1 - ShareILL

Transcript

1 - ShareILL
Therese è un’apprendista scenografa che, per mettere insieme qualche soldo, durante il periodo
natalizio si fa assumere in un grande magazzino. Il suo rapporto sentimentale con Richard si trascina
stancamente. Tutto per Therese sembra precipitare in una grigia e disperata routine fino al giorno in
cui conosce l’affascinante e bellissima Carol che, insinuandosi nella sua vita le fa conoscere
l’ebbrezza di un amore diverso...
Di Patricia Highsmith (Fort Worth, Texas, 1921 – Locarno, Svizzera, 1995) Bompiani ha pubblicato
tutte le opere narrative. I suoi romanzi e racconti hanno anche ispirato celebri film: da Sconosciuti in
treno è stato tratto il capolavoro di Alfred Hitchcock L’altro uomo ; il personaggio più famoso della
scrittrice, Tom Ripley, è stato portato sullo schermo da Wim Wenders ( L’amico americano) e poi
riproposto con il volto di Matt Damon nel film Il talento di Mr. Ripley , per la regia di Antony
Minghella; da Il grido della civetta Claude Chabrol ha tratto Il grido del gufo.
eISBN 978-88-58-74358-4
© 1995/2007 RCS Libri S.p.A.
Via Mecenate 91, 20138 Milano
First published in the United States in 1952 under the title The Price of Salt
Revised edition with an afterword by the author
© 1984 by Claire Morgan
© 1993 by Diogenes Verlag AG Zürich
All rights reserved
Prima edizione digitale 2012 dalla quarta edizione Tascabili Bompiani ottobre 2007
Copertina
Progetto grafico Polystudio
Fotografia di Fulvio Ventura
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Per Edna, Jordy e Jeff
PRIMA PARTE
1
Nella mensa per i dipendenti del Frankenberg era l’ora di punta.
Non c’era un posto libero a nessuno dei lunghi tavoli, e sempre più gente arrivava e rimaneva in
attesa oltre le barriere di legno di fianco alla cassa. Chi già si era procurato il vassoio con il cibo si
aggirava tra i tavoli in cerca di uno spazio dove potersi infilare, o di un posto che qualcuno stesse per
lasciare libero, ma invano. Rumori di piatti, sedie, voci, stropiccio di piedi, e il bra-a-ac dei
cancelletti girevoli, si fondevano, nella stanza dalle nude pareti, nel fragore di un’unica, enorme
macchina.
Therese mangiava nervosamente, l’opuscolo "Benvenuti al Frankenberg" davanti, appoggiato a una
zuccheriera. Aveva già letto lo spesso libretto durante la settimana, nel primo giorno di corso di
addestramento, ma non aveva nient’altro con sé da leggere, e lì in mensa sentiva il bisogno di
concentrarsi su qualcosa. Così tornava a informarsi sui vantaggi per le ferie, le tre settimane di
vacanza accordate a chi lavorava da quindici anni da Frankenberg, e intanto mangiava il piatto caldo
speciale del giorno: una grigiastra fetta di roast-beef con una palla di purea di patate coperta di un
sugo marroncino, un mucchietto di piselli e un po’ di radicchio dentro una vaschetta di carta. Tentava
di immaginare come dovesse sentirsi chi aveva lavorato per quindici anni nei grandi magazzini
Frankenberg, e scopriva di non riuscirci. A chi aveva "venticinque anni di anzianità" spettavano
quattro settimane di vacanza, diceva l’opuscolo. Inoltre, il Frankenberg forniva un campo per i
vacanzieri estivi e invernali. Dovrebbero avere anche una chiesa, pensava, e un ospedale per le
partorienti. Il grande magazzino era organizzato un po’ come una prigione, e l’atterriva talvolta il
pensiero di farne parte.
Girò rapidamente alcune pagine e vide, in grossi caratteri neri attraverso ben due fogli: "E TU sei
’materiale’ per Frankenberg?"
Lanciò un’occhiata verso le finestre al di là dello stanzone e cercò di pensare a qualcos’altro. Al bel
maglione norvegese rosso e nero che aveva visto da Saks e che avrebbe forse comperato a Richard per
Natale, se non fosse riuscita a trovare per venti dollari un portafogli migliore di quelli che aveva visto.
Alla possibilità di andare in macchina con i Kelly fino a West Point, la successiva domenica a vedere
una partita di hockey. Il finestrone quadrato al di là della stanza faceva pensare a un dipinto di... Chi
era? Mondrian. Un piccolo riquadro di vetro, nell’angolo, aperto verso un cielo bianco. Che specie di
scenario si poteva mai creare per una commedia che avesse luogo in un grande magazzino? Ecco che
ripiombava lì.
"Ma per te è molto diverso, Terry," le aveva detto Richard. "Tu hai l’assoluta certezza che ne sarai
fuori nel giro di poche settimane, cosa che gli altri non hanno." Richard diceva che lei poteva essere in
Francia, l’estate prossima. Che lo sarebbe stata. Voleva che andasse con lui, Richard, e in effetti non
c’era niente che le impedisse di accompagnarlo. E l’amico di Richard, Phil McElroy, gli aveva scritto
che sarebbe stato forse in grado di procurarle un impiego presso un gruppo teatrale, di lì a un mese.
Therese non aveva ancora conosciuto Phil, ma aveva ben poca fiducia che potesse trovarle un lavoro.
Aveva passato al setaccio New York fin da settembre, era tornata a setacciarla diverse altre volte, e
non aveva scovato niente. Chi mai, nel cuore dell’inverno, offriva lavoro a un’apprendista scenografa,
alle prime armi perfino come praticante? Né le sembrava reale, del resto, poter essere in Europa con
Richard l’estate prossima, per sedere con lui nei caffè all’aperto, passeggiare per Arles, cercare i
luoghi che Van Gogh aveva dipinto, scegliere insieme località dove fermarsi per un poco a dipingere.
Le sembrava irreale specie in quegli ultimi giorni, da quando aveva cominciato a lavorare al
magazzino.
Sapeva che cosa la turbava in quel grande negozio. Era il genere di cosa che non avrebbe cercato di
spiegare a Richard. Erano, intensificate, quelle stesse cose che sempre l’avevano turbata, da che aveva
uso di memoria: le azioni prive di scopo, le incombenze insignificanti fatte apposta, sembrava, per
impedirle di fare quello che avrebbe desiderato, che avrebbe potuto fare. E lì erano i procedimenti
complicati con il denaro degli incassi, i controlli dei cappotti, gli orologi marcatempo che impedivano
alle persone perfino di servire il magazzino al massimo della loro efficienza: la sensazione che
ciascuno fosse nell’impossibilità di comunicare con chiunque altro e vivesse su un piano
completamente sbagliato, così che il significato, il messaggio, l’amore o quant’altro ciascuna vita
possedeva, non potessero mai avere modo di esprimersi. Tutto ciò le richiamava alla mente
conversazioni ai tavoli, sui sofà, con persone le cui parole sembravano aleggiare al di sopra di cose
morte e inanimabili, persone che non toccavano mai una corda che vibrasse. E quando uno tentava di
toccare una corda viva, vedendosi subito fissare da facce eternamente impenetrabili, se ne usciva in
un’osservazione così perfetta nella sua banalità da rendere quasi impossibile credere che si trattasse di
un sotterfugio. E poi la solitudine, accresciuta dal fatto che, giorno dopo giorno, vedevi sempre le
stesse facce, le poche facce cui sarebbe stato possibile rivolgersi e mai lo si faceva, o mai era dato
farlo. Non come la faccia sull’autobus di passaggio, che sembra dirti qualcosa, che, se non altro, una
volta vista poi scompare per sempre.
Le veniva fatto di domandarsi, mentre ogni mattina faceva la fila in attesa di timbrare il cartellino,
separando inconsapevolmente con gli occhi gli impiegati fissi da quelli temporanei, come fosse andata
a capitare proprio lì – aveva risposto a un’inserzione, naturalmente, ma questo non spiegava il destino
– e cos’altro le riservasse la sorte invece di un lavoro di scenografa. La sua vita era una serie di
zigzag. A diciannove anni, era ansiosa.
"Devi imparare a fidarti della gente, Therese. Ricordalo," le aveva detto spesso suor Alicia. E
spesso, spessissimo, Therese cercava di metterlo in pratica.
"Suor Alicia," bisbigliò a fior di labbra, traendo conforto da quei suoni sibilanti.
Poi si scosse e riprese in mano la forchetta, perché l’addetto a sparecchiare stava avanzando nella
sua direzione.
