Colombatto Carlotta, Musei etnografici in Valle Varaita. Processi di
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Colombatto Carlotta, Musei etnografici in Valle Varaita. Processi di
Università degli Studi di Perugia Università degli Studi di Firenze Università degli Studi di Siena UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN BENI DEMOETNOANTROPOLOGICI Tesi di specializzazione: Musei etnografici in Valle Varaita. Processi di patrimonializzazione e creatività culturale nelle Alpi occidentali Specializzando Relatore Dott. Carlotta Colombatto Prof. Daniele Jalla anno accademico 2009 – 2010 INDICE Indice 1 Introduzione 2 Capitolo 1 Raccogliere e conservare la memoria a mille metri di altitudine 8 1.1 San Peire 8 1.2 Il Museo Storico Etnografico di Sampeyre 23 1.3 Confini 34 Capitolo 2 Pratiche di patrimonio nella capitale della Castellata 44 2.1 Lu Ciasteldelfin 44 2.2 Il Museo Etnografico “Jer à la Vilo” 51 2.3 Politiche della memoria 56 Capitolo 3 Riflessioni sul pubblico dei musei a Bellino 64 3.1 Blins 64 3.2 Il Museo del Tempo e delle Meridiane 77 3.3 Comunità interpretative 83 Capitolo 4 Della cultura come artefatto 91 4.1 Punt e la Cianal 91 4.2 Il Museo del Mobile di Pontechianale 98 4.3 Il Museo del Costume e dell’Artigianato tessile 105 4.4 Contro la colonizzazione dell’immaginario 114 Conclusione 122 Bibliografia 132 1 INTRODUZIONE La mia tesi di laurea fa proprie le riflessioni che sono emerse dal progetto “Musei etnografici e beni DEA in Provincia di Cuneo. Dall’identità alla creatività”. La ricerca, che ha avuto luogo da agosto 2010 a febbraio 2011 grazie a un finanziamento della Regione Piemonte, è stata il mio primo impiego in abito antropologico. L’idea di intraprendere un progetto di questo tipo è nata a seguito di un confronto tra Adriano Favole ed alcuni funzionari. Si sentiva l’esigenza, da entrambe le parti, di incrementare le conoscenze esistenti su tale parte di arco alpino, con particolare attenzione ai musei etnografici presenti. La montagna cuneese (valli Monregalesi, Tanaro, Pesio, Vermenagna, Gesso, Stura, Grana, Maira, Varaita, Po le principali) si caratterizza per la fitta presenza di realtà etnografiche, tanto che nel 2010 se ne contavano trentanove. Alcuni studi condotti negli anni Novanta (Favole e Bessone, 2003) hanno messo in luce la nascita recente di quasi tutti i musei esistenti allora, i quali apparivano come dei centri molto attivi di ricerca e animazione culturale in contesti di forte spopolamento. In netto contrasto con il dinamismo espresso dalle attività realizzate, vi erano però degli allestimenti datati che contribuivano a fornire una visione statica, immune al cambiamento ed edulcorata della montagna. A dieci anni da tali ricerche, altri studi hanno testimoniato un ulteriore incremento di musei etnografici nell’arco alpino cuneese1. Questi creano un quadro variegato in quanto a gestione e cura delle collezioni, modalità espositive e attività realizzate. La ricerca alla quale ho partecipato si proponeva di riflettere sulle dinamiche che hanno portato alla nascita di un così gran numero di musei, nel tentativo di comprendere l’eventuale legame con la realtà economica, sociale, culturale e politica locale. Un altro elemento di interesse era rappresentato dal contrasto tra la vivacità e la creatività delle associazioni che gestiscono i musei e l’assenza dei musei stessi dalle politiche comunali, provinciali e delle Comunità Montane. Ci proponevamo di ragionare anche sul ruolo esercitato da queste strutture nella contemporaneità, sulla loro capacità di essere elementi di dinamismo nel presente alpino e non luoghi in cui rimpiangere un passato irrimediabilmente perduto. Infine non potevamo non riflettere sul significato della dicitura “museo etnografico”, una 1 Sibilla P., Porcellana V. (a cura di), “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei in Piemonte e Valle d'Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009. 2 definizione, a nostro modo divedere, tutt’altro che scontata data anche la dilatazione e contorsione che essa pare aver subito nella montagna cuneese. L’equipe di lavoro era composta da tre ricercatori: Adriano Favole, Elisa Bellato ed io. Per affrontare il campo abbiamo ritenuto opportuno che ognuno di noi si concentrasse solo su alcune vallate invece che su tutto il territorio. Io ho lavorato nelle valli Po, Varaita, Grana, e in parte di quelle Monregalesi. La tesi di laurea si concentra unicamente sulla realtà museale ed etnografica della val Varaita. Tale scelta è stata dettata da numerosi motivi, primo fra tutti la discontinuità geografica del mio territorio di ricerca: in questa sede ho pensato che non fosse produttivo tentare un’analisi di luoghi molto diversi e lontani tra di loro. In secondo luogo ritengo che i musei varaitini siano un buon esempio di creatività culturale: le progettualità dinamiche che propongono in un contesto caratterizzato da difficoltà economiche e perdita di popolazione, a mio avviso, sono un fenomeno molto interessante che attesta la loro capacità di porsi come soggetti attivi nella contemporaneità del mondo alpino. Non nego che la decisione di soffermarmi sulle realtà etnografiche della val Varaita sia stata dettata anche dal sentimento di affezione che nutro nei confronti di questo territorio. Lì, più che altrove in Provincia di Cuneo, mi sento in risonanza con le persone e i luoghi. Leonardo Piasere scrive di tale sentimento in termini di “motto d’animo senza il quale non è possibile nessuna comprensione”2, un “sentire-pensare” che permette di cogliere non tanto e non solo quello che le persone dicono, ma anche il loro particolare essere ed agire nel mondo3. Mi piace pensare che l’empatia e la risonanza che provo nei confronti della val Varaita, oltre ad essere dei sentimenti positivi dal punto di vista umano, siano produttivi anche professionalmente in quanto facenti parte del metodo “perduttivo” teorizzato da Piasere. Secondo l’antropologo questa metodologia etnografica “rimanda a un’acquisizione conscia o inconscia di schemi cognitivo- esperienziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente già interiorizzati […], tramite un’interazione continuata, ossia tramite una coesperienza prolungata in cui i processi di attenzione fluttuante e di empatia, di abduzione e mimesi svolgono un ruolo fondamentale” 4. 2 Piasere L., (op. cit.), pp. 148. Ivi. 4 Ibidem, pp. 56. 3 3 La mia tesi di laurea non pretende di essere un’analisi esaustiva dei musei etnografici varaitini, essa si limita piuttosto a fornirne un’interpretazione. Il lavoro si articola in quattro capitoli che presentano una struttura interna analoga. Essi si compongono di alcuni paragrafi riguardanti ciascuno: il Comune che ospita la realtà etnografica, il museo stesso ed infine uno dei quattro elementi che compongono quello che il Professor Daniele Jalla definisce “il sistema di regole proprio di un museo”. I paragrafi dedicati alle singole Municipalità vogliono essere un tentativo di analisi del territorio, della sua storia, delle sue dinamiche sociali e della gestione locale del patrimonio culturale. Si trattava di aspetti che mi sembrava importante conoscere per comprendere meglio il contesto in cui sono inseriti i musei etnografici. Questi ultimi sono “raccontati” in altri paragrafi, frutto delle interviste condotte ai loro curatori. Le domande che ho posto, elaborate insieme ad Adriano Favole ed Elisa Bellato nell’ambito del progetto comune, erano volte a incrementare la mia conoscenza di questi musei e a metterne in luce le caratteristiche più importanti. Le informazioni che ho cercato di reperire, per punti, erano le seguenti: • Informazioni di carattere generale Nome Data di fondazione Accessibilità territoriale Modalità di visita • Gestione del museo Fondatori Proprietà Gestione Personale addetto Risorse finanziarie Sede Visitatori • Supporti scientifici Supporti scientifici e didattici Attività didattiche e culturali Rapporti esterni e attività culturali • La collezione 4 Tipologia delle raccolte Origine della collezione Inventario Schedatura Stato di conservazione Allestimento I paragrafi successivi, quelli che concludono ogni capitolo, contengono, a mio avviso, le riflessioni teoriche più consistenti. Queste parti sono relative al “sistema museo” e trattano rispettivamente della sede, delle collezioni, del pubblico e dei protagonisti delle realtà etnografiche con le quali sono entrata in contatto. Se “l’antropologia, come le società di cui si occupa, prende forma da una molteplicità di incontri”5 allora i ringraziamenti non sono una semplice formalità. Durante la ricerca di campo così come nel momento di scrittura della tesi sono stati fondamentali i contributi dei gestori dei musei etnografici varaitini. Ringrazio profondamente Celeste Ruà ed Enrica Paseri per le chiacchierate e per i momenti di festa passati insieme. La loro compagnia mi ha portato più volte a riflettere sulla dimensione ludica e aggregativa della valle. Dino Murazzano si è dimostrato una persona-risorsa6 fondamentale, senza la quale non avrei formulato gran parte delle riflessioni presenti all’interno della tesi. Rivolgo un pensiero affettuoso anche a sua moglie Bea e a sua figlia Chiara che talvolta hanno partecipato alle nostre chiacchierate. Il contributo di Ilaria Peyracchia al mio lavoro è stato indispensabile: il confronto con lei nei pomeriggi passati insieme ha dato forma a numerose considerazioni. Ringrazio sinceramente Fabrizio Dovo per tutto il tempo che mi ha dedicato e per le risposte sempre esaustive alle mie numerose domande. Sono molto grata a tutta la famiglia Ottonelli: a Olimpia, che spero di rivedere presto, e a 5 Favole A., “La palma del potere. I capi e la costruzione della società a Futuna (Polinesia occidentale)”, il Seganalibro, Torino, 2000, pp. 4. 6 Nella tesi utilizzo l’espressione “persone-risorsa” per indicare i miei “informatori”, coloro che mi hanno aiutato a comprendere il contesto culturale locale condividendo con me il loro sapere. Tale dicitura mi fa pensare al mio viaggio in Nuova Caledonia, realizzato per condurre la ricerca di campo necessaria a terminare il Corso di Laurea specialistico in Antropologia culturale. “Personerisorsa”, infatti, è l’espressione con la quale ci si riferisce ai propri collaboratori all’interno del Centro culturale Tjibaou di Nouméa. Parlare degli informatori in termini di “risorse” permette di sottolineare non solo la dimensione relazione, amicale, di fiducia reciproca, che caratterizza il rapporto con questi individui, ma anche l’importanza del loro apporto al lavoro di ricerca. Mi piace pensare alle mie persone-risorsa come a dei co-autori del mio scritto, anche se tutti gli errori e le imprecisioni in esso contenuti sono solo opera mia. 5 Silvana, che durante i nostri incontri non ha mai risparmiato considerazioni preziose. Ricordo con affetto e gratitudine il compianto Sergio Ottonelli, la valle ha perso una persona e uno studioso straordinari e per me i suoi libri e il confronto con lui hanno avuto un’importanza determinante. Ho un debito di riconoscenza anche nei confronti di coloro che lavorano nei Comuni nei quali si è svolta la ricerca. Le informazioni ricevute da Vittorio Fino, Alfredo Campi, Giacomo Marc, Domenico Amorisco, Giovanna Barra, Matteodo Barbara, Livio Fino, Laura Brun e Angela Sciapel sono servite a incrementare la mia conoscenza del territorio. Mario Cordero, Fredo Valla, Giampiero Boschero, Francesco Dematteis e Dominique Boschero, invece, si sono dimostrati delle persone-risorsa indispensabili che hanno contribuito a vario titolo alla stesura di questa tesi. Sono molto grata a Giovanni Bernard e Luigi Dematteis, i quali, con la loro squisita ospitalità, mi hanno permesso di passare dei pomeriggi non solo molto densi in quanto a informazioni ricevute, ma anche divertenti. Ringrazio sinceramente il professor Daniele Jalla: il confronto con lui ha dato forma e contenuti al mio lavoro ma soprattutto è stato uno stimolo importante che mi ha permesso di incontrare persone nuove, leggere altri libri, affrontare tematiche che non avevo considerato. Durante la stesura della tesi è stata preziosa l’ospitalità e la cordialità di Erica Giacosa che, sempre gentile e sorridente, mi ha aperto le porte di casa sua ogni volta che ne avevo bisogno. Diego Mondo ha creduto da subito al progetto di ricerca “Musei etnografici e beni DEA in Provincia di Cuneo”, e ad ogni chiacchierata si rivela una fonte inesauribile di bibliografia e tematiche su cui riflettere. Rivolgo un pensiero pieno di affetto e gratitudine al professor Adriano Favole che mi segue in modo attento e scrupoloso nei miei lavori e che per me è un punto di riferimento in ambito personale e professionale. Sono oltremodo grata a Marco Prino per l’ospitalità, per le continue chiacchierate sulla montagna, per avermi trasmesso il suo amore per il territorio e per avermi insegnato che non si è mai abbastanza curiosi di ciò che ci circonda. I miei amici di Torino, Casale e Perugia hanno allietato la scrittura della tesi con la loro spensieratezza e mi hanno confortato con la loro compagnia. Un ringraziamento speciale lo devo a tutta la mia famiglia e soprattutto a mia madre che quotidianamente mi supporta e mi sopporta, e a mio cugino Antonio Lotito, il cui 6 contributo a livello informatico si è dimostrato determinante nel corso degli anni. Con tutto l’affetto di una zia dedico il mio lavoro alla piccola Arianna. 7 CAPITOLO 1 RACCOGLIERE E CONSERVARE LA MEMORIA A MILLE METRI DI ALTITUDINE 1.1 SAN PEIRE7 Prima dell’autunno 2009 non avevo mai visitato la valle Varaita. Decisi di partire una mattina di novembre che, grigia e fredda, anticipava l’inverno che sarebbe arrivato. La strada che ero intenzionata a percorrere scavalca la collina torinese e si snoda tra i paesini della pianura saluzzese prima di salire a congiungersi con il Colle dell’Agnello. Ancora oggi, nonostante l’abitudine al percorso, mi piace osservare i mutamenti nel paesaggio, le diversità nella vegetazione e negli insediamenti abitativi. La prima tappa del mio viaggio in valle Varaita fu Sampeyre. Quel pomeriggio di novembre avevo un appuntamento per visitare il locale museo etnografico ma il netto anticipo con cui arrivai mi permise di aggirarmi un po’ per il paese. Il cuore di Borgata centrale, frazione che ospita Sampeyre di Marco Bailone. Opera ottenuta per gentile concessione dell’autore. la realtà etnografica, è rappresentato dall’ottocentesca Piazza della Vittoria. L’insediamento circostante, invece, è il frutto dell’espansione di cinque piccoli nuclei abitativi medievali. Fin dal medioevo, infatti, questa parte di Sampeyre è stata il centro della vita civile del paese perché 7 I titolo dei paragrafi che aprono i capitoli della tesi riportano i nomi dei paesi nella toponomastica locale. 8 vi sorgeva la sede dell’autorità comunale, probabilmente collocata nell’attuale casa Clary. Quest’ultima, datata 1455, come recita un’iscrizione tuttora visibile sulla facciata, è il monumento più pregevole dell’architettura civile medievale del luogo. La casa rappresenta un’interessante fusione tra lo stile costruttivo locale e alcuni modelli di pianura. L’influenza delle tipologie architettoniche saluzzesi è visibile nelle arcate presenti su tre lati al piano terra. Queste avevano lo scopo di slanciare la figura dell’edificio e sono attualmente murate. Tuttavia, le componenti di maggiore interesse della costruzione, che possiede una facciata sopraelevata rispetto alle altre e un tetto proprio, sono rappresentate dalle bifore ornate sia da decorazioni geometriche, sia da capitelli fregiati di teste umane 8. Come accade per l’influenza saracena in valle, del tutto sconfessata dagli storici, nelle têtes coupes è individuato un retaggio della cultura celtica. I Celti erano un popolo di origine indoeuropea che, nel periodo di massima espansione (VI- III sec. a.C.), erano presenti su un territorio piuttosto vasto. Quest’ultimo comprendeva gran parte delle odierne Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania, il nord-est della Spagna e la pianura Padania in Italia. I Celti appendevano i crani dei nemici, trofeo di guerra, fuori dalle abitazioni come simbolo della forza di chi vi abitava e come monito contro i nemici. Per questo popolo la testa aveva così la funzione di difendere la casa contro le forze del male ed è tale funzione apotropaica che viene trasmessa nel corso dei secoli fino in epoca cristiana 9. La chiesa parrocchiale dedicata a San Pietro è collocata qualche metro più a valle rispetto a Piazza della Vittoria. Attualmente il territorio di Sampeyre è diviso in tre parrocchie mentre fino al secondo dopoguerra se ne potevano contare cinque. Si tratta di una testimonianza dell’imponente decremento demografico subito dal Comune nel corso del Novecento e in parte ancora in atto. La chiesa di San Pietro è un edificio a impianto romanico, composto da una sola navata alla quale si affiancano due cappelle, una delle quali può forse essere intesa come il nucleo primitivo dell’edificio. Le tre componenti sono separate da snelli fasci di colonne in pietra verde, sormontate da capitelli decorati con foglie stilizzate. All’interno della chiesa, sulla parete perimetrale destra, è possibile osservare un’opera di grande interesse realizzata dai pittori Tommaso e Matteo Biazaci. L’affresco, databile al 8 Ottonelli S., “Guida della Val Varaita. (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados Usitanos, Bra, 1979. 9 D’Amico R., “L’anima segreta della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti archeologici, simboli, miti e leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000. 9 decennio 1460-70, narra alcuni episodi della vita di Gesù con numerosi dettagli tratti dai Vangeli Apocrifi. La parrocchiale ospita anche un antico fonte battesimale in marmo bianco risalente al 1482 e una cinquecentesca acquasantiera collocata nel transetto a sinistra dei fedeli 10. La facciata della chiesa di San Pietro presenta uno dei più imponenti portali romanici del saluzzese. Realizzato in pietra verde, esso si fregia di una decorazione nella quale elementi floreali accompagnano le teste mozzate tipiche della valle11. Il nucleo centrale di Sampeyre, compreso nell’area delineata da Piazza della Vittoria e dalla parrocchiale dedicata a San Pietro, accrebbe la sua importanza nel corso dei secoli perché in esso si svolgeva il mercato, istituito nel 1582 da Enrico III. Fu proprio la presenza dell’area mercatale, punto di incontro e di scambio con la popolazione dei paesi vicini, che portò ad una razionalizzazione della zona, avvenuta nei primi dell’Ottocento. In questo periodo si spostò il cimitero da un sito adiacente la chiesa al luogo attuale e si delimitò il lato meridionale della piazza con una serie di costruzioni, andando così sempre più a incentivare e sottolineare il carattere di luogo pubblico del centro12. A partire dagli anni Sessanta del Novecento, in Piazza della Vittoria e nella porzione di abitato osservabile dalla strada che conduce al Colle dell’Agnello fu largamente impiegato uno stile costruttivo riconducibile a quello presente nelle città di pianura. Gli edifici costruiti all’epoca “nascono dalla semplice iterazione sul terreno di tipologie abitative urbane, ibridate prospetticamente tramite gli stilemi del rustico internazionale”13. L’alternanza di condomini a più piani ha radicalmente modificato e rovinato, a mio modo di vedere, l’assetto della borgata centrale. Come sostiene Sergio Ottonelli “il dissesto edilizio di Sampeyre è ormai un luogo comune. È qui che la speculazione edilizia ha fatto in valle le sue prime prove, nella seconda metà degli anni Sessanta; è qui che si è collaudato quel modello di edilizia speculativa che si è poi tentato di esportare nel resto della valle grazie alle consuete complicità politico amministrative”14. Un censimento del 1971 indicava, infatti, la presenza di 453 abitazioni inutilizzate per mancanza di infrastrutture; già 10 Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009. 11 Ottonelli S., (op. cit.). 12 Ibidem. 13 De Rossi A., “Architettura alpina moderna in Piemonte e Valle d’Aosta”, Umberto Allemandi & C., Torino, 2005, pp. 59. 14 Ottonelli S., (op. cit.), pp. 165. 10 all’epoca, poi, solo il 24% degli alloggi risultava essere occupato dai residenti, mentre il 59% del patrimonio edilizio era destinato ad uso turistico 15. La situazione non è migliorata con il passare degli anni: nel 1981, a fronte di un totale di 3719 case, solo 653 di esse erano stabilmente abitate. Negli anni successivi, mentre non crescono gli alloggi occupati quotidianamente, si moltiplicano quelli costruiti a fini turistici: nel 1991 gli appartamenti sono 3971, nel 2001 raggiungono quota 425116. Lo sviluppo edilizio del paese, infatti, è in netto contrasto con la tendenza demografica locale. Nonostante sia il Comune più popolato della media e dell’alta valle17, Sampeyre si allinea con la generale perdita di popolazione che caratterizza l’arco alpino occidentale e piemontese in particolare. Nel 1871 i residenti nell’abitato erano 5503, nel 1961 scendevano a 2102 e nel 1978 erano 1628. Come riporta l’Ufficio Anagrafe, attualmente i residenti in Sampeyre sono 1098 18. Se si tratta di cifre veramente impressionanti, testimoni di un esodo senza ritorno, il numero di abitanti tuttavia permette il mantenimento di alcuni servizi essenziali come la posta, le rivendite alimentari e gli istituti scolastici. Sampeyre, infatti, è l’ultimo paese prima del confine con la Francia ad ospitare una scuola elementare e una scuola media. Sul territorio sono poi presenti alcune strutture di svago come una discoteca ed un cinema, mentre nella piazza principale è possibile approfittare di una rete wireless gratuita. Si tratta di una serie di elementi che non si trovano altrove in valle Varaita, ad eccezione, forse, dei centri che si affacciano sul saluzzese. La ricchezza architettonica di Sampeyre, a mio avviso, è maggiormente osservabile nelle piccole borgate, solo sfiorate dalla speculazione edilizia presente altrove. Nelle frazioni, inoltre, più che nel centro del Comune, sono visibili elementi riconducibili ai diversi periodi di fioritura architettonica che hanno caratterizzato l’abitato. Il periodo di relativo benessere che investe il territorio tra la seconda metà del Quattrocento ed i primi anni del Cinquecento permette un imponente sviluppo artistico. Lo stile architettonico locale può essere definito gotico, anche se la 15 Ibidem. Tali dati statistici sono stati gentilmente forniti dall’Ufficio tecnico del Comune di Sampeyre. 17 In riferimento al numero di abitanti, cifre analoghe a quelle di Sampeyre si riscontrano solo nei paesi della bassa val Varaita: Brossasco, 1099 abitanti e 606 metri di altitudine; Venasca, 1484 abitanti e 549 metri di altitudine; Piasco, 2855 abitanti e 480 metri di altitudine; Costigliole 3349 abitanti e 460 metri di altitudine; Verzuolo 6507 abitanti e 420 metri di altitudine. 18 Tali dati statistici sono stati desunti grazie alla collaborazione dell’ufficio anagrafe del Comune di Sampeyre. 16 11 maggior parte delle case e delle borgate presenta elementi come le volte a botte, i pilastri, i sistemi di passaggio coperti, normalmente considerati peculiari dell’arte romanica. Oltre a tali caratteristiche “di importazione”, nell’architettura e nell’arte locale è possibile osservare una componente locale molto forte. Quest’ultima si esplica, ad esempio, negli architravi in legno o pietra a blocco unico, ma soprattutto nelle figure antropomorfe e animalesche utilizzate come fregio decorativo. Tali elementi architettonici e artistici tipici delle modalità costruttive locali, sono visibili a borgata Martini. Questa si snoda lungo la strada che scende al Varaita ed offre due esempi notevoli di portale ad architrave diritto, uno dei quali è sorretto da capitelli ornati da teste mozzate 19. A partire dal Quattrocento gli abitanti della valle cominciarono a pensare alla casa come ad un bene familiare e la modificarono al fine di incrementare l’entrata della luce ed il ricambio dell’aria. Le antiche modalità costruttive, basate sulla prevalenza di vani interrati e sulla promiscuità tra uomini e animali, furono abbandonate in favore di tipologie architettoniche nelle quali i volumi si elevano da terra. Il XV secolo, in particolare, fu caratterizzato dall’impiego di una raffinata tecnica di lavorazione della pietra. Tipici di questo periodo sono le cornici segna piano, le colonne monolitiche, gli stipiti e gli architravi ricavati da un unico blocco di pietra, i muri perimetrali più spessi costruiti al fine di assorbire la spinta delle volte, anch’esse elementi architettonici innovativi20. Nel XVI secolo l’attività edilizia della valle subisce una battuta d’arresto a causa delle guerre e delle epidemie che stravolsero il periodo. Il Settecento, invece, fu pervaso da un grande rinnovamento architettonico caratterizzato da una rivalutazione del legno. Questo materiale, rispetto alla pietra, consente la realizzazione di forme più ariose e leggere. In quello che Luigi Dematteis definisce “il secolo d’oro dell’edilizia alpina”21, compaiono portici e loggiati coperti, grandi balconate lignee e la scala in legno come elemento tanto decorativo quanto funzionale. Le sezioni verticali in pietra, invece, all’epoca acquisiscono slancio con l’introduzione del pilastro a sezione tonda. Quest’ultimo presupponeva alte capacità tecniche ed era quindi un manufatto di elevato valore economico 19 Ottonelli S., (op. cit.). Dematteis L., “Case contadine nelle Valli Occitane in Italia”., Priuli & Verlucca, Torino, 1983. 21 Ibidem pp. 24. 