Patricia Bianchi
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Cresti, E. (a cura di) Prospettive nello studio del lessico italiano, Atti SILFI 2006. Firenze, FUP: Vol I, pp. 123-127 ll lessico gastronomico in ricettari meridionali tra Seicento e Ottocento Patricia Bianchi Università di Napoli “Federico II” Abstract L’area lessicale riferita al cibo, così come si presenta in alcuni ricettari meridionali, è l’oggetto di questo articolo. L’indagine sul lessico gastronomico appare significativa sia per lo studio del lessico specifico sia per gli apporti alle indagini sulla variazione regionale dell’italiano in diacronia, anche nei rapporti con altre lingue. I ricettari considerati sono Lo scalco alla moderna di Antonio Latini, edito a Napoli nel 1629, Il cuoco galante di Vincenzo Corrado del 1786, La cucina casereccia del 1828 di un non meglio identificato M.T., il Nuovo libro per imparare la pratica di fare ogni sorte di dolci, confetture e sciroppate di Michele Somma, edito nel 1810, la Cucina teorico- pratica di Ippolito Cavalcanti del 1852, composti tra l’altro da scriventi con gradi diversi di consapevolezza linguistica e padronanza della scrittura. Dopo una sintetica descrizione comparativa dei ricettari, sono indicate le strutture testuali e linguistiche caratterizzanti dei manuali meridionali che risultano complessivamente più aperti all’accoglienza di apporti locali. Per il lessico si esemplificano le linee di continuità cronologica riferite a parole di tradizione locale, trasmesse anche da testi letterari (pastiera, maccheroni), e fortunate innovazioni ottocentesche (ragù, tortiglioni, sfogliatelle). 1. Ricette di parole Il lessico gastronomico è un campo d’indagine privilegiato per osservare come italiano, dialetti e anche lingue straniere, in particolare il francese, vivano nella stessa realtà linguistica, conosciuti e usati dai medesimi gruppi di parlanti, formando, con stratificazioni diacroniche, un lessico comune nella comunicazione sia pure con una sua cifra di specializzazione. Nei ricettari sono compresenti piani linguistici differenti, armonizzati tuttavia da una tensione comunicativa volta alla descrizione e all’indicazione delle procedure, alla chiarezza e alla precisione della nomenclatura: sono dunque analizzabili anche come una tipologia testuale specifica, con un sistema coesivo organizzato con sistematici protocolli espositivi, in cui la selezione lessicale è regolata sulla base dalla competenza sincronica dei parlanti e dei lettori, che ne diventano operativamente fruitori nella prassi della realizzazione gastronomica. Dunque i ricettari, e nel caso specifico i ricettari meridionali tra Seicento e Ottocento, ci permettono di considerare, tra l’altro, come italiano e dialetti non vivano in mondi separati, ma nella stessa realtà linguistica dell’uso dei parlanti, poiché, in linea generale, la situazione italiana è sempre stata caratterizzata da un sostanziale bilinguismo (Bruni, 1992). E ancora in questi testi è possibile osservare in diacronia dinamiche della circolazione lessicale, che si attuano con il passaggio nel lessico corrente italiano di parole di origine dialettale, legate per lo più alla cultura gastronomica e ai prodotti locali nonché agli utensili e alle modalità di preparazione, e, viceversa, si attiva con la cultura gastronomica il passaggio di parole italiane al lessico dialettale con un progressivo radicamento. A questa dinamica partecipano anche parole provenienti da altre lingue, con prevalenza netta del francese, che si consolidano nella loro circolazione nell’italiano e anche nei dialetti. La annotazioni che qui si presentano a proposito delle dinamiche variazionali del lessico sono finalizzata a una storia delle parole della gastronomia, proposta in chiave di descrizione testuale oltre che filologica e etimologica, intendendo la storia della vita di una parola come il riflesso delle culture dei parlanti. Ci si limita qui a segnalare che, in questa prospettiva di studio, potranno essere successivamente analizzate per i ricettari meridionali anche le particolari strutture narrative e descrittive, le digressioni, i commenti, le inserzioni di brevi racconti, di testi in versi, di proverbi che spesso caratterizzano l’organizzazione espositiva