Le pareva di vederla, la faccia di suor Alicia, spigolosa e rossastra come pietra rosa quando il sole
vi batteva sopra, di vedere l’inamidato rigonfio azzurro del seno. La grande, ossuta figura di suor
Alicia che sbucava dall’angolo in un corridoio, o tra i candidi tavoli del refettorio. Suor Alicia in un
migliaio di luoghi, con i piccoli occhi celesti che sempre la individuavano in mezzo alle altre
bambine, che la vedevano, Therese lo sapeva, in modo diverso da tutte le altre, e tuttavia con le sottili
labbra rosee sempre serrate nella stessa espressione severa. La rivedeva ancora, suor Alicia che le
porgeva i guanti di lana verde lavorati a maglia avvolti in carta velina, senza sorridere, soltanto
offrendoglieli direttamente, quasi senza una parola, il giorno in cui lei aveva compiuto otto anni; suor
Alicia che, con la stessa espressione seria, le aveva detto che doveva passare in aritmetica. A chi altri
era importato che lei fosse promossa in aritmetica? Per anni Therese aveva serbato quei guanti verdi
in fondo al suo armadietto metallico, a scuola, dopo che suor Alicia era stata trasferita in California.
La carta velina candida era diventata molle e tutta crepe come un tessuto antico, e lei non aveva
ancora usato quei guanti. Alla fine, erano diventati troppo piccoli da indossare.
Qualcuno mosse la zuccheriera, e l’opuscolo che vi stava appoggiato cadde.
Therese guardò il paio di mani di fronte a lei, mani di donna grassocce, invecchiate, che stavano
rimescolando il caffè, che ora spezzavano un panino con tremante impazienza, intingendone
avidamente una metà nel sugo brunastro del piatto, identico a quello di Therese. Erano mani
screpolate, c’era sudiciume nelle pieghe parallele delle nocche, ma la destra portava un vistoso anello
in filigrana d’argento con incastonata una pietra verde trasparente, la sinistra una fede nuziale d’oro, e
c’erano tracce di smalto rosso agli angoli delle unghie. Therese osservò una delle mani portare verso
l’alto una forchettata di piselli, e non aveva bisogno di guardare la faccia per sapere come potesse
essere. Sarebbe stata identica a tutte le facce cinquantenni di donne che lavoravano al Frankenberg,
colpite da perenne sfinimento e terrore, gli occhi distorti dietro occhiali che ingrandivano o
rimpicciolivano, le guance chiazzate di belletto che non ravvivava il sottostante grigiore. Therese non
poteva guardare.
"Tu sei nuova, vero?" La voce era acuta e nitida nel baccano, quasi una voce dolce.
"Sì," disse Therese, e rialzò lo sguardo. Era la faccia il cui sfinimento le aveva fatto notare tutte le
altre. Era la donna che Therese aveva visto scendere lentamente dall’ammezzato giù per la scala di
marmo, verso le sei e mezzo, una sera in cui il magazzino era ormai deserto, lasciando scivolare le
mani lungo la larga ringhiera marmorea per alleviare in parte ai piedi callosi il peso della persona.
Non è malata, aveva pensato lei, non è una mendicante: semplicemente, lavora qui.
"Te la cavi bene?"
E ora quella donna era lì e le sorrideva, con le stesse terribili pieghe sotto gli occhi e intorno alla
bocca. Gli occhi erano realmente vivi, ora, e piuttosto affettuosi.
"Te la cavi bene?" ripeté la donna, perché c’era un gran frastuono di piatti e di voci tutt’intorno a
loro.
Therese si umettò le labbra. "Sì, grazie."
"Ti piace lavorare qui?"
Therese assentì.
"Finito?" Un giovanotto in grembiule bianco già premeva con autorità il pollice sul piatto della
donna.
La donna accennò un tremulo gesto affermativo. Tirò verso di sé la ciotolina di pesche sciroppate in
scatola. Le pesche, come viscidi pesciolini arancione, slittavano oltre l’orlo del cucchiaio ogni volta
che quello si sollevava, tutte tranne quella che lei avrebbe messo in bocca.
"Io sono al terzo piano, nel reparto maglioni. Se vuoi domandarmi qualcosa": la donna parlava con
nervosa incertezza, come se stesse cercando di trasmetterle un messaggio prima che venissero
interrotte o separate. "Vieni su a trovarmi, qualche volta. Mi chiamo Robichek, signora Ruby
Robichek."
"La ringrazio molto," disse Therese, e all’improvviso la bruttezza della donna scomparve, perché
gli occhi di un castano rossiccio dietro le lenti erano gentili, e interessati a lei. Therese ora sentiva il
cuore batterle, come se si fosse animato. Guardò l’altra alzarsi da tavola, ne osservò la tozza,
appesantita figura allontanarsi fino a perdersi tra la folla in attesa al di là della barriera.
Non andò a trovare la signora Robichek, ma la cercò con gli occhi ogni mattina quando, verso le
nove meno un quarto, il personale entrava alla spicciolata nell’edificio, e la cercò negli ascensori e in
mensa. Non la vedeva mai, ma era piacevole avere qualcuno da cercare nel grande magazzino. Faceva
tutta la differenza del mondo.
Quasi ogni mattina, quando arrivava al lavoro al settimo piano, Therese si tratteneva per qualche
istante a guardare un certo trenino. Il treno stava su un tavolo vicino agli ascensori. Non era un bel
treno grande come quello che si trovava sul pavimento in fondo al reparto giocattoli, ma c’era una
furia nel pompare dei suoi minuscoli pistoni che i treni più grandi non possedevano. La collera e la
frustrazione che sfogava lungo l’angusto binario ovale esercitavano su Therese una sorta di incanto.
Aurr-rr-rr-rrgh faceva nello scagliarsi ciecamente dentro il tunnel di cartapesta. E urr-rr-rr-rrgh
mentre ne emergeva.
Il trenino era sempre in corsa quando lei usciva dall’ascensore al mattino e quando smetteva di
lavorare la sera. Le sembrava che imprecasse contro la mano che ogni giorno azionava l’interruttore.
Nel brusco rumore che faceva intorno alle curve, nell’impeto disperato con cui affrontava i tratti
diritti della rotaia, le pareva di avvertire il frenetico e futile inseguimento di un padrone tirannico.
Trascinava tre vetture in cui minuscole figure umane mostravano duri profili ai finestrini, e dietro
quelle un carro merci aperto che trasportava vero legname in miniatura, un altro carico di carbone, che
però era finto, e un vagone di servizio che sussultava attorno alle curve e si aggrappava al treno in
fuga come un bambino alle gonne materne. Era come qualcosa di impazzito perché imprigionato,
qualcosa di già morto ma che mai si sarebbe esaurito, come le eleganti volpi nello zoo di Central Park,
il cui complesso lavoro di elastiche zampe si ripeteva all’infinito mentre correvano tutt’intorno alla
gabbia.
Quel mattino, Therese si affrettò ad allontanarsi dal treno e proseguì verso il reparto delle bambole
dove lavorava.
Alle nove e cinque, il vasto e quadrato reparto giocattoli stava animandosi. Panni verdi venivano
tirati via dai lunghi banchi. Giocattoli meccanici cominciavano a gettare palle in aria e a
riacchiapparle, sale di tiro facevano udire colpi e i loro bersagli ruotavano. Il tavolo degli animali da
cortile emetteva strida rauche, chiocciava e ragliava. Alle spalle di Therese, era cominciato un tedioso
rat-tat-tat tat tat, i colpi di tamburo del gigantesco soldatino di latta che bellicosamente guardava
verso gli ascensori e suonava lo strumento per tutta la giornata. Il tavolo delle arti e dell’artigianato
emanava un odore di argilla fresca per modellare, che le ricordava l’aula d’arte, a scuola, quando era
ancora molto piccola, e anche una specie di seminterrato a volta, nel giardino della scuola, di cui si
diceva che fosse stata l’autentica tomba di qualcuno, e attraverso le cui sbarre di ferro lei era solita
infilare il naso.
La signora Hendrickson, direttrice del reparto giocattoli, stava tirando giù bambole dagli scaffali,
sistemandole poi sedute, a gambe larghe, sui banchi di vetro.
Therese diede il buongiorno alla signorina Martucci, che al suo banco stava contando le banconote e
le monete della sua borsa con tale concentrazione da poter rivolgere a Therese soltanto un cenno più
energico del capo, con cui già assentiva ritmicamente. Therese contò il denaro della propria borsa,
registrò la somma su un bianco tagliando per la busta delle ricevute di vendita, poi trasferì il denaro,
suddividendolo a seconda del taglio, nel registratore di cassa.
I primi clienti, intanto, stavano uscendo dagli ascensori, esitando un istante con l’espressione
sconcertata, quasi sbigottita, che avevano sempre le persone nel ritrovarsi nel reparto giocattoli, e
incamminandosi poi lungo serpeggianti percorsi.
"Avete le bambole che fanno la pipì?" le domandò una donna.
"Vorrei questa, ma con l’abitino giallo," disse un’altra, spingendo una bambola verso di lei, e
Therese si voltò e prese dallo scaffale quella richiesta dalla cliente.
La donna, notò Therese, aveva bocca e guance simili a quelle di sua madre: guance lievemente
butterate sotto un fard di un rosa intenso, separate da una bocca rossa e sottile tutta rughe verticali.
"Sono solo di questa dimensione, le bambole che bevono e si bagnano?"