20 12 finalizzato non solo ad alleggerire l’edificio cui era destinato, ma anche ad impreziosirlo. Risale al Settecento, inoltre, la notevolissima opera di alcuni pittori itineranti, tra i quali spicca per importanza Giors Boneto. Una serie di affreschi del celebre artista sono visibili a borgata Villaretto, sui muri di una casa che si affaccia su una piccola piazzetta laterale. La frazione è un gioiello di architettura alpina situato a 1100 metri di altitudine. La particolarità della borgata consiste nell’essere organizzata “a ricetto”, essa possiede cioè una struttura chiusa da una cortina esterna composta dai muri continui delle case adiacenti. Secondo Dematteis, si tratta di una tipologia di insediamento piuttosto inusuale in val Varaita 22. La chiesa di Villaretto ospita una croce in pietra verde scolpita nel 1503. La scultura medievale presenta dei bracci bottonuti ornati con dei bassorilievi raffiguranti geometrie e fiori. La figura del Cristo, il cui volto è purtroppo molto rovinato, si staglia rispetto alle altre. Ai suoi piedi, la Madonna e san Giovanni sono raffigurati in un atteggiamento rigidamente composto e con lo sguardo perso nel vuoto23. Tra gli elementi architettonici di maggiore rilevanza presenti sul territorio sampeyrese non si può non citare la chiesa di frazione Villar. La borgata, collocata ai piedi di uno sperone roccioso, è stata quasi completamente ricostruita a partire dalla seconda metà del Seicento dopo le gravi distruzioni della guerra del 1628 e quelle causate da una frana nel 1655. L’edificio di culto ivi presente, a pianta rettangolare, possiede un portale romanico le cui decorazioni, tuttavia, parrebbero appartenere alla corrente successiva, il gotico. Il cortile davanti la chiesa si fregia di una croce settecentesca in pietra verde, unica vestigia del cimitero che sorgeva in loco24. Anche a borgata Becetto è possibile osservare un edifico di culto di notevole interesse. La chiesa della frazione, infatti, era un tempo uno dei più celebri santuari mariani del Piemonte sud- occidentale. La parrocchiale è una costruzione austera con una sola navata e una semplice facciata a capanna. Fondata nel Duecento sul sito di una cappella risalente al 1028, la chiesa ha subito numerosi cambiamenti che ne hanno stravolto la struttura originaria: il restauro cinquecentesco ha distrutto quasi tutto l’edificio e ha costruito un primo campanile, 22 Ibidem. Ottonelli S., (op. cit.). 24 Ibidem. 23 13 quest’ultimo venne restaurato e poi sostituito con quello attuale nel Settecento, periodo nel quale venne eretto l’altare in marmo e il coro tutt’ora visibili; nel 1895, infine, il pittore Netu Borgna di Martiniana Po ha affrescato l’abside. Guidato da monaci benedettini, il santuario fu oggetto di venerazione nel corso dei secoli anche a causa di una statua raffigurante una Madonna Nera, rubata nel corso del Novecento25. Secondo Roberto D’Amico, la presenza di una statua di questo tipo è da collegarsi all’eredità culturale celtica. I Celti veneravano Iside, simbolo della terra madre, rappresentata nera come appunto la terra che nutre. La Madonna Nera di Becetto, secondo l’autore, riproporrebbe in forma sincretica questo antico culto26. Il Comune di Sampeyre propone una serie cospicua di attività di valorizzazione del proprio territorio, tanto durante l’estate, quanto nel periodo invernale 27. La metodologia di pianificazione prevede la sinergia di tutte le associazioni e le pro loco presenti, con le quali lavorare alla stesura del programma di manifestazioni. La Municipalità non ha una propria politica culturale specifica perché preferisce sia il territorio a manifestare le sue necessità in tal senso. Lavorare in stretta collaborazione con le associazioni e le pro loco ha proprio la finalità di potenziare il legame tra la popolazione e il Comune. Quest’ultimo dedica al suo programma culturale un budget che si aggira intorno ai 15.000- 18.000 euro l’anno, cifra all’interno della quale è previsto anche un fondo per il museo etnografico. A seconda delle attività proposte, il Comune assume un ruolo di semplice cofinanziatore oppure anche di organizzatore e gestore. Dal 2002, ogni anno, la Municipalità pubblica un depliant che indica tutte le manifestazioni previste per il periodo estivo. Durante la bella stagione, infatti, una serie di attività piuttosto fitte occupano i mesi di luglio e agosto. Tra gli eventi, numerosi sono gli appuntamenti dedicati al teatro in dialetto piemontese e al ballo liscio. Alcuni pomeriggi, invece, sono rivolti all’animazione e allo spettacolo per i bambini oppure all’immancabile mercatino dell’antiquariato. Tra le diverse pro loco presenti sul territorio, quella di Sampeyre si caratterizza per l’occhio di riguardo alle “mode” del divertimento giovanile contemporaneo. Nel corso degli anni, infatti, l’associazione ha gestito la visione di partite di calcio, spettacoli teatrali con artisti 25 Rossi D., (op. cit.). D’Amico R., (op.cit.). 27 Le informazioni a riguardo sono state reperite da un depliant realizzato dal Comune di Sampeyre e da un’intervista all’ex assessore alla cultura, Vittorio Fino, da me condotta in data 19/02/2011. 26 14 di “Zelig”28, la festa della birra, esibizioni punk, reggae, ska, di musica latinoamericana. Questa pro loco, inoltre, sembra interessata alla pratica sportiva, come si esplica nell’organizzazione pressoché annuale di tornei di calcetto, ping-pong, tennis, beach volley e di bocce. Osservando le manifestazioni estive proposte dal Comune di Sampeyre, alcune di queste paiono essere finalizzate ad incrementare l’appeal turistico dell’area. A partire dagli anni Sessanta, infatti, con la costruzione degli impianti di risalita, il paese ha tentato di orientare le sue attività economiche in direzione di un maggiore sfruttamento della risorsa rappresentata dal turismo. Tra le attività estive, tuttavia, ve ne sono alcune sentite dalla popolazione locale come “proprie”, come facenti parte del proprio specifico tessuto culturale. Queste manifestazioni, data la loro importanza, sono frequentate anche da numerosi turisti, tuttavia a me pare che esse siano realizzate per i sampeyresi e che siano orientate nelle loro finalità a soddisfare taluni bisogni del territorio. Tra gli appuntamenti più sentiti si distingue sicuramente “Lu ciantu viol”, una giornata di festa che si svolge a fine luglio curata dalla pro loco di borgata Becetto. L’evento comincia in mattinata con una passeggiata sugli antichi sentieri che collegano Becetto a Dragoniere. Il percorso è accompagnato da musica tradizionale, suonata dal vivo dai partecipanti alla festa. Giunti a Becetto, la proloco della frazione organizza l’apertura dei bar e la “polentata” sui prati. Il resto della pianificazione dell’appuntamento, l’incontro a Dragoniere così come la presenza dei musicisti, risulta essere molto spontaneo. I suonatori, i ballerini, i curiosi della valle e di quelle vicine, semplicemente, aspettano “Lu ciantu viol” per trovarsi e festeggiare. Nonostante “la giovane età” della festa, che esiste solo dal 1984, questa sembra essere molto vissuta, mi è parso di riscontrare una sorta di affezione all’evento. Non credo di trarre conclusioni errate nel sostenere come i valligiani aspettino “Lu ciantu viol” non solo perché è indiscutibilmente un momento divertente, di evasione, ma anche perché esso comincia ad assumere un altro tipo di significato. Alcune persone risorsa sottolineano la forte portata aggregativa di “Lu ciantu viol”, visto come un’occasione per condividere un momento di convivialità “leggero” e per mangiare e bere in compagnia. Gli aspetti indicati rimandano però ad alcuni significati simbolici che trascendono il valore 28 Zelig è un programma televisivo comico che prende il nome dall'omonimo locale milanese di cabaret. 15 nutritivo del cibo. Come sostiene Douglas “ogni pasto è un evento sociale strutturato che ne struttura altri a propria immagine”29, quindi tutto quanto ruota intorno al regime alimentare e alla sua condivisione può essere pensato come un momento centrale nella società. Il convito, infatti, attraverso pratiche di inclusione ed esclusione, assume un carattere di ritualità e contribuisce a delineare e definire le relazioni sociali. Mangiare insieme può essere un modo efficace per sperimentare una convivialità leggera, simmeliana, intesa come una tipologia di aggregazione fine a se stessa che trascende contenuti particolari. Tale forma di interazione è fondata sull’intrattenimento e offre spazi di reciprocità in cui allentare il peso di maschere, tempi, vincoli, presenti in altri momenti della vita quotidiana 30. Se “solo quella socievole è una società a tutti gli effetti”31, “Lu ciantu viol” offre terreno fertile per definire il senso di appartenenza alla comunità locale. Si tratta di un fenomeno riscontrabile, a mio avviso, anche in talune pratiche di controllo dell’alterità che vengono esercitate durante la festa. Alcune persone risorsa, infatti, mi hanno confidato come i suonatori non tradizionali vengano biasimati perché non rispettano quella che è la tipicità della manifestazione. In tale occasione non mi è parso di riscontrare la pretesa di proporre un genere di musica immutato nel tempo e nello spazio, privo di influenze esterne; a mio avviso, è invece presente il desiderio di condividere una musicalità considerata locale. “Lu ciantu viol”, infatti, si vuole articolato su moduli che, se non sono indicati come tradizionali vista la giovane età della manifestazione, sono comunque sentiti come locali, come ancorati al territorio. Alla luce di tali considerazioni, mi pare di poter affermare che la festa in questione dia corpo a desideri di rapporti comunitari e di radicamento. Se fornisce terreno fertile per tracciare i confini di società e per costruire il senso di appartenenza ad essa, se contribuisce a scandire il tempo festivo della comunità, “Lu ciantu viol” pare però operare “un gioco combinatorio con gli elementi di una tradizione non più ad orizzonte unico” 32. Tra gli eventi importanti, nei quali è possibile riscontrare la presenza di turisti ma che i sampeyresi realizzano per sé stessi, non si può non citare la Baìo. Questa è una festa molto amata dalla popolazione locale ed è considerata come tipica del 29 Douglas M., “Deciphering a Meal”, Routledge, London, 1997, pp. 44. La Mendola S., Rettore V., “Indovina chi viene a cena? Accogliere o rifiutare l’alterità attraverso l’invito a cena”, in Neresini F., Rettore V., Cibo, cultura, identità, Carocci, Roma, 2008. 31 Simmel G., “Socievolezza”, Armando, Roma, 1997, pp. 43. 32 Bravo G., “Le feste tradizionali? Sono figlie della modernità”, in L’Alpe n. 3, dicembre 2000, pp. 43. 30 16 territorio. Tale termine occitano equivale all’italiano “Abbazia, Abbadia” con il quale si intendono tanto la festa, quanto il gruppo di partecipanti. Quest’ultimo è composto unicamente da uomini, anche nel caso in cui debbano interpretare personaggi femminili. La Baìo di Sampeyre si svolge ogni cinque anni e si articola in quattro cortei: quello di Piasso, il capoluogo, quello delle borgate di Rore (Roure), Calchesio (lou Chouchèis) e Villar (lou Vilà). La cadenza quinquennale della festa è un’usanza recente, che risale agli anni Trenta del Novecento. In passato la Baìo si poteva svolgere per più anni di seguito, così come subire intervalli maggiori: la periodicità dipendeva dallo stato di prosperità e tranquillità del paese. La festa ha luogo nelle due domeniche di settuagesima e di sessagesima33 e nel giovedì grasso, anche se la richiesta di poterla svolgere viene posta dai giovani delle borgate il giorno dell’Epifania, dopo aver formato un corteo improvvisato. Durante l’intervallo di tempo tra la richiesta e la celebrazione della Baìo, le donne sampeyresi si dedicano al confezionamento dei costumi dei loro figli, mariti o fratelli, costumi che andranno successivamente disfatti. L’opinione corrente, ancora molto radicata tra coloro che partecipano all’evento, vuole che la festa si configuri come la cacciata dei Saraceni dalla valle, avvenuta presumibilmente intorno all’anno mille 34. In realtà studi storici recenti ridimensionano la portata di tale considerazione perché negano la presenza stabile di arabi sul nostro territorio, annoverabile tutt’al più ad incursioni sporadiche. Plausibile, invece, è il legame della Baìo con associazioni giovanili come le Abbazie degli Stolti o le Badie, nate nel tardo medioevo. Si trattava di gruppi di ragazzi che controllavano e organizzavano i principali momenti festivi della comunità. Anche antiche cerimonie precristiane di propiziazione per i nuovi raccolti, che non scomparvero del tutto con l’avvento del cristianesimo ma che vennero, in qualche misura, inglobate nella dimensione carnevalesca, erano regolate dalle Badie. Queste ultime mantennero sempre una forma di autonomia, un carattere indipendente rispetto al potere ecclesiastico o politico, esponendosi a ripetuti attacchi da parte delle autorità. Soprattutto nel periodo della Restaurazione, queste associazioni giovanili erano viste come pericolosi focolai di devianza e tanto la Chiesa, quanto i Savoia non lasciarono nulla di intentato per 33 Sono le domeniche che precedono la Pasqua di circa 70 e 60 giorni e che segnano l’inizio del periodo carnevalesco. 34 A.A. V.V., “Baìo! Baìo! Storia, tradizione e realtà della Baìo di San Peyre”, Ousitanio Vivo, Saluzzo, 1987. 17 sopprimerle. Quelle che sopravvissero furono costrette a ridimensionare i loro ambiti di azione e a modificare le loro prerogative: le feste organizzate erano sempre più qualificate come manifestazioni legate a ricorrenze religiose o come rievocazioni storiche. È il caso della Baìo di Sampeyre, la cui marcata storicizzazione le permise di evitare censure. Le modifiche interne alle Badie, tuttavia, non furono dovute solo a fatti contingenti, ma anche al semplice passare del tempo. Il corso dei secoli rese vecchie alcune prerogative e allentò il legame tra i giovani che sempre meno si riconoscevano nelle associazioni di questo tipo. Determinate caratteristiche invece si accentuarono: è il caso della connessione tra i momenti di festa comunitaria e le Badie, tanto che tale denominazione passò dall’indicare il gruppo di ragazzi, a riferirsi direttamente alla festa stessa. Secondo alcuni la Baìo è “una pericolosa evoluzione verso un banale prodotto turistico”, a mio avviso, visto l’orgoglio e l’impegno con cui viene organizzata e celebrata, non può essere intesa in questo modo35. La Baìo, ma più in generale le feste di montagna contemporanee, valorizzano il contesto culturale in cui si radicano. Lungi dall’essere una degenerazione del patrimonio locale, esse al contrario forniscono gli strumenti concettuali per agire nel presente, utilizzando pratiche e saperi del passato. Le feste possono essere considerate come “figlie della modernità” perché la loro vivacità non è connessa a territori isolati e protetti dall’impatto dell’urbanizzazione, quanto piuttosto a zone coinvolte in processi di scambio e comunicazione con aree più vaste. Anche i protagonisti, più che persone chiuse ed immerse in un passato rurale, appaiono al contrario coinvolti e attivi nelle strutture sociali contemporanee. Gian Luigi Bravo li definisce “pendolari” proprio per indicare non tanto lo spostamento sul territorio, quanto il movimento da un contesto socioculturale ad un altro 36. Le feste continuano a ritmare il tempo comunitario riformulando tuttavia funzioni, messaggi e finalità. Si tratta di un quadro reso possibile dall’ibridazione con elementi esterni ascrivibili al mondo moderno e globale. Le feste, mentre forniscono un bene di cui è manifesta la richiesta, come la necessità di instaurare rapporti comunitari e di ritrovare le proprie radici, promuovono i prodotti ed il turismo locale. Mentre trovano sempre più spazio nei media moderni, come la 35 36 De Angelis A., “Baìo. Storia e fortuna di un carnevale alpino”, in L’Alpe n. 3, dicembre 2000. Bravo G.L., “Festa contadina e società complessa”, Angeli, Milano, 1984. 18 televisione, continuano a fornire terreno per il senso di appartenenza e per la costruzione di una memoria comune37. In relazione alla programmazione estiva, oltre a “Lu Ciantu Viol”, anche il resto delle manifestazioni proposte dalla pro loco di Becetto si distinguono per l’attenzione al contesto culturale locale. L’associazione cura diverse feste di carattere religioso e civile, tra le quali ricordo la “passeggiata gastronomica” tra i mulini, restaurati e messi in funzione per l’occasione. La proloco è molto attenta anche al ripristino e al mantenimento delle antiche mulattiere presenti sul suo territorio, una politica sfociata nella realizzazione di due percorsi naturalistici. Il primo, a sviluppo circolare, collega borgata Graziani a borgata Morelli e si snoda lungo il vallone del torrente Crosa. Durante tutto il tragitto una serie di pannelli forniscono informazioni sulla flora locale. Il secondo percorso naturalistico curato dalla proloco è stato realizzato insieme all’associazione culturale “Lu Rure” 38 perché il sentiero delineato tocca il territorio delle due frazioni. La passeggiata è articolata in tre anelli, corrispondenti a tre differenti mulattiere, che collegano Becetto, Rore e Ciaruntu, una borgata di Frassino, comune limitrofo di Sampeyre. Anche in questo caso, lungo tutto il percorso è possibile osservare una serie di pannelli che danno indicazioni sulla vegetazione circostante. La pro loco di Becetto possiede un sito internet nel quale è possibile reperire informazioni in merito alle attività proposte. Online, l’associazione ha pubblicato una cartina sia dei sentieri che collegano la borgata con il centro di Sampeyre e con le altre frazioni, sia dei piloni votivi presenti sul territorio. Sul sito, inoltre, sono presenti informazioni sui forni e sui mulini di borgata, così come sulle principali opere architettoniche e artistiche visibili a Becetto39. L’associazione culturale “Lu Rure”, similmente alla pro loco di Becetto, propone attività finalizzate alla valorizzazione del patrimonio culturale locale. L’associazione nacque agli inizi degli anni Ottanta per volere del gruppo di giovani della borgata, tra cui Francesco Dematteis, che avevano fondato la cooperativa “Lu viol”. Questa era sorta per promuovere progetti in ambito culturale e turistico ma, dal momento che è un ente economico, una società commerciale, i suoi soci devono essere persone che all’interno di essa hanno un ruolo attivo, di tipo 37 Ibidem. L’associazione culturale “Lu Rure” riprende il nome “a nosto modo”, ovvero nell’occitano parlato in loco, di borgata Rore. 39 www.prolocobecetto.it 38 19 lavorativo. La cooperativa, quindi, non poteva raccogliere le adesioni di quanti frequentavano il territorio e partecipavano alle attività proposte dal gruppo pur avendo un impiego diverso. Per ovviare a questa problematica si è creata l’associazione “Lu Rure”, con la finalità di proporre attività unicamente in ambito culturale. All’interno della cooperativa, invece, c’è stato «un rinnovamento statutario, un mutamento nella compagine sociale e quel settore di attività turistica non esiste più», è stato sostituito dal lavoro in ambito edilizio 40.Tra le attività realizzate, l’associazione “Lu Rure” ha creato un progetto di ripristino delle antiche fontane, ha messo dei dispositivi antincendio su tutta la borgata, si occupa della manutenzione e della segnalazione dei sentieri, ha condotto una ricerca sulla toponomastica del luogo ed ha curato una pubblicazione sui “sarvanot”. Questi ultimi sono i folletti che popolano le fiabe e le leggende locali, spiriti del bosco cui il gruppo di volontari ha dedicato anche un percorso naturalistico. La piacevole passeggiata “Tumpi la pisso. Il sentiero dei sarvanot”, è finalizzata a mostrare le bellezze naturalistiche del luogo ma, tra le rocce e la vegetazione, è possibile osservare anche alcuni pupazzi che rappresentano questi spiritelli leggendari. Tali raffigurazioni sono state create da un giovane artista del luogo, Marco Bailone, la cui opera è piuttosto conosciuta in valle. Bailone, infatti, ha collaborato con la Comunità Montana Valle Varaita ad alcuni progetti di valorizzazione del contesto culturale locale. La sua mano sensibile e ironica ha illustrato il depliant “Òc: terra e lenga”, incentrato sulla lingua e sulla cultura occitana, e ha realizzato alcune “cartine” dei paesi della valle. In queste opere, che indicano le caratteristiche proprie di ogni località, la struttura viaria dei centri abitati si deforma per accogliere i personaggi tipici dell’opera di Bailone. Tali particolarissime “mappe” sono distribuite gratuitamente nei bar, nei ristoranti, negli alberghi, come “guida” per visitare il territorio. Il percorso naturalistico dedicato ai sarvanot è stato realizzato grazie alla collaborazione degli abitanti di borgata Rore i quali per due mesi, nei fine settimana, si sono organizzati in rueido41 al fine di ripristinare il sentiero e collocare i pannelli. 40 Elementi tratti da un’intervista a Francesco Dematteis condotta in data 27/04/2011 Le rueido sono forme associazionistiche molto comuni in passato, adesso quasi completamente scomparse, le quali prevedevano la collaborazione di tutte le braccia lavoratrici della borgata. I gruppi così creati si riunivano per svolgere attività di interesse collettivo. Di norma maschili, anche le donne prendevano parte alle rueido se gli uomini erano assenti. 41 20 Tra le manifestazioni di carattere culturale proposte dal Comune di Sampeyre, cinque sono quelle che godono di “un occhio di riguardo”: i già citati “Lu Ciantu Viol” e la Baìo, il concerto di S.Anna, la rassegna del cavallo di Merens, e la Fiera di San Michele. In relazione agli ultimi tre eventi citati, il Comune ricopre un ruolo tanto finanziatore, quanto organizzativo e gestionale. Per quanto riguarda “Lu Ciantu Viol” la questione è un po’ diversa perché, come già detto, la manifestazione è organizzata dalla proloco di Becetto. La Municipalità di Sampeyre, però, dedica all’evento una serata in musica che, di norma, si svolge il giorno prima della festa vera e propria. La Baìo, invece, è organizzata da coloro che ricopriranno uno dei ruoli principali all’interno della manifestazione. Il Comune collabora all’attuazione della festa chiudendo le strade e realizzando parte degli allestimenti necessari al ballo che sancisce la fine dell’evento. Il concerto di S. Anna ha luogo il primo agosto nel vallone omonimo, posto a l’inverso42 del Comune. La manifestazione esiste solo da tre anni e ha ospitato, la prima estate, la sezione di ottoni dell’Orchestra dell’Arena di Verona. L’edizione successiva è stata dedicata al tango e ha visto l’esibizione del Quintettango, mentre nel 2010 il concerto di S. Anna è stato tenuto dalla Banda Osiris. Il cavallo Merens è originario del dipartimento dell'Ariège, nei Pirenei francesi, ed è stato introdotto in val Varaita e in Italia da Francesco Dematteis nella seconda metà degli anni Settanta. I Merens sono neri, di media taglia, hanno zampe robuste e vengono utilizzati soprattutto per il lavoro nei campi in montagna dove le peculiarità del terreno riducono la possibilità di usare macchinari. In Italia, il riconoscimento ministeriale della razza è avvenuto solo nel 2010. Sampeyre dedica ai Merens una fiera, articolata in tre giornate, dove vi sono concorsi per i soggetti più prestanti e spettacoli vari. Si tratta anche di una vetrina importante per gli allevatori della zona che hanno in questo modo l’occasione per pubblicizzare il loro lavoro. La Fiera di S. Michele si svolge il 25 settembre, data che tradizionalmente sanciva il ritorno dagli alpeggi. Dal 2005, il giorno successivo la fiera, il Comune organizza anche la sagra della raviole, piatto tipico della valle. Si tratta di particolari gnocchi allungati preparati con patate e toma e conditi con burro fuso. 42 Termine che indica il versante della montagna con la minore esposizione al sole. 21 La fiera di S. Michele conclude quella che è la programmazione culturale estiva di Sampeyre. In inverno, invece, i piccoli impianti di risalita che si snodano a l’inverso rappresentano il fulcro di interesse comunale. “L’area sciabile di Sampeyre […] è attrezzata con una sciovia e due moderne seggiovie biposto (Seggiovia S.Anna e Seggiovia Varisella) che coprono un dislivello di circa 900m”43. Le risorse economiche e progettuali del Comune sono, quindi, interamente spese in tal senso. Il comprensorio sciistico è gestito da una società per azioni a capitale misto di cui la Municipalità è il socio maggioritario. Le spese di gestione sono quindi quasi totalmente a carico del Comune che fatica a reperire la cifra necessaria. Questa si aggira intorno ai centomila euro annui ed è decisamente superiore rispetto a quella stanziata per la valorizzazione e la tutela del patrimonio culturale locale. Difficile, poi, riuscire a sancire l’effettivo beneficio economico apportato alla comunità. Il turismo invernale sampeyrese, ad eccezione del periodo di Natale, è caratterizzato da un approccio cosiddetto “mordi e fuggi”. I visitatori rimangono sul territorio un giorno solo, normalmente la domenica, scarsi sono quindi gli introiti degli hotel, limitati quelli dei bar 44. Solo una parte dei cittadini, però, è critica in merito agli impianti sciistici. Queste persone tendono ad interrogarsi, in parallelo, in relazione a quelle che vengono percepite come mancanze di gestione da parte del Comune. Ad esempio, secondo l’opinione di alcune persone risorsa, pare addirittura che la gestione delle nevicate nel 2010 sia stata piuttosto carente. A causa della penuria di fondi, l’appalto agli spartineve è stato diminuito e affidato ad una compagnia che, se tiene pulita la strada provinciale, non passa nelle borgate. Il confronto con le risorse spese per gli impianti sciistici è quindi fonte di polemiche. Una parte cospicua degli abitanti di Sampeyre, tuttavia, sembra essere contenta della gestione del turismo invernale. Il comprensorio sciistico appare a queste persone come l’unico modo economicamente proficuo di sfruttare la risorsa rappresentata dai villeggianti. Mi chiedo, però, quanto tale concezione non sia figlia degli anni Ottanta e del miraggio di benessere che gli impianti di risalita, allora, portavano con sé. La crisi del settore, infatti, è ormai nota 45 e anche il Comune propone una politica di gestione del comprensorio diversa rispetto a 43 www.comune.sampeyre.cn.it Informazioni reperite grazie all’intervista da me condotta a Vittorio Fino, ex assessore alla cultura del Comune di Sampeyre. 