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La pasticceria Ghezzi di Varese
/ 06.02.2017
di Oliver Scharpf
Le vetrine di certe pasticcerie storiche possiedono la stessa bellezza di alcune nature morte
ammirate nei musei. Quelle della pasticceria Ghezzi, dal 1919, si trovano sotto i portici di Corso
Matteotti. Al numero trentasei, dove prima delle nove entro e mi siedo a uno dei cinque tavolini di
legno con il ripiano di marmo nero screziato di bianco. In occasione di ogni reportage da queste
parti – il biscione di Breno su al Sacro Monte, il Borducan, le stanze di luce al neon a Villa Panza,
l’elefante di Bregazzana – partivo da casa sempre di buonora solo per fare colazione qui.
Caffè e commovente brioche al lampone da azzannare sotto a uno dei due lampadari a gocce di
cristallo. Identici si trovano nel foyer della Scala. Il Teatro alla Scala di Milano ne ha ordinati due di
troppo e così questo surplus scaligero viene comprato da Fortunato Ghezzi, il fondatore assieme ai
due fratelli Angelo e Carlo, della pasticceria. Come ricorda l’abbreviazione della discretissima scritta
marmorea fuori: Pasticceria F.lli Ghezzi. Mentre la dolce luce in vetrina proviene da quattro lampade
zigrinate a forma di campanula che illuminavano i tram milanesi negli anni venti e ora accarezzano,
per esempio, la superficie dei plumcake. Un capolavoro, va detto subito, è la brioche al lampone
spolverata di zucchero a velo. Va per la maggiore vedo, ma anche i ventagli di pasta sfoglia, che io
ho sempre chiamato prussiani, sono ambiti. Una imbacuccata nel suo piumino lungo nero, se ne
sgranocchia furtiva due di fila. Un’altra chiede ripetutamente alla sua amica: «guarda se c’è ancora
un ventaglietto, c’è ancora un ventaglietto?». C’è, grazie al cielo, l’ultimo.
La golosità mattutina qui sembra in prevalenza femminile. Due signore accompagnano il cappuccino
con due esse di frolla ricoperte in parte di cioccolato e un biscotto semplice, a forma di scoiattolo.
Faccio il bis. Con meno impeto e più aplomb, assaporo la seconda brioche al lampone senza
cospargere troppo tutto il montgomery con lo zucchero a velo. Alle 9.27 finiscono: una è entrata e ne
voleva due da portare via, ma si è dovuta accontentare dell’ultima con lo zucchero e una senza. Due
minuti neanche dopo, due amiche sedute a fianco sono delusissime di essere arrivate tardi
all’appuntamento con la brioche al lampone del desiderio. Optano per una ai petali di rosa.
C’è un bel viavai a quest’ora: Matteo, il bisnipote dei fratelli Ghezzi, prepara caffè e cappuccini, in
compagnia dell’efficace Ornella che serve anche ai tavoli e porta le torte in vetrina man mano che
arrivano. Qui ci si saluta per nome e si scambiano due chiacchiere garbate, senza però il bla bla
fasullo di tanti bar inutili e frettolosi. Il marmo lo si ritrova, a tratti, nel lungo bancone sinuoso in
legno. Davanti a me c’è una vetrinetta che viene aggiornata a poco a poco con i dolci. È appena
arrivato un vassoio zincato di Belle Époque mignon. Un formato che rispecchia la modica grandezza
graziosa del posto. La pasticceria Ghezzi di Varese (377 m), seppur in formato mignon, attraverso
l’illuminazione, il marmo, gli specchi, e soprattutto la squisita boiserie realizzata da un ebanista di
nome Pietro Valsassina, si apparenta un po’ all’atmosfera mitteleuropea dei caffè triestini, viennesi,
budapestiani. Ma la particolarità del Ghezzi dimora forse in una gran classe molto alla mano.
Il giovane Matteo si siede un attimo, ventunanni, lavora qui da tre: «puntiamo molto sulla semplicità
e la genuinità, produciamo magari poco, ma ogni cosa non rimane qui più di ventiquattro ore».
Chiedo notizie sulla Belle Époque. Battezzata così da un cliente è una variante della Belle Hélène: al
posto della pera c’è la mela. È uno dei cavalli di battaglia: pasta frolla, crema pasticcera con pezzetti
di mela, manto di ganache al cioccolato e nocciola sopra. Accanto un suo seguace adolescente ne
ordina una monodose. Altra specialità, mi dice Matteo, sono i fondant di zucchero. L’otto dicembre
tutta la vetrina viene riempita con questi zuccherini colorati; gli stampi a forma di frutta sono ancora
quelli in gesso fatti dai bisnonni. Il pan d’anice poi ha tutta una sua cerchia di fedeli estimatori di
una certa età. Quel Pan d’anice di Ghezzi titolava un trafiletto apparso nell’aprile di tre anni fa su
«La Provincia di Varese».
Gli unici due prodotti di un tempo, per ora accantonati, sono la cotognata e i pazientini. Delle
meringhe con la panna non ne parla, ma ricordo che appena arrivano vanno a ruba. So di un chimico
supramolecolare pavese che ha una casa a Porto Valtravaglia e ogni volta che passa di qui, ne porta
via una vagonata prenotata per tempo. L’atemporalità benefica di sedersi al Ghezzi è data anche
dall’orologio fermo sopra la macchina del caffè. Da decenni segna le sei meno venti tutto il giorno. E
ora ecco una torta Belle Époque, le cui deliziose increspature della crema spalmata sono liricamente
illuminate, dirigersi verso la vetrina una metà mattina ai primi di febbraio. Incartata con maestria
sarà la mia compagna di viaggio.