Non occorreva molta abilità nel vendere. La clientela voleva una bambola, una bambola qualsiasi,
da regalare per Natale. Si trattava solo di chinarsi, tirar fuori scatole in cerca di una bambola con gli
occhi castani invece che azzurri, chiamare la signora Hendrickson perché aprisse una delle vetrine con
la sua chiave, cosa che lei faceva di malavoglia se era convinta che quella particolare bambola non
figurasse fra i loro articoli, procedere di sghimbescio lungo il corridoio dietro il banco per depositare
una bambola acquistata sulla montagna di scatole che continuava a crescere sul tavolo dove si
confezionavano i pacchi, per quanto i commessi si affrettassero a ritirarli e a consegnarli. Raramente
una bambina si avvicinava al banco. Era Babbo Natale a portare le bambole, Babbo Natale
rappresentato da facce frenetiche e da mani adunche. Eppure, rifletteva Therese, doveva pur esserci
una certa buona volontà nelle clienti, in tutte loro, perfino dietro le facce fredde e incipriate delle
signore in visone o in ermellino, che erano in genere le più arroganti, quelle che in tutta fretta
acquistavano le bambole più grandi e più costose, con i capelli veri e il cambio d’abiti. C’era
sicuramente amore nelle persone povere, quelle che aspettavano il loro turno, che s’informavano
timidamente sul prezzo di una certa bambola e che si allontanavano, poi, scuotendo con rimpianto la
testa. Tredici dollari e cinquanta per una bambola alta appena venticinque centimetri.
"La prenda," avrebbe voluto dire Therese. "Costa davvero troppo, perciò io gliela regalo. Il
Frankenberg non fallirà per questo."
Ma le donne dai miseri cappotti di stoffa, gli uomini timidi rannicchiati dentro sformati giacconi,
sarebbero stati già lontani, lo sguardo malinconico rivolto verso gli altri banchi mentre se ne
tornavano agli ascensori. Se venivano per comperare una bambola, non volevano nient’altro. Una
bambola era un genere speciale di dono natalizio, praticamente vivo, la cosa più simile a un bebè.
Quasi mai venivano i bambini, ma di tanto in tanto ne capitava uno, generalmente una bimbetta,
molto raramente un maschio, tenuta strettamente per mano da un genitore. Therese le mostrava, con
pazienza, le bambole che riteneva potessero piacerle, finché una di queste faceva apparire sul volto
della piccola quella metamorfosi, quella reazione alla finzione che era poi lo scopo di tutto, e in
genere era quella la bambola con cui la bimbetta se ne andava.
Poi una sera, dopo il lavoro, Therese vide la signora Robichek nel negozio di caffè e ciambelle
sull’altro lato della strada. Spesso Therese si fermava a bere una tazza di caffè, prima di tornare a
casa. La signora Robichek era in fondo al negozio, al termine del lungo bancone ricurvo, e intingeva
una focaccia dentro la sua tazza di caffè.
Therese prese ad avanzare verso di lei, attraverso una calca di ragazze, tazze e ciambelle. Arrivata
presso la signora Robichek, ansimò un "Salve", e si girò verso il banco, come se una tazza di caffè
fosse stata il suo unico obiettivo.
"Salve," rispose l’altra, con tale indifferenza che Therese ci rimase malissimo.
Non osò più guardare verso la signora Robichek, e tuttavia erano praticamente spalla a spalla!
Therese aveva quasi finito il suo caffè quando l’altra parlò con voce spenta: "Devo andare a prendere
la sotterranea, l’Indipendente. Ma chissà se ce la faremo mai a uscire di qui." Il tono era depresso,
diverso da come era stato quel giorno alla mensa. Ora era di nuovo la donna ingobbita che Therese
aveva visto scendere a fatica le scale.
"Ce la faremo," disse Therese, con fare rassicurante.
Aprì a viva forza un varco per entrambe fino alla porta. Anche Therese prendeva l’Indipendente. Lei
e la signora Robichek si insinuarono tra la folla indolente all’entrata della sotterranea per essere poi
risucchiate in modo lento e inesorabile giù per le scale, come frammenti di avanzi fluttuanti giù per lo
scarico. Scoprirono di dover scendere entrambe alla fermata di Lexington Avenue, sebbene la signora
Robichek abitasse nella Cinquantacinquesima Strada, proprio a est della Terza Avenue. Therese entrò
con la signora nella rosticceria dove l’altra intendeva comperare qualcosa per cena. Anche Therese
avrebbe potuto fare altrettanto, ma la presenza della Robichek la metteva in imbarazzo.
"Hai già tutto, a casa?"
"No, dopo prenderò qualcosa anch’io."
"Perché non vieni a mangiare da me? Sono sola. Vieni," terminò la signora Robichek con un’alzata
di spalle, come se le costasse meno sforzo di un sorriso.
In Therese l’impulso di rifiutare durò appena un istante. "Grazie. Vengo volentieri." Poi vide sul
banco una torta avvolta nel cellophane, una torta alla frutta simile a un grosso mattone scuro
sormontato da ciliegie rosse, e la comperò per offrirla alla signora Robichek.
Era una casa suppergiù come quella in cui abitava lei, ma molto più buia e più tetra. Mancava
qualsiasi illuminazione nell’entrata, e quando la signora Robichek accese la luce nel corridoio del
terzo piano, Therese vide che non era uno stabile molto pulito. Nemmeno la stanza della signora
Robichek era molto pulita, e il letto era sfatto. Chissà se si alza stanca come quando si corica, pensò
Therese. Era stata lasciata in piedi in mezzo alla stanza, mentre la signora Robichek si trascinava
straccamente verso il cucinino, portando il sacchetto di provviste che aveva preso dalle mani
dell’ospite. Therese si disse che, ormai che era a casa, dove nessuno poteva vederla, la povera donna
permetteva a se stessa di manifestare tutta la sua stanchezza.
Therese non avrebbe saputo dire com’era cominciato. Non riusciva a ricordare la conversazione di
qualche istante prima, e del resto la conversazione non aveva importanza. Quello che accadde fu che
la signora Robichek si allontanò da lei, in modo strano, come se fosse in trance, mormorando
all’improvviso invece di parlare, e si distese supina sul letto sfatto. Proprio a causa di quel continuo
mormorio, del lieve sorriso di scusa, e della terribile, sconvolgente bruttezza di quel corpo pesante,
tozzo, dall’addome prominente, di quella testa piegata da un lato come a giustificarsi e senza mai
smettere di fissarla educatamente, lei non poteva indurre se stessa ad ascoltare.
"Un tempo avevo un negozio di moda a Queens. Un bel negozio grande," disse la signora Robichek,
e Therese colse la nota vanagloriosa e cominciò suo malgrado ad ascoltare. "Quei vestiti con la vita a
’v’ e i bottoncini che correvano verso l’alto. Sai, tre, cinque anni fa..." La signora Robichek, incapace
di esprimersi, allargava le rigide mani attorno alla vita. Con le tozze dita non abbracciava nemmeno
una metà del davanti di se stessa. Appariva vecchissima nella luce fioca che le anneriva le ombre sotto
gli occhi. "Li chiamavano vestiti modello Caterina. Te li ricordi? Li avevo disegnati io. Venivano dal
mio negozio di Queens. Erano famosi, eccome!"
La signora Robichek si alzò e andò a un piccolo baule sistemato contro la parete. Lo aprì, senza mai
smettere di parlare, e prese a tirar fuori abiti di tessuto scuro e pesante, che lasciava cadere a terra. Ne
sollevò uno di velluto color rosso granato con un colletto bianco e minuscoli bottoni bianchi che
formavano una "v" lungo il davanti del corpetto.
"Vedi, ne ho tanti. Li facevo io. Gli altri negozi li copiavano." Al di sopra del colletto bianco
dell’abito, che teneva fermo con il mento, la brutta testa della signora Robichek si inclinava in modo
grottesco. "Ti piace questo? Te ne do uno. Vieni. Vieni qui, provatelo."
Therese, al pensiero di provarselo, avvertiva un senso di repulsione. Avrebbe voluto che la signora
Robichek tornasse a sdraiarsi e a riposare, ma si alzò da tavola, ubbidiente, come se non avesse una
sua volontà, e le si avvicinò.
Con mani tremanti e importune la signora le premette contro un abito di velluto nero, e Therese
improvvisamente capì come dovesse servire i clienti al negozio, spingendo loro addosso maglioni alla
rinfusa, poiché non avrebbe potuto compiere quella stessa azione in nessun altro modo. La signora
Robichek, Therese se ne ricordò, aveva detto di lavorare da quattro anni da Frankenberg.
"Ti piace di più questo verde? Provatelo." E, poiché Therese esitava, lo lasciò cadere e ne prese un
altro, quello rosso scuro. "Ne ho venduti cinque alle ragazze del negozio, ma a te lo regalo. Sono
avanzi di magazzino, ma vanno ancora di moda. Preferisci questo?"
Therese preferiva quello rosso. Il rosso le piaceva, specie il rosso granato, e amava il velluto rosso.