45 Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”,Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 44 22 quella degli anni passati, non più solo basata sulle cosiddette “settimane bianche”, ma che cerca di collegare la struttura al contesto culturale locale. In cima agli impianti di risalita, infatti, è stata ristrutturata una grangia46 rispettando le modalità architettoniche tradizionali. L’abitazione è adibita a rifugio e al suo interno sovente si svolgono delle serate con musica tradizionale. Il comprensorio sciistico è utilizzato dal Comune anche per proporre camminate con le racchette da neve in luoghi un po’ insoliti e per realizzare delle serate con astronomi in cui si guardano e studiano le stelle. Si tratta di una serie di manifestazioni che, a mio modo di vedere, possono essere pensate come un timido tentativo di inserire gli impianti di risalita all’interno di una politica generale di valorizzazione del patrimonio culturale locale. 1.2 IL MUSEO STORICO ETNOGRAFICO DI SAMPEYRE Fabrizio Dovo ha un’aria cortese e gentile mentre gira nella toppa la chiave del Museo Storico Etnografico di Sampeyre47. In quel freddo, primo pomeriggio di novembre trovare la struttura non è stato complicato, situata com’è nel cuore del paese, all’interno della parte più antica. Il museo è raggiungibile percorrendo l’attuale via Roma, la quale collega Piazza della Vittoria, sede del municipio e centro dell’abitato, al bivio da cui si diparte la strada per le borgate di Becetto e Dragoniere. La sede dell’istituzione è un’antica casa signorile risalente al XVI secolo, in passato dimora della famiglia Savio di Saluzzo. L’aspetto odierno della costruzione si deve ad alcuni ampliamenti dell’edificio attuati nel Settecento. Si tratta di una serie di modifiche che ne definirono tanto la facciata, dove è possibile osservare un grande affresco dall’attribuzione incerta raffigurante l’ostensione della Sindone, quanto le sale interne, alcune delle quali vantano antichi soffitti a cassettoni. Nel corso degli anni l’edificio ha ricoperto funzioni diverse, in quanto è stato, ad esempio, sede del Comune e di una scuola e, a partire dal 1981, anche sede del museo etnografico. Quest’ultimo è aperti tutti i giorni durante le maggiori festività e nei mesi di luglio e agosto. Nel novembre in cui ho visitato per la prima volta il museo mi sono avvalsa della gentilezza di Fabrizio, ex vicepresidente 46 Termine locale che indica un’abitazione temporanea, utilizzata durante l’estate e collocata a quote più elevate rispetto alla casa di residenza. 47 Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state tratte da due interviste condotte a Fabrizio Dovo in data 20/10/2009 e 29/07/2010, nonché dalla brochure di presentazione del museo e dal sito internet www.etnomuseosampeyre.it 23 dell’associazione che gestisce la struttura. Quest’ultima viene comunque aperta durante la stagione fredda anche per scuole e gruppi. L’idea di creare un museo etnografico a Sampeyre è nata a metà degli anni Settanta in ambiente scolastico. Alcuni professori della scuola media locale cominciarono a ragionare sull’esistenza di una serie di oggetti legati alla vita contadina i quali stavano entrando rapidamente in disuso, con il rischio correlato di venire gettati o di deteriorarsi irrimediabilmente. C’era, all’epoca, la sensazione di stare smarrendo non soltanto dei manufatti, ma anche parte di quel mondo cui erano intrinsecamente collegati. I docenti coinvolsero, quindi, i ragazzi in un progetto di recupero e valorizzazione di ciò che era sentito come «una testimonianza materiale, un qualcosa legato alla tradizione del lavoro che poteva perdersi». La collezione nacque in modo spontaneo, «come provocazione», frutto del desiderio di insegnanti e ragazzi di ragionare su tale tematica. Moltiplicatisi forse in maniera inaspettata, gli oggetti furono acquisiti dal Comune ed esposti nei locali dell’attuale museo. Di proprietà comunale, quest’ultimo fu quindi gestito dall’assessorato alla cultura fino al 2002. Nel corso dei vent’anni di amministrazione municipale, il museo ha subito vicende alterne, in particolare, sembra che l’interesse nei suoi riguardi fosse scemato nel corso degli anni Novanta quando «veniva aperto a volte, certi anni non veniva aperto proprio, certi anni veniva aperto per qualche periodo se […] c’erano delle scolaresche interessate». All’inizio del millennio il Comune si rese protagonista di un rinnovato interesse per il museo locale e realizzò, con la collaborazione di alcuni giovani, un progetto di riallestimento delle sale. Tale cooperazione fece sorgere nei ragazzi l’interesse, la voglia, di continuare l’impresa sviluppando nuove progettualità. Grazie ad una convenzione stabilita con il Comune, a partire dal 2002 la gestione della struttura venne totalmente affidata a questi giovani riunitosi, successivamente, nell’associazione “Mireio”. Questa, creata nel 2006, è dotata di autonomia giuridica e amministrativa. La denominazione dell’associazione è un omaggio all’opera dello scrittore provenzale Frédéric Mistral, premio Nobel per la letteratura nel 1904. “Mireio” è il titolo della sua opera più importante e riprende il nome della protagonista, una giovane fanciulla a servizio presso la famiglia Mistral in Provenza. La ragazza affascina l’immaginario del giovane poeta e ne diventa in qualche modo la “musa”. Mireio era originaria di Sampeyre, frazione Rossi, e al secolo si chiamava Maddalena 24 Giovenale. Da quando gestisce il museo, l’associazione che porta il suo nome ha incrementato tanto le sale espositive quanto le attività proposte. Uno dei fini perseguiti era quello di trasformare la realtà museale «in un piccolo centro culturale» inserendola in «un discorso più ampio», all’interno del quale racchiudere anche conferenze, mostre, corsi e pubblicazioni. Il rapporto con il Comune rimane molto intenso perché l’amministrazione collabora economicamente al mantenimento della struttura. L’ingresso al museo non prevede il pagamento di un biglietto ma è comunque presente la possibilità di fare un’offerta. Nel periodo estivo la visita è libera, mentre in inverno le aperture su prenotazione si avvalgono della presenza di una guida. L’esposizione si snoda in dieci sale il cui criterio allestitivo è “ispirato alle attività e ai cicli produttivi tradizionali” 48. La prima sala prevede un’introduzione di carattere storico al paese di Sampeyre. Al suo interno è presente uno dei pezzi di maggiore importanza tra quelli che compongono la collezione museale. Si tratta del fondo fotografico PignattaMartino, che deve il nome a due fotografi vissuti nel paese a cavallo tra Ottocento e Novecento. Le immagini sono circa duecento e documentano diversi aspetti della vita contadina locale tra il 1890 e la fine della seconda guerra mondiale. Come mi ha confidato Fabrizio, l’acquisizione di tale fondo è avvenuta in modo «alquanto rocambolesco» perché, trovato in una casa da restaurare all’epoca dell’«edilizia selvaggia di Sampeyre», è stato salvato dall’immondizia da un passante di particolare sensibilità. Un altro oggetto di rilievo contenuto in questa prima sala è un’antica macchina dell’anagrafe, uno strumento che veniva utilizzato per creare i documenti d’identità. Completa l’allestimento una grande vetrina a muro contenente capi d’abbigliamento usati soprattutto in contesti importanti come i matrimoni. La stanza attigua ospita alcuni oggetti utilizzati in passato durante il lavoro nei campi: sul pavimento sono disposti trebbiatrici, aratri, ventilabri e slitte. Una serie di foto documentano poi la trasformazione del latte in burro e formaggio. 48 www.etnomuseosampeyre.it 25 Dal lavoro nei campi a quello più tipicamente femminile, la sala successiva è dedicata alle attività riservate alla donna come la lavorazione della canapa e della lana, della farina e del latte. Una delle pareti della stanza ospita alcune fotografie raffiguranti due coppie di sposi, trovate casualmente nel solaio del palazzo che ospita il museo. Si tratta di Una sala del Museo Storico-Etnografico di Sampeyre. Foto dell’autrice. immagini con una storia particolare scoperta grazie all’interessamento di un visitatore francese. Fabrizio mi raccontava della collaborazione sorta tra alcuni membri del direttivo e questo ragazzo d’oltralpe originario di Sampeyre il quale desiderava avere notizie della sua famiglia. Dopo una serie di ricerche caratterizzate da coincidenze «al limite del soprannaturale», è emersa praticamente l’intera storia di vita del nonno di questo visitatore, avo che si è scoperto essere il figlio di una delle coppie di sposi le cui foto erano esposte sul muro della stanza riservata al lavoro femminile. A mio avviso si tratta di un interessante esempio del rapporto che il museo ha instaurato con una parte del suo pubblico e degli abitanti di Sampeyre. Le collezioni esposte si compongono in misura rilevante di oggetti donati o prestati, pochissimi sono i pezzi acquistati. Il direttivo stabilisce quindi un rapporto privilegiato con le persone che offrono loro i manufatti, con il desiderio di essere un «punto di riferimento», una «casa comune». Si tratta di un sentire che si manifesta anche nell’allestimento, accusato da alcuni di essere troppo caotico. In realtà «gran parte degli oggetti sono nelle stanze anche per un motivo: perché la gente che li porta poi ha piacere di vederli esposti». L’allestimento deve le sue caratteristiche al desiderio di «valorizzare questo interesse delle persone» le quali offrono manufatti che «hanno un valore a livello familiare» al fine di «ricordare i loro parenti o per evitare che alcune cose vadano perdute». Mi sembra di poter affermare che se “l’obbiettivo primario” del museo “è la conservazione e la trasmissione della memoria storica ed 26 etnografica”49 di Sampeyre, un’attenzione particolare è rivolta al “ritorno” nei confronti di coloro che hanno collaborato con le loro donazioni alla crescita della collezione. Continuando il percorso espositivo, all’interno della sala che si incontra successivamente è possibile osservare la ricostruzione di un’aula di scuola elementare di inizio Novecento. In effetti i banchi in legno con lo sgabello fisso ivi presenti sono stati trovati all’interno dei locali stessi del museo, il quale, in passato, ha ospitato una sede scolastica. A riguardo, è forte il contrasto con la situazione attuale: a fine Ottocento le scuole elementari di Sampeyre, borgate comprese, erano 14, adesso invece se ne conta una sola. La quinta stanza del museo espone una serie di oggetti utilizzati dal carradore e dall’arrotino, due figure lavorative quasi completamente scomparse, cancellate dal progresso tecnologico. Quello dell'arrotino, in particolare, era anche uno dei mestieri caratteristici dell'emigrazione montanara stagionale e temporanea. Quest’ultima può essere considerata come un’“importante e quasi universale strategia di espansione delle risorse locali” 50. A causa delle asperità del clima e della scarsità di terreno, sembrerebbe ovvio pensare che le comunità alpine dovessero avvicinarsi maggiormente ad un’economia di sussistenza. In realtà proprio le difficoltà del territorio limitarono la possibilità di questi popoli di raggiungere l’autosufficienza ed incentivarono l’apertura delle economie locali. L’emigrazione alpina però non si configura come “una disordinata fuga dalla miseria”51 e gli uomini che scendevano dalle montagne per lavorare in pianura non erano solo mendicanti o vagabondi. L’emigrante alpino, al contrario, si caratterizzava per essere un piccolo commerciante o un artigiano in grado di svolgere anche lavori di alta specializzazione. Inoltre, il fatto innegabile che la povertà della terra abbia spinto molti uomini alla migrazione non deve indurre a trarre conclusioni sulla loro situazione economica. Numerosi studi attestano che il fenomeno migratorio era diffuso in tutti gli strati sociali e che tendeva anzi ad essere più frequente tra la popolazione maggiormente benestante. L’esodo stagionale e temporaneo non può essere considerato come “una semplice 49 Ibidem Viazzo P.P., “Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi”, il Mulino, Bologna, 1990, pp. 189. 51 Viazzo P.P., “Il paradosso alpino”, in L’Alpe n.1, inverno 1999- 2000. 50 27 strategia di sopravvivenza imposta dall’ambiente alpino” 52, in quanto era invece un “fattore di mobilità nella gerarchia economica e sociale del villaggio” 53. Alcuni dei protagonisti di questa che potremmo definire “migrazione di qualità”, ricavavano dai loro spostamenti una certa prosperità e a volte anche ricchezza 54. Alla lavorazione della canapa, un'altra attività in passato largamente diffusa sul territorio, è dedicata la zona espositiva successiva. Qui l’intenzione del direttivo era quella di spiegare la manipolazione della fibra tessile al fine di ottenere due filati: uno più sottile utilizzato per vestiti e coperte, ed uno più grezzo e spesso con cui venivano realizzate le corde. Il museo etnografico di Sampeyre possiede un piccolo cortile interno sul quale si affacciano due stanze, anch’esse utilizzate a fini espositivi. In questo caso il direttivo ha tentato di ricreare due botteghe artigiane, anche per quanto riguarda il loro aspetto esterno. Uno degli esercizi ricostruiti è quello di un calzolaio, corredato di macchina da cucire, forme di legno, chiodi di diversa entità e scarponi. La bottega è completa perché ripresa nella sua interezza da quella di un prozio di Fabrizio, il quale appunto svolgeva tale mestiere. Anche per il vicepresidente dell’associazione Mireio, la pratica espositiva si mescola con il desiderio di non dimenticare il proprio passato familiare ma, al contrario di valorizzarlo. L’altra saletta che si affaccia sul cortile interno può essere considerata come “un tributo a muli e cavalli, fedeli, generosi e instancabili compagni di fatica dei lavoratori d'un tempo” 55. Insieme a basti, collane e selle, in loco una serie di foto illustrano l’impiego degli animali per il lavoro dei campi ed il trasporto dei materiali. La stanza attigua alla sala conferenze è dedicata alla «festa più sentita, più amata di Sampeyre»: la Baìo. Appena entrati sulla sinistra un’imponente vetrina contiene la collezione Luigi Carlino, si tratta di riproduzioni in scala, alte all’incirca venti centimetri, raffiguranti i personaggi del corteo festivo. Carlino era un sarto sampeyrese che, impossibilitato a lavorare, negli ultimi anni della sua vita, si dedicò alla realizzazione dei pupi esposti, un omaggio al museo del suo paese. Agli angoli della sala, fanno bella mostra di sé le bandiere dei cortei del capoluogo, e delle borgate di Rore, Calchesio e Villar. Attualmente le Baìe del 52 Viazzo P.P., (op. cit.), pp. 201. Ivi. 54 Viazzo P.P., (op. cit.). 55 www.etnomuseosampeyre.it 53 28 Comune di Sampeyre sono quattro, in passato invece erano più numerose, ma alcune, come quelle di Becetto e Sant’Anna, sono ormai definitivamente scomparse. Un recente lavoro di analisi ha permesso di datare le quattro bandiere esposte, che si è scoperto risalire al XVIII secolo. Alcune parti del drappo del capoluogo sono invece più antiche, attribuibili al XVII secolo. Si tratta di quattro pezzi di notevole importanza storica e documentale che, tuttavia, hanno fatto nascere qualche piccolo contenzioso in seno al paese. Come mi rivelava lo stesso Fabrizio «è una cosa su cui qualcuno storce il naso il fatto che noi teniamo esposte le bandiere, perché, teoricamente, non potrebbero essere viste se non nei tre giorni della festa». Al centro della sala, dispiegata su una serie di strutture autoportanti, è possibile osservare una documentazione fotografica della Baìo sampeyrese, immagini che aiutano a comprendere meglio alcuni aspetti della manifestazione ed a calarla nel contesto locale. Il percorso espositivo del museo culmina con una sala dedicata alla lavorazione del legno. Qui l’associazione ha voluto rappresentare l’intero processo di manipolazione del materiale: dalla pianta all’oggetto finito. È quindi possibile osservare le varie tipologie di legno utilizzate localmente, tagliate a sezioni per meglio coglierne le specificità. Sono presenti anche una serie di seghe di diverso tipo e materiale che, a seconda delle loro caratteristiche, permettevano di tagliare la pianta in maniere differenti. Parte di questi oggetti provengono dalla bottega di un falegname locale e sono stati donati dal figlio di costui. Si tratta di beni in ottimo stato di conservazione anche perché utilizzati fino ad epoche recenti. Appena entrati sulla sinistra della sala si estende il tipico banco di lavoro dell’ebanista, corredato da tutti i principali strumenti di lavorazione del legno. Un imponente armadio d’epoca rende, infine, l’idea di cosa doveva essere il prodotto finito di questi artigiani56. Trovo molto interessante l’accennato collegamento con la produzione mobiliera contemporanea che si ricava da alcuni pannelli a muro i quali illustrano le differenze tra i mobili tradizionalmente realizzati in valle e quelli di nuovo design proposti dall’Agenzia del Legno. Si tratta di un progetto avviato nel 1999 dall’allora Comunità Montana Valle Varaita, con la collaborazione dell’Agenzia dei Servizi Formativi della Provincia di Cuneo e grazie al sostegno di finanziamenti europei. L’Agenzia del Legno aveva come finalità la messa in rete 56 In valle Varaita, a Pontechianale, è presente un museo etnografico interamente dedicato alla produzione mobiliera locale. 29 delle oltre cento realtà aziendali di Valle impegnate nella produzione di mobili, giocattoli, feretri e strumenti musicali. Un altro degli scopi perseguiti era appunto quello di “rilanciare” la produzione, lo stile tradizionale degli arredi realizzati in loco attraverso un nuovo design degli stessi. Tale rilettura venne condotta con la consulenza del Politecnico di Torino a seguito di una documentazione sulla storia artigianale locale57. L’intero percorso espositivo del Museo Storico Etnografico di Sampeyre si avvale di una serie di pannelli espositivi che facilitano la comprensione delle sale. La collezione in mostra si compone di oltre 750 pezzi, quasi tutti in buono stato di conservazione salvo la presenza, in alcuni casi, di tarli. Il museo fa riferimento ad un antiquario di fiducia per il restauro dei manufatti «più gravi», laddove invece non sussistono particolari perplessità sulla manutenzione dei beni questa «si basa sulla buona volontà di tutti». Ogni oggetto esposto è correlato da un cartellino esplicativo con il nome del bene in italiano e “a nosto modo” 58. Questa “etichetta” ricalca, anche se in formato ridotto, l’inventario dei manufatti del museo. Alcune ragazze del direttivo avevano inoltre realizzato la catalogazione BDM dei beni relativi alla filiera del legno, al lavoro femminile e di parte di quelli inerenti la lavorazione della canapa. Per un ulteriore approfondimento delle tematiche cui fa riferimento l’esposizione, è possibile consultare la piccola biblioteca interna del museo. Il fondo si compone di oltre 300 volumi, quasi tutti di carattere etnografico, antropologico e storico. La biblioteca contiene anche una serie di riviste di difficile reperimento come “La Beidana”, “Valados Ousitanos” e “Lou Temp Nouvel”, periodico culturale a cura della Associazione Soulestrelh, che analizza la vita sulle Alpi grazie all’apporto di studiosi di diversa formazione. Decisamente numerose sono le attività didattiche e culturali proposte dai ragazzi del direttivo durante i mesi di apertura del museo. L’estate 2010 l’associazione Mireio ha curato l’allestimento di due mostre: la prima “Biodiversità e bellezze naturali del territorio cuneese”, un’esposizione fotografica realizzata in collaborazione con l’Associazione Pro Natura di Cuneo, ha avuto luogo a partire dal mese di luglio fino a metà di quello successivo. Dal 15 di agosto a metà settembre la sala conferenze ha invece ospitato “De bères e d’escufie”, una mostra di cuffie, merletti e fuselli delle valli Varaita e Maira realizzata da Giampiero 57 58 www.agenform.it Tale dicitura indica, in valle Varaita, il particolare tipo di dialetto parlato localmente. 30 Boschero, un avvocato originario di Frassino con la passione per la cultura locale ed in particolar modo per la lingua e per i merletti al tombolo, dei quali è anche un artigiano. Infine, a settembre inoltrato, il museo ha dedicato un paio di giorni alla rassegna sull’architettura d’alpeggio curata dalle architette Enrica Paseri e Barbara Martino. Per l’estate passata il direttivo aveva organizzato anche due corsi: uno di intaglio su pietra, realizzato grazie al supporto di Adriano Martino, ed uno di balli tradizionali curato dal gruppo Trigomigo. Piuttosto fitto poi, il calendario di conferenze cui era possibile assistere al museo. Gli argomenti trattati spaziavano in ambiti molto vasti: alcune sere erano incentrate sul contesto naturale, problematiche di carattere storico, matematico, etnografico di valle, altre ancora altre su presentavano libri recentemente editi. 3 luglio “Tracce del passato e del presente nelle nostre valli”. Proiezione e incontro con l’associazione Passi in Libertà. 17 luglio “Echi di silenzio: ricordi di salite tra emozioni e sensazioni”. Presentazione del libro e incontro con l’autore Gianni Abbà. 24 luglio “Cinquecento anni di cartografia in Valle Varaita”. Incontro con il Dottor A. De Angelis, ricercatore di storia locale. 30 luglio “Tra circo e cinema: i volti sconosciuti di un viso noto”. Colloquio con Luciano Sforzi, intervista di Nanni Gianaria, musiche di Euphoria Quartet. 5 agosto “Giochiamo con la matematica”. Incontro per ragazzi con il prof. Peiretti, giornalista, scrittore e studioso di scienze matematiche. “Riformati e Cappuccini in Alta Valle Varaita nel Seicento”. Incontro con J.L. Bernard, ricercatore di storia locale. 8 agosto Mercatino equo-solidale 9 agosto “Croazia, un tuffo nel mondo perduto”. Incontro con il Domenico Sanino, presidente dell’associazione Pro Natura di Cuneo. 11 agosto “Storia di un filo d’erba: passeggiando alla scoperta delle erbe 31 di Sampeyre”. Incontro per bambini e genitori con Nadia, accompagnatrice naturalistica. 12 agosto “Giochi di numeri”. Incontro con il prof. Peiretti. 16 agosto Presentazione della mostra “De bères e d’escufie” e incontro con A. De Angelis e G.P. Boschero, studiosi di storia locale. 18 agosto “Mangiar per erbe: piccoli segreti di cucina sulle erbe”. Incontro per bambini e genitori con Nadia, accompagnatrice naturalistica. 21 agosto “Valle Po: da Revello al Colle delle Traversette seguendo la Via del Sale”. Incontro con il prof. Oscar Casanova, rappresentante del CAI nella Commissione Protezione della Montagna. 24 settembre “Campi, prati, boschi e pascoli: il paesaggio agro-silvopastorale del Comune di Sampeyre nel Catasto del 1739”. Incontro di presentazione della tesi di laurea di Chiara Graffione. Anche negli anni passati le attività del museo erano così consistenti. Oltre alle variazioni annuali, alcuni appuntamenti possono essere considerati quasi “fissi”. È il caso dei corsi di intaglio su pietra e su legno realizzati da Adriano Martino, il quale ha collaborato con l’associazione Mireio anche in fase di allestimento del museo perché ha ricreato, su modello originale, uno dei tomboli esposti. Un discorso analogo può essere fatto tanto per le lezioni di danza tradizionale tenute dal gruppo Trigomigo, tanto per la presenza di alcuni relatori. Il museo collabora da qualche anno con Giovanni Bernard, studioso di storia locale, e con il professor Peiretti, insegnante, giornalista e scrittore: entrambi propongono quasi ogni estate conferenze su tematiche diverse. D’inverno l’attività del museo si assottiglia ma non si spegne del tutto. In dicembre e gennaio sono state organizzate ancora due serate: la prima, dal titolo “Arte del Quattrocento nella Parrocchiale SS. Pietro e Paolo di Sampeyre”, presentava lo studio storico-artistico realizzato da Simona Garzino; nella seconda, invece, è stato mostrato il film “Sonn d’uvern de i Sarvanot” del regista Bruno Sabbatini. Per tutto il mese di dicembre fino al 9 gennaio, poi, lungo via Roma e via Vittorio 32 Emanuele, sono state proiettate una serie di foto d’epoca tratte dall’archivio del museo. Le attività fin qui delineate, così come le aperture del museo, sono gestite dal direttivo dall’associazione Mireio con l’occasionale collaborazione di qualche stagista. Quando sono necessari dei contributi esterni per tenere aperto il museo, l’associazione ha previsto un rimborso spese perché, secondo l’opinione di Fabrizio, «ci sembrava giusto come gratificazione per dei ragazzi che stanno facendo un lavoro». L’istituzione museale con sede in Sampeyre ha un buon riscontro di pubblico in quanto riesce ad avere una media di tremila visitatori ogni anno. Tra questi, una buona componente è sicuramente rappresentata dai turisti ma non è soltanto grazie ad essi che il museo riesce a proporre e incrementare le sue attività. Come mi ha rivelato Fabrizio: «l’aspetto turistico per noi ha un’importanza, anche banalmente come gratificazione. Effettivamente quando tu riesci a far funzionare tutta una serie di attività, di cose, hai un certo riscontro, sicuramente fa piacere, è una soddisfazione che ti dà anche quella voglia di.. purtroppo noi questo riscontro ce l’abbiamo di più dalla gente che viene da fuori che non dal paese. Qui mi succede ancora di vedere gente del paese che entra “Ma è carino qua, non ero mai venuto”, gente che è una vita che ce l’ha sotto il naso». Il rapporto con i sampeyresi appare, per certi versi, controverso perché se una parte di essi non sembra essere interessato al museo, la stessa cosa non si può sostenere per i restanti. Come detto più sopra, alcuni compaesani di Fabrizio donano o prestano oggetti che hanno un valore personale e familiare, «si fanno prendere» dal gioco espositivo e «portano i nipoti a vedere». Il museo è riuscito a delineare un rapporto quasi di “fidelizzazione” con parte del suo uditorio il quale tende a seguire la programmazione proposta. «Abbiamo creato un’utenza di affezionati, se vogliamo, che seguono le mostre e vengono alle conferenze», un rapporto particolare che sembra gratificare il direttivo anche perché «noi abbiamo sempre visto il museo come un momento per raccogliere e conservare la memoria, una casa comune del paese». 