dei ricettari meridionali. La commistione lessicale appare dunque un elemento rilevante, anche al punto di vista metodologico, in quanto manifestazione dei processi di innovazione delle lingue. La cucina medioevale e rinascimentale ha avuto comunque una “dimensione universalistica” (Frosini, 2006) per cui non sono nette e definite, in questa sezione temporale, le prevalenze di una o l’altra tra le tradizioni locali e regionali; a partire dal Seicento è possibile invece rintracciare una maggiore consapevolezza della dimensione nazionale e regionale della gastronomia e della sua descrizione lessicale nei ricettari. L’Ottocento poi rappresenta un punto di svolta non solo per l’affermazione delle cucine regionali, con la conseguente esibizione di regionalismi e dialettalismi terminologici, ma soprattutto per l’affermazione nell’ esposizione delle ricette di un modello toscano, o meglio fiorentino, improntato da un libro di larga diffusione come La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (1891), che risulta caratterizzato dal lessico e dalla sintassi orientati verso il fiorentino dell’uso colto, temperato da termini popolari d’uso domestico (cazzeruola, matterello, frattaglia). D’altro canto non va dimenticato che a partire dal Medioevo si era consolidato un lessico culinario di base, composto ad esempio della terminologia relativa alle modalità di cottura, della denominazione dei pesi e delle quantità, con prevalenza di alcune forme per i nomi degli ingredienti e delle spezie. Al lessico culinario di base andranno aggiunti due elementi che determinano la commistione e l’ibridazione tipica del lessico gastronomico: il primo elemento è senz’altro formato dall’insieme dei forestierismi, il secondo dalla terminologia ripresa dai dialetti e dalle varietà regionali. Tra i termini stranieri, accanto ai francesismi prevalenti,assunti sin dalle origini sia per un fattore di moda e di prestigio, sia per il reale primato delle tecniche di preparazione e la varietà delle ricette, vanno ricordati gli ispanismi (e i catalanismi) e in epoche più recenti gli anglicismi. Un esempio significativo di ibridazione a un livello cronologico alto è il ricettario del codice 1071 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, databile attorno al 1338-39 (Morpurgo, 1890): questo testo, in volgare Patricia Bianchi fiorentino, presenta sul piano lessicale molti settentrionalismi (raviuolo, vernaccia) e una serie di francesismi che si propagheranno nella tradizione gastronomica successiva (blasmangiare, cialdello, brodetto, morselllo). Inoltre,come è stato notato, già dal XIII-XIV secolo il lessico della cucina mostra “fenomeni di rideterminazione semantica in senso specifico di unità appartenenti alla lingua comune, di specificazione merceologica …e una notevole presenza di forestierismi: tutti elementi che configurano sul piano lessicale una Fach-sprache o lingua speciale” (Frosini, 2006: 43). Sul piano testuale, occorre considerare che nei ricettari, sin dal Medioevo, è insita anche una intenzionalità di porsi come “testo letterario”: la codificazione scritta delle ricette non fu dovuta solo all’ esigenza pratica di conservazione e fissazione di una tradizione orale, ma anche all’ intenzione di trasmettere una ritualità sociale nella preparazione e nel consumo del cibo, e di utilizzare la stessa preparazione e il consumo del cibo come momento di aggregazione. Non è un caso poi che i ricettari sin dal Trecento, e ancora di più dal Quattrocento in poi, rispettino un ordinamento strutturale del testo, codificando un linguaggio tecnico ma anche lasciando spazi per la digressione, il “dialogo con il lettore”, anche sotto forma di avvertimenti, consigli, osservazione dell’autore. I libri di cucina diventarono testi di larga diffusione a partire dal Quattrocento, e sino al Settecento ne erano autori per lo più degli addetti ai lavori di alta professionalità che si rivolgevano principalmente a cuochi, scalchi, trincianti, credenzieri, cioè a chi, nelle corti e nelle dimore nobiliari, era per mestiere addetto ai riti sociali del cibo. Tra Sette e Ottocento cambia il profilo degli autori di ricettari. Non più solo cucinieri di professione ma anche nobili, gentiluomini e borghesi che trovano diletto nell’impiegare