La signora Robichek la sospingeva verso un angolo, dove lei poteva togliersi i suoi abiti e posarli su
una poltrona. Ma lei non lo voleva, il vestito, non voleva che le venisse regalato. Le ricordava gli
indumenti che le venivano dati in collegio, indumenti smessi, perché praticamente veniva considerata
come una delle orfane, quelle che rappresentavano una buona metà della scuola, quelle che non
ricevevano mai pacchi da casa. Therese si sfilò il maglioncino e si sentì completamente nuda. Si
afferrò le braccia al di sopra dei gomiti, e la carne, là, era fredda e insensibile.
"Cucivo," stava dicendo estaticamente la signora Robichek tra sé, "quanto cucivo, dal mattino alla
sera! Dirigevo quattro ragazze. Ma mi si ammalarono gli occhi. Da uno non ci vedevo, questo. Infilati
il vestito." Raccontò a Therese dell’operazione all’occhio. Non era cieco del tutto, solo parzialmente.
Ma le faceva un gran male. Glaucoma. Tuttora le dava dolore. L’occhio e la schiena. E i piedi. I calli.
Therese si rese conto che stava raccontandole tutti i suoi guai e la sua sfortuna affinché lei, Therese,
capisse perché era caduta così in basso da dover fare la commessa in un grande magazzino.
"Ti va bene?" s’informò fiduciosa la signora Robichek.
Therese si guardò nello specchio dell’anta dell’armadio. Le mostrava una figura lunga e snella con
una testa piuttosto stretta che sembrava incendiarsi, lungo il contorno, di un fuoco dorato che correva
fin giù al rosso vivido su entrambe le spalle. L’abito le pendeva in pesanti pieghe drappeggiate quasi
fino alle caviglie. Era l’abito delle regine delle fiabe, di un rosso più intenso del sangue. Indietreggiò
un poco, ne raccolse l’eccesso di stoffa dietro di sé, affinché le aderisse alle costole e alla vita, poi
tornò a fissare nello specchio i suoi stessi occhi di un nocciola scuro. Era come incontrare se stessa.
Quella era lei, non la ragazza dalla malinconica gonna scozzese e dal golfino beige, non quella che
lavorava nel reparto bambole, da Frankenberg.
"Ti piace?" domandò la signora Robichek.
Therese studiava la bocca sorprendentemente tranquilla, di cui poteva vedere distintamente i nitidi
contorni, sebbene non portasse più rossetto di quanto gliene sarebbe rimasto se qualcuno l’avesse
baciata. Desiderava poter baciare la figura nello specchio e far sì che si animasse, tuttavia restava
perfettamente immobile, come un ritratto dipinto.
"Se ti piace, prendilo," la esortò con impazienza la signora Robichek, osservandola da una certa
distanza, appostata contro l’armadio come fanno le commesse mentre, nei reparti confezioni, le clienti
provano abiti e cappotti davanti agli specchi.
Ma l’incantesimo non poteva durare, e Therese lo sapeva. Si sarebbe mossa, e l’immagine sarebbe
scomparsa. Se anche lei lo avesse tenuto, l’abito, sarebbe scomparsa, perché era cosa di un istante, di
quell’istante. Non lo voleva il vestito. Tentò di immaginarlo nell’armadio di casa sua, tra gli altri
abiti, ma non poté. Cominciò a slacciare i bottoni, a sganciare il colletto.
"Ti piace, sì?" domandò la signora Robichek, fiduciosa come sempre.
"Sì," rispose in tono fermo Therese, ammettendolo.
Non riusciva ad aprire il piccolo gancio sulla nuca. La signora Robichek dovette aiutarla, e lei quasi
non poteva aspettare. Aveva l’impressione di venire strangolata. Che cosa ci faceva, lì? Come era
arrivata a indossare un vestito come quello? D’improvviso la signora Robichek e il suo appartamento
le apparivano come un sogno orribile che lei si era appena resa conto di stare facendo. La signora
Robichek era la gobba guardiana della segreta. E lei era stata portata lì per essere tormentata con vane
lusinghe.
"Che cosa c’è? Uno spillo ti ha punta?"
Therese aprì le labbra per rispondere, ma la sua mente era troppo lontana. Era in un punto distante,
in un lontano vortice che si apriva sulla scena nella stanza terrificante e male illuminata, dove loro
due sembravano affrontarsi in un combattimento mortale. E a quel punto del vortice in cui la sua
mente si trovava, lei comprese che ad atterrirla era l’irrimediabilità e nient’altro. Era la condizione
disperata della signora Robichek, con il suo corpo dolorante, il suo impiego al negozio, la sua pila di
vestiti nel baule, la sua bruttezza, l’assenza di speranza di cui la sua vita al tramonto era interamente
composta. E inoltre l’assenza di speranza per sé, di poter mai essere la persona che voleva essere e di
poter fare le cose che quella persona avrebbe fatto. La sua vita, dunque, altro non era stata che un
sogno, e la realtà era questa? Era il terrore di quell’assenza di speranza a farle desiderare di spogliarsi
di quell’abito e di fuggire prima che fosse troppo tardi, prima che le catene le cadessero intorno,
imprigionandola.
Poteva essere già troppo tardi. Come in un incubo, Therese stava là in sottoveste bianca,
rabbrividendo, incapace di muoversi.
"Che cosa c’è? Hai freddo? Ma fa caldo, qui."
Faceva caldo, infatti. Il radiatore scottava. La stanza sapeva d’aglio e di vecchiume, di medicine, e
del peculiare odore metallico che era proprio della signora Robichek. Therese avrebbe voluto lasciarsi
cadere sulla poltrona dove giacevano la gonna scozzese e il suo golfino. Pensava che, forse, sui propri
indumenti poteva anche sedersi, non aveva importanza. Ma no, non doveva farlo. Lasciarsi andare
voleva dire perdersi. Le catene l’avrebbero serrata e lei sarebbe stata tutt’uno con la gobba.
Therese, perso all’improvviso il controllo di sé, ora tremava da capo a piedi. Era tutta un brivido, la
sua non era solo paura o stanchezza.
"Siediti," disse la signora Robichek, con voce che sembrava arrivare da lontano. Poi, con fare
indifferente e annoiato, quasi lei fosse avvezza ad avere per casa ragazze che si sentivano male, e
sempre da una gran distanza, i suoi secchi e ruvidi polpastrelli premettero contro le braccia di
Therese.
Therese lottava contro la poltrona, sapendo già di stare per arrendersi, e conscia perfino d’esserne
attratta proprio per questo. Cadde a sedere, sentendo che la signora Robichek dava strappi alla sua
gonna per sfilargliela da sotto, e si trovò nell’impossibilità di muoversi. Era sempre allo stesso punto
di consapevolezza; tuttavia, conservava la stessa libertà di ragionamento, sebbene le scure braccia
della poltrona si levassero ora intorno a lei.
"Stai troppo in piedi al negozio," stava dicendo la signora Robichek. "Questi Natali sono uno
strazio. Ne ho già visti quattro, io. Devi imparare a risparmiarti un po’."
Risparmiarsi strisciando giù per le scale, aggrappata alla ringhiera. Risparmiarsi pranzando alla
mensa. Risparmiarsi sfilandosi le scarpe dai piedi callosi come la fila delle donne appollaiate sul
radiatore nella stanza delle commesse, a contendersene un pezzetto per appoggiarci sopra un giornale
e sedersi per pochi minuti.
La mente di Therese lavorava con estrema chiarezza. Incredibile, quanto nitidamente funzionasse,
sebbene lei sapesse di stare semplicemente fissando nel vuoto davanti a sé, e di non potersi muovere
nemmeno se l’avesse voluto.
"Sei solo stanca, bambina mia," sentenziò la signora Robichek, mettendole addosso una coperta di
lana e rimboccandogliela sulle spalle dentro la poltrona. "Hai bisogno di riposare, dopo essere stata in
piedi tutto il giorno e poi anche stasera."
Un verso dall’Eliot di Richard tornò alla mente di Therese: "Non è questo ciò che intendevo. Non è
affatto questo." Avrebbe voluto dirlo, ma non poteva indurre le labbra a muoversi. Qualcosa di dolce e
di bruciante in bocca, ora. La signora Robichek, in piedi davanti a lei, versava qualcosa da una
bottiglia in un cucchiaio e glielo spingeva tra le labbra. Therese inghiottì, passiva, incurante perfino
che potesse essere veleno. Era in grado di alzarsi dalla poltrona, ora, avrebbe potuto aprire le labbra,
ma non ne aveva voglia. Alla fine, tornò ad abbandonarsi nella poltrona, lasciò che la Robichek le
sistemasse addosso la coperta e finse di addormentarsi. Ma per tutto il tempo tenne d’occhio la figura
ingobbita che si muoveva per la stanza, sparecchiando la tavola, spogliandosi per coricarsi. Osservò la
donna togliersi un busto tutto stringhe e poi uno strano aggeggio con delle cinghie che le passavano
intorno alle spalle e in parte lungo la schiena. Chiuse gli occhi inorridita, a questo punto, e li tenne
serrati ben bene finché un cigolio di molle e un lungo sospiro di sollievo le dissero che la signora
Robichek si era messa a letto. Ma non era ancora tutto. La signora Robichek allungò la mano verso la
sveglia, la caricò e, senza sollevare la testa dal cuscino, brancolò con l’orologio in cerca della sedia
che stava accanto al letto. Nel buio, Therese poté intravedere il braccio alzarsi e ricadere quattro volte,
prima che l’orologio incontrasse la sedia.