33 1.3 CONFINI La sede del Museo Storico Etnografico di Sampeyre è una suggestiva dimora seicentesca situata nel cuore della municipalità. Il caso sampeyrese, tuttavia, non presenta caratteristiche inedite, al contrario è piuttosto comune che i musei dell’arco alpino cuneese siano ospitati in edifici storici. In contesto vallivo tale fenomeno è piuttosto evidente: il Museo del Tempo e delle Meridiane di Bellino così come il Museo del Mobile di Pontechianale hanno la loro sede in due case risalenti al Settecento, secolo al quale è datata anche la Missione cappuccina che accoglie il Museo del Costume. Si tratta di edifici diversi tra loro sia per l’uso che ne veniva fatto in passato, sia per le peculiarità che li caratterizzano, ma che tuttavia sono accomunati da un incontestabile valore storico e artistico. Le sedi dei musei etnografici della val Varaita hanno in comune un’altra caratteristica: sono ubicate in montagna. Tentare di dare una definizione di tale territorio è un atto tutt’altro che scontato perché, nonostante la catena alpina si imponga alla vista nella materialità tangibile dei suoi paesaggi, queste immagini non bastano a rendere univoche le idee che le associamo. A partire dalla fine dell’Ottocento, quando nacque il turismo, le Alpi cominciarono ad essere oggetto degli stereotipi più diversi. Senza soluzione di continuità si passava dall’orofilia all’orofobia, dal considerare il territorio come un luogo incontaminato, vero, puro, dove le persone vivevano con genuina semplicità; al ritenerlo, viceversa, una zona impervia, quasi demoniaca, abitata da gente rozza, descolarizzata, sottosviluppata mentalmente e che prestava scarsa attenzione all’ambiente naturale. Il processo di attribuzione di significati alla montagna è presente anche nella contemporaneità, quando i diversi attori che si muovono in contesto alpino, ovvero i politici, le associazioni, le Ong, propongono la loro peculiare visione delle Alpi. Il geografo tedesco Werner Bätzing sottolinea la possibilità di definire tale catena montuosa in sei modi diversi i quali variano a seconda del punto di vista utilizzato. Le scienze naturali considerano territorio alpino la porzione di suolo presente intorno ai 2000 metri, la sola a distinguersi, per processi e condizioni specifiche, dalle zone a media e bassa quota. Le Alpi, così delimitate in modo molto ristretto, non sono abitate e, dal punto di vista cartografico, assumono le sembianze di un arcipelago di isole. 34 Le vie di comunicazione, le città e le zone industriali vengono di solito escluse dalla definizione di catena alpina data dai turisti. Questi ultimi, normalmente, intendono la montagna come la porzione di territorio presente sopra i mille metri di altitudine, un’area in cui vivono appena 0,8 milioni di abitanti. Dal punto di vista agricolo vengono escluse dalle politiche di sostegno alle zone montane tutte le aree favorevoli, e cioè i terreni pianeggianti di fondovalle. La partizione territoriale così delimitata è abitata da 5-6 milioni di persone. La geografia, invece, definisce le Alpi come “un complesso montuoso compatto, geologicamente separato dagli Appennini, dai massicci ercinici (Esterel, Maures ecc.) e dalle Dinaridi”59. Tale descrizione non si basa su considerazioni di tipo economico quanto piuttosto su criteri che tengono conto della continuità del rilievo. La Convenzione delle Alpi60 fa riferimento ad un territorio più vasto, che si estende per 190.000 kmq e che nel 2000 contava 14,3 milioni di abitanti. La partizione in questione combina indicatori di carattere naturale ed economico e coincide con l’immagine corrente delle Alpi, le quali comincerebbero laddove il pendio si fa più acclive. Questa visione è condivisa anche da quegli Stati europei dotati di una politica volta allo sviluppo integrato dell’area alpina, ovvero di leggi in materia di montagna che perseguono un equilibrio tra economia e ambiente. L’Unione Europea, fin dal 1974, considera le Alpi unicamente come componenti delle unità amministrative regionali nelle quali sono ubicate. Tale considerazione è volta a non frammentare le partizioni territoriali e a creare uno spazio politico più esteso in Europa. L’area così delimitata raggiunge una popolazione di 70 milioni di abitanti e una superficie di 400.000 kmq61. Attraverso tale partizione Bätzing dimostra come una definizione oggettiva delle Alpi, libera da giudizi di valore, non sia possibile. Le idee associate alla catena alpina dimostrano come uno spazio naturale o un paesaggio vengano sempre percepiti in una prospettiva umana, culturalmente determinata. La materialità 59 Bätzing W., “Le Alpi : una regione unica al centro dell'Europa”, Bollati Boringhieri, Torino, 2005. Si tratta di una risoluzione in 89 punti che voleva essere un trattato internazionale sulla salvaguardia del territorio alpino. La Convenzione è stata redatta alla prima Conferenza delle Alpi (Berchtesgaden 1989), ma fu solo in occasione della seconda Conferenza (Salisburgo 1991) che il testo fu sottoscritto da Austria, Francia, Italia, Liechtenstein, Svizzera, Germania e Comunità europea. La Slovenia si aggiunse appena venne riconosciuta la nuova repubblica nel 1993. La Convenzione della Alpi è entrata in vigore nel 1995 e in quattro anni è stata ratificata da tutti gli Stati alpini, ultima l’Italia, nel 1999. 61 Bätzing W., (op. cit.). 60 35 tangibile della montagna non irrigidisce i confini che la definiscono, né contribuisce a rendere oggettive le concezioni che possediamo di essa. Nonostante le difficoltà di definizione, le Alpi, sembrano interagire in modo particolare con le istituzioni museali presenti non soltanto in val Varaita, ma anche, più in generale, in Provincia di Cuneo e in Piemonte. Una stima condotta nel 2007 da Piercarlo Grimaldi rivela la presenza sul territorio piemontese di 328 musei etnografici62. Se si osserva l’ubicazione di tali istituzioni secondo un’ottica che ne tenga in considerazione l’altitudine, è possibile individuare 200 musei nei Comuni compresi tra 0 e 500 metri, una cifra pari al 61% del totale. Tra 500 e 800 metri hanno istituito la loro sede 70 musei, corrispondenti al 21%; oltre gli 800 metri sono presenti 58 musei, ovvero il 18% del totale. Analizzando la disposizione dei Comuni piemontesi per altitudine si osserva l’ubicazione di 107 Municipalità oltre gli 800 metri sul livello del mare. Le cifre dimostrano quindi come, in montagna, un Comune su due si avvalga della presenza, sul proprio territorio, di un museo etnografico63. Tale tendenza è dimostrata anche da uno studio successivo condotto nel 2009 da Paolo Sibilla e Valentina Porcellana. I due antropologi riscontravano la presenza di 103 musei etnografici nell’arco alpino piemontese, 39 dei quali ubicati in Provincia di Cuneo64. In relazione a questi ultimi, se si considera la loro disposizione geografica, è possibile osservare come essi siano situati, salvo rare eccezioni, sopra i 700 metri di altitudine. All’interno di questa fascia altimetrica, in Provincia di Cuneo, sono presenti 58 Comuni, il 67% dei quali possiede, quindi, un museo etnografico sul proprio territorio. Le stime fin qui delineate parrebbero dimostrare come, in Piemonte, tale tipo di istituzione museale sia maggiormente frequente in territorio alpino che altrove. Se, come detto precedentemente, i concetti associati alla montagna sono molteplici e variabili, quando sono partita per il campo avevo anch’io delle “idee” riguardo il mio territorio di ricerca. Nella “cassetta degli attrezzi” da antropologa avevo letture, come Nuto Revelli65 e Werner Bätzing, che illustrano la drammatica perdita di popolazione e le problematiche di tipo economico presenti nell’arco alpino 62 Porporato D., Grimaldi P., “Feste e musei : patrimoni, tecnologie, archivi etnoantropologici”, Omega, Torino, 2007. 63 Osservazione posta in essere da Davide Porporato in occasione del convegno “Buone pratiche di comunità. I musei etnografici: presidi di sostenibilità locale”, tenutosi all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo in data 14/12/2010. 64 Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena. Le minoranze linguistiche e i loro musei in Piemonte e Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009. 65 Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002. 36 cuneese. Queste difficoltà mi spingevano a pensare che il territorio fosse anche privo di creatività culturale ma la ricerca di campo ha smentito questa conclusione affrettata. Nel suo libro “Le Alpi”, Bätzing traccia un quadro storico dei mutamenti intercorsi in ambito economico e demografico non solo nella montagna cuneese, ma anche in tutto l’arco alpino. Fattori importanti in tal senso cominciarono a manifestarsi nella seconda metà dell’Ottocento con l’avvento della rivoluzione industriale. La costruzione delle reti ferroviarie, a partire dal 1854, e la creazione di insediamenti industriali, dal 1890, ad esempio, causarono cambiamenti consistenti. In breve tempo alcuni settori economici di tipo tradizionale, come l’artigianato, l’attività estrattiva e il commercio con animali da soma entrarono in crisi, mentre contemporaneamente si indebolì anche l’agricoltura. Tale processo fu accompagnato da una forte migrazione che, a differenza di quella stagionale endemica e proficua per l’economia locale, assunse carattere definitivo e causò spopolamento. Tra il 1870 e il 1950, infatti, circa il 60% dei Comuni alpini subirono un forte crollo demografico. Il restante 40%, al contrario, crebbe grazie ai profitti resi dall’industrializzazione. Le città alpine poste sulle nuove direttrici ferroviarie, infatti, erano ben collegate ai centri industriali europei e il loro tessuto economico ne fu avvantaggiato. Il periodo compreso tra il 1950 e il 1980 investì nuovamente la Alpi provocando mutamenti notevoli. In molti Comuni nacque il turismo di massa mentre l’industrializzazione venne decentrata in numerose vallate di bassa quota e ben accessibili, soprattutto ai margini della catena alpina. Le città montane poste lungo le direttrici di transito vennero ulteriormente rivalutate dal punto di vista economico e la loro accessibilità migliorò grazie all’ampliamento della rete viaria. Quelle regioni alpine che non vennero rivalutate né dal turismo né dal decentramento industriale subirono un’ulteriore perdita demografica. Tra esse spiccano le Alpi italiane liguri, piemontesi e carniche, le Alpi meridionali francesi e gran parte del Ticino e dei Grigioni. A partire dal 1980 in tutta Europa si è assistito ad una terzializzazione del sistema economico, si tratta di un fenomeno che ha investito anche le Alpi mutandone ulteriormente l’assetto. Gli insediamenti industriali montani sono entrati in forte crisi e sono costretti a chiudere o a licenziare un gran numero di personale. 37 Parallelamente anche il turismo ha perso la sua dinamica, i centri medio- piccoli si trovano in difficoltà economica mentre le stazioni più grandi riescono a imporsi sul mercato. L’attività turistica non è più un fenomeno ramificato ma ha assunto un carattere nastriforme o puntiforme. Le città alpine poste lungo le direttrici di transito sono diventate ancora più accessibili grazie alle autostrade ed è aumentata la loro interdipendenza con i centri economici europei. Contemporaneamente si è assiste ad un fenomeno nuovo: l’hinterland delle città europee più grandi è aumentato in modo talmente notevole da comprendere al suo interno anche alcune zone di montagna. È quanto avviene nei dintorni di Vienna, Salisburgo, Monaco, Nizza, Ginevra, Zurigo, Torino e Milano. Le Alpi meridionali francesi, che per oltre un secolo furono caratterizzate da un forte spopolamento perdono questo loro primato proprio a causa di un’urbanizzazione della Costa Azzurra che si estende fino in territorio alpino. Attualmente le aree maggiormente interessate da fenomeni di perdita di popolazione sono le Alpi Cozie meridionali (Valli Varaita, Maira, Grana e Stura) e le Alpi liguri 66. La val Varaita è quindi un chiaro esempio di questa tendenza: tutti i Comuni ubicati sopra i 500 metri di altitudine si sono resi protagonisti di una perdita di popolazione di portata drammatica. Dal 1861 al 2009 Frassino, Pontechianale, Bellino e Melle hanno avuto un decremento demografico pari al 85%, Casteldelfino all’88%, Valmala e Isasca al 91%, Brossasco e Venasca al 67%. Le Municipalità elencate continuano ad essere investite dalla diminuzione di cittadini con l’eccezione di Valmala e Venasca che dal 2001 al 2009 sono cresciute rispettivamente del 26,8% e dello 0,8%. Nonostante la decrescita, i Comuni presenti sotto i 650 metri hanno comunque più di mille abitanti, ovvero possiedono il numero minimo di residenti che permette il mantenimento dei servizi essenziali. Dal 1861 al 2001 le Municipalità della val Varaita ubicate sotto i 500 metri di altitudine, escluso Rossana, hanno visto un incremento demografico importante: Piasco del 57%, Costigliole del 24% e Verzuolo del 34% 67. Un’altra lettura che aveva influenzato l’“idea” dell’arco alpino cuneese che mi ero costruita è stata la pubblicazione che attesta i risultati del progetto DIAMONT. Quest’ultimo ha avuto luogo dal 2005 al 2008 ed è stato lanciato nell’ambito del programma europeo “Spazio Alpino”. Il progetto, finanziato dall’Unione Europea 66 67 Bätzing W., “Le Alpi tra urbanizzazione e spopolamento”, in L’Alpe n.1, inverno 1999-2000. Dati statistici ripresi da www.istat.it 38 ma coordinato e amministrato nel suo complesso dall’Istituto di Geografia dell’Università di Innsbruck, era teso a rafforzare la coesione economica e sociale all’interno dell’Unione stessa. I geografi austriaci tracciano un quadro del bilancio demografico alpino dal quale emerge come la catena montuosa presenti caratteristiche diverse a seconda delle aree prese in considerazione. Ad esempio, alcune regioni beneficiano del fenomeno migratorio mentre altre ne sono influenzate negativamente. Le Alpi bavaresi settentrionali e le relative colline pedemontane, così come l’intera regione alpina francese, ad eccezione dell’alta Savoia, si contraddistinguono per la presenza di Comuni che registrano saldi migratori positivi. Al contrario, la maggioranza delle Municipalità ubicate nelle Alpi svizzere, slovene e austriache registra saldi negativi. La parte meridionale della regione alpina, inoltre, rileva tassi molto bassi di dipendenza giovanile, cui fanno da contraltare valori elevati di dipendenza senile. Si tratta di dati che esprimono la vitalità socio economica futura: meno bambini e adolescenti oggi significano meno popolazione attiva, meno contribuenti e meno genitori domani. L’area alpina così delimitata si caratterizza per essere quella economicamente maggiormente svantaggiata. Si può quindi affermare che la parte meridionale delle Alpi soffra di un circolo vizioso articolato nei seguenti elementi: meno adolescenti, meno popolazione attiva e consumatori, attrattiva ridotta e infine esodo aziendale e chiusura dei negozi, perdita dei posti di lavoro ed emigrazione dei giovani. L’arco alpino piemontese presenta un saldo migratorio composito, variegato e variabile a seconda del territorio. Altrettanto non si può dire per quanto riguarda il tasso di dipendenza giovanile e senile. In relazione al primo rapporto, i Comuni ubicati nella montagna cuneese si attestano quasi tutti su quote inferiori al 19,6%. Solo intorno al capoluogo si registra qualche eccezione che raggiunge quote comprese tra il 19,6% e il 27,4%. Un fenomeno analogo si registra in riferimento al tasso di dipendenza senile: nelle Municipalità indicate, escluse quelle a fondovalle o vicine a Cuneo, i valori sono quasi ovunque superiori al 35%, laddove variano non scendono mai oltre al 20%68. 68 Tappeiner U., Borsdorf A., Tasser E. (a cura di), “Atlante delle Alpi”, Spektrum akademischer Verlag, Heidelberg, 2008. 39 In relazione al bilancio demografico, la val Varaita presenta un quadro composito ma in linea con le tendenze della Provincia. Se si osservano i dati dal 2002 al 2009, è possibile riscontrare come la crescita naturale sia ovunque negativa ad eccezione dei Comuni di fondovalle: Rossana e Costigliole hanno un andamento altalenante mentre Verzuolo è in crescita costante. Il medesimo trend è rilevabile in relazione al saldo migratorio: nelle Municipalità dell’alta valle è negativo, positivo invece nella zona che si affaccia sulla pianura. Nella fascia altimetrica intermedia, il quadro è maggiormente complesso: Frassino, Melle, Brossasco e Venasca tendono ad oscillare, Isasca presenta valori negativi, cifre positive invece a Valmala. Il trend di crescita totale non presenta sorprese in quanto ricalca l’andamento rilevato per il saldo migratorio. L’indice di vecchiaia è molto alto in tutta la val Varaita anche se decresce sensibilmente al diminuire dell’altitudine 69. Secondo il progetto DIAMONT, la catena alpina facente parte della Provincia di Cuneo rientrerebbe, in misura preponderante, nelle “zone rurali dimenticate”, descritte dai geografi austriaci come un territorio caratterizzato da un evidente invecchiamento della popolazione e da un declino particolarmente marcato dell’agricoltura. Le ragioni di questa tendenza vanno ricercate nella scarsa rete di infrastrutture di trasporto presenti nell’area. Si tratta di veri e propri territori inattivi e a rischio di spopolamento70. Prima di partire per il campo avevo immaginato che le difficoltà di natura economica e demografica riscontrabili nella montagna cuneese avessero prodotto una parallela perdita di creatività culturale. Come già detto, la ricerca ha smentito quella che era una conclusione affrettata: ho potuto constatare, invece, l’esistenza di numerose associazioni e lo sviluppo di consistenti progettualità. A partire dagli anni Sessanta al presente, infatti, i gruppi associazionistici che operano sul territorio hanno ripristinato antichi sentieri; ristrutturato piloni votivi, chiese e meridiane; riproposto la lavorazione del merletto al tombolo; curato pubblicazioni, dvd e giornali. Anche le feste e la musica godono di particolare attenzione: nel corso degli anni le associazioni hanno ridato vita a eventi che non venivano più realizzati, ne hanno proposti di nuovi e hanno incentivato quelli già presenti sul territorio. In questo senso è celebre il caso delle Baìo: recentemente, infatti, sono state riproposte quelle di Frassino, Bellino e della borgata Villar di Sampeyre. 69 70 Dati statistici ripresi da www.istat.it Tappeiner U., Borsdorf A., Tasser E. (op. cit.). 40 Molto interessante, a mio modo di vedere, è anche il caso di “Lu ciantu viol”, una festa che, nonostante la sua giovane età, viene percepita come “propria”, come ancorata al territorio. La musica occitana e popolare è proposta da numerosi suonatori e da alcuni gruppi, tra cui gli Ubac e i Charé Moulâ. In val Varaita le danze legate a questo tipo di musica sono molto diffuse anche tra i ragazzi ed è quindi piuttosto frequente che l’animazione di serate proposte dalle associazioni o dai Comuni si concretizzi in un “ballo”. I giovani, in particolare, sembrano essere attenti alla cultura locale, come si evince dalla loro presenza in alcuni gruppi associazionistici attivi sul territorio. Nell’arco temporale preso in considerazione, tuttavia, è possibile riscontrare delle differenze nelle tematiche affrontate. Gli anni Sessanta e Settanta, infatti, si fecero portatori del movimento di scoperta, tutela e valorizzazione della lingua occitana. Quest’ultima, chiamata anche lingua d’oc, deve il suo nome alla particella affermativa oc, che deriva dal latino hoc est. Tale criterio di individuazione dell’idioma deriva da Dante Alighieri il quale distingueva in questo modo la parlata occitana da quella d’oil, dalla quale deriva il francese moderno, e dall’italiano. L’occitano, detto “a nosto modo” in val Varaita, è quindi una lingua neolatina diffusa su un territorio piuttosto vasto. Questo comprende la Francia meridionale, in particolare la porzione di Stato racchiusa da una linea che congiunge Bordeaux a Briançon e passa sensibilmente sopra Limoges, Clermont-Ferrand e Valence, nonché la val d’Aran in Spagna e le valli Chisone, Germanasca, Pellice, Po, Bronda, Infernotto, Varaita, Maira, Grana, Stura, Gesso, Vermenagna, Corsaglia, le valli della Bisalta e l’alta valle di Susa in Italia. In territorio italiano, la questione della lingua e della cultura occitana ricoprì un ruolo importante a partire dagli anni Sessanta 71. Nel 1961 Gustavo Buratti fondò l’Escolo du Po, un’associazione nata proprio con lo scopo di valorizzare l’idioma locale. Tra i ragazzi del gruppo vi erano persone di spicco per il panorama culturale locale, come Giampiero Boschero, Sergio Ottonelli, Giuliano GascaQueirazza, Corrado Grassi, Arturo Genre, Antonio Bodrero e Sergio Arneodo. Quest’ultimo fondò un giornale dal titolo “Coumboscuro. Periodico della minoranza provenzale in Italia” che diffuse le idee maturate dall’Escolo du Po. Il clima del ’68 71 Gli elementi contenuti in questa parte del paragrafo sono stati dedotti da alcune interviste condotte a Giampiero Boschero in data 15/06/2011, a Fredo Valla il 9/06/2011 e a Silvana Ottonelli in data 19/04/2011. 41 influenzò anche le valli occitane italiane e i giovani facenti parte di questo gruppo associativo decisero di estendere la loro sfera di interessi ai problemi sociali, economici e politici presenti in tale territorio. In val Varaita alcuni dei componenti dell’Escolo du Po fondarono il giornale “Lou Soulestrelh” insieme a Gustavo Malan e Osvaldo Coisson, i quali nel 1943 avevano partecipato alla stesura della Carta di Chivasso72. Per poter realizzare la pubblicazione, il gruppo di giovani crea un’associazione omonima la cui unica funzione era quella di mantenere la proprietà editoriale della rivista. All’inizio degli anni Settanta François Fontan, fondatore e ideologo del partito nazionalista occitano, si rifugiò in val Varaita come esule politico. Le sue idee si diffusero rapidamente e in loco sorse il Movimento Autonomista Occitano, volto a fare dell’Occitania uno Stato indipendente. Il pensiero di Fontan creò tensioni all’interno dell’Escolo du Po, in quanto non tutti i componenti aderirono alla corrente politica proposta dal francese. Riunitasi nel 1972 a Coumboscuro, l’associazione istituì due commissioni: la prima per stabilire una norma grafica con cui scrivere la lingua, l’altra incarica di revisionare lo statuto interno. La prima commissione, a seguito di un lavoro imponente, creò la cosiddetta grafia concordata: di tipo fonematico, essa tiene conto dei suoni aventi carattere distintivo e si basa su un sistema di segni in grado di trascrivere tutte le parlate occitane. Diversa è invece la grafia classica o alibertina, creata nel 1935 da Louis Alibert. Questa norma propone l’unità grafica della lingua basandosi sull’etimologia latina. La seconda commissione istituita dall’Escolo du Po fu invece boicottata dai membri dell’associazione contrari al mutamento. Questi problemi interni portarono ad uno scioglimento del gruppo che, di fatto, non esiste più. Le idee di Fontan crearono dei dissidi anche all’interno dell’associazione che gestiva il giornale “Lou Soulestrelh” tanto che alcuni suoi membri, i quali aderivano al MAO, realizzarono un’altra pubblicazione dal titolo “Ousitanio Vivo”, edita ancora adesso. Questi disaccordi causarono la fine del periodico “Lou Soulestrelh”, l’associazione omonima invece si strutturò effettivamente come tale ed è tuttora attiva sul territorio. Tra i progetti realizzati da questo gruppo emerge “Lou temp nouvel”, un periodico edito dal 1975. Anche il gruppo di giovani facenti 72 La Carta di Chivasso è una dichiarazione dei diritti delle popolazioni alpine che postulava la realizzazione di un sistema politico federale e repubblicano su base regionale e cantonale. 