passerella la sig.ra
Juska Rosciani,
anni Ottanta
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La Ceramica Montesanto
Nasce nel 1968 per iniziativa di Aldo Gandolfi, già dirigente della Società Ceramica
Adriatica, e del figlio Mario. All’inizio l’azienda poteva contare su un unico altoforno, poi, col
passare del tempo, la dotazione si è ampliata con altre strutture produttive. Nei primi anni
di attività, la Ceramica Montesanto si è avvalsa della competenza tecnica di collaboratori
giunti da Sassuolo, i quali hanno insegnato il mestiere ai tanti lavoratori della nostra zona,
che non avevano conoscenze specifiche.
Nel 1986 l’azienda si è trasformata in cooperativa, alla cui guida è Fabio Mazzieri. I prodotti, realizzati con materiali di ottima qualità, sono apprezzati nei mercati nazionali e internazionali.
Costruzioni Nautiche Fratelli Carlini
Agli inizi degli anni Trenta, in via De Gasperi di Porto Potenza
Picena, nasce il cantiere dei Fratelli Carlini e per circa venti
anni costruisce cutter e imbarcazioni da diporto. Note caratteristiche del cantiere sono gli off-shore che vincono nella
classe 500 e 1000 cmc dei campionati italiani ed europei.
Negli anni Trenta e Quaranta i piloti che vinsero i campionati
furono Emilio Osculati, Piero Morosi e l’industriale cinematografico Scaligero Scalera. Ricordiamo il record nazionale su
idroscivolante con motore Isotta-Fraschini di 120 km/h.
Ennio Clementoni continuò l’arte del maestro d’ascia con vari
riconoscimenti nazionali.
Le altre aziende di rilievo di un recente passato
Prima della seconda guerra mondiale iniziò la sua attività la CAMICERIA MARINA a Porto
Potenza Picena, l’azienda operò fino al 1985 grazie alla competente guida di Arnaldo
Paniconi. Negli anni successivi, a Porto Potenza Picena cominciarono la loro attività alcune
aziende che hanno avuto una certa rilevanza nel tessuto economico locale. L’ ITALORTO, in
qualche modo diretta erede della SIF, si è occupata in particolare della lavorazione dei
pomodori, preparando confezioni di pelati e di conserve; l’EDALIT è stata una ditta importante nella produzione e vendita di marmettoni, con clientela nazionale e internazionale; la
STYLINT, ancora in attività, si è distinta nella realizzazione di capi di biancheria intima e abbigliamento. Grazie all’energia imprenditoriale di Adriano Offidani e Gino Matteucci, queste
realtà produttive hanno garantito a molte famiglie una preziosa occupazione, contribuendo
allo sviluppo sociale della cittadina rivierasca e dei centri limitrofi.
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Le realtà produttive di oggi
Sono molte e di varia natura le attività economiche del nostro territorio comunale, a testimonianza dell’operosità di chi lo abita. A differenza di un passato più o meno recente, dove
figuravano realtà occupazionali con diverse centinaia di dipendenti (ricordiamo, ad esempio, la Società Ceramica Adriatica e la Bontempi), attualmente le aziende locali non raggiungono cifre così alte, anche se alcune contano, comunque, una settantina di lavoratori.
Il panorama produttivo mostra imprese artigiane e industriali distribuite sull’intero territorio,
con buona concentrazione lungo la Strada Regina. Tra le attività si segnalano quelle relative all’ortofrutta, alla panificazione, alla produzione e lavorazione di componenti per l’industria calzaturiera, alla produzione di ruote per timoni di imbarcazioni, alla produzione di
macchine agricole, alla produzione di camicie, all’edilizia, alla pitturazione edile e industriale, alla tipografia, alla falegnameria, alla lavorazione di materie plastiche, alla produzione di
scatole e cartoni; di rilievo sono anche le aziende che si occupano della progettazione hardware e software, dell’assemblaggio di parti meccaniche e plastiche, dei circuiti stampati,
dell’abbigliamento, di stampi, buste e sacchetti, ceramiche, biancheria, gelati, metalli preziosi con relativa lavorazione; presenti anche quelle che si occupano di coltivazioni agricole, di edilizia, di trasformazione delle uve, del trasporto di linea, di prestazione di servizi di
perforazione, della raccolta e trasporto di rifiuti speciali in genere, di lavorazione di fondi
per calzature. Attive anche le aziende che producono piastrelle e ceramiche, mobili, infissi e porte, calzature, stampi per suole, cavi elettrici, vini, mole abrasive, materie plastiche,
oggetti elettronici ed elettrodomestici; da segnalare anche la presenza di ditte che si dedicano alla costruzione edile, all’automazione industriale, alla falegnameria, alla confezione
e imballaggi per conto terzi, ai cablaggi industriali per la realizzazione di prodotti elettromeccanici. Sul territorio sono presenti, inoltre, numerose aziende nel settore del commercio di prodotti alimentari e della ristorazione, varie officine meccaniche e altro ancora.
Discorso a parte merita l’Istituto Santo Stefano: come in passato, questa grande struttura
sanitaria dà lavoro a centinaia di famiglie, confermando la sua importanza vitale per l’economia locale.
Tra le aziende del nostro territorio, tutte mediamente di buon livello, spiccano alcune di
eccellenza per i servizi forniti e la qualità dei prodotti. La NSC (National Service Company),
operante dal 1985, è attiva nel settore petrolifero, con tecnologie e interventi di alto livello
professionale; la Elettromedia, fondata nel 1987, è leader mondiale nel mercato car audio
col marchio Audison, producendo amplificatori, altoparlanti e accessori; la “Savoretti
Armando & c snc”, nata nel 1965, è prima in Italia nella costruzione di ruote di timone e
volanti per imbarcazioni; la Goldenplast SpA, fondata nel 1993, è leader nella produzione
dei compounds termoplastici, destinati all’esportazione in tutto il mondo e in vari settori.
Data la tradizione agricola locale, una citazione particolare meritano le case vinicole Santa
Cassella, la Montesanto e la Montecoriolano, i cui vini sono apprezzati ovunque.
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