Lascio passare un quarto d’ora per darle tempo di addormentarsi, poi me ne vado, pensò Therese.
E, poiché era stanca, restò in tensione per tenere a bada quello spasmo, quell’improvvisa sensazione
di cadere nel vuoto che si ripeteva ogni notte, parecchio prima di addormentarsi, e che tuttavia
annunciava il sonno. Non l’avvertì. Così, dopo un intervallo che le sembrò di una quindicina di minuti,
Therese si rivestì e lasciò in punta di piedi la stanza. Era facile, in fin dei conti, limitarsi ad aprire la
porta e a fuggire. Facile, pensò poi, perché in realtà non stava fuggendo affatto.
2
"Terry, ricordi quel Phil McElroy di cui ti parlavo? Quello con la società per azioni? Bene, è in città, e
dice che avrai un lavoro entro un paio di settimane."
"Un vero lavoro? Dove?"
"Uno spettacolo nel Village. Phil vuole vederci stasera. Ti dirò tutto allora. Sarò lì fra una ventina
di minuti. Vengo via ora dalla scuola."
Therese aveva fatto di corsa le tre rampe di scale che portavano al suo monolocale. Stava dandosi
una rinfrescata, ora, e il sapone le si asciugava sulla faccia mentre rimaneva là a fissare la manopola
di spugna arancione nel lavandino.
"Un lavoro!" bisbigliò tra sé. La parola magica.
Si cambiò, indossando un abito, si appese al collo una corta catena d’argento con un medaglione di
San Cristoforo, regalo di compleanno di Richard, e si pettinò, bagnando un poco il pettine perché i
capelli sembrassero più in ordine. Poi sistemò alcuni schizzi e qualche modello in cartoncino
nell’armadio a muro, a portata di mano, in modo da poterli prendere facilmente se Phil McElroy
avesse chiesto di vederli. No, non ho fatto molta esperienza pratica, avrebbe dovuto ammettere, e
subito avverti un senso di avvilimento. Non aveva alle spalle neppure un lavoro come apprendista,
salvo quello di due giorni a Montclair, per preparare il modello in cartone che il gruppo di dilettanti
alla fine aveva usato, ammesso che si potesse chiamarlo un lavoro. Aveva seguito due corsi di disegno
scenografico a New York, e aveva letto un sacco di libri. Le pareva già di udire Phil McElroy – un
giovane uomo grave e occupatissimo, probabilmente, un po’ seccato per essere venuto a conoscerla
per niente – dirle con rammarico che, a conti fatti, non era la persona adatta. Ma con Richard presente,
si consolò, si sarebbe sentita meno avvilita che se fosse stata sola. Richard, da quando lo conosceva, si
era dimesso o era stato licenziato da ben cinque impieghi. Niente lo preoccupava meno del trovare o
del perdere un posto. Therese, nel ricordare d’essere stata licenziata dalla Pelican Press, circa un mese
prima, trasalì. Non le avevano dato nemmeno il preavviso, e la sola ragione per cui l’avevano
licenziata, supponeva, era che il suo particolare incarico di ricerche era ormai terminato. Quando era
andata a parlare con il signor Nussbaum, il presidente, del preavviso che non le avevano dato, lui non
aveva capito, o aveva finto di non capire, di che cosa si trattasse. "Preavvisse?... Cuss’è?" aveva detto
con indifferenza, al che lei si era voltata ed era scappata via, per paura di scoppiare in lacrime. Era
facile per Richard, che viveva nella casa paterna, con una famiglia che lo teneva su di morale, mettere
soldi da parte: aveva risparmiato circa duemila dollari durante una ferma di un paio d’anni in Marina,
e un altro migliaio nell’anno successivo. E lei quanto avrebbe impiegato per mettere da parte i
millecinquecento dollari necessari per entrare a far parte, come praticante, del sindacato disegnatori di
scena? Dopo quasi due anni a New York, ne aveva racimolati cinquecento scarsi.
"Prega per me," disse alla Madonna di legno sullo scaffale dei libri. Era l’unico bell’oggetto
dell’appartamentino, quella Madonna lignea che aveva comperato fin dal primo mese del suo arrivo a
New York. Le sarebbe piaciuto avere un posto dove esporla migliore di quell’orribile libreria, che
faceva pensare a una serie di cassette per la frutta messe una sopra l’altra e verniciate di rosso.
Desiderava tanto una libreria in legno color naturale, levigata al tatto e lucidata a cera.
Scese a comperare sei lattine di birra e un po’ di formaggio. Poi, tornata di sopra, si ricordò del vero
scopo per il quale era scesa, procurare della carne per cena. Lei e Richard avevano in progetto di
cenare in casa, quella sera. Forse ora il programma sarebbe cambiato, ma non le andava di modificare
i piani di sua iniziativa se riguardavano anche Richard, e stava per scendere di nuovo a comperare la
carne quando risuonò la lunga scampanellata di lui. Premette il pulsante che apriva il portone.
Richard salì gli scalini di corsa, sorridente. "Phil ha telefonato?"
"No," disse lei.
"Bene. Vuol dire che viene, allora."
"Quando?"
"Sarà qui a minuti, penso. Probabilmente non si fermerà a lungo."
"Si tratta davvero di un incarico ben definito?"
"Phil dice di sì."
"Sai di che specie di commedia si tratti?"
"So solo che hanno bisogno di qualcuno per gli scenari, e perché non tu?" Richard la squadrò con
occhio critico, poi sorrise. "Sei un amore, stasera. Non essere nervosa, capito? È soltanto una piccola
compagnia teatrale del Village, e probabilmente hai più talento tu di tutti loro messi insieme."
Lei prese il soprabito lasciato cadere dal giovane su una sedia e lo appese nell’armadio a muro.
Sotto il soprabito c’era un rotolo di carta per carboncino che lui aveva portato dalla scuola d’arte. "Hai
fatto qualcosa di bello, oggi?"
"Così così. Quello è un disegno che voglio completare a casa," rispose lui, noncurante. "Abbiamo
avuto quella modella con i capelli rossi, oggi. Quella che a me piace."
Therese avrebbe voluto vedere lo schizzo, ma sapeva che Richard probabilmente non lo riteneva
abbastanza buono. Alcuni dei primi dipinti di lui lo erano, come il faro in blu e nero appeso sopra il
suo letto, quello che lui aveva fatto quando era in Marina e cominciava appena a dipingere. Ma i
disegni dal vivo non valevano ancora molto, e Therese dubitava che potessero migliorare in seguito.
Sui calzoni color tortora di Richard c’era una nuova macchia di carboncino. Indossava una T-shirt
sotto la camicia a scacchi rossi e neri, e mocassini di pelle scamosciata che facevano assomigliare i
suoi piedi già grandi a due informi zampe d’orso. Più che di un artista, pensava Therese, ha l’aria di
un boscaiolo o magari di un atleta di professione. Le riusciva più facile immaginarlo con in mano
un’ascia che con un pennello. Lo aveva visto maneggiare l’ascia, una volta, tagliare legna nel giardino
sul retro della sua casa di Brooklyn. Se non avesse dimostrato ai suoi che stava facendo progressi nella
pittura, probabilmente quell’estate sarebbe finito a lavorare nell’azienda paterna di bombole di gas,
per poi aprire una filiale a Long Island, come il padre desiderava che facesse.
"Dovrai lavorare questo sabato?" gli domandò, ancora timorosa di parlare del famoso incarico.
"Spero di no. Tu sei libera?"
Si ricordò che, no, non lo era. "Ho libero il venerdì," disse in tono rassegnato. "Sabato si lavora fino
a tardi."
Richard sorrise. "È una congiura." Le prese le mani e si portò le braccia di lei intorno alla vita; il
suo irrequieto aggirarsi per la stanza era ormai cessato. "Domenica, magari? I miei volevano sapere se
potevi venire a pranzo, ma non dovremo trattenerci a lungo. Potrei prendere in prestito un camion,
così nel pomeriggio ce ne andremmo un po’ in giro."
"Sì, bene." Le piaceva, e piaceva anche a Richard, sedere là in alto nella cabina di una grossa
autocisterna vuota, e andare dove volevano, liberi come sulle ali di una farfalla. Tolse le braccia dalla
vita di Richard. La faceva sentire impacciata e un po’ sciocca, come se stesse abbracciando il tronco
di un albero, tenergli le braccia intorno alla vita. "Avevo comperato una bella bistecca per stasera, ma
al negozio me l’hanno rubata."
"Rubata? Da dove?"