42 parte del MAO si organizzarono in associazioni culturali e pubblicarono alcune riviste. Oltre al già citato “Ousitanio Vivo”, anche il giornale “Valados Usitanos” emerge da questo contesto, il quadrimestrale, infatti, è stato creato da Sergio Ottonelli e Giampaolo Giordana nel 1978. Nello stesso periodo Ines Cavalcanti ha formato la “Chambra d’òc”, un’associazione nella quale l’attenzione alle dinamiche economiche delle valli è sempre stata importante. Il suo obiettivo generale è infatti quello di “elaborare e realizzare progetti trasversali alle Valli, con una visione complessiva di questo territorio in modo da coniugare la necessità di riappropriazione linguistica-culturale e l'internazionalità del popolo occitano alla sua rinascita economica”73. Le associazioni e le pubblicazioni citate sono tuttora presenti nonostante la fine del Movimento Autonomista Occitano. Questa corrente politica perse la sua dinamicità e, di fatto, scomparve negli anni Novanta, periodo in cui anche la tutela e valorizzazione del patrimonio culturale locale seguì forme e direzioni diverse. La breve panoramica che ho tracciato non pretende di essere un quadro esaustivo delle dinamiche culturali che si sono sviluppate nella seconda metà del Novecento, era mia intenzione, invece, sottolineare la creatività e la dinamicità del territorio. Nell’arco temporale considerato, l’interesse dei locali nei confronti del proprio patrimonio è sempre stato considerevole anche se mi pare che sia stato indirizzato su fenomeni diversi. Se negli anni Sessanta-Settanta la lingua occitana era il fulcro delle politiche culturali del territorio, nel presente esse sembrano comprendere al loro interno anche altri fenomeni, tra cui la costruzione dei musei etnografici. 73 www.chambradoc.it 43 CAPITOLO 2 PRATICHE DI PATRIMONIO NELLA CAPITALE DELLA CASTELLATA 2.1 LU CIASTELDELFIN Quella mattina di agosto il paese era inondato di sole e del vociare allegro dei partecipanti alla Sagra del miele e delle erbe curative. La via centrale del paese, l’antica strada che conduceva al Colle dell’Agnello, era piena di bancarelle che vendevano prodotti alimentari e artigianato locale. “Il capoluogo di Casteldelfino giace alle falde del versante esposto a mezzodì sulla sponda sinistra ed in prospetto dell’angolo di unione di due torrentelli, che scendendo dalle vallette superiori di Pontechianale e di Bellino costituiscono il Varaita che dà il nome alla Vallea. La sua altezza dal livello del mare è di metri 1310”74. La vilo de Ciasteldelfin, ovvero la borgata centrale, il capoluogo, di Casteldelfino, ha una struttura allungata e monoassiale appunto si che sviluppa seguendo lo Chemin Royal, la strada che conduceva al valico di confine prima venisse costruita che la circonvallazione, realizzata tra la fine Casteldelfino di Marco Bailone. Opera concessa dall’artista. degli anni Cinquanta e gli anni Settanta75. Come riporta Claudio Allais, tale particolare conformazione era già presente nell’Ottocento76 ed è rimasta inalterata fino ai giorni nostri. 74 Allais C., “La Castellata. Storia dell’alta valle di Varaita”, l’Artistica, Savigliano, 1985, pp. 3. Dematteis L., “Case contadine nelle Valli Occitane in Italia”, Priuli & Verlucca, Torino, 2006. 76 Allais C., (op. cit.). 75 44 Casteldelfino si caratterizza per un modello di organizzazione territoriale che accentrava nel capoluogo funzioni e servizi. Anche il sistema di comunicazione è coerente con questo assetto perché rivela la preoccupazione di connettere le borgate alla Vilo a scapito dei collegamenti tra le singole frazioni, meno curati 77. Il cuore del paese è rappresentato dallo slargo dove lo Chemin Royal si divide in due tronconi, uno dei quali conduceva a Bellino, l’altro al confine. Il giorno della Sagra del miele, la “Truei”, una fontana dove l’acqua sgorga da tre bocche ricavate da un masso a forma di animale, forse un rospo, era nascosta alla vista dal continuo passaggio di curiosi. La fontana è il vero fulcro della piccola piazza anche perché il rilievo marmoreo che la sovrasta, raffigurante una Madonna affiancata dalle armi di Francia e del Delfinato, è datato 1504 78. Poco oltre la “Truei”, sulla strada che si snoda verso la montagna, si trova casa Ronchail. Si tratta di un piacevole esempio di architettura signorile cinquecentesca: molto bella è la loggia ad arcate pensili che arricchisce la facciata a valle, orientata nel senso della migliore esposizione solare. Le tre colonne in pietra del loggiato sono sovrastate da 79 capitelli nei quali ritornano le têtes coupées tipiche della valle . Nel 2005 è stato ristrutturato il seicentesco convento dei Cappuccini, anch’esso situato nel cuore della Vilo, per ospitare un centro di documentazione sul bosco dell’Alevé. Con i suoi 800 ettari di estensione, si tratta della foresta di pini cembri più estesa d’Europa e si snoda sul territorio di Casteldelfino, Sampeyre e Pontechianale. Conosciuto anche ai romani, il bosco dell’Alevé fu soggetto a protezione già a partire dal XIV secolo, il che spiega la presenza di alcuni esemplari che hanno più di quattrocento anni di età. Dal 1949 la cembreta è iscritta nel registro nazionale dei boschi da seme, un atto che permette all’Amministrazione Forestale di utilizzare i pinoli raccolti per ricreare realtà simili in altri parti d’Italia. La significativa biodiversità che caratterizza il suo habitat è stata riconosciuta a livello europeo e il bosco dell’Alevé, nel 2000, è stato dichiarato Sito di Interesse Comunitario80. Il centro di documentazione, realizzato a Casteldelfino e gestito dal Parco del Po, offre ai visitatori una piccola 77 Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados Usitanos, Bra, 1979. 78 Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009. 79 Ottonelli S., (op. cit.). 80 www.ghironda.com 45 ricostruzione dell’ecosistema della cembreta, un breve percorso dove è possibile osservare alcuni animali impagliati e la riproduzione di talune specie vegetali. Funzionale alla particolare struttura monoassiale di Casteldelfino è la presenza di un’unica parrocchia, caratteristica che fa del paese un caso unico tra i Comuni dell’alta valle Varaita81. In occasione della Sagra del miele e delle erbe curative ho avuto modo di prendere parte alla visita della parrocchiale condotta da Dino Murazzano. Dino, persona risorsa importante e membro dell’associazione “Jer à la Vilo” che gestisce il museo etnografico di Casteldelfino, illustrava le caratteristiche artistiche e architettoniche della chiesa dedicata a Santa Margherita nell’ambito del progetto Mistà. Quest’ultimo dura normalmente da metà luglio alla fine di agosto ed è organizzato dalla Comunità Montana Valli del Monviso e dai Comuni di Saluzzo, Barge, Busca, Costigliole, Sampeyre, Sanfront e Verzuolo. Nell’ambito del Festival Mistà è possibile assistere a concerti di musica jazz, classica e world music che normalmente vengono tenuti all’aperto di fronte ad edifici di particolare rilevanza storica ed architettonica. Il progetto, che è giunto alla sua decima edizione, è finalizzato anche alla valorizzazione degli edifici di culto e della gastronomia del territorio interessato82. Come ci ha illustrato Dino, la parrocchiale di Casteldelfino presenta un grande campanile seicentesco disegnato dall’architetto torinese Gian Giacomo Plantery 83 e caratterizzato da particolari doccioni angolari in pietra verde ornati di figure zoomorfe. Data la sua posizione a ridosso della strada provinciale, la torre campanaria si impone allo sguardo di quanti risalgono la valle e domina il paese. La pietra ollare presente nel campanile ritorna in facciata accompagnata dal marmo bianco, entrambi i materiali, infatti, sono stati utilizzati per realizzare il portale romanico. Quest’ultimo è attorniato da una serie di piccole colonne i cui capitelli sono decorati con le figure antropomorfe tipiche della valle accompagnate da motivi geometrici e zoomorfi. La chiesa si articola in quattro cappelle laterali e in un’unica navata centrale sormontata da una volta a botte. Anche i capitelli presenti all’interno dell’edificio di culto riprendono le decorazioni che ornano il portale. L’interno della chiesa si fregia di un ciclo di affreschi a opera del pittore 81 Ottonelli S., (op. cit.). www.festivalmista.it 83 Attivo, tra barocco e neoclassicismo, Gian Giacomo Plantery fu uno dei protagonisti del rinnovamento urbanistico ed edilizio di Torino. L’architetto divenne celebre per gli interni scenografici e le volte particolari (dette planteriane) che realizzò in alcuni palazzi aristocratici. Notevoli anche le chiese, tra cui quelle dell’Assunta e della Pietà a Savigliano. 82 46 buschese Tommaso Biasacci, i quali illustrano la vita di San Giovanni Battista. Nella seconda cappella di sinistra si trova un fronte battesimale risalente al Quattrocento ornato con i motivi araldici della Francia e del Delfinato a testimonianza del legame politico dell’alta valle 84. Casteldelfino, infatti, fu capitale della Castellata, un’area politico-amministrativa di cui facevano parte anche i Comuni di Bellino e Pontechianale. Questa zona, insieme alla val Chisone, al Queyras, a Oulx e Briançon, componeva gli Escartons, una confederazione alpina autonoma. Le comunità presenti in questa zona avevano comprato la loro indipendenza al Delfino Umberto II, una particolare situazione giuridica sancita con la Carta delle Libertà del 1343, nota anche come Grande Charte Briançonnaise. Si tratta di una sorta di costituzione che decretava l’affrancamento dalle servitù feudali, il diritto alla libertà individuale, alla proprietà privata e all’autogestione del territorio. Il termine Escartons, che deriva dal verbo escartonner, ovvero “dividere”, “ripartire” e indica nella sua radice le modalità di gestione della Federazione. Oneri e doveri di ogni genere erano spartiti, appunto, tra le singole comunità, le quali organizzavano anche un reciproco sostegno in caso di difficoltà. La gestione delle terre comunali e il mantenimento dell’ordine pubblico erano affidati ad alcune persone elette dal popolo sulla base delle loro riconosciute virtù morali. La Repubblica degli Escartons cessò di esistere con il trattato di Utrecht del 1713, la cui stipula pose fine alla Guerra di Successione Spagnola. Con la firma della pace, i Savoia acquisirono il diritto di governo su quella parte del territorio della Federazione che adesso fa parte dell’Italia 85. Il Parco del Po, grazie a un finanziamento della Regione Piemonte, ha realizzato nel 2007 un centro di documentazione relativo a questa particolare realtà politica del passato. L’“Espaci Escartons” è situato vicino alla parrocchiale e al suo interno è possibile visionare libri e video sulla lingua, la cultura, la natura, l’architettura e la storia della Castellata. Il centro è collegato telematicamente con altre realtà analoghe presenti a Oulx, Pragelato, Chateaux Queyras e Briançon, ovvero gli altri centri principali che componevano gli Escartons. Al Delfino Umberto II si deve anche la costruzione del castello presente sul territorio comunale. Di questa fortificazione non rimangono ormai che pochi ruderi recentemente messi in sicurezza per renderli visitabili. In passato la rocca era un 84 85 Rossi D., (op. cit.). Allais C., (op. cit.). 47 imponente edificio a tre piani, alto ventitré metri e circondato da un cortile quadrato recintato. Su uno sperone roccioso adiacente sorgeva la torre di vedetta collegata al castello mediante un ponte levatoio 86. Come riporta Claudio Allais, a questa fortificazione si deve probabilmente la denominazione attuale di Casteldelfino. L’agglomerato urbano era già noto nel X secolo con il Nome di Villa Sant’Eusebio ed era situato leggermente più a valle rispetto alla posizione attuale. Il paese fu interamente distrutto da un’alluvione del 1391 che risparmiò solo la chiesa omonima87. L’edificio di culto dedicato a Sant’Eusebio è attualmente visitabile e, come sostiene Sergio Ottonelli, si tratta dell’“unica architettura anteriore al XV secolo che la valle abbia integralmente conservato”88. La chiesa ha un alto campanile a vela triforato e un portale situato sul fianco sud-est in direzione dell’antico paese scomparso. Il portale, con arco a tutto sesto, è in tufo ed è sormontato da un architrave megalitico 89. All’interno della Chiesa l’associazione “Jer à la Vilo” ha allestito una mostra dal titolo “I Santi del Popolo” con il fine di illustrare l’iconografia dei santi diffusa in valle. A seguito dell’alluvione che distrusse Villa Sant’Eusebio, il paese prese il nome di Castrum Delphini ad indicare la fortificazione voluta da Umberto II. La presenza sul territorio di forza idraulica fu ben presto utilizzata dai casteldelfinesi per incrementare il tessuto economico dell’abitato. Come ricorda Ottonelli, già nel Settecento in loco era presente una struttura preindustriale all’interno della quale trovavano spazio tanto la lavorazione del legno e del ferro, quanto la produzione e commercializzazione dei panni di lana. A queste attività si accompagnava la gestione amministrativa del territorio 90, una “vocazione” di Casteldelfino che non si esaurisce con la fine della Repubblica degli Escartons ma continua anche nell’Ottocento. Il canonico Allais sottolinea la presenza nel capoluogo di “una sala comunale, d’un ufficio postale e telegrafico, d’una stazione dei R.R. carabinieri e d’una brigata di guardie forestali. […] La posta vi giunge una volta al giorno per mezzo di una vettura pubblica che presta il servizio da 86 Ottonelli S., (op. cit.). Allais C., (op. cit.) 88 Ottonelli S., (op. cit.), pp. 142. 89 Ibidem. 90 Ibidem. 87 48 Casteldelfino a Sampeyre, in corrispondenza di un’altra che da questo luogo lo estende al tramvia di Venasca” 91. Il tessuto economico del paese si è radicalmente modificato nel corso del tempo: sul territorio oggi vi sono soprattutto impiegati, operai, agricoltori e molti pensionati92. Anche la peculiare gestione amministrativa del territorio è venuta meno: Casteldelfino adesso svolge funzioni analoghe a qualsiasi altro Comune. Il paese, inoltre, si inserisce nell’andamento demografico negativo caratteristico delle Alpi occidentali. Dall’Ottocento a oggi Casteldelfino ha perso l’88% della popolazione e nel 2010 contava solo 180 abitanti. In anni più recenti la situazione non è certo migliorata: dal 2002 al 2009 il tasso di crescita totale ha registrato valori compresi tra lo zero e il meno 12% 93. Lo spopolamento drammatico che ha caratterizzato il paese diventa tangibile in inverno, quando gli scuri delle case sono chiusi e nelle stradine deserte non si incontra nessuno. D’estate, soprattutto in occasione di feste come la Sagra del miele, il volto malinconico di Casteldelfino lascia il posto alle allegre risate dei bambini e al vociare divertito dei villeggianti. Il paese, tuttavia, sembra non avere una forte vocazione turistica. La programmazione estiva si articola in cinque manifestazioni soltanto: “Casteldelfinando in fiore” a giugno, la festa patronale di Santa Margherita preceduta da una “notte bianca”, il concerto di Ferragosto e la già citata Sagra del miele e delle erbe curative. In occasione del Natale, invece, i casteldelfinesi si impegnano nella realizzazione di un presepe vivente. Limitato anche l’interesse dimostrato nei confronti degli sport invernali: sul territorio esiste una sola pista da fondo composta da due anelli di 5 e 12 km94. Indipendente dalla vocazione turistica del territorio, il Comune ha comunque realizzato numerose attività per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio locale, come si deduce dall’attenzione riservata, ad esempio, al bosco dell’Alevé, al museo etnografico e all’architettura locale. L’amministrazione precedente, il cui mandato era durato quasi trent’anni nonostante le interruzioni previste per legge, aveva affidato la gestione della programmazione culturale all’associazione “Jer à la Vilo”. Questa, 91 Allais C., (op. cit.), pp. 6. Dato desunto grazie alla collaborazione di Angela Sciapel, dipendente del Comune di Casteldelfino. 93 www.istat.it 94 www.comune.casteldelfino.cn.it 92 49 grazie ad un budget annuale di cinquemila euro fornito dal Comune, si occupava delle feste, dell’inaugurazione della pista da fondo e realizzava una serie di progetti. All’associazione “Jer à la Vilo” si deve, ad esempio, la messa in sicurezza dei ruderi del castello e la realizzazione di una serie di pannelli che ne illustrano la storia e le caratteristiche; il restauro del lavatoio comunale e della Chiesa di Sant’Eusebio, quest’ultimo realizzato nel 2004 grazie a fondi europei; la promozione di alcuni concerti estivi, la messa in opera e la valorizzazione della “via dei forni”95. Come tutti i paesi della valle, Casteldelfino ha almeno un forno per ogni sua borgata. Si tratta di strutture costruite in pietra locale con una portata media di circa 50 pani di due kg ciascuno. In passato i forni erano utilizzati una sola volta all’anno nei mesi di novembre e di dicembre, quando le famiglie della frazione provvedevano alla panificazione necessaria a soddisfare il fabbisogno annuale96. Il Comune aveva predisposto il recupero architettonico di queste strutture e nel 2007, in occasione della festa “Casteldelfinando in fiore”, il forno della borgata centrale è stato acceso per la prima volta dopo cento anni. Nel 2007 l’associazione “Jer à la Vilo” ha realizzato le visite guidate ai forni del paese i quali, per l’occasione, erano stati dotati anche di un piccolo rinfresco con prodotti locali. Questo gruppo di casteldelfinesi è stato anche “l’inventore” della Sagra del miele e delle erbe curative. Come mi ha detto Dino, la festa è stata creata «da noi trent’anni fa per cercare di fermare la gente un weekend in più»97 sul territorio e per arginare l’esodo che si verificava dopo ferragosto. L’amministrazione attuale, invece, ha una modalità di valorizzazione e tutela del patrimonio differente: essa ha estromesso l’associazione “Jer à la Vilo” dalla programmazione culturale e, in un primo tempo, anche dalla gestione del museo 98. La conduzione comunale ha portato ad alcuni cambiamenti: sono state introdotte sia la notte bianca che precede la festa patronale, sia il presepe vivente, il quale però non è realizzato con persone di Casteldelfino. È stata riproposta la festa incentrata sulla fioritura primaverile che, come le altre che si svolgono in estate, è animata da una banda musicale anch’essa non locale. Il Comune ha realizzato un progetto di ripristino di alcune mulattiere, antiche vie di comunicazione che univano borgate e paesi. Queste sono state denominate “viol d’i reire”, i “sentieri 95 Elemento tratto da un’intervista a Dino Murazzano condotta in data 27/04/2011. Elemento tratto da un’intervista a Luigi Dematteis del 27/04/2011. 97 Frase ripresa da un’intervista a Dino Murazzano condotta in data 27/04/2011 98 Riflessione tratta da un’intervista a Dino Murazzano del 27/04/2011. 96 50 degli antenati”, e sono al centro dell’attività escursionistica proposta dalla Municipalità. I percorsi individuati sono sei: la via medievale che raggiunge Elva, la via del bosco, la via delle borgate alte, la via che conduce all’antica miniera del ferro di Torrette, e la già citata via dei forni. Un altro progetto imponente che il Comune sta realizzando riguarda la costruzione della Piazza dei Santi del popolo. Questa è stata ricavata dallo spazio determinato dal primo tornante della circonvallazione ed è collegata al paese attraverso una strada che prenderà la medesima denominazione dello spiazzo. La Piazza dei Santi del popolo si compone di una serie di gradini di cemento, disposti a semicerchio come quelli di un teatro romano, che guardano un loggiato in legno sotto il quale saranno disposte una serie di statue bronzee di alcuni santi, tra i quali Padre Pio. Il progetto in questione è stato realizzato grazie a un finanziamento di sessantamila euro erogato dalla Regione Piemonte e finalizzato alla valorizzazione del patrimonio culturale locale. 2.2 IL MUSEO ETNOGRAFICO “JER À LA VILO” Il museo etnografico “Jer à la Vilo” si trova in località Casermette, una frazione separata dal borgo centrale di Casteldelfino dalla recente circonvallazione. Il museo, di proprietà del Comune, è ospitato all’interno di una caserma militare risalente al 194599. Non tutti gli spazi dell’edificio sono occupati dalle collezioni etnografiche, anzi una buona parte di esso è inutilizzata durante l’anno. Solo in occasione della Sagra del miele e delle erbe curative, la caserma, a forma di ferro di cavallo, viene interamente occupata. Quando ho avuto l’occasione di parteciparvi, si entrava a una delle estremità dell’edificio e, tra bancarelle di miele, dolci e formaggi, si accedeva direttamente al museo. Era un pomeriggio assolato e caldo e la manifestazione ebbe, a mio avviso, un ottimo successo di pubblico. Le strade del paese così come l’interno della caserma erano gremite di gente e anche il museo fu visitato da un numero consistente di persone. All’interno della struttura le collezioni etnografiche sono suddivise in quattro sale comunicanti, ognuna delle quali tratta un argomento diverso. Nel primo ambiente, davanti ad una riproduzione della facciata della chiesa di Santa Margherita, sono 99 Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state ricavate da alcune interviste condotte a Dino Murazzano in data 12/10/2009, 20/08/2010, 14/12/2010, 27/04/2011 e dal sito www.comune.casteldelfino.cn.it/11vie/vietradizioni.html 51 esposti alcuni abiti tradizionali, cuffie ornate di pizzo realizzato con il tombolo e i nastri utilizzati in contesto festivo. Questa sala ospita anche alcuni animali impagliati donati da un cacciatore del luogo. L’associazione “Jer à la Vilo” ha accettato questa donazione anche se non è strettamente inerente alle tematiche trattate perché il museo «è delle famiglie di Casteldelfino». Le collezioni etnografiche sono state realizzate grazie al contributo dei casteldelfinesi che hanno prestato i manufatti esposti. «Ci sono 18 persone che hanno prestato degli oggetti. Naturalmente il museo ha anche degli oggetti suoi, che sono stati donati, gli altri invece sono delle famiglie che in qualsiasi momento desiderino riaverli noi glieli restituiamo». La genesi del museo si riflette nell’allestimento, dove l’associazione ha cercato di esporre tutti i manufatti che sono stati messi a disposizione per incentivare il legame della popolazione locale con il museo. La seconda sala ricalca la precedente nello stile espositivo: in questo spazio è stata ricreata in scala la facciata di una grangia e, davanti ad essa, vi sono gli oggetti necessari al lavoro della terra, del legno e del miele. La grangia era un’abitazione temporanea, utilizzata durante l’estate e collocata a quote più elevate rispetto alla casa di residenza. In relazione a quest’ultima le grange sono di norma più piccole e rudimentali, dotate, tuttavia, di muri in pietra e di possibilità di alloggio per uomini e animali in locali separati. Questo tipo di dimore si possono trovare sul territorio sia in insediamenti singoli, sia a gruppi e sono solitamente circondate da terreni di proprietà adibiti a prati, pascoli o seminativi100. Gli oggetti esposti nel museo, a eccezione di pochissimi La seconda sala del Museo “Jer à la Vilo”. Foto dell’autrice. elementi, non sono contenuti all’interno delle vetrine. Tale caratteristica è una scelta allestitiva consapevole che lascia trasparire il carattere “artigianale” con cui 100 Dematteis L., (op. cit.). 52 è stata realizzata l’esposizione. Secondo Dino, il museo curato dall’associazione di cui è membro è «fatto col cuore, un museo non come se ne vedono molti in giro dove gli oggetti sono sistemati in teche, molto più sistemati». In fase di realizzazione dell’allestimento l’attenzione sembra essere stata maggiormente rivolta al pubblico: «le famiglie di Casteldelfino, quando vengono a visitarlo, specialmente nel periodo di festa, ricordano i loro antenati e questo a noi fa piacere». Il desiderio di trasmettere una memoria comune emerge forse soprattutto dall’esposizione realizzata nella sala successiva. Qui, sul pavimento, sono messi in mostra diversi manufatti utilizzati nella lavorazione della segale, mentre alle pareti sono appese una serie di foto antiche che ritraggono la popolazione di Casteldelfino. Alcune immagini raffigurano uomini e donne nell’atto di lavorare la terra, mentre si dedicano ad attività artigianali o in occasioni festive; altre ne fanno invece il ritratto, come quello lasciato dai migranti quando partivano. Il lavoro di raccolta di foto significative per la memoria storica di Casteldelfino è stata la prima attività svolta dall’associazione “Jer à la Vilo” nell’ambito della progettazione dell’omonimo museo. Questo nacque nel 1995, mentre l’associazione si cosituì concretamente come tale il 12 novembre 1994 anche se il gruppo di cinque amici che la compongono era attivo nella valorizzazione del patrimonio culturale locale già dal 1993. Il loro interesse si è concretizzato nella realizzazione di alcuni progetti importanti. Insieme al Comune e alla Parrocchia, l’associazione “Jer à la Vilo” ha curato il restauro della cappella di S. Bernardo, di una meridiana del XIX secolo, della facciata della Confraternita dei Benedettini, dell’antico lavatoio comunale e della chiesa di S. Eusebio. Parallelamente il gruppo di casteldelfinesi ha creato le collezioni etnografiche del museo e ne ha realizzato gli allestimenti. In passato come oggi è l’associazione “Jer à la Vilo” che gestisce la struttura e ne cura le esposizioni. Nel 1999 il museo di Casteldelfino ha realizzato una mostra fotografica sulle meridiane presenti sul territorio comunale mentre l’anno successivo l’esposizione temporanea ha interessato i costumi femminili tipici dell’alta valle Varaita. Nel 2001 le sale del museo etnografico hanno ospitato una rassegna di lavori al tombolo e una mostra fotografica sui piloni votivi. Sullo stesso tema verte anche il cortometraggio dal titolo “L’oratori retroubà” curato dall’associazione “Jer à la Vilo” e realizzato da Bruno Sabbatini nel 2009. Il video narra la storia di un giovane originario di Casteldelfino cui un’anziana 53 parente lascia una cospicua eredità a condizione che restauri il pilone di famiglia. I lavori di ristrutturazione saranno l’occasione per il ragazzo di riscoprire le proprie radici e la propria storia. I piloni sono una “testimonianza di devozione” molto diffusa in val Varaita. A Casteldelfino, Bellino e Pontechianale queste strutture sono numerose ma non raggiungono la frequenza osservabile, ad esempio, a Sampeyre e Melle. Si tratta di un fenomeno che può essere spiegato considerando le vicende religiose della Castellata, caratterizzata, fino ai primi del Settecento, da una forte presenza del culto riformato. La struttura del pilone è piuttosto semplice e si è mantenuta costante nel corso del tempo: di altezza variabile esso possiede un tettuccio in lose a due spioventi che protegge dalle intemperie la piccola costruzione in pietra, sovente livellata con dello stucco. Sul lato che guarda verso la strada è ricavata la nicchia che ospita le immagini del Santo cui è dedicato il pilone e che in molti casi è stata affrescata da pittori itineranti 101. Queste strutture possono essere suddivise in cinque categorie: il pilone votivo, realizzato per mantenere un voto fatto o in segno di ringraziamento; il pilone rogazionale, eretto allo scopo di propiziare il buon esito della semina e del raccolto; il pilone processionale, tappa di una processione; il pilone crocevia, situato nel punto di intersezione delle strade; infine il pilone funebre, costruito sul percorso del corteo che trasportava la salma dalla chiesa al Campo Santo102. L’associazione “Jer à la Vilo” ha proiettato il film “L’oratori retroubà” nelle frazioni di Casteldelfino ma anche a Piasco e in valla Maira. Al gruppo di amici, infatti, piace lavorare in sinergia con le altre realtà presenti sul territorio: «con il progetto Mistà siamo degli operatori culturali. Poi collaboriamo anche con il Parco del Po all’apertura del diorama allestito al centro del paese». L’attenzione espressa dall’associazione nei confronti della religiosità popolare emerge anche da un’altra iniziativa condotta dal gruppo di amici. Nel 2006 essi hanno curato un’indagine sui santi che erano oggetto di devozione nel territorio della Castellata. La ricerca si è concentrata in particolare sui reperti storicoartistici, ovvero sull’iconografia espressa dai piloni e dagli affreschi. L’analisi condotta ha avuto come esito sia una pubblicazione, curata da Isabel Ottonelli con 101 Ottonelli I. (a cura di), “I Santi. Testimonianze di devozione in alta valle Varaita”, Associazione culturale Ier a la Vilo, Casteldelfino, 2008. 