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MATERNITA’ SURROGATA
La definizione più corretta di quello che viene comunemente chiamato “utero in affitto” è
appunto maternità surrogata o, in alternativa, gestazione per altri.
La definizione si
riferisce al ruolo che nella fecondazione assistita appartiene alla donna che provvede alla
gestazione e al parto del bambino “su commissione” di una persona o di una coppia, alla
quale darà il figlio dopo la nascita. La fecondazione può essere effettuata sia con il seme e
con gli ovuli della coppia, sia con quelli di donatori e donatrici. Esistono due tipi di
maternità surrogata: quella tradizionale che consiste nell’inseminazione artificiale
dell’ovulo della madre surrogata che quindi, in questo caso, è anche la madre biologica del
bambino; e quella gestazionale nella quale la madre portante non ha alcun legame genetico
con il piccolo. In questa seconda opzione infatti viene impiantato nel suo utero un
embrione realizzato in vitro, che può essere geneticamente imparentato con i committenti o
provenire da seme e ovuli di donatori e donatrici. Questa pratica è ammessa in alcuni Stati
a condizione che la gestante agisca solo per finalità altruistiche; in altri Stati è ammessa
anche se la donna riceve un pagamento. In Italia la maternità surrogata è illegale. A
stabilirlo è la legge 40 del 2004 sulla procreazione assistita che all’articolo 12 prevede :
«Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di
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gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi
a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». Ad ogni modo ci sono coppie
italiane che ricorrono alla maternità surrogata all’estero, in quanto in generale i giudici
italiani non possono sanzionare i reati commessi oltre i confini nazionali, ma queste
coppie che ricorrono alla maternità surrogata possono comunque avere numerosi problemi
al loro ritorno in Italia. Il motivo è semplice: al momento della presentazione all’ufficiale
di Stato Civile nostrano del certificato di nascita del figlio redatto da una Nazione estera, la
coppia deve richiedere la trascrizione del suddetto, senza dichiarare di aver fatto ricorso
alla GPA, che nel nostro Paese è un reato. Ma così facendo commettono il reato punito
dall’art. 495 c.p. (falsità in atti dello stato civile). Ci sono precedenti di coppie punite con
sanzioni molto severe, anche se in altri casi invece i giudici hanno mostrato una certa
tolleranza. Inoltre, se il bambino non ha un legame genetico con alcuno dei genitori e
l’autorità italiana scopre l’inganno, coloro che si presentano come genitori senza esserlo
rischiano che il bambino sia dichiarato adottabile. Se invece il bambino è figlio di almeno
uno dei genitori (di solito il padre), allora la legge italiana considera solo lui come genitore
ma l’altro potrà chiedere di adottarlo applicando la norma che consente l’adozione del
figlio del coniuge c.d. “stepchild adoption”, che nell’ambito del matrimonio è ammessa
dalla legge. Se invece a presentarsi avanti all’ufficiale di stato civile italiano è una coppia
omosessuale con un certificato di nascita redatto all’estero nel quale entrambi i componenti
vengono indicati come padri è chiaro che il bambino è nato a seguito di maternità
surrogata. In questo caso l’ufficiale registrerà il bambino unicamente come figlio del padre
biologico. Premesso tutto quanto sopra bisogna però evidenziare che la giurisprudenza
recente ha mostrato delle aperture riconoscendo la qualità di genitori a coppie dello stesso
sesso. Una recente sentenza del Tribunale di Roma ha detto sì all’adozione ad una coppia
di uomini (sentenza del 23 dicembre 2015- Tribunale di Roma). Il caso: Dopo sette anni di
convivenza e di forte legame sentimentale, una coppia di uomini ha contratto matrimonio
in Canada, «Stato nel cui ordinamento tale vincolo è riconosciuto come diritto della
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persona». Successivamente, la coppia ha deciso di concretizzare il progetto di genitorialità,
affidandosi ad una clinica, sempre in Canada, per la procedura di maternità surrogata su
base volontaria (essendo vietata quella commerciale). I due uomini hanno mantenuto
costanti rapporti con la donna portatrice, visitandola nel periodo della gestazione e
restando nella città natale del nascituro per oltre due mesi dopo la sua nascita. Ricorre
avanti al Tribunale minorile il padre sociale del minore chiedendo di «dichiararsi nei suoi
confronti e nell’interesse del bambino l’adozione in casi particolari ai sensi e per gli effetti
dell’art. 44, comma 1, lett. d) l. n. 184/1983, modificata dalla l. n. 149/2001». Nel giungere
alla soluzione della questione prospettata dal ricorrente, il Tribunale minorile ricorda che
nell’ordinamento italiano non esiste alcun divieto ad adottare per la singola persona,
«quale che sia il suo orientamento sessuale». Nel dettaglio, in Italia è prevista la possibilità
di adozione piena, che presuppone che gli adottanti siano uniti da un rapporto di coniugio
riconosciuto dall’ordinamento. Tuttavia, esiste anche una seconda forma di adozione,
l’adozione in casi particolari, «in base alla quale, nell’interesse superiore del minore, la
domanda di adozione può essere sottoposta anche da persona singola, ai sensi del
combinato disposto dell’art. 44, lett. d), e dell’art. 7 della l. n. 184/1983». Tale formula di
adozione mira chiaramente a realizzare l’interesse del minore ad una famiglia in casi
tassativi «per un verso ampliando il novero dei soggetti legittimati a diventare genitori
adottivi e , per altro verso, semplificando la procedura di adozione».L’adozione in casi
particolari, come spiega il Collegio, mira a favorire il consolidamento tra minori e parenti o
persone che già si prendono cura di lui, mettendo a loro disposizione lo strumento adottivo
con effetti più limitati rispetto all’adozione piena, ma con presupposti meno rigorosi. Nel
caso in esame, la lett. d) del comma 1 del citato articolo prevede che il minore possa essere
adottato «quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo». La norma
non deve essere interpretata nel senso che il presupposto sia costituito da una situazione di
abbandono, come prospettato dal P.m. Specifica il Tribunale che presupposto è invece
«l’impossibilità dell’affidamento preadottivo e non una situazione di abbandono ad esso
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prodromica». Alla luce di tale interpretazione altri giudici di merito hanno disposto
l’adozione di un minore a coppie di conviventi (v. Trib. per i Minorenni di Milano n.
626/2007; App. Firenze n. 1274/2012).Inoltre, il Collegio ritiene che nel caso di specie
debba tenersi conto della situazione di fatto concretizzatasi: il minore «è nato e cresciuto
con il ricorrente ed il suo compagno, suo padre biologico, instaurando con loro un legame
inscindibile che, a prescindere da qualsiasi “classificazione giuridica”, nulla ha di diverso
rispetto ad un vero e proprio vincolo genitoriale». Dunque, «negare a questo bambino i
diritti e i vantaggi derivanti da questo rapporto costituirebbe certamente una scelta non
corrispondente all’interesse del minore». In conclusione il Tribunale, in conformità a
propri analoghi precedenti resi su richiesta della compagna della madre biologica, ritiene
che la normativa debba essere interpretata alla luce delle emergenze sociali che spingono
per il riconoscimento di nuove forme genitoriali, nell’attesa che il Legislatore italiano
intervenga predisponendo una disciplina capace di tutelare anche i nuovi modelli familiari.
L’art. 44, lett. d) predetto è da ritenersi applicabile , senza alcuna forzatura, al caso in
esame: il Tribunale per i minorenni di Roma quindi accoglie il ricorso, sussistendo tutti i
presupposti di diritto e di fatto ed atteso che risponde all’interesse del minore essere
adottato dal ricorrente.
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