"Dallo scaffale dove teniamo le nostre borsette. La gente che assumono per Natale non dispone di
un vero e proprio armadietto." Sorrideva, ora, ma quel pomeriggio aveva quasi pianto. Lupi, aveva
pensato, un vero branco di lupi, rubare un pacchetto di carne sporco di sangue solo perché era roba da
mangiare, un pasto gratuito. Aveva domandato a tutte le commesse se l’avessero visto, e tutte avevano
risposto di no. Portare carne nel posto di lavoro non era permesso, aveva detto indignata la signora
Hendrickson. Ma come bisognava fare, se tutte le macellerie alle sei chiudevano?
Richard si distese sul divano letto. Aveva la bocca sottile e dal taglio irregolare, che in parte
piegava all’ingiù, dando un che di ambiguo alla sua espressione, qualcosa a volte di divertito, a volte
di amaro, contraddizione che gli occhi azzurri, franchi e piuttosto inespressivi, non facevano niente
per chiarire. In tono lento e un po’ beffardo, disse: "Non sei scesa a sentire agli oggetti smarriti?
Perduta bistecca di tre etti. Risponde al nome di ’Costata’."
Therese sorrise, perlustrando intanto gli scaffali del cucinino. "Credi che sia uno scherzo? La
signora Hendrickson mi ha proprio detto di scendere a cercarla là."
Richard diede in una gran risata e si alzò.
"Qui c’è un barattolo di grano e ho della lattuga per un’insalata. E c’è del pane e del burro. Devo
scendere a comperare qualche costata di maiale surgelata?"
Richard protese un lungo braccio al di sopra della spalla di lei e prese dallo scaffale il pezzo di pane
di segale. "Me lo chiami pane, questo? È muffa. Guardalo, azzurro come il didietro di un mandrillo.
Perché non lo mangi, il pane, dopo che l’hai comperato?"
"Quello lo uso per vederci al buio. Ma visto che a te non piace..." Glielo tolse di mano e lo lasciò
cadere nella pattumiera. "Non era quello il pane di cui parlavo, a ogni modo."
Il campanello squillò proprio a un passo dal frigorifero, e lei si precipitò verso il pulsante.
"Sono loro," disse Richard.
Erano due giovanotti. Richard li presentò come Phil McElroy e suo fratello Dannie. Phil non era
affatto come Therese se l’era immaginato. Non sembrava proprio un tipo serio o impegnato, e neppure
particolarmente intelligente. A stento l’aveva degnata di uno sguardo, durante le presentazioni.
Dannie rimase con il cappotto sul braccio finché Therese non glielo tolse di mano. Non le fu
possibile trovare dove appendere quello di Phil, e Phil se lo riprese e lo gettò su una sedia, mezzo per
terra. Era un vecchio e sudicio giaccone da polo. Therese servì la birra, il formaggio e i cracker, e
intanto ascoltava nella speranza che la conversazione tra Phil e Richard toccasse finalmente l’incarico
per lei. Ma stavano parlando di cose che erano accadute dall’ultima volta che si erano visti a Kingston.
Richard aveva lavorato là per un paio di settimane, l’estate precedente, a certi murali per una trattoria,
dove Phil aveva avuto un posto come cameriere.
"È anche lei nel teatro?" domandò allora a Dannie.
"No, io no," rispose Dannie. Sembrava un tipo schivo, o forse annoiato e impaziente di andarsene.
Era più vecchio di Phil e di corporatura un po’ più massiccia. I suoi occhi d’un castano scuro si
spostavano pensosi da un oggetto all’altro della stanza.
"Ancora non hanno niente salvo un regista e tre attori," disse Phil a Richard, lasciandosi andare
contro lo schienale del divano. "La regia è di un tale con il quale ho lavorato una volta a Filadelfia,
Raymond Cortes. Se ti raccomando io, l’incarico lo avrai di certo," aggiunse con un’occhiata a
Therese. "Mi ha promesso la parte del secondo fratello, nel lavoro. Il titolo è Small Rain. "
"Una commedia?" domandò Therese.
"Commedia, sì. Tre atti. Hai già fatto qualche fondale?"
"Quanti ce ne vorranno?" s’informò Richard, proprio mentre lei stava per rispondere.
"Due al massimo, e probabilmente si accontenteranno di uno solo. Georgia Halloran è la
protagonista. L’avevi vista, tu, quella cosa di Sartre che hanno dato laggiù l’autunno scorso? Recitava
lei."
"Georgia?" Richard sorrise. "Che ne è stato di lei e Rudy?"
Delusa, Therese udì la loro conversazione soffermarsi su Georgia e Rudy e su altre persone che lei
non conosceva. Forse Georgia era stata una delle ragazze con cui Richard aveva avuto una storia. Lui
una volta ne aveva nominate cinque. Non le riusciva di ricordare nessuno dei nomi, salvo Celia.
"È uno dei suoi set, quello?" le domandò Dannie, guardando il modello in cartone appeso alla
parete, e, poiché lei assentiva, si alzò per vederlo da vicino.
Ora Richard e Phil stavano parlando di un tizio che doveva soldi a Richard. Phil diceva d’averlo
visto la sera prima nel bar San Remo. Therese stava pensando che il volto oblungo di Phil sotto i
capelli cortissimi faceva pensare a un El Greco, e tuttavia gli stessi lineamenti, nel fratello,
sembravano invece appartenere a un indiano americano. E il modo come Phil parlava distruggeva
completamente l’illusione dell’El Greco. Parlava come tutti quelli che si vedevano nei bar del Village,
giovani che in teoria passavano per scrittori o attori, e che in pratica non facevano un bel niente.
"Bello davvero," disse Dannie, scrutando dietro una delle figurine sospese.
"È un modello per Petrushka. La scena delle fate," spiegò Therese, domandandosi se lui conoscesse
il balletto. Potrebbe essere un avvocato, pensò, o anche un medico. Sulle dita aveva macchie
giallastre, ma non erano chiazze di nicotina.
Richard accennò al fatto d’avere appetito, e Phil disse che non ci vedeva dalla fame, ma nessuno dei
due mangiava il formaggio che avevano davanti.
"Dobbiamo essere lì tra mezz’ora, Phil," rammentò Dannie al fratello.
Poi, un istante dopo, erano tutti in piedi, e stavano indossando i cappotti.
"Andiamo a mangiar fuori, Terry," disse Richard. "Che ne dici di quel locale ceco, nella Seconda?"
"Va bene," approvò lei, cercando di avere un tono compiacente. Il discorso finiva lì, probabilmente,
e non c’era niente di definito. Provò l’impulso di porre una domanda diretta a Phil, ma non osò.
Per la strada, presero ad avviarsi verso il centro, invece che nel senso opposto. Richard camminava
con Phil, e solo un paio di volte si voltò a lanciarle un’occhiata, come per vedere se lei fosse ancora lì.
Dannie le teneva il braccio quando c’era da attraversare, o da superare le chiazze di sudiciume
scivoloso, né neve né ghiaccio, che erano i resti della nevicata di tre settimane prima.
"È un medico, lei?" domandò Therese a Dannie.
"Un fisico," rispose lui. "Ora sto seguendo dei corsi di specializzazione all’Università di New
York." Le sorrise, ma la conversazione per un poco si fermò lì.
Poi, lui osservò: "È ben lontano dal disegnare scenari, vero?"
Therese assentì. "Lontanissimo." Stava per domandargli se intendesse fare ricerche riguardanti la
bomba atomica, ma se ne astenne, perché che importanza poteva mai avere che le facesse o no? "Ha
un’idea di dove stiamo andando?" gli domandò.
Lui fece un gran sorriso, mostrando denti bianchi e quadrati. "Sì. Alla metropolitana. Ma Phil vuole
prima mangiare un boccone da qualche parte."
Ora procedevano giù per la Terza Avenue, e Richard stava accennando con Phil al loro viaggio in
Europa, l’estate prossima. Therese avvertiva un senso d’imbarazzo nel camminare appresso a Richard,
come una sorta di appendice, perché Phil e Dannie avrebbero naturalmente pensato che lei era
l’amante di Richard. Non ne era l’amante, né Richard si aspettava che lei lo divenisse, in Europa. Era
un rapporto strano, il loro, ma chi lo avrebbe creduto? Nessuno perché, da quello che lei aveva visto a
New York, tutti andavano a letto con tutti dopo esserci usciti insieme appena un paio di volte. E i due
con cui era uscita prima di Richard — Angelo e Harry – l’avevano mollata appena avevano scoperto
che lei non ci teneva ad avere una relazione con loro. Richard, nell’anno trascorso da che lo
conosceva, aveva tentato tre o quattro volte di averla, sebbene con risultati negativi; Richard diceva
che preferiva aspettare. Intendeva aspettare che lei tenesse di più a lui. Richard voleva sposarla, e
diceva che lei era la prima ragazza alla quale lo avesse mai proposto. Therese sapeva che glielo
avrebbe chiesto di nuovo prima della partenza per l’Europa, ma non lo amava abbastanza per sposarlo.
E tuttavia, pensò con l’abituale senso di colpa, avrebbe accettato da lui la maggior parte del denaro per
il viaggio. Poi, le si parò alla mente l’immagine della signora Semco, la madre di Richard, sorridente
d’approvazione per loro due, per il loro matrimonio, e involontariamente scosse la testa.
"Che c’è?" domandò Dannie.
"Niente."
"Ha freddo?"
"No, no. Niente affatto."
Ma lui ugualmente le serrò il braccio più vicino a sé. Lei aveva freddo, e si sentiva nel complesso
piuttosto infelice. Dipendeva, lo sapeva benissimo, dal suo rapporto mezzo ciondolante, mezzo
cementato con Richard. Si vedevano sempre più spesso, senza diventare per questo più intimi. Ancora
non ne era innamorata, dopo ben dieci mesi, e forse non lo sarebbe mai stata, fermo restando il fatto di
preferirlo a qualsiasi altra persona da lei conosciuta, e certo a qualsiasi uomo. A volte, svegliandosi al
mattino e fissando senza vederlo il soffitto, ricordandosi improvvisamente di conoscerlo,
ricordandone improvvisamente il volto splendente di affetto per lei, in seguito a qualche gesto tenero
da parte sua, e prima che l’assonnato senso di vuoto avesse il tempo di riempirsi della realizzazione di
che ora fosse, di quello che lei aveva da fare, della sostanza più concreta di cui era fatta l’esistenza, le
sembrava di amarlo. Ma la sensazione non aveva alcuna somiglianza con quello che lei aveva letto
sull’amore. L’amore, almeno in teoria, era una sorta di follia gioiosa. Nemmeno Richard, in verità, si
comportava in modo gioiosamente folle.
"Oh, si chiama tutto Saint-Germain-des-Prés!" gridò Phil, agitando una mano. "Vi darò io degli
indirizzi prima che partiate. Quanto tempo pensate di restarci?"
Un rumoroso camion carico di ferraglia svoltò proprio davanti a loro, e Therese non poté udire la
risposta di Richard. Phil entrò da Riker, sull’angolo della Cinquantatreesima Strada.
"Non dobbiamo mangiare qui. Phil vuole fermarsi solo un istante." Richard le strinse una spalla,
mentre varcavano la soglia del locale. "È un gran giorno, vero, Terry? Lo senti anche tu? Il tuo primo,
vero incarico!"
Richard ne era convinto, e Therese si sforzò di rendersi conto che forse era davvero un gran
momento. Ma non riusciva a ricatturare neppure la certezza provata quando, dopo la telefonata di
Richard, era rimasta a fissare la manopola arancione nel lavandino. Si appoggiò allo sgabello accanto
a quello di Phil, e Richard le rimase accanto, sempre parlando con l’amico. L’abbagliante luce bianca
sulle piastrelle candide sembrava più vivida di quella del sole, perché lì non c’erano ombre. Lei
poteva distinguere ogni singolo pelo nero delle sopracciglia di Phil, e le zone ruvide e lisce della pipa
che Dannie teneva in mano, spenta. Poteva vedere ogni particolare della mano di Richard, che pendeva
inerte dalla manica del cappotto, e ancora una volta rifletté sull’incongruità di quelle mani rispetto al
corpo agile e longilineo di lui. Erano mani grosse, grassocce, perfino, e si muovevano sempre nello
stesso modo rozzo e inarticolato sia che afferrassero una saliera o la maniglia di una valigia sia che le
accarezzassero i capelli. Il palmo di quelle mani era estremamente morbido, come quello di una
ragazza, e lievemente umidiccio. Quel che era peggio, lui dimenticava in genere di pulirsi le unghie,
perfino quando si prendeva il disturbo di mettersi in ghingheri. Therese gli aveva detto qualcosa in
proposito un paio di volte, ma sentiva ormai di non poter dire altro senza irritarlo.
Dannie la stava osservando. Si ritrovò per un istante a sostenerne lo sguardo pensoso, poi abbassò
gli occhi. Capì all’improvviso perché non le riuscisse di ricatturare l’euforia provata in precedenza:
semplicemente non credeva che Phil McEkoy potesse procurarle un incarico dietro raccomandazione.
"È preoccupata per quell’incarico?" Dannie era lì accanto a lei.
"No."
"Stia tranquilla. Phil può darle qualche suggerimento." Si era messo il cannello della pipa tra le
labbra, e sembrava sul punto di aggiungere qualcos’altro, ma si girò in là.
Lei ascoltava distrattamente la conversazione tra Phil e Richard. Stavano parlando di navi e di
prenotazioni.
"A proposito," disse ancora Dannie, "il Black Cat Theatre è appena a un paio di isolati da Morton
Street dove abito io. Anche Phil sta da me. Venga a fare colazione da noi qualche volta, vuole?"
"Grazie infinite. Molto volentieri." Era probabile che non se ne facesse niente, ma era gentile da
parte sua invitarla.
"Tu cosa ne dici, Terry?" domandò Richard. "In marzo è troppo presto per andare in Europa?
Sempre meglio andarci presto, senza aspettare che là ci sia folla dappertutto."
"Marzo va bene, sì," disse lei.
"Non c’è niente che ci trattenga, ti pare? Non importa se anche non finisco il semestre invernale, a
scuola."
"No, non c’è niente che ci trattenga." Era facile dirlo. Facile crederlo anche, e altrettanto facile non
credervi affatto. Ma se tutto era vero, se l’incarico era reale, la commedia un successo, e lei poteva
partire per la Francia con almeno un risultato alle spalle... D’improvviso, Therese afferrò il braccio di
Richard, lasciando poi scivolare la mano fino alle dita di lui. Richard ne fu così sorpreso da
interrompersi nel bel mezzo di una frase.
Il pomeriggio seguente, Therese chiamò il numero di Watkins che Phil le aveva dato. Rispose una
ragazza dal tono quanto mai efficiente. Il signor Cortes non c’era, ma avevano saputo di lei attraverso
Phil McElroy. L’incarico era suo, e avrebbe cominciato a lavorare il ventotto dicembre a cinquanta
dollari la settimana. Poteva recarsi lì anche prima e mostrare qualche suo lavoro al signor Cortes, se lo
desiderava, ma non era necessario, dato che il signor McElroy l’aveva raccomandata con tanto calore.
Therese chiamò Phil per ringraziarlo, ma al telefono nessuno rispondeva. Gli scrisse un biglietto,
presso il Black Cat Theatre.
3
Nel suo turbinio di metà mattinata, Roberta Walls, la sorvegliante più giovane del reparto giocattoli,
si fermò giusto il tempo per bisbigliare a Therese: "Se non la vendiamo oggi, quella valigia da
ventiquattro e novantacinque, lunedì verrà ribassata e il reparto ci rimetterà due dollari!" Accennando
alla valigia di cartone sul banco, Roberta affidò il suo carico di scatole grigie nelle mani della
signorina Martucci e si affrettò oltre.
Giù per il lungo corridoio, Therese guardò le commesse lasciare il passo a Roberta, che si affrettava
su e giù lungo i banchi e da un angolo all’altro del reparto, in moto dalle nove del mattino alle sei di
sera. Aveva sentito dire che Roberta mirava a una nuova promozione. Portava occhiali dalla montatura
variopinta e, a differenza delle altre ragazze, spingeva le maniche del grembiule verde al di sopra dei
gomiti. Therese la vide attraversare velocemente un corridoio e fermare la signora Hendrickson con
un messaggio concitato e riferito gesticolando. La Hendrickson assentì, d’accordo. Roberta le toccò
familiarmente la spalla, e Therese avvertì una lieve fitta di gelosia, sebbene non le importasse proprio
niente della signora Hendrickson che, anzi, le era perfino antipatica.
"Avete una bambola che piange, ma di stoffa?"
A Therese non risultava che ce ne fossero in catalogo, ma la cliente era sicura che da Frankenberg le
avessero, perché le aveva viste su un dépliant. Therese tirò fuori l’ennesima scatola dall’ultimo posto
dove la bambola poteva eventualmente trovarsi, e non c’era.
"’Osa sciai sceccanno?" le domandò la signorina Santini. La signorina Santini aveva un tremendo
raffreddore.
"Una bambola di stoffa, che piange," disse Therese. La Santini era stata particolarmente cortese con
lei, ultimamente. Therese ricordava la carne rubata. Ma ora la Santini si limitò a inarcare le
sopracciglia, a stringersi nelle spalle, a sporgere il labbro inferiore, di un rosso acceso, e ad
allontanarsi.
"Di stoffa? Con i codini?" La signorina Martucci, una smilza ragazza italiana dai capelli unticci e
con un lungo naso da lupo, fissava Therese. "Non farti sentire da Roberta," disse poi, dandosi
un’occhiata attorno. "Non farti sentire da nessuno, ma quelle bambole sono nel seminterrato."
"Ah." Il reparto giocattoli del piano superiore era in guerra con il reparto giocattoli del
seminterrato. La tattica era di indurre i clienti a fare i loro acquisti al settimo piano, dove tutto era più
costoso. Therese disse alla donna che quelle bambole erano nel seminterrato.