il loro tempo per la pratica di cucina, allargandola al governo e all’economia della casa e all’applicazione di nozioni di igiene, su cui parimenti dispensano consigli e indicazioni. Tra Seicento e Ottocento le modalità di preparazione dei cibi e la loro presentazione, la combinazione degli ingredienti e il gradimento di varie preparazioni subiscono delle variazioni radicali, in sintonia anche con le variazioni degli stili di vita. Ricordiamo, tra l’altro, la forte riduzione nell’uso delle spezie, il prevalere delle erbe aromatiche, la decadenza delle preparazioni acide o in agro-dolce, la sostituzione delle salse acide alle salse grasse, l’impiego crescente di mais, grano saraceno, patate e il lento ma progressivo affermarsi delle paste e del pomodoro. In Italia, dopo quasi un secolo di ricettari ripetitivi dei vecchi modelli, il nuovo corso gastronomico si manifesta in Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, pubblicato a Torino nel 1766 e ristampato per quasi un secolo. Dopo il prevalere nel Trecento della cucina toscana e veneziana, e delle imbandigioni della corte pontificia e dei prelati romani nel Quattrocento, cresce il prestigio della tradizione piemontese rinforzato dalla vicinanza alla scuola francese, e nella seconda metà del XV secolo acquista importanza la tradizione gastronomica dell’Italia meridionale e di Napoli capitale, ricca di influssi iberici e francesi. Questa inversione di tendenza è resa esplicita, ad esempio, nella premessa dell’editore al Cuoco Galante (1786) di Vincenzo Corrado: La nostra Italia resa in questa parte figlia della Francia, si era contentata finora di accomodarsi al gusto di quella, su invenzione, e preparazione de’ cibi servendosi dei Francesi, e de’ loro libri. Tutt’ad un tratto si vide sorgere di poi in Italia, e propriamente nel nostro Regno di Napoli un talento raro, che scuotendo il giogo della servitù antica, nuovi trovati propose, e nuove maniere inventò da rendere grata, ed oltre modo gustosa ogni vivanda. (Corrado, 1990: 3-4) In area meridionale i ricettari di Antonio Latini, Lo scalco alla moderna overo l’arte di ben disporre li conviti, (Napoli, Parrino e Mutii, 1692-1694) e Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, (Napoli, Stamperia Raimondiana, 1780) delimitano una zona di transizione tra vecchi e nuovi modelli gastronomici e conseguentemente tra diverse opzioni lessicali. Per l’influsso del Cuoco piemontese, in questi testi abbondano i francesismi, che avranno un largo uso in Cavalcanti (1852), costantemente riportati con adattamenti grafici (pasta brisè, pasta bugnè, pasta brioscé, biscottini a la Saint- Cloud, à la Tourons, bocconi alla sciantellò, salsa turnè, bignè di mela in sortù, brulè, entremets, grattè, ascè, gallinaccio in papigliotta, gattò, petit patè, souffles, zuppa alla santè, purè, fricassè, giulienne). La resa grafica in generale riguarderà sia stranierismi che dialettalismi. La trascrizione dei termini francesi secondo la pronuncia era del resto un tratto diffuso, esplicitamente commentato dal famoso cuoco Francesco Leonardi, autore del maggior trattato di fine Settecento, L’Apicio moderrno: nomi de’ piatti,zuppe, salse, o altro si rende impossibile di cambiarli, dovendoseli dare quello che portano seco dalla loro origine sia Italiano, Francese, o d’altra Nazione. Lo stesso ho creduto di fare dell’ortografia francese, servendomi soltanto dei nomi tradotti in pronunzia Italiana, e ciò per maggiore intelligenza di quelli, che non sanno quell’idioma, onde non recherà meraviglia di trovare detti nomi come si pronunziano, e non come si scrivono. (Leopardi, 1790: 10 ) 2. L’impasto linguistico meridionali dei ricettari L’apporto linguistico dei ricettari meridionali non è stato sino ad ora indagato sistematicamente, e se i testi più antichi sono stati oggetto di indagini filologiche e linguistiche (Silvestri, 2002; Lubello, 2001 e 2002), i ricettari tra Seicento e Ottocento sono stati meno osservati nella loro tessitura linguistica, nonostante si tratti di opere articolate e di grande estensione, spesso anche di rilievo all’interno di questo genere e di larga diffusione. La ricerca di cui qui si presentano le linee programmatiche intende approntare un repertorio dei termini gastronomici in area meridionale tra Seicento e Ottocento utilizzando un corpus composto dai seguenti testi: ll lessico gastronomico in ricettari meridionali tra Seicento e Ottocento Antonio Latini, Lo scalco alla moderna overo l’arte di ben disporre li conviti. Napoli, Parrino e Mutii, 16921694. Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, Napoli, Stamperia Raimondiana, 1780. M.T., La cucina casereccia per istruzione di chi ama unire al gusto la economia. Napoli, Giordano, 1828 (settima edizione). Michele Somma, Nuovo libro per imparare la pratica di fare ogni sorte di dolci, confetture e sciroppate. Napoli, Stamperia Pergeriana, 1810. Ippolito Cavalcanti, Cucina teorico-pratica comulativamente col suo corrispondente riposto, finalmente quattro settimane secondo le stagioni della vera cucina casereccia in dialetto napoletano. Napoli, Stabilimento tipografico di Domenico Capasso, 1852. è fenuto lo Calannarie de lle primme tre stagione, co la lengua truscana, e accummenzammo quattro semmane co la bella lengua nostra Napoletana, facendo, che ogne semmana diciarrà quanto se po ddì pe na stagione, e accossì terminerà lo calannario de ll’auti tre mise, ncioè, dicembre, jennaro e fevraro. Amice mieje, lo capo mia ha fatto seccia, pe compenà chisto quarto libbro, e cheste benedette semmane cchiù me lo fanno perdere, ma pe contentà a tanta amice, e de chille associate, che m’hanno commannato, che nge mettesse no poco de Dialetto Napoletano, eccome cca, che nge lo metto comme meglio pozzo, avite pazienza, e compatitemi. (Cavalcanti, 2002: 427) La distribuzione cronologica dei ricettari così selezionati permette di mettere in evidenza i dati linguistici più significativi di innovazione e cambiamento nella tradizione testuale della gastronomia. La scelta di scriventi con gradi diversi di consapevolezza linguistica e di padronanza della scrittura consente inoltre di sondare sia testi di maggiore estensione e elaborazione sul piano descrittivo e procedurale (Latini, Cavalcanti) sia testi più vicini alla dimensione dell’oralità e della dialettalità (Somma, M.T.). L’impasto linguistico dei ricettari tra Rinascimento e Settecento consisteva prevalentemente in una lingua modellata sul toscano con inserzioni di lessico dialettale, là dove insostituibile per nominare prodotti o utensili legati alla tradizione locale o dove inevitabile per un vuoto soggettivo nel patrimonio lessicale dello scrivente. Nell’ Ottocento il pubblico si allarga e gli autori si rivolgono non solo ai professionisti della cucina e dell’arte dei banchetti ma ai cultori della gastronomia, ai dilettanti, alle famiglie con l’intento di fornire anche “un onesto passatempo”. In Campania, in questo nuovo clima di ricezione, si pubblicano ricettari innovativi per le scelte linguistiche e per l’ esplicita adozione del dialetto non solo in inserti lessicali ma in intere sezioni del testo. Tali opzioni linguistiche sono, in alcuni casi, dichiarate esplicitamente dagli autori, che motivano le ragioni della scelta. Il diverso orientamento nella ricezione del testo si collega dunque a una superficie linguistica di maggiore variazione spinta sino al cambio di codice dall’italiano al dialetto. Certamente non è estranea a questo processo l’espansione e la diffusione più consolidata nell’italiano, che permette, per converso, operazioni culturali più decise nella conservazione e nel recupero delle tradizioni e delle parlate locali. Questa Opericciuola immaginata fra gli scherzi della lieta Compagnia, e menata a fine nelle ore di ozio, ha per oggetto il comodo di chi nelle famiglie porta la cura della Mensa. Simili persone sono da supporsi madri di famiglia, o Donne di governo, o Uomini, che, non portati alle cure più gravi, si fanno dell’arte di condire le vivande, una innocente occupazione:e quindi debbo crederle lontane dalla versatezza nel pretto Toscano. Per tal ragione, se mai nella nomenclatura o negli ordini da cucina, o delle varie vivande, mi fossi servito di voci diverse da quelle, che ci dà il nostro vernacolo, avrei posto chi deve servirsi della mia fatica nel bisogno o di adoperare un Interprete, o di spesso ricorrere al vocabolario della Crusca. Pure, acciocchè un qualche amore Zoilo non imputi ad ignoranza di lingua ciò ch’è un effetto di necessità, ho scritte in carattere corsivo quelle parole, che sono proprie nostre, e si allontanano dalla purità del Linguaggio Italiano. (M.T, 1993: 5-6) 3. Lessico gastronomico continuità e innovazione meridionale: Secondo le linee di tendenza qui indicate come caratterizzanti delle strutture testuali e linguistiche dei ricettari meridionali da fine Seicento all’Ottocento, possiamo esemplificare due diverse tipologie di manuali gastronomici: la prima – ricettari in dialetto- è rappresentata dalla Cucina teorico-pratica del Cavalcanti del 1847 che nella sezione finale aggiunge un ricettario interamente in dialetto: La seconda tipologia – ricettari con ripresa sistematica del lessico dialettale o dei regionalismi- può essere esemplificata dalla Cucina casereccia di M.T., che così scrive nell’introduzione: In ambedue queste tipologie, così come sintetizzate qui, l’uso del registro dialettale, assoluto o variato con l’italiano, deriva da una scelta consapevole, e dichiarata, degli autori, che proprio attraverso parole dialettali o regionali si garantiscono la maggiore aderenza all’uso linguistico della quotidianità di un nuovo pubblico di lettori nonché realizzatori di attività gastronomiche nelle cucine borghesi o della piccola nobiltà cittadina. Diverso il caso di Michele Somma, che è uno speziale manuale, regionalismo con cui si indicavano i droghieri, che si dichiara autodidatta. Il suo gusto per il racconto di novelle e facezie (Somma, 2000) si espande anche al manuale per la preparazione di dolci, sciroppi e confetture, in cui appunto si alternano novelle, brindisi, proverbi, in uno stile che cede all’uso medio informale sino a forme di italiano popolare. Il manuale di Somma, proprio perché destinato tendenzialmente a uso di bottega e all’istruzione degli apprendenti speziali, è una interessante attestazione delle forme in uso a Napoli e nell’Italia meridionale per il lessico delle preparazioni dolci e degli sciroppi. Da un punto di vista comparativo, il manuale di Somma va considerato come , una delle testimonianze di quella evoluzione di abitudini gastronomiche che porta dalla dolcificazione con il miele a quella con lo zucchero, e in parallelo, dal declino della figura del credenziere come dolciere privato delle case nobili alla diffusione degli speziali e pasticceri con botteghe pubbliche nelle città. Una campionatura dei glossari del corpus mette in Patricia Bianchi evidenza dei tratti di tendenza del lessico dei ricettari meridionali. In primo luogo è possibile indicare un insieme di lessemi gastronomici legati in maniera qualificante, alla tradizione locale che presentano una rintracciabilità, sia per linee di continuità cronologica con i precedenti ricettari sia , per precoci attestazioni anche in testi letterari. Tra i testi letterari hanno un’attinenza particolare quelli che, per motivi di retorica di genere, presentano delle elencazioni di vivande, a volte quasi dei tronfi pittorici, ma non sono da trascurare commenti, esposizioni, glosse e in genere tutte le scritture di divulgazione che riprendono parole di largo uso. Così si è rivelato particolarmente fruttuoso il riscontro con lo gliommero di Jacopo Sannazaro Licinio se ‘l mio inzegno, grazie all’ elencazione di cibi esibita, ma anche con il trecentesco commento dantesco del Maramauro . La tradizione della parola pastiera (De Blasi, 2006: 86-87) è in questo senso esemplare: la troviamo, inaspettatamente, nel Commento all’Inferno al canto XXIX,74-75 (stavano apogiati a modo de una tegia de creta, a la qual se aporia un testo de creta per ascaldarse, per cocere pastiere o altra vivanda), e poi nello gliommero del Sannazaro, Licinio se ‘l mio inzegno (Chillo colore biondo a le pastiere/ te facea fiere fier satturare!), e successivamente in Giovan Battista del Tufo nel Ritratto delle grandezze della città di Napoli (ma l’odore e sapor delle pastiede/ ogn’altro gusto eccede) e ancora in Vincenzo Braca nelle Farse Cavaiole sino alle attestazioni che si avvicinano alla contemporaneità, in cui continua il nome, con una circolazione nazionale, ma rispetto alle origini cambia in parte la ricetta, che oggi designa un dolce a base di ricotta, uova, grano e canditi. Altri esempi di lessemi in continuità con la tradizione locale sono scapece, che designa