102 Da “L’oratori retroubà” di Bruno Sabbatini. 54 la collaborazione di Sergio Ottonelli e Giovanni Bernard, sia una mostra. Questa è stata allestita nei locali della piccola Chiesa di S. Eusebio, sottoposta a restauro nel 2004. L’edificio di culto ha ospitato anche una conferenza di due giorni sempre sul tema dei Santi oggetto di venerazione in valle, un evento volto ad approfondire le ricerche condotte fino a quel momento. Nel 2006 l’associazione “Jer à la Vilo” ha realizzato anche un’esposizione sugli animali evocati in contesti rituali, di festa, come ad esempio l’orso di segale. La mostra era stata arricchita da un piccolo convegno di esperti su questa tematica, al quale era stato invitato anche Piercarlo Grimaldi. Nelle esposizioni del museo etnografico sono presenti dei pannelli che illustrano la storia della Castellata e degli Escartons, un argomento che è stato trattato anche nell’altra pubblicazione e nell’altro video realizzati dell’associazione. Il libro, dal titolo “Il castello ritrovato”, narra la storia della costruzione di questa fortezza ed è stato curato anch’esso da Isabel Ottonelli. “Escartons. Terra di libertà”, creato da Bruno Sabbatini nel 2004, si concentra, invece, sulle vicende che portarono alla formazione di questa confederazione di territori. La quarta sala del museo ospita una serie di mobili antichi, corredati con diversi attrezzi da cucina. Sul pavimento, inoltre, è possibile osservare il quadrante, ancora funzionante, dell’orologio della chiesa di Bertines, frazione di Casteldelfino. Gli oggetti del museo sono stati tutti inventariati e fotografati con una duplice metodologia. L’associazione “Jer à la Vilo”, infatti, possiede sia un semplice quaderno, sul quale sono stati annotati i manufatti e il nome dei loro proprietari, sia un archivio informatizzato, dove all’elenco dei beni si accompagna anche una loro foto. In occasione della Sagra del miele e delle erbe curative il museo era veramente affollato. Gruppi di turisti, sacchetti di acquisti alla mano, si soffermavano a guardare gli oggetti e le fotografie esposte scambiandosi considerazioni sul modo di vivere “di una volta”. Secondo l’opinione di Dino, nel resto dell’estate e dell’anno, «potranno transitare duecento persone», una cifra attendibile ma che non è confrontabile con dei registri. Il museo, infatti, è molto frequentato da scuole e gruppi: nell’inverno 2010-2011, ad esempio, è stato visitato da tre scolaresche e da altrettante comitive, quest’ultime provenienti da Nizza, Roma e dalla Germania. I giorni di apertura, invece, sembrano essersi ridotti nel corso del tempo. Come segnalato dal sito internet del Comune di Casteldelfino, dove la struttura ha un 55 pagina dedicata, il museo dovrebbe essere visitabile tutti i giorni ad agosto, su prenotazione nel resto dell’estate e nella stagione fredda. In realtà «durante l’anno prevalentemente siamo aperti su richiesta e poi nel mese di agosto, se riusciamo, un paio di volte alla settimana, nel fine settimana». Se, come è evidente dai numerosi progetti realizzati, non manca la buona volontà dell’associazione, i problemi si creano in relazione al reperimento di fondi per gestire la struttura. Il museo si basa unicamente sul volontariato del gruppo mentre sono scarsi i contributi ricevuti dalle amministrazioni pubbliche. Decisamente risicata è anche la partecipazione del Comune che talvolta sembra avere un atteggiamento quasi conflittuale nei confronti dell’associazione “Jer à la Vilo”, come si esplica dal tentativo di estrometterla dalla gestione del museo. La realtà etnografica sembra attraversare un periodo di “stasi” causato anche dal recente progetto di spostamento delle collezioni. La caserma nel quale è attualmente ubicata si trasformerà in un polo sportivo, come da progetto dell’ultima Amministrazione comunale. Questa però si impegna e sistemare le collezioni in «un’altra struttura al centro del paese, vicino alla parrocchiale, che come logistica forse è meglio ma come sistemazione noi dovremmo stravolgere tutto il nostro sistema che abbiamo creato in questi anni con il museo. I locali non saranno più come questi, molti oggetti non ci saranno più, bisognerà poi prendere decisioni in merito a sistemare diversamente gli oggetti». La preoccupazione dell’associazione sembra essere quella di preservare l’antico allestimento perché in esso era possibile osservare tutti i manufatti prestati dai casteldelfinesi. Questa metodologia di esposizione è percepita come un fattore importante per creare, incrementare e mantenere il legame del paese con la struttura. Solo accettando e mettendo in mostra tutti gli oggetti donati dalla popolazione il museo può considerarsi integrato nel territorio ed essere «delle famiglie di Casteldelfino». 2.3 POLITICHE DELLA MEMORIA Gli oggetti esposti nel museo etnografico “Jer à la Vilo” di Casteldelfino forniscono uno spaccato della vita contadina locale. Il tempo storico documentato è quello della “tradizione” e come tale non è precisamente collocato da un punto di vista cronologico. Se la tradizione può essere intesa come una rappresentazione selettiva del passato, orientata verso il futuro e che risponde alle esigenze del 56 presente103, le modalità con cui avviene tale rappresentazione rimangono celate. Nel museo di Casteldelfino non c’è quindi l’intento di documentare un’epoca storica precisa, anche se una datazione dei manufatti in mostra permette di collocarli quasi tutti tra la seconda metà dell’Ottocento e la fine della Seconda Guerra Mondiale. A questo gruppo più nutrito di oggetti si aggiunge qualche eccezione risalente al Settecento. Finalità analoghe si riscontrano anche nelle altre realtà etnografiche presenti in valle Varaita. Se alcuni musei si concentrano su una sola tematica, la temporalità cui si riferiscono è sempre quella della tradizione, del tempo degli antenati. L’obiettivo delle esposizioni sembra essere quello di veicolare la memoria del paese, di trasmettere il ricordo di un modo di vivere il territorio che era proprio degli avi. Come mi diceva Fabrizio Dovo in relazione al Museo etnografico di Sampeyre: «noi l’abbiamo sempre visto come un momento per raccogliere e conservare la memoria, una casa comune del paese. È comunque un posto dove c’è un pezzo di memoria condivisa anche per chi ha avuto esperienze migratorie»104. Interessante il pensiero di Enrica Paseri: «Forse la gente quando viene su di qua cerca un po’ le origini, non so, forse perché si vedono ancora molte cose antiche, […] si sente ancora questa sensazione di culla delle origini e di senso delle radici. Penso che nei posti dove si legge di più la storia forse la vai a cercare di più»105. Nonostante le differenze riscontrate in relazione agli argomenti trattati, le collezioni etnografiche sono state assemblate in modo simile. Ad eccezione del Museo del Costume di Chianale, che ha comprato la grande maggioranza degli oggetti all’incanto e che solo di recente comincia ad avere delle donazioni, tutti gli altri hanno coinvolto la popolazione locale. Ad esempio Celeste ed Enrica, i curatori del Museo del Mobile di Pontechianale, allestiscono ogni nuova mostra chiedendo in prestito ad amici e conoscenti gli oggetti necessari. Similmente, i manufatti che compongono le esposizioni delle realtà etnografiche di Sampeyre, Casteldelfino e Bellino sono stati donati dalla popolazione dei rispettivi paesi 106. 103 Bellagamba A., Paini A. (a cura di), “Costruire il passato. Il dibattito sulle tradizioni in Africa e Oceania”, Paravia, Torino, 1999, pp.144. 104 Considerazione tratta da un’intervista da me condotta a Fabrizio Dovo in data 20/10/2009. 105 Frase tratta da un’intervista ad Enrica Paseri condotta il 11/10/2009. 106 Considerazioni derivate dalle interviste condotte ai curatori dei musei etnografici elencati. 57 Le modalità con cui sono state realizzate le collezioni si rispecchiano anche nell’allestimento. Il desiderio dei curatori sembra essere ovunque quello di esporre tutti gli oggetti che le persone del paese hanno donato o prestato. Come nel caso di Casteldelfino, questa prassi allestitiva trova la sua ragion d’essere nel tentativo di coinvolgere la popolazione locale e di sviluppare un senso di affezione nei confronti del museo. Durante i nostri incontri, infatti, Dino ha sovente sottolineato gli sforzi fatti dall’associazione “Jer à la Vilo” affinché la struttura da loro creata fosse percepita come propria dalle famiglie del paese 107. Un fenomeno analogo è presente anche a Sampeyre dove: «gran parte degli oggetti sono nelle stanze anche per un motivo, perché la gente che li porta poi ha piacere di vederli esposti. [..] Allora noi finché possiamo cerchiamo di far stare le cose»108. Si tratta di una prassi che fa da contraltare alla litigiosità e al campanilismo diffusi nella valle. Questo fenomeno è stato rilevato anche da altri studiosi del mondo alpino come Camanni, che parla espressamente di “pregiudizi e convinzioni ataviche”109, e Werner Bätzing110. A mio avviso, un esempio palese di questa situazione è dato dall’assenza, in tutti i musei ad eccezione di quello presente a Bellino, di materiali illustrativi che rimandino alle altre realtà etnografiche del territorio. Tale mancanza permane anche quando vengono realizzate esposizioni temporanee che trattano argomenti sviluppati in un altro museo etnografico locale. Le singole strutture, invece, instaurano collaborazioni importanti con note personalità di valle che lavorano nell’ambito della cultura. È il caso, ad esempio, della mostra realizzata a Sampeyre e curata da Giampiero Boschero, del lavoro congiunto dei curatori del Museo del Mobile e Paolo Infossi, della già citata pubblicazione cha ha coinvolto l’associazione “Jer à la Vilo” e Sergio e Isabel Ottonelli. Questi studiosi possono forse essere pensati come i passeurs culturels di cui parlano Adriano Favole e Matteo Aria a proposito dell’Oceania, persone a cavallo tra “universi semantici differenti” che si sono fatti portatori di fenomeni di riscoperta e rivalutazione del contesto culturale di origine 111. 107 Considerazioni tratte dalle interviste condotte a Dino Murazzano in data 12/10/2009, 20/08/2010 e 14/12/2010. 108 Frase tratta da un’intervista a Dovo Fabrizio condotta il 29/07/2010. 109 Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pp. 91. 110 Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”,Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 111 Aria M., Favole A., “Passeurs culturels, patrimonializzazione condivisa, creatività culturale nell’Oceania francofona. L’articolo è di prossima pubblicazione. 58 Quello che manca sul territorio sono invece i punti di contatto tra i singoli musei. Una situazione che, a mio avviso, compromette la valorizzazione del patrimonio etnografico di valle il quale risulta essere penalizzato nella sua fruizione. Chi è interessato a conoscere le singole strutture oppure ad approfondire una tematica deve fare da solo un lavoro di connessione o cercare l’aiuto di un ufficio turistico che però non è presente in tutti i paesi. La quasi totale assenza di contatti tra i musei rivela il loro essere “luoghi di conflitto”. Lungi dall’essere uno spazio neutro, queste realtà si identificano con le persone che le gestiscono, un gruppo esiguo con il quale si può o meno aver legato. Il museo non è quindi un’entità astratta ma è il prodotto del lavoro di alcuni soggetti e solo in tal senso viene percepito e giudicato112. Le collezioni museali sono il fulcro dei progetti espositivi di tutte le realtà etnografiche presenti in valle Varaita. Il ricorso alla moderna tecnologia negli allestimenti è pressoché nullo, in parte sicuramente perché il costo di queste strutture è esoso e le risorse sono scarse. Fabrizio Dovo a riguardo mi diceva: «ci sono dei musei della zona che, avendo ampie disponibilità finanziarie, possono fare ricostruzioni multimediali, possono fare effetti speciali. Noi non avendo questo tipo di disponibilità puntiamo più sulle cose concrete»113. Inoltre, in tutti i comitati scientifici, quando sono stati istituiti, non era presente un museologo di professione che potesse suggerire strategie espositive maggiormente all’avanguardia. La mancata attenzione nei confronti del patrimonio immateriale che caratterizza l’allestimento di questi musei, secondo me è dovuta soprattutto alla centralità che l’oggetto, in quanto tale, continua ad avere per i curatori. In alcuni casi, come detto in precedenza, le modalità espositive sono influenzate dal desiderio di compiacere coloro che hanno donato i manufatti. In altre situazioni, quando i curatori del museo sono anche i fautori della collezione, essi assumono le caratteristiche del collezionista vero e proprio. Questi ultimi instaurano un rapporto privilegiato con gli oggetti, incomprensibile ai profani, fatto di rimandi ad altre storie e ad altre realtà. Anche se il manufatto è ricercato per essere successivamente esposto nel museo, esso finisce col perdere le sue “relazioni funzionali” per essere, invece, desiderato 112 113 Riflessione tratta da una chiacchierata con Ilaria Peyracchia che si è svolta in data 12/12/2010. Considerazione tratta da un’intervista da me condotta a Fabrizio Dovo in data 18/12/2010. 59 e contemplato in quanto tale114. Gli ambiti di utilizzo, ma anche gli universi simbolici e rituali degli oggetti, concorrono a formare nella mente del collezionista una sorta di “enciclopedia magica” con la quale egli non solo ordina i beni raccolti, ma si crea una visione del mondo115. Infatti, il metodo di classificazione con il quale i manufatti vengono immagazzinati e/o esposti rimanda alle specifiche storie non solo di produzione dell’oggetto, ma anche di appropriazione dello stesso. Indipendentemente dalla relazione stabilita con il bene materiale, scegliere di mettere in mostra un oggetto in un museo presuppone tanto una valutazione dell’oggetto stesso, quanto l’instaurazione di un particolare tipo di rapporto con la cultura da cui proviene116. Nell’esporre manufatti originari di un determinato contesto sociale e culturale, qualora l’intento sia quello di rappresentarlo, il curatore di un museo “non può non porsi l’obbiettivo di avvalorare una teoria, segnatamente una teoria della cultura”117. La fioritura di musei etnografici in val Varaita è strettamente connessa alla “colonizzazione” da parte della “civiltà urbana” avvenuta soprattutto nella seconda metà del Novecento. Sono gli anni del rapido spopolamento della montagna causato, in parte, dalla crescita di industrie in pianura che attirarono mano d’opera. Parallelamente, il fenomeno dello sci e del turismo di massa “è destinato a sferrare l’ultimo colpo di grazia all’indipendenza economica e culturale della montagna”118. Come sostiene Batzing “con la grande trasformazione strutturale crolla non solo il sistema economico e di sfruttamento tradizionale, ma anche il sistema culturale, che viene messo in discussione dai moderni valori «urbani», caratterizzati da un’impronta industriale e terziaria” 119. Si tratta di un fenomeno che causa un duplice contrasto: da una parte la modernità non si concilia bene con le esperienze di vita quotidiana presenti in montagna, dall’altra parte essa rappresenta la fine della povertà e l’esaltazione della libertà personale, un “progresso che non si può e non si vuole arrestare” 120. Sono gli anni di cui Nuto Revelli traccia un affresco disincantato ne “Il mondo dei vinti” 121, un periodo in cui 114 Benjamin W., “Parigi capitale del XIX secolo: i passages di Parigi”, Einaudi, Torino, 1986. Ibidem. 116 Baxandall M., “Intento espositivo”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995. 117 Ibidem pp. 20. 118 Camanni E., (op. cit.), pp. 50. 119 Bätzing W., (op. cit.), pp. 330. 120 Ibidem pp. 331. 121 Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002. 115 60 era frequente l’emulazione di modelli culturali e di consumo urbani, così come era diffuso un sentimento di vergogna nei confronti delle origini valligiane. I primi musei etnografici nascono come reazione a tale complesso di marginalità e propongono una visione diversa della cultura di appartenenza. Il rinnovato orgoglio con cui si guarda al passato, a mio avviso, è presente anche nei musei più recenti. In valle Varaita non sembra più essere presente questa sensazione di disagio nei confronti delle proprie origini. Al contrario, se la componente materiale gode di così tanta considerazione all’interno dei musei etnografici è anche perché gli oggetti collezionati sembrano ristabilire connessioni tra la storia individuale e quella collettiva. Salvarli dall’insignificanza appare quindi come un tentativo per meglio comprendere la storia locale122. Se i curatori di un museo etnografico non possono non avvalorare una teoria della cultura, quella che emerge dalle realtà varaitine si fa portatrice di un rinnovato orgoglio nei confronti del proprio passato. Gli oggetti esposti possono essere interpretati come dei semiofori, essi cioè non hanno più utilità di tipo strumentale, ma sono dotati di un significato particolare in quanto sono i rappresentanti dell’invisibile. Secondo Pomian, quest’ultimo può essere declinato in modi diversi ma, a mio avviso, l’invisibile cui si riferiscono gli oggetti esposti nei musei etnografici della valle è ciò che è molto lontano nel tempo. Solo un bene facente parte di una collezione può diventare semioforo e trasformarsi in portatore di significati. La trasformazione degli oggetti in simboli presuppone la capacità di risvegliare memorie, raccontare storie e ricreare ambienti123. La centralità di cui godono i manufatti nelle esposizioni dei musei etnografici della val Varaita può forse essere intesa come un metodo per creare una “politica della memoria” che rivaluti il contesto culturale degli avi così a lungo denigrato. I curatori delle realtà presenti mi pare considerino gli oggetti come lo strumento principe per veicolare questo messaggio. Attraverso la loro connessione con l’invisibile, i beni collezionati sono in grado di praticare tanto una nostalgia “chiusa”, caratterizzata dal rimpianto di ciò che è irrimediabilmente perduto, tanto una nostalgia “aperta”, che fa dell’elaborazione del lutto un seme su cui costruire un futuro nuovo. La nostalgia aperta non guarda al passato per riproporlo nel presente, essa piuttosto lo considera come una fonte di valori e di 122 Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009 Pomian K., “Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi- Venezia XVI- XVII secolo”, Il Saggiatore, Milano, 1997. 123 61 strumenti per agire nella contemporaneità124. A mio avviso, gli oggetti esposti nei musei della valle rimandano a quest’ultimo tipo di nostalgia proposto da Bodei perché si collocano all’interno di realtà dinamiche che realizzano progettualità concrete per il territorio. I beni esposti veicolano una visione diversa del passato grazie alla quale è possibile operare nel presente con modalità diverse. La realizzazione di dvd, pubblicazioni, mostre, conferenze, incontri, se possono apparire eventi quasi scontati in una grande metropoli non lo sono affatto in piccole realtà spopolate e dal complicato tessuto economico. La rivalutazione del passato, grazie all’esposizione degli oggetti che ne facevano parte, è l’assunto di partenza per la realizzazione di pratiche che appaiono di grande dinamismo e che animano il tessuto culturale locale. L’attenzione al presente è sentita anche dalle mie persone risorsa. Molto chiara in tal senso è la riflessione di Ilaria Peyracchia la quale sostiene che la missione dei musei contemporanei non deve essere quella di rimpiangere il passato, ma di rendersi protagonisti della realtà valligiana attuale125. Anche Dino Murazzano ha espresso una considerazione analoga: «I musei etnografici… indietro di trent’anni non ce n’erano perché i musei erano la gente che viveva il territorio. Adesso son venuti per ricordarti cosa faceva quella gente lì, ma per ricordare cosa? Un attrezzo che non lavora più? È brutto» 126. Ricordare il passato non basta più, è necessario agire nella contemporaneità, rivivere la montagna, anche attraverso lo sviluppo di progettualità all’interno delle realtà etnografiche. La grande fioritura di questo tipo di musei in val Varaita e la trasformazione dei beni componenti le loro collezioni in simboli di un passato scelto, selezionato e rivalutato mi fa pensare alle pratiche di patrimonializzazione e alle politiche della memoria presenti in taluni Paesi decolonizzati. Alcuni di questi hanno fatto proprio, plasmato ed adattato il concetto occidentale di patrimonio come forma di legittimazione dello Stato-nazione. Non solo la maggior parte dei Paesi africani e del Medio Oriente, ma anche alcuni gruppi minoritari europei e americani, adottarono una politica culturale che valorizza e tutela i loro beni culturali. L’importanza del patrimonio è tale perché contribuisce a definire la nazione 124 Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009. Riflessione tratta da un’intervista da me condotta ad Ilaria Peyracchia in data 19/02/2011. 126 Tratto da un’intervista a Dino Murazzano svolta in data 14/12/2010. 125 62 stessa, il contenuto culturale diventa l’essenza dello Stato 127. La relazione tra beni, cultura e società può essere definita dall’individualismo possessivo teorizzato da Macpherson tale per cui esiste un legame tra l’agente e le cose su cui agisce perché se da un lato queste diventano di sua proprietà, dall’altro l’individuo viene ad essere definito dalle cose oggetto della propria azione 128. Come sostiene Irene Maffi, il patrimonio, “selezionato, valorizzato e rivendicato”, è considerato come la reificazione della storia e dell’identità di un gruppo ed “è diventato la posta in gioco di relazioni politiche più o meno asimmetriche”. Si tratta di una serie di considerazioni che possono essere estese anche alla pratica museologica. Nel periodo post coloniale popoli, gruppi di persone, minoranze etniche ma anche nazioni e città hanno fatto propria la concezione occidentale tale per cui essere rappresentati in un museo significa essere riconosciuti come presenza culturale 129. Queste realtà diventano quindi luoghi di negoziazione politica tra gli attori implicati. Forse l’attenzione rivolta alle collezioni museali in val Varaita può essere pensata come il tentativo di delineare una serie di beni culturali che, come Macpherson ha teorizzato, contribuiscano a definire l’essere “montanaro” nella contemporaneità. Gli oggetti esposti sono quindi dei semiofori perché raccontano storie e risvegliano memorie che danno corpo ai gruppi sociali di valle. Forse il proliferare di musei etnografici può essere interpretato come un tentativo di reazione alla marginalità non solo economica, ma anche culturale che caratterizza questa parte di Alpi piemontesi. Così delineato il museo si caratterizza per essere una componente importante nella battaglia contro “la crisi della presenza” 130 riscontrabile in contesto vallivo. 127 Maffi I. (a cura di), “Introduzione”, in Antropologia anno 6 n.7, Meltemi, Roma, 2006. Handler R., “Avere una cultura. Nazionalismo e preservazione del patrimoine del Quebec”, in Stocking jr. G. W. Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Ei Editore, Roma, 2000. 129 Alpers S., “Il museo come modo di vedere”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995. 