"Questa cerca di venderla oggi," le raccomando la signorina Davis nel passarle accanto, battendo
con la mano dalle unghie laccate di rosso sulla malconcia valigia di finto coccodrillo.
Therese assentì.
"Avete bambole con le gambe rigide? Che stiano in piedi?"
Therese guardò la donna di mezz’età con le stampelle, che si sforzava di tenersi bene eretta. La sua
era una faccia diversa da tutte le altre al di là del bancone: benevola, con uno sguardo diretto, come se
i suoi occhi vedessero davvero quello che guardavano.
"È un po’ più grande di come la volevo," disse, quando Therese le mostrò una bambola. "Peccato.
Più piccola non l’avete?"
"Penso di sì." Therese andò a cercare più in là, e si accorse che la donna la seguiva sulle sue grucce,
aggirando la ressa di persone al banco, come per risparmiare a Therese di tornare indietro con la
bambola. D’improvviso Therese desiderò di farsi in quattro, pur di trovare proprio la bambola che
quella cliente cercava. Ma neppure il nuovo articolo andava bene. La bambola non aveva capelli veri.
Therese cercò da un’altra parte e trovò la stessa bambola con i capelli veri. Piangeva perfino, a
piegarla. Era esattamente quello che la cliente desiderava. Therese avvolse con cura la bambola nella
carta velina e la posò dentro una scatola nuova.
"È perfetta," ripeté la donna. "Devo mandarla a un’amica in Australia. È infermiera, si era
diplomata insieme a me, così ho fatto una piccola uniforme identica alle nostre per vestire una
bamboletta. La ringrazio tanto. E buon Natale!"
"Buon Natale a lei!" disse Therese, sorridendo. Era il primo "buon Natale" che un cliente le
rivolgeva.
"Ha già fatto la pausa, signorina Belivet?" le domandò la signora Hendrickson in tono brusco, come
se stesse rimproverandola.
Therese non l’aveva ancora fatta. Dalla mensola sotto il banco prese il suo borsellino e il romanzo
che stava leggendo. Il romanzo era Ritratto dell’artista da giovane di Joyce, e Richard era ansioso che
lei lo leggesse. Richard aveva detto di non capire come si potesse leggere Gertrude Stein senza avere
letto niente di Joyce. Quando parlavano di libri, Therese avvertiva una certa inferiorità. A scuola
aveva meditato attentamente davanti agli scaffali, ma la biblioteca messa insieme dall’Ordine di St
Margaret, ora se ne rendeva conto, era stata tutt’altro che varia, pur includendo autrici inaspettate
come Gertrude Stein.
Il corridoio che portava ai servizi per i dipendenti era bloccato da grandi carrelli su cui si
ammucchiavano scatole d’ogni genere. Therese aspettò di poter passare.
"Fata!" le gridò uno degli addetti ai carrelli.
A Therese venne da sorridere, perché era sciocco. Perfino giù al guardaroba, nel seminterrato, le
gridavano "Fata!", mattina e sera.
"Fata, aspetti me?" le gridò di nuovo la voce roca, al di sopra del rumore dei carrelli che si
urtavano.
Riuscì a passare, e a schivare uno dei carrelli che veniva a tutta velocità verso di lei con un
commesso a bordo.
"È vietato fumare, qui!" urlò una voce d’uomo, una tipica voce autoritaria da dirigente, e le ragazze
davanti a Therese, che avevano già acceso le sigarette, soffiarono il fumo nell’aria e protestarono in
coro a voce alta, un attimo prima di trovare rifugio nella toilette delle donne: "Ma chi si crede
d’essere, il signor Frankenberg?"
"Iu-huu! Fata!"
Un carrello sbandò davanti a lei, che urtò con la gamba contro uno degli angoli di metallo. Proseguì,
senza guardarsi lo stinco, sebbene il dolore cominciasse ad aumentare, là, come una lenta esplosione.
Si addentrò nel composito caos di voci e di figure femminili, e nell’odore di disinfettante. Il sangue le
scorreva verso la scarpa, e la calza mostrava un lacero foro. Cercò di risistemare un brandello di pelle
e, in preda a un senso di malessere, si lasciò andare contro la parete, aggrappandosi a uno dei tubi
dell’acqua. Rimase così per alcuni secondi, ascoltando la confusione di voci tra le ragazze allo
specchio. Poi, bagnò un po’ di carta igienica e tamponò fino a lavar via il rosso dalla calza. Ma il
sangue continuava a uscire.
"Non è niente, grazie," disse alla ragazza che per un attimo si era chinata su di lei, e l’altra si
allontanò.
Alla fine, non le restò altro da fare che comperare un assorbente igienico al distributore automatico.
Usò parte dell’ovatta interna, che legò alla gamba con la garza. Ed ecco che era ormai tempo di
tornare al banco.
I loro occhi si incontrarono nell’istante in cui Therese rialzò lo sguardo dalla scatola che stava
aprendo, e la signora voltò un poco la testa così da trovarsi a fissare direttamente Therese. Era alta,
bionda, la figura longilinea aggraziata nell’ampia pelliccia, tenuta aperta da una mano puntata alla
vita. Gli occhi erano grigi, incolori, dominanti tuttavia come luce o fuoco, e Therese, catturata da
quello sguardo, non poté distogliere il suo. Udì la cliente che le stava di fronte ripetere la domanda,
ma rimase immobile, muta. A sua volta la signora guardava Therese con un’espressione preoccupata,
come se parte della sua mente meditasse sulle cose da acquistare e, sebbene fra loro vi fossero diverse
altre commesse, Therese era certa che la signora si sarebbe rivolta a lei.
"Posso vedere una di quelle valigie?" domandò la signora, e si chinò sul banco, per guardare
attraverso il ripiano di vetro.
La valigia malconcia si trovava appena un metro più in là. Therese si girò per prendere una scatola
dal fondo di una pila, una scatola che non era mai stata aperta. Quando si rialzò, la signora stava
guardandola con i calmi occhi grigi da cui Therese, pur non riuscendo a fissarli apertamente, non
poteva distogliere lo sguardo.
"È quella che a me piace, ma non credo di poterla avere, vero?" diceva ora la signora, indicando la
valigia marrone nella vetrina alle spalle di Therese.
Le sopracciglia bionde si prolungavano oltre la curva della fronte. La bocca era saggia come gli
occhi, e la voce, sembrò a Therese, era come la pelliccia, ricca e morbida, e in un certo senso piena di
segreti.
"Sì," disse Therese.
Si allontanò verso l’ufficio per prendere la chiave, che era appesa a un chiodo proprio all’interno
della porta, e che a nessuno era permesso toccare salvo che alla signora Hendrickson.
La Davis la vide e trattenne il respiro, ma Therese disse: "Mi serve", e uscì.
Aprì la vetrina, tirò giù la valigia e la posò sul banco.
"Mi sta dando quella in esposizione?" La signora sorrideva come se avesse capito. Appoggiando
entrambi gli avambracci sul banco e studiando il contenuto della valigia, osservò con noncuranza: "Ne
faranno un dramma, non crede?"
"Non importa," disse Therese.
"D’accordo. Questa mi piace. Ha il talloncino del pagamento alla consegna, vedo. E per i vestitini?
Questi sono compresi nella valigia?"
C’erano, nel coperchio della valigia, abiti avvolti nel cellophane, ciascuno col cartellino del prezzo.
"No," disse Therese. "Questi sono a parte. Se vuole dei vestitini da bambola – questi non sono molto
belli – li troverà al reparto confezioni, dall’altro lato del corridoio."
"Ah! Questa arriverà nel New Jersey prima di Natale?"
"Sì, la riceverà per lunedì." Therese si disse che, in caso contrario, l’avrebbe consegnata lei
personalmente.
"Signora H.F. Aird," scandì la voce morbida e signorile della cliente, e Therese cominciò a scrivere
a stampatello sul talloncino verde della consegna a domicilio.
Il nome, l’indirizzo, la città apparvero sotto la punta della matita come un segreto che Therese non
avrebbe mai dimenticato, come qualcosa che stesse imprimendosi per sempre nella memoria.
"Non farà qualche errore, vero?" domandò la signora.
Therese ne notò il profumo per la prima volta, e poté soltanto scuotere la testa, invece di rispondere.
Teneva gli occhi sul talloncino sul quale stava laboriosamente aggiungendo le cifre necessarie, e
intanto desiderava con tutte le sue forze che la signora non smettesse di parlare e aggiungesse alle sue
parole: "Davvero è così contenta d’avermi incontrata? Allora perché non ci rivediamo? Perché oggi
non facciamo colazione insieme, per esempio?" Aveva un tono così disinvolto, avrebbe potuto dirlo
con estrema facilità. Ma non venne altro dopo il "Vero?": niente che alleviasse la mortificazione
d’essere stata riconosciuta come una nuova commessa, assunta per la corsa agli acquisti del Natale,
inesperta e passibile di commettere errori. Therese spinse il registro verso la cliente perché vi
apponesse la firma.