una modalità di preparazione in agrodolce, già in una compilazione toscana trecentesca, e attestato nei ricettari meridionali con crescente circolazione sino ad oggi; ancora la modalità del farcire o condire con il lardo da cui lardare, lardiare, lardiato è attestata da Sannazaro ai ricettari meridionali dal Seicento sino ad oggi; continua il nome ma cambia la ricetta per i maccharoni, maccheroni, da Sannazaro oggi; mentre la fortuna lessicale, e di consumo, della zuppa denominata oglia putrita arriva dai ricettari medioevali solo fino al seicentesco Scalco di Antonio Latini. Accanto alla continuità va posta senz’altro la tendenza all’innovazione dei ricettari meridionali, sempre nella dimensione della ripresa del lessico in uso sul territorio. Innovazione è anche il decremento di frequenza dei nomi delle spezierie dal Settecento in poi per un cambio generalizzato degli stili delle preparazioni, e di conseguenza l’aumento di frequenza dei nomi delle erbette odorose spesso riportati nella variante grafica prossima alla pronuncia regionale: petrosello, serpollo, piperna, basilico, majorana, mentuccia, menta romana, peparolo, zaffarano salvatico, zenzivero. Già nel Cuoco galante (1780) abbondavano gli ittionimi regionali e dialettali: capitone, cicinielli (‘bianchetti’), cozze, fragaglie, luvaro, mazzancogli, riggiola(‘muggine’), scorfano, spigola(‘branzino’). Per i nomi della frutta sono frequenti, ad esempo in M.T., dialettalismi come crisommole (‘albicocche’), percoca e percocata (‘pesche di pasta gialla’, ‘marmellata di pesche’), ficocedole (‘beccafichi’),la forma con glossa dall’italiano al dialetto pere dette mastrantuono, e il termine portogallo (‘arancia’) diffusissimo nei manuali ottocenteschi. Per verdure e ortaggi registriamo in area ottocentesca un uso disinvolto di cocozze (‘zucca’), cocozzate (‘canditi di zucca’), molignane (‘melanzane’), pastinache (‘carote’). Un alto tasso di dialettalismi e regionalismi si registra poi nell’Ottocento per i nomi dei dolci, per lo più della tradizione napoletana natalizia o carnevalesca, riportati sia da M.T. che da Cavalcanti e da Somma: anisi, diavoloni, ginetti, lattata di pinoli, migliaccio, mostaccere, mostacciolo e mostacciuoletti, sanguinaccio, struffoli,sosamielli. Va segnalata una particolare oscillazione semantica di due parole, tra l’altro una di provenienza francese e l’altra tipicamente campana, cioè gattò e pizza: già nell’Ottocento si diffonde, per questi termini, un’alternanza tra francese e italiano e tra dolce e salato, per cui il gattò, che dovrebbe designare un dolce, si estende alle preparazioni salate come gattò di patate, di carote, di spinaci, mentre il termine pizza, oggi globalmente intesa come salata, viene applicato per preparazioni dolci come pizza di cotogni, di biancomangiare o, in assoluto, pizza dolce. E infine vanno menzionate per il lessico e la creatività gastronomica meridionale una serie di innovazioni ottocentesche di successo, che in larga parte sino ad oggi caratterizzano la gastronomia meridionale: ragù al pomodoro (M.T.), zuppa incaciata, maccheroncelli, cannaruni, taglierini, fettuccine, tortiglioni, schiaffoni, lasagnette, carne e sugo alla genovese, arancini di riso, sartù di riso, sfogliatelle (Cavalcanti). Le linee di continuità e di innovazione nel lessico dei ricettari meridionali dal Seicento all’Ottocento, dunque, sono marcate da una costante attenzione alle parole dell’uso locale e, tra Sette e Ottocento, da una precoce accoglienza dei dialettalismi e regionalismi gastronomici. 4. Riferimenti Beccarla, G.L. (2005). Lessico della gastronomia. In G.L Beccarla, A. Stella, U. Vignuzzi (2005), pp. 11-24. Beccarla, G.L., Stella, A., Vignuzzi, U. (2005). La linguistica in cucina. I nomi dei piatti tipici. Milano: Edizioni Unicolpi. Benporat, C. (1996). Cucina italiana del Quattrocento. Firenze: Olschki. Bianchi, P., De Blasi, N., Librandi, R. (1993). Storia della lingua a Napoli e in Campania. Napoli: Pironti. Bruni, F. (a cura di) (1992). L’italiano nelle regioni. Torino: Utet. Capatti, A. e Montanari, M. (1999). La cucina italiana. Storia di una cultura. Roma/Bari: Laterza. Catricalà, M. (1982). La lingua dei Banchetti di Cristoforo Messi Sbugo. 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