130 De Martino E., “La fine del Mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi, Torino, 1977. 128 63 CAPITOLO 3 RIFLESSIONI SUL PUBBLICO DEI MUSEI A BELLINO 3.1 BLINS Si accede al comune di Bellino percorrendo la strada che si snoda a l’ubac di Casteldelfino. Questa costeggia il ripido versante della montagna, stretta nella gola orientata Est-Ovest che da quota 1370 metri ospita il paese. Per la precisione “i limiti altimetrici del territorio comunale vanno dai 3340 m del Mongioia ai 1370 m tra Varaita e lou Coumbàl la Coumbo, al confine con Casteldelfino; mentre gli insediamenti permanenti attuali (les ruà) sono compresi nella fascia tra i 1390 m della Rubieréto ed i 1710 m de lou Ciazàl”131. Il toponimo Bellino ha origini incerte ed è a tutt’oggi di difficile spiegazione. Secondo Giovanni Bernard tre sono le possibili interpretazioni di questo nome: potrebbe derivare da un cognome ancora diffuso nella Provincia oppure potrebbe di Cuneo, ricordare Belenus, la divinità celtica del sole paragonabile all’Apollo dei Romani132. spiegazione, La invece, terza si rifà Bellino di Marco Bailone. Opera concessa gentilmente dall’autore. all’antico francese “belins” che significa “pecore”, in questo caso il nome del paese sarebbe stato influenzato dall’economia locale nella quale l’allevamento ovino 131 Dematteis L., “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”, Priuli & Verlucca, Torino, 1993, pp. 8. 132 Maggiori informazioni sulla figura di Belenus si possono trovare in D’Amico R., “L’anima segreta della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti archeologici, simboli, miti e leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000 e in Jorio P., “Il magico, il divino, il favoloso nella religiosità alpina”, Priuli e Verlucca, Torino, 2006. 64 giocava un ruolo importante133. Roberto D’Amico, invece, fornisce un’interpretazione diversa del toponimo, che in parte unisce e mescola le precedenti. Secondo l’autore l’origine del nome Bellino non si deve solo ai Celti e al loro culto del sole ma, più nello specifico, all’osservazione che essi facevano di questa stella. L’equinozio di primavera, infatti, cadeva in un periodo in cui di notte era possibile osservare la costellazione dell’ariete che in gallico si dice appunto Belin134. La gola nella quale si trova il paese è dominata dalla strana Rocca Senghi, una roccia che la tradizione vuole protagonista di una leggenda. Il luogo dove sorge questo macigno, infatti, sarebbe stato teatro di uno scontro avvenuto tra Dio e il diavolo. Quest’ultimo avrebbe sfidato il Signore a staccare un masso dal Pelvo della Chiabrera che, con i suoi 3.152 metri, è una delle vette più alte della valle, e a posarlo nel luogo della sfida. Il risultato della provocazione è stato Rocca Senghi che, tra l’altro, è composta dallo stesso materiale litico del Pelvo. Si narra che il diavolo, colpito dall’esito dell’impresa di Dio, avesse tentato di emularlo senza avere altrettanta fortuna: il masso da lui staccato si frantumò nei mille pezzi che compongono la pietraia del Prefiol. Si tratta di un curioso agglomerato di rocce di notevoli dimensioni e con forme squadrate che si trova poco oltre borgata Chiazale, verso l’altopiano di Sant’Anna135. Il Delfino di Vienna (l’odierna Vienne sul Rodano) nel 1228 pose mano alla costruzione o al rafforzamento di un’opera difensiva, nota come Castrum Dalphinale Pontis Bellini, che si trovava proprio in cima a Rocca Senghi. La fortezza, di cui nulla è rimasto, doveva controllare una postazione di guardia situata nei pressi di frazione Ribiera che, all’epoca dell’edificazione del maniero, segnava la frontiera tra i possedimenti del Delfino e quelli del Marchesato di Saluzzo136. Chiazale, Celle e Prafauchier sono le tre borgate che compongono il “quartiere alto” di Bellino. Tradizionalmente, infatti, si ritiene che il paese sia composto da due zone, una partizione che affonda le sue radici nel tempo e non è legata solo alla presenza di due parrocchiali o alla vicinanza più o meno marcata delle frazioni. Tra i due quartieri di Bellino, infatti, esisteva una vera e propria rivalità che 133 Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009. 134 D’Amico R., “L’anima segreta della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti archeologici, simboli, miti e leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000. 135 Rossi D., (op. cit.). 136 Dematteis L., (op. cit.). 65 sfociava talvolta anche in liti o in risse. Il conflitto era particolarmente evidente in occasione dei matrimoni, per consuetudine celebrati tra appartenenti alla stessa area. Nei casi in cui la ragazza provenisse dal quartiere “rivale”, invece, il futuro marito doveva pagare i giovani del rione della moglie, quasi una sorta di “risarcimento” per aver limitato le loro possibilità matrimoniali. Al fine di sancire definitivamente l’unione, gli sposi camminavano sotto un arco fiorito situato in prossimità di entrambi i quartieri137. Queste usanze relative al matrimonio si sono mantenute fino agli anni Settanta del Novecento, ma altre tracce della rivalità tra le due aree sono ancora presenti. Parlando con Giovanni Bernard in relazione alla rassegna “travai e üzonses d’en bot” è emerso come, in quell’occasione, avessero partecipato gli abitanti di entrambe le aree di Bellino perché un quartiere non era più in grado di animare da solo la manifestazione: «la prima volta che lo abbiamo fatto quelli di su non venivano, per carità. […] Nel 2000 han cominciato a venir giù quelli di Celle perché non bastava più la gente»138. Anche Bellino, infatti, non si è sottratto al marcato spopolamento che ha caratterizzato la valle dal secondo dopoguerra ad oggi. Dal 1951 al 2009 il paese, che attualmente conta 144 residenti, ha perso il 76% della popolazione139. Come sostiene Giacomo Marc, assessore alla cultura ed ex sindaco di Bellino: «Le feste sono appannaggio dei comitati locali. Il Comune interviene dando un contributo ma l’organizzazione, il coinvolgimento, la regia sono dei due comitati». Questi ultimi sono: il Comitato di San Jacou, un gruppo di ragazzi molto giovani che animano sia la festa patronale del “quartiere basso”, sia la rassegna dei mestieri di un tempo, e il Comitato di Santo Spirito, che gestisce la festa patronale dell’altro rione e la Beò. Ai due Comitati si aggiunge l’associazione “Pasteur de Blins” che organizza la Fiera del 10 ottobre, una mostra-mercato del bestiame e del formaggio locale140. La manifestazione “travai e üzonses d’en bot” è una rievocazione dei mestieri presenti in passato sul territorio. La rassegna si svolge a borgata Chiesa che per l’occasione si anima di pastori, contadini, falegnami, mentre passeggiando tra le suggestive stradine una visita guidata gratuita illustra le metodologie utilizzate per 137 Rossi D., (op. cit.). Tratto da un’intervista da me condotta a Giovanni Bernard in data 02/05/2011. 139 www.istat.it 140 Tratto da un’intervista condotta a Giacomo Marc in data 02/05/2011. 138 66 fare il fieno, il pane, il formaggio, per filare e per tagliare la legna da costruzione. “Travai e üzonses d’en bot” è una manifestazione che si svolge ogni tre anni e che coinvolge unicamente gli abitanti di Bellino. Nel 2010 l’evento è durato tre giorni, ognuno dei quali era animato da un’attività diversa: la prima sera sono stati proiettati dei filmati con le edizioni precedenti della rassegna, il pomeriggio successivo invece i curatori di alcuni musei varaitini, della vicina val Maira e del Queyras sono intervenuti a un convegno sul lavoro alpino tradizionale. La piccola conferenza, in realtà, è stata un’interessante occasione di confronto sulle metodologie e sulle problematiche della museologia locale. La seconda giornata si è conclusa con una cena a base di polenta e salsiccia e con una serata in musica. La rassegna vera e propria ha avuto luogo l’ultimo giorno, concluso con la degustazione del pane realizzato durante la manifestazione e con una serata di balli occitani. La Beò è “una specie di sfilata carnevalesca con regole convenzionali di antica tradizione”141. Questa festa popolare si svolgeva ogni anno il martedì grasso a conclusione del carnevale e ha avuto luogo fino al 1958, salvo un’interruzione di cinque anni, dal 1940 al 1945, causata dalla guerra. Nel 2000 il Comitato di Santo Spirito ha ricominciato ad organizzare la Beò, la quale però ha subito una serie di modifiche rispetto alla manifestazione tradizionale. La festa contemporanea, infatti, si svolge con cadenza triennale e a essa prendono parte anche le donne e alcuni abitanti del “quartiere basso”, a causa del citato problema di perdita di popolazione. È rimasto invariato lo svolgimento della Beò, che è sostanzialmente una sfilata di persone che indossano un costume e che hanno un ruolo fisso. Lo sviluppo della festa segue un rituale consacrato dalla tradizione anche se lascia molto spazio all’estro sia del pubblico sia degli attori. Il gruppo, che poteva arrivare anche a quaranta persone, ha sempre e solo sfilato nel territorio della parrocchia di Santo Spirito: la manifestazione partiva da Celle, andava a Chiazale, ritornava a Celle, si recava a Prafauchier per poi chiudere l’evento nuovamente a Celle 142. Le numerose ipotesi fatte dagli studiosi non sono riuscite né a rintracciare chiaramente le origini di questa festa, né a spiegarne in modo univoco le sue caratteristiche. L’interpretazione locale è simile a quella proposta a Sampeyre, dove si fanno risalire le origini della Baìo alla cacciata dei Saraceni dalla valle. È 141 142 Deferre M., “Il carnevale a Blins”, Nouvel Temp, n.7, maggio 1978, pp. 6. Deferre M., (op. cit.). 67 probabile, tuttavia, che la festa sia nata in un periodo più antico e che sia anch’essa collegata con le Abbadie degli Stolti, le Badie, gruppi di giovani che a partire dal tardo medioevo organizzarono le feste della comunità 143. Jean-Luc Bernard, invece, sostiene che ci sia un’affinità tra la Beò e i misteri medievali, i quali ripetevano nel periodo precedente la quaresima la scena della fuga degli Ebrei dall’Egitto. Secondo questa ipotesi la figura de Lou Viéi acquisterebbe un significato particolare perché non farebbe più solo le veci del patriarca all’interno della famiglia, ma ricorderebbe Mosè che guida il suo popolo nel deserto 144. Ho trovato molto interessante l’ipotesi di Maria Deferre che tenta di spiegare la mancata partecipazione del quartiere basso di Bellino alla Beò. Secondo la studiosa, questa parte del paese sarebbe stata più ligia alla religione cattolica, come si esplica dalla pratica, viva fino alla seconda guerra mondiale, di realizzare la Crouzà, una specie di Passione della Settimana Santa. Il quartiere basso avrebbe quindi “lasciato” all’altra parrocchia, più laica e spregiudicata, la tradizione profana che era rappresentata dalla Beò per dedicarsi a una manifestazione squisitamente religiosa. La Deferre nota, infine, che questa parte di Bellino adesso è sede del Municipio, come se l’amministrazione centrale si sentisse maggiormente autorizzata a esercitare il suo potere nel quartiere più tranquillo e pio del paese145. Le borgate bellinesi, nonostante siano divise in “quartieri”, hanno un assetto territoriale ed un carattere aggregativo comune. Ogni frazione di Bellino è circondata da terreni coltivabili proporzionati alla sua grandezza che, in passato, erano in grado di assicurare il fabbisogno cerealicolo dell’insediamento. Un altro principio importante e ovunque rispettato, era di costruire non solo al riparo da alluvioni, frane e valanghe, ma anche in modo tale da non sottrarre terreno fertile alle colture. Le case presentano il frontespizio orientato in direzione del massimo soleggiamento che, come riporta Luigi Dematteis, molto spesso non corrisponde al mezzogiorno ma all’orientamento a Sud-Est che permette di ricevere meglio i raggi che attraversano la valle146. 143 Ibidem. Bernard J.L., “Nosto modo. Testimonianza di civiltà provenzale alpina a Blins”, Coumboscuro centre prouvençal, Busca, 1992. 145 Deferre M., (op. cit.). 146 Dematteis L., (op. cit.). 144 68 Borgata Celle, nel “quartiere alto” di Bellino, ospita la parrocchiale settecentesca dedicata a S. Spirito. La chiesa venne costruita per evitare che gli abitanti delle tre borgate in quota dovessero percorrere diversi chilometri per partecipare alle funzioni religiose che si svolgevano nella zona del paese situata più a valle. Tale percorso era particolarmente difficoltoso soprattutto nei mesi freddi quando una spessa coltre di neve ricopre l’intero territorio. Nel 1777 il vescovo di Torino venne personalmente in visita a Bellino per rendersi conto del disagio che vivevano i fedeli del “quartiere alto” e diede così il benestare per la costruzione del nuovo luogo di culto. La chiesa di Santo Spirito è orientata verso sud e, secondo una leggenda, furono le donne le maggiori promotrici dei lavori. Queste trasportarono instancabilmente nei loro grembiuli la sabbia necessaria alla costruzione. L’altare barocco, dorato e ornato da una corona retta da due angeli, è stato realizzato da Jean Baptiste Allais di Bertines147 che Sergio Ottonelli definisce “uno dei più validi artigiani del legno che la valle abbia mai avuto” 148. La cupola sovrastante il coro è decorata con un ciclo di affreschi che rappresentano i quattro evangelisti 149. Sui muri di una casa privata di Chiazale, un’altra delle frazioni che compongono il “quartiere alto” di Bellino, si legge ancora la scritta “Guardie doganali”. La costruzione ospitava l’antico corpo militare istituito perché sorvegliasse sul pagamento dei dazi previsti nel commercio di alcuni beni, come ad esempio il sale. La vigilanza delle autorità sabaude sui valichi di confine e le facilitazioni di accesso ai mercati della bassa valle causarono una contrazione negli scambi con la Francia. I commerci con l’altro versante della montagna, invece, erano molto attivi quando la Castellata faceva parte degli Escartons, la citata confederazione autonoma che univa territori adesso francesi e italiani. Il 1713 pose fine a questa entità politica particolare e decretò la nascita del contrabbando. Il rifornimento di sale, cioccolato, zucchero e tabacco sui mercati dell’Ubaye e del Queyras, infatti, è stato consueto fino alla seconda guerra mondiale. Il baratto era la forma più praticata di acquisizione di questi beni che venivano scambiati soprattutto con il riso. Il contrabbando era molto frequente soprattutto d’estate, quando le famiglie salivano alle grange, e si intensificò dopo lo sbarco degli Alleati nell’Italia meridionale a causa della quasi totale assenza di sale dal territorio. Come 147 Bertines è una borgata di Casteldelfino. Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados Usitanos, Bra, 1979, pp. 129. 149 Ibidem. 148 69 testimonia la presenza di un corpo di guardie doganali, questa forma di commercio era piuttosto praticata a Bellino, che dista dal confine solo due chilometri e che è ben collegato alla Francia tramite una serie di sentieri. È facile immaginare che il contrabbando non fosse realizzato con l’intenzione di delinquere o con la volontà di arricchirsi, quanto piuttosto per sopravvivere in un momento storico difficile e in un territorio nel quale la percezione della frontiera doveva essere ancora piuttosto labile150. La parrocchiale di S. Giacomo riunisce le borgate di Balz, Chiesa, Fontanile, Masdelbernard, Pleyne e Ribiera, le frazioni che compongono il “quartiere basso” di Bellino. La chiesa sorge probabilmente sulle rovine di un antico edificio di culto ed è il risultato di successive ristrutturazioni. Dell’antica struttura medievale è ancora possibile osservare solo il campanile a due piani con bifore e un’alta cuspide monolitica, un elemento della costruzione che Ottonelli definisce “forse il più antico monumento romanico-lombardo della valle”151. La chiesa è stata trasformata in tempio riformato nel 1578 per essere riconsacrata nel 1603, periodo in cui ne venne modificato anche l’orientamento tramite l’apertura dell’attuale ingresso a Ovest e la costruzione dell’abside a Est. Osservando i muri esterni della parrocchiale è possibile notare alcune tracce delle ristrutturazioni di cui è stata oggetto. Per costruire le pareti, infatti, sono stati impiegati alcune pietre scolpite che probabilmente facevano parte di un altro edificio. Di questi frammenti murati all’esterno fanno parte un animale che potrebbe essere un bue, un volto barbuto, un busto decorato con bottoni, e una testa con i capelli disposti a raggiera. Questa particolare capigliatura reca tracce di pittura rossa e ha portato ad interpretare il rilievo come un’iconografia di Belenus. L’interno della chiesa di S. Giacomo ha una sola navata in stile barocco sormontata da una volta a botte. Sul lato destro, ovvero nella parte rivolta a sud della parrocchiale, si trova una cappella dedicata a S. Antonio che conserva un fonte battesimale in stile gotico risalente al Quattrocento. Di fianco al portone d’ingresso è murata acquasantiera che rappresenta un leone coronato di spine152. Secondo Luigi Dematteis, la dedica a San Giacomo di questa chiesa confermerebbe l’ipotesi che vuole Bellino uno dei punti di sosta nel pellegrinaggio verso Santiago di Compostela. “Analoga 150 Bernard G., “Lou saber. Dizionario enciclopedico dell’occitano di Blins”, Ousitanio Vivo, Venasca, 1996. 151 Ibidem, pp. 123. 152 Rossi D., (op. cit.). 70 conferma può venire da un capitello del primitivo edificio romanico, oggi utilizzato quale basamento della croce cimiteriale, con figurazioni molto simili alle famose «Vergini Nere» che si ritrovano sul «Camino» per Santiago”153. Passeggiando per le vie delle borgate che compongono il comune di Bellino, si possono notare numerosi esempi delle modalità costruttive tradizionali. Come sostiene Sergio Ottonelli “In nessun altro posto della valle l’architettura rustica ha raggiunto una così alta perfezione e complessità di forme. […] Con gli spioventi dei tetti ampi e dispiegati come ali, così che di lontano certe case isolate danno l’idea di uccelli in atto di spiccare il volo, ornate di colonne, di fregi, di affreschi a soggetto sacro o profano e di meridiane, le case di Blins sono veri tesori d’arte” 154. Il pregio del paese è anche quello di essere stato risparmiato dalla speculazione edilizia che in valle Varaita ha rovinato il volto di altri Comuni. Le abitazioni di Bellino sono di tipo multifunzionale, ovvero sono state concepite per ospitare sia la famiglia, sia i locali destinati agli animali e ai prodotti della terra. Un altro criterio di uniformità consiste nelle modalità di costruzione, anch’esse piuttosto simili su tutto il territorio comunale. Il tetto a due falde è dotato di grandi sporti frontali e laterali, mentre come manto di copertura sono utilizzate le lose. I muri non sono realizzati “a secco” ma dotati di pietre passanti di legatura e di un sigillante che negli edifici più antichi era un impasto di argilla, mentre in quelli più moderni è stata utilizzata la malta di calce155. Le case bellinesi tradizionali hanno tre piani: il primo era occupato dalla stalla alla quale sovente si affiancavano altri due locali, uno per le pecore e l’altro per la cantina. D’inverno la stalla ospitava anche la famiglia, una strategia fondamentale per difendersi dal freddo. Il primo piano, invece, era destinato all’abitazione umana e vi si trovavano la cucina e le stanze da letto. L’ultimo locale della casa era il fienile, situato sotto il tetto perché serviva ad isolare contro il freddo. Le componenti funzionali della casa bellinese si accompagnano a elementi decorativi di pregio. Ad esempio le porte, realizzate in modo da essere estremamente solide e resistenti, si ornano a fine Ottocento di decorazioni geometriche e floreali. I balconi erano costruiti per rispondere alle esigenze della vita contadina e non a scopo civile, tuttavia molti di essi vantano delle belle balaustre tornite. Come nota Ottonelli, anche l’impiego stesso dell’arco 153 Dematteis L., (op. cit.). Ottonelli S., (op. cit.), pp. 121. 155 Dematteis L., (op. cit.). 154 71 manifesta una cura che va oltre la sua funzione portante. Un elemento molto ricorrente a Bellino sono i portali megalitici realizzati con le pietre provenienti dal Prefiol. Espressione di solidità formale, questi monoblocchi litici sono così frequenti nelle borgate da diventare quasi un tratto caratteristico 156. L’intento decorativo unito a quello strettamente funzionale ricorre anche nel caso delle fontane. Risalenti quasi tutte al XIX secolo, esse sono composte da due grossi blocchi di pietra: uno verticale ornato con la testa di un leone da cui fuoriesce l’acqua, l’altro orizzontale e scavato in modo tale da formare la vasca157. Le fontane, realizzate con il materiale estratto dalla pietraia del Prefiol, sono un elemento interessante e molto diffuso a Bellino tanto che il Comune ha deciso di istituire intorno ad esse un progetto di recupero e valorizzazione. Come sosteneva Giacomo Marc, il restauro di dieci delle diciannove fontane presenti a Bellino è stato il primo passo nell’istituzione di un “percorso dell’acqua” che tocchi tutte le borgate. Il turista sarebbe così invogliato a visitare le frazioni per osservare le fontane, il lavatoio comunale, un antico sistema di irrigazione e due moderne centraline per la produzione di energia idroelettrica. Queste sono state costruite a ridosso del Varaita ma mantengono le tipologie architettoniche tradizionali in modo da apparire simili alle altre case. Il canale di irrigazione, attivo fino al Settecento, portava l’acqua dalla parte alta, ovvero da Celle e Chiazale, fino alla parte bassa, a Fontanile e a Chiesa. Questo correva sulla destra orografica ed era interrato, nei punti dove attraversava le pietraie, invece, una serie di tronchi scavati facevano da canaline. Il “percorso dell’acqua” è un progetto in fase di realizzazione per il quale è ancora necessario restaurare tanto l’antico lavatoio, quanto il suddetto canale di irrigazione158. Le mura delle abitazioni di Bellino sono ornate anche da numerosi affreschi a carattere profano o sacro. Tra questi ultimi, in particolare, sono presenti dei soggetti che si discostano dalla ortodossia cattolica. È il caso, ad esempio, della crocifissione dipinta in borgata Celle nei pressi della parrocchiale. Nell’opera le tre Marie sono viste frontalmente mentre il Cristo è rappresentato di spalle, coperto dalla croce. L’affresco è molto particolare perché sembra quasi che il tema centrale dell’opera non sia la Crocifissione, della quale si vede ben poco, ma le tre 156 Ibidem. Rossi D., (op. cit.). 158 Tratto da un’intervista a Giacomo Marc condotta in data 02/05/2011. 157 72 fedeli. La spiegazione ufficiale di questa particolare scelta pittorica chiamerebbe in causa una questione di orientamento: dipinto in questo modo il Cristo guarderebbe a Gerusalemme159. Esiste però un’altra possibile interpretazione che attribuisce la paternità dell’opera ai catari rifugiatesi nelle valli alpine per scappare alle persecuzioni indette contro di loro. Nel credo cataro, infatti, non vengono riconosciute la simbologia del Cristo in croce, il commercio delle reliquie e l’autorità del Pontefice. Questa serie di elementi furono sufficienti a inimicarsi Papa Innocenzo III che dichiarò la sua crociata contro i catari il 24 giugno 1209. Le persecuzioni durarono 35 anni e furono perpetrate soprattutto dalle truppe comandate da Simone de Monfort. È stato accertato che a seguito della repressione quattromila fedeli si sparsero per l’Europa e soprattutto nell’Italia settentrionale, presentandosi come mercanti, viaggiatori, trovatori e fabbricatori di carta. Roberto D’Amico sottolinea che anche per ragioni politiche la quasi totalità della nobiltà occitana appoggiò e protesse i catari 160. Tra gli affreschi a carattere profano non si possono non citare le numerose meridiane che abbelliscono i muri delle case di Bellino. Il paese è un caso raro ed interessante perché su un territorio così piccolo si contano ben 35 quadranti solari e alcune abitazioni ne possiedono più d’uno. Si tratta di cifre piuttosto elevate se si considera che in tutta Italia ci sono circa 15.000 meridiane, 5.000 di queste sono in Piemonte e 2.000 in Provincia di Cuneo161. Secondo la trattazione di Ivanna Casasola, gli orologi solari bellinesi sono stati realizzati tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento da gente del luogo. Questi “montanari sapienti” probabilmente avevano avuto a loro disposizione dei trattati che spiegavano come realizzare una meridiana, secondo una “tradizione” di consultazione di testi che pare non essere estranea alla Bellino ottocentesca. L’arte gnomonica però metteva a frutto anche la capacità di questi artigiani di valutare il passare del tempo guardando la posizione del sole o delle stelle, un’attitudine molto diffusa in passato. Le meridiane bellinesi, che sono quasi tutte collocate nel “quartiere alto” del paese, sono state realizzate con il sistema ad ore francesi, segno del legame ancora presente tra territori che un tempo facevano parte degli Escartons e che invece all’epoca erano già divisi da un confine di Stato. Questo sistema di 159 Rossi D., (op. cit.). D’Amico R., (op. cit.). 161 Rossi D., (op. cit.). 160 73 realizzazione di un orologio solare fraziona la giornata in ventiquattro ore e separa quelle mattutine da quelle pomeridiane attraverso una linea verticale che indica il mezzogiorno vero locale. Ivanna Casasola propone un’interpretazione della nutrita presenza di meridiane a Bellino: secondo la giovane studiosa i quadranti solari rappresentano un tentativo di “riappacificazione” con l’inesorabile avvicinarsi della morte. Ciò che induce la Casasola a considerarli in questo modo è, in primo luogo, la presenza di frasi, di motti, che ornano le meridiane e che fanno riferimento quasi sempre ai temi della caducità e della fine. Se gli orologi solari sono “portatori di significato” è anche a causa delle forti connotazioni simboliche intrinsecamente legate alla loro natura. Tra questi elementi, che, a mio modo di vedere, sono stati legati a interpretazioni dal gusto eccessivamente “esotico”, primeggia l’utilizzo dell’ombra che da sempre, nei miti e nelle leggende, è stata associata al mondo degli spiriti e dell’aldilà. Secondo Ivanna Casasola non è un particolare irrilevante anche la presenza di decorazioni pittoriche che raffigurano galli o altri uccelli. “Tale soluzione stilistica può essere vista in stretta connessione con l’alone di animismo che circonda l’ombra e che ritroviamo nelle trasposizioni allegoriche dello spirito sotto forma di animale”162. Le meridiane possiedono un’altra caratteristica rilevante: esse contengono al loro interno un paradosso. Nei quadranti solari, infatti, l’area del cielo è in basso e quella della terra in alto; le ora mattutine si leggono guardano la porzione di orologio a destra, quella cioè orientata verso ovest, dove il sole tramonta; l’esatto opposto avviene in relazione alle ore pomeridiane. Secondo la Casasola l’inserimento del paradosso rimanda a una realtà asimmetrica e indivisibile che trascende in questo modo il concetto stesso di tempo, il quale, per sua natura, divide ed è strutturato in parti. Ciò che non è divisibile e non è soggetto allo scorrere del tempo non può morire, in questo modo le meridiane superano la nozione di morte e propongono una riappacificazione con essa. Questa interpretazione è possibile facendo riferimento ad un contesto, com’era quello bellinese a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel quale il bisogno di domesticare la morte era molto più sentito di quanto non lo sia nella contemporaneità. Le ritualità funebri, progressivamente abbandonate a partire dal 1930, riflettevano la pregnanza anche collettiva dell’evento. Queste avevano come fine la regolamentazione del comportamento dei vivi, un atto che può essere 162 Casasola I., “Ombra fugace. L’esperienza del tempo sui muri della comunità alpina di Bellino”, Alzani, Pinerolo, 2007, pp. 236. 74 pensato come una sorta di controllo esercitato su un evento estraneo e misterioso. La fine delle ritualità funebri è strettamente collegata alla modifica dell’idea stessa di morte, la quale ha perso il suo alone di sacralità per essere negata e al contempo allontanata dal contesto sociale 163. Il Comune ha istituito un programma di recupero e valorizzazione del patrimonio gnomonico di Bellino164. Dal 1999 al 2002 sono state restaurate tutte le meridiane del territorio grazie alla collaborazione di Solaria Opere, una ditta di Saluzzo. Il progetto di recupero dei quadranti solari è stato realizzato grazie a un finanziamento di novanta milioni di Lire erogato dal GAL “Valli di Viso” 165 che gestiva i fondi previsti nel programma Leader II dell’Unione Europea 166. Per valorizzare le meridiane sono stati creati dei segnavia dislocati in tutte le borgate e un piccolo depliant volto a presentare il patrimonio gnomonico bellinese nella sua totalità. I pannelli situati nelle frazioni compongono un percorso che, come mi ha detto Giacomo Marc: «è composto da tre livelli e quattro aree. I tre livelli sono: il livello quello della persona che con la macchina scende e guarda la meridiana che ha a pochi metri dalla macchina; il secondo livello è già un po’ più lungo e un po’ più complesso ed è quello che prevede di entrare all’interno delle borgate; il terzo livello, invece, è quello fuori dalle borgate, ci sono 6 quadranti che sono sugli alpeggi. Quindi abbiamo fatto i tre livelli e poi diviso in quattro zone: la zona di Chiesa e Rivera dove ci sono una parte di quadranti, la zona di Celle, la zona di Chiazale e la zona degli alpeggi». I pannelli presenti lungo il percorso dei quadranti solari sono stati illustrati con dei disegni ripresi da quelli realizzati da Luigi Dematteis nel suo libro “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”. Questi segnavia riproducono le borgate e segnalano le case decorate con i quadranti solari. 163 Ibidem. Le informazioni contenute in quest’ultima parte del paragrafo sono state dedotte da un’intervista condotta a Giacomo Marc in data 02/05/2011. 165 I Gruppi di Azione Locale (GAL), sono dei partenariati locali, regolarmente costituiti, che possono essere composti da strutture pubbliche, agenzie semi-pubbliche e privati. Nella composizione della partnership locale, a livello decisionale, gli enti pubblici non possono superare il 50% del partenariato locale. I GAL hanno il compito di elaborare la strategia di sviluppo del territorio in cui operano e a tal fine gestiscono i fondi che derivano dai programmi comunitari Leader. 166 Il programma di iniziativa comunitaria LEADER, acronimo dal francese “Liaison entre actions de développement de l'économie rurale” sostiene progetti di sviluppo rurale ideati a livello locale al fine di rivitalizzare il territorio e di creare occupazione. 164 75 Oltre al depliant, il Comune ha realizzato una guida di questo percorso dove: «sono state inserite le immagini fotografiche delle meridiane ante e post ristrutturazione e dove sono state indicate le caratteristiche tecniche della meridiana». La ditta Solaria, invece, ha curato l’edizione del volume “Le ore serene di Bellino”, una piccola guida fotografica alle bellezze naturali e architettoniche del paese con particolare riferimento ai quadranti solari. Il Comune ha supportato l’iniziativa acquistando una serie di copie e finanziando in questo modo la pubblicazione del libro. La Municipalità è stata maggiormente propositiva in relazione al testo della Casasola, edito grazie all’interessamento e al contributo economico del Comune stesso. Di provenienza regionale, invece, erano i fondi utilizzati nella realizzazione dell’osservatorio astronomico. Si tratta di una piccola casetta in pietra costruita con il materiale proveniente dal crollo di un forno settecentesco. La struttura ha un tetto in finte lose che, grazie ad un sistema motorizzato, si apre a metà scorrendo su delle guide. Per il manto di copertura non è stato possibile utilizzare delle pietre vere perché il loro peso avrebbe reso impossibile il movimento. Il tetto, inoltre, è dotato di un sistema di serpentine che si riscaldano per sciogliere la neve e il ghiaccio invernali, permettendo così l’utilizzo della struttura anche durante la stagione fredda. Il Comune, inoltre, ha intenzione di dotare il telescopio di una telecamera e di collegarlo al Museo del Tempo, in modo da rendere possibile la visione del cielo all’interno della realtà etnografica. La costruzione dell’osservatorio astronomico ha lo scopo di incentivare i villeggianti a pernottare sul territorio. Più in generale, lo sviluppo di progetti di carattere culturale è volto a creare una forma di turismo lento e attento al territorio che possa incrementare le risorse economiche dei bellinesi. Giacomo Marc sostiene che: «noi abbiamo fatto una scelta, in qualche modo obbligata […]: la valutazione era che il turismo di Bellino non può essere quello di Pontechianale perché il turismo di Pontechianale è basato sul turismo invernale, sulle seconde case, sugli impianti sciistici. A Bellino non ci sono queste cose, è impossibile crearle perché ci vorrebbero dei fondi enormi e poi bisognerebbe stravolgere tutta quella che è la parte naturale, paesaggistica del paese e quindi abbiamo deciso di puntare su un altro tipo di turismo. L’altro tipo di turismo deve essere un turismo non di massa, tranquillo, che viene, visita ecc…». A Bellino, lo sviluppo di progettualità culturali ha coinvolto diversi studiosi che hanno collaborato al fine di 76 valorizzare le caratteristiche di ogni borgata. Alcune delle attività realizzate, come il percorso dell’acqua e delle meridiane, denotano un interesse a tematiche di carattere storico e antropologico che, a mio avviso, è una caratteristica importante. La volontà di approfondire, valorizzare e tutelare elementi culturali che caratterizzano il territorio non è un fenomeno così diffuso nelle altre Amministrazioni comunali con le quali sono entrata in contatto. Se lo sfruttamento della risorsa turistica conduce all’elaborazione di progettualità simili a quelle realizzate a Bellino, a mio modo di vedere, può essere pensato come una strategia economica da perseguire anche altrove. 3.2 IL MUSEO DEL TEMPO E DELLE MERIDIANE La visita al Museo del tempo e delle meridiane di Bellino vuole essere la conclusione ideale di una passeggiata tra le borgate del paese 167. A seguito del restauro dei quadranti solari terminato nel 2002, l’Amministrazione comunale di allora ha sentito la necessità di creare un luogo in cui approfondire la conoscenza del patrimonio gnomonico locale. Il museo, infatti, offre nozioni in merito alla costruzione di una meridiana, alla vita dello gnomonista e fornisce indicazioni anche sulle tipicità di Bellino. Nata nel 2005 per volontà del Comune, la piccola realtà etnografica è stata realizzata grazie a un finanziamento europeo di centocinquantamila euro. I fondi sono stati utilizzati per ristrutturare la struttura, allestire le sale, lastricare la stradina che porta al museo, la quale si snoda all’interno di borgata Celle, e per restaurare alcuni antichi affreschi che si trovano sia sull’edificio che ospita la sede museale, sia su una casa adiacente. In fase di progettazione e realizzazione, la realtà etnografica bellinese si è avvalsa dell’appoggio di un comitato scientifico. Quest’ultimo era composto da alcuni membri dell’Amministrazione, da Solaria Opere e da due architetti tra i quali Roberta Allasia, già nota nelle valli per la sua collaborazione ad altri progetti di 167 Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state tratte da un’intervista a Giacomo Marc del 02/05/2011, da tre interviste a Ilaria Peyracchia condotte in data 31/07/2010, 12/12/2010 e 19/02/2011, così come da http://www.comune.bellino.cn.it/archivio/pagine/Museo_del_Tempo.html 77 questo tipo168. Gli aspetti culturali soggiacenti la costruzione di una meridiana, invece, sono stati curati dallo studioso locale Giovanni Bernard. Il Museo del Tempo è situato nel cuore di borgata Celle, all’interno di un edificio interessante dal punto di vista architettonico perché frutto delle tipologie edili tradizionali. In passato la costruzione era stata la sede della scuola della borgata, testimonianza di un periodo in cui i bambini erano ancora numerosi in paese. Nel 2010, infatti, i bellinesi di età inferiore ai 14 anni erano il 6,6% della popolazione, per un totale di sole 10 persone169. I locali dell’attuale museo hanno ospitato anche l’abitazione delle suore di Bellino. Si tratta della Comunità delle Figlie del Cuore Immacolato di Maria creata nel 1945 da Don Ruffa, un prete che ancora oggi è considerato come una figura di grande coraggio. Bartolomeo Ruffa nasce a Pontechianale nel 1913 da una famiglia povera, il padre faceva l’arrotino ed è morto nella Prima Guerra Mondiale lasciando i suoi cari nella miseria. Il giovane studia undici anni a Torino, nel 1936 viene ordinato sacerdote e nominato parroco di Bellino, un paese che lascerà per ordini superiori solo nel 1972. Figura di grande carisma, il frate francescano ed esorcista era molto amato dai bellinesi a causa del suo costante impegno al servizio della comunità170. Giovanni Bernard racconta un episodio risalente alla Seconda Guerra Mondiale nel quale Don Ruffa difese i suoi fedeli dai tedeschi e riuscì ad evitare che venissero loro confiscate le mucche, scongiurando così che si aggravassero le difficoltà già presenti. A conflitto finito, invece, il frate fu condannato a tre mesi di reclusione per avere distribuito gratuitamente delle medicine. Si tratta di due soli momenti della vita molto intensa di Don Ruffa, rappresentativi però della dedizione dimostrata nei confronti di Bellino e della sua gente171. La Comunità di religiose da lui istituita aveva salvato molte giovani dalla miseria perché proponeva un destino diverso da quello matrimoniale, reso poco probabile dagli anni di guerra. Le Figlie del Cuore Immacolato di Maria avevano offerto un futuro a quelle ragazze che non trovavano da sposarsi perché troppi dei loro coetanei erano morti sul campo di battaglia 172. Questa Comunità di suore è 168 L’architetto Roberta Allasia è il curatore scientifico del Museo Seles, il Museo dei mestieri itineranti di Marmora. 169 www.istat.it 170 www.ghironda.com 171 “Coumboscuro. Periodico della minoranza provenzale in Italia”, novembre/ dicembre 1998. 172 Dematteis L., “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”, Priuli & Verlucca, Torino, 1993. 78 sopravvissuta fino ai giorni nostri, le ultime religiose sono attualmente in convento a Piasco. Il museo bellinese è composto da due sale: nella prima alcune teche espongono antichi strumenti di misurazione del tempo, come le clessidre e le meridiane trasportabili. Tra queste spicca per interesse la “meridiana del pastore” che segnalava l’ora giornaliera se collocata in cima ad un bastone. La prima sala ospita anche alcuni trattati scientifici settecenteschi che riguardano la misurazione del tempo, così come due proiezioni, una delle quali verte sulla Béo di Bellino. L’altro filmato che si può vedere all’interno del museo etnografico è stato realizzato da Fredo Valla e ha come tema lo scorrere delle stagioni e delle ore giornaliere. Nel video dodici persone del posto recitano altrettanti proverbi relativi ai vari mesi dell’anno ed hanno sullo sfondo il bel paesaggio rappresentato dalla gola di Bellino. I protagonisti hanno età diverse: lo scorrere del tempo è così rappresentato anche dall’alternarsi di generazioni differenti, sempre più anziane. A ogni mese dell’anno corrisponde un proverbio ma anche un paesaggio e un ora del giorno particolari, elementi che si percepiscono grazie al variare dello sfondo. Il filmato è quindi composto da diverse sezioni: si parte da gennaio, il crepuscolo, rappresentato da un bambino, per terminare a dicembre, al tramonto, con una persona anziana, passando per giugno, mezzogiorno, con il proverbio recitato da un giovane di mezza età. La realizzazione del video di Fredo Valla è stata un metodo efficace sia per sensibilizzare i bellinesi alla costruzione della realtà etnografica, sia per renderli partecipi dei lavori. Come mi ha raccontato Ilaria Peyracchia, che ha gestito il museo nel 2010, gli abitanti del paese hanno reagito molto bene alla proposta del regista «tant’è che mia nonna era offesa perché non l’avevano selezionata all’interno del filmato. Quello in qualche modo fa capire che ci tenevano se no non avrebbero assolutamente partecipato». L’interesse dei locali nei confronti del museo emerge anche dalle donazioni degli oggetti esposti nella seconda sala. Questa è stata realizzata grazie al contributo teorico di Ivanna Casasola, la cui pubblicazione sulle meridiane di Bellino è l’unica che tratta l’argomento in modo specifico ed esaustivo. Nella seconda stanza del museo vi sono alcune teche che contengono gli strumenti utilizzati dagli gnomonisti, sormontate da pannelli che spiegano l’impiego di questi manufatti. La Casasola, infatti, dimostra come gli artigiani bellinesi riuscissero a realizzare un orologio solare con attrezzi molto semplici grazie all’osservazione del movimento 79 delle stelle. Come sostiene Ilaria «gli strumenti che ci sono sono stati concessi dalle famiglie degli gnomonisti di Bellino e dintorni. Lì c’è stata la partecipazione del territorio: erano propensi a far conoscere l’arte dei loro antenati e hanno concesso molto favorevolmente i pezzi». Gli oggetti presenti nel museo, che sono in buono stato di conservazione e che sono stati inventariati dal comitato scientifico, non sono, se non in minima parte, di proprietà del Comune. La maggioranza dei beni in vetrina, infatti, è in prestito temporaneo. La parte centrale della seconda sala ospita una serie di pannelli che espongono la documentazione relativa ai personaggi di Bellino che hanno costruito i quadranti solari. Ivanna Casasola è riuscita a determinare l’identità di sei artigiani locali: Luca Roux, nato nel 1885 a Celle e autore di tre quadranti; Bernard Richard, forse il maestro di Roux, visto che era più anziano e anch’egli di Celle; Giovanni Levet, attivo a Chiazale agli inizi del Novecento; infine Richard Matteo, autore di meridiana. una I sola pannelli raccontano quel poco di biografia di questi bellinesi che si è riuscita a rintracciare e li mettono in relazione con i quadranti solari da loro realizzati. L’allestimento della La seconda sala del Museo del Tempo e delle Meridiane. Foto dell’autrice. seconda sala del Museo del tempo descrive anche la vita che si svolge a Bellino, il suo ambiente, la sua storia e le sue attività economiche. Trovo molto interessante questa attenzione nei confronti del presente perché denota una sensibilità inedita, assente nelle esposizioni degli altri musei etnografici di valle. A riguardo considero significativo il pensiero di Ilaria: «secondo me la potenzialità dei musei oggi è proprio quella: non soltanto un sospirare a quel tempo in cui tutto era bello e c’era tanta gente, ma rendersi conto di come è attualmente e cercare di fare qualcosa per lo stato attuale delle cose». 80 Il Museo del Tempo e delle Meridiane di Bellino è aperto i fine settimana di luglio, le prime tre settimane e l’ultimo week-end di agosto nonché le domeniche di settembre sempre in orario pomeridiano, dalle 15,30 alle 18,30. L’ingresso costa tre euro, i gruppi oltre le dieci persone pagano due euro a testa, è gratuito, invece, per i bambini sotto i sei anni. La visita normalmente è libera anche se il personale all’interno è sempre disponibile per ulteriori chiarimenti. Come già detto, nel 2010 la gestione del museo era affidata alla Peyracchia: era lei che ne assicurava le aperture, che gestiva le attività con le scuole e i gruppi, che curava le visite guidate. In questo periodo all’interno della struttura era possibile reperire i depliant realizzati dalla Comunità Montana inerenti le strutture ricettive e i musei di valle «in modo tale che Bellino, attraverso il museo, avesse un pochettino il suo ufficio turistico». Anche questa caratteristica non si riscontra nelle altre realtà etnografiche varaitine ed è frutto della riflessione di Ilaria, la quale sostiene: «io non sono propensa a proporti solo il mio museo, ti offro la possibilità, anzi punto sul fatto che tu visiti anche gli altri, o che se hai bisogno di trovare un posto letto a Sampeyre, io ho il depliant con l’elenco delle strutture ricettive. Secondo me questo significa far conoscere la valle nel suo insieme, non solo le specificità di Bellino. Io sono fermamente convinta che si debba proporre la valle, non una specificità, non Bellino. Si deve lavorare insieme». Questa visione, questa volontà di cooperare non solo nella valorizzazione del patrimonio locale, ma anche per incrementare la risorsa turistica, mi sembra piuttosto inedita in contesto vallivo, caratterizzato da un dilagante campanilismo per stessa ammissione di alcune mie persone risorsa173. L’anno precedente all’incarico di Ilaria Peyracchia il museo etnografico è stato gestito dalla Liberlab di Savigliano la quale curava anche tutte le attività culturali estive del Comune di Bellino. Tra queste emerge “Les Montagnart”, un programma di manifestazioni legate al territorio che si distingue per le tematiche trattate e per le collaborazioni instaurate. Tra le attività proposte nell’ambito del progetto vi erano incontri, conferenze, laboratori per i bambini, un concorso fotografico, delle mostre e delle proiezioni cinematografiche. La manifestazione trattava ogni anno un tema diverso che verteva però sulle tipicità del territorio, sugli elementi economici, sociali e culturali che caratterizzano questa parte di arco alpino. Hanno 173 Tratto dalle interviste a Giacomo Marc del 02/05/2011, a Dino Murazzano del 27/04/2011 e a Silvana Ottonelli del 19/04/2011. 81 collaborato con “Les Montagnart” alcune personalità importanti tra cui Ugo Giletta, Giampiero Boschero, Sandro Gastinelli, Bruno Sabbatini e Fredo Valla. Tutte e tre le edizioni del programma sono state realizzate grazie ad alcuni finanziamenti regionali, il Comune, invece, ha contribuito attraverso la proposta dei temi da affrontare. Giacomo Marc mi ha anticipato che “Les Montagnart” non verrà realizzato nell’estate del 2011: «perché ogni tanto bisogna cambiare e poi perché [la manifestazione] non è stata tanto sentita dai bellinesi: era vista come una cosa calata dall’alto». Dal 2005, anno della sua inaugurazione, al 2008, il Museo del Tempo e delle Meridiane era gestito dal gruppo di guide turistiche “La Grisaille”, prima come società, poi solo nella persona di Tiziana Gallian che attualmente lavora in Comunità Montana. La piccola realtà etnografica bellinese è visitata, in media, da 300 persone ogni anno, una stima confermata anche da alcuni registri appositamente realizzati. Nel corso del primo periodo di apertura questa cifra era più alta perché il museo ha attratto i proprietari delle seconde case, numerose in paese. Secondo Ilaria queste persone non ritornano molto sovente a visitare il museo perché la collezione è fissa, non ci sono variazioni stagionali, quindi dopo una prima visita l’interesse si attenua e non è rinnovato. Si tratta di una problematica che è stata rilevata anche dall’Amministrazione comunale, la quale prevede di arginare il fenomeno con la realizzazione di mostre temporanee. Queste dovrebbero essere allestite all’interno di un laboratorio che la Municipalità ha intenzione di costruire grazie a dei fondi provenienti dal Piano Integrato Transfrontaliero “Monviso”. I finanziamenti previsti da questo progetto europeo servirebbero per restaurare l’antico fienile presente nell’ultimo piano dell’edificio che ospita il museo. Lo spazio così ricavato sarebbe utilizzato per creare un laboratorio destinato a mostre o a eventi di carattere didattico. Giacomo Marc sosteneva che: «quello che verrà fatto sarà legato molto alle scuole e ai gruppi di studio che vogliono venire a capire come funzionano le meridiane in generale e come sono fatte quelle di Bellino in particolare». La frase di Giacomo rivela l’interesse nutrito dal Museo del tempo nei confronti della didattica, ambito nel quale è molto attivo. Ogni anno circa tre o quattro scolaresche di tutte le età si recano in gita alla struttura, attratte dalle progettualità mirate che vengono proposte. Per i bambini delle elementari, ad esempio, sono state organizzate delle giornate che prevedevano una passeggiata per le vie delle 82 borgate ad osservare i quadranti solari, la visita del museo, il pranzo al rifugio Melezé e nel pomeriggio un gioco riguardante le meridiane, per mettere a frutto quanto appreso in mattinata. Grazie anche all’intervento del PIT Monviso, nella primavera 2011 il museo ha in previsione due laboratori: uno con una scuola elementare di Venasca, l’altro con un istituto superiore di Cuneo. Quest’ultimo progetto è realizzato grazie alla collaborazione dell’“Associazione astrofili Bisalta”, un gruppo di appassionati che spiegherà ai ragazzi come costruire una meridiana. Rientra nelle attività previste dal PIT Monviso anche il contributo di uno gnomonista francese il quale si recherà a Bellino nell’estate 2011 per spiegare le tecniche d’oltralpe utilizzate nella costruzione di una meridiana. Il progetto, che è connesso al museo e al patrimonio di quadranti solari presente in paese, è aperto a tutti coloro che vorranno parteciparvi. 3.3 COMUNITÀ INTERPRETATIVE Secondo le stime di Ilaria Peyracchia, il Museo del Tempo e delle Meridiane di Bellino è visitato da circa 300 persone nel corso di tutto il periodo di apertura. Come già detto, questa cifra è confermata da alcuni registri appositamente compilati e basati sul numero di biglietti emessi. La medesima metodologia di valutazione del numero di visitatori viene applicata nel Museo del Costume di Chianale. Qui la famiglia Ottonelli tiene un quaderno sul quale annota giornalmente il numero di biglietti che sono stati comprati. Negli altri musei etnografici di valle non è presente un metodo altrettanto analitico di stima delle visite: il calcolo, anche laddove segnato su appositi registri, è fatto semplicemente contando le persone che entrano nella struttura. Entrambi i modi di valutazione riportano il numero delle visite e non il numero dei visitatori, in altre parole dalle cifre in questione non è possibile capire se ci sono persone che si recano al museo più di una volta. La presenza dei “visitatori di affezione” è invece attestata da alcuni informatori, come ad esempio Olimpia Ottonelli che ricordava: «ci sono delle persone qui, francesi, figli di immigrati, che hanno la casa qui, che vengono tutti i giorni»174. Anche Fabrizio Dovo, in relazione 174 Frase tratta da un’intervista da me condotta a Olimpia e Silvana Ottonelli in data 30/07/2010. 83 al Museo Storico-Etnografico di Sampeyre, sosteneva che: «noi abbiamo sicuramente un’utenza di affezionati che tendono a tornare» 175. Le cifre che attestano il numero di visitatori delle realtà etnografiche varaitine, inoltre, non tengono conto degli amici o di coloro che abitano nel paese che ospita il museo. Si tratta di persone alle quali normalmente non viene richiesto l’acquisto del biglietto d’ingresso e che quindi non rientrano nelle stime fatte dai gestori. È il caso, ad esempio, del Museo del Mobile di Pontechianale nel quale coloro «che hanno prestato gli oggetti chiaramente possono entrare gratis» 176. Anche Olimpia Ottonelli in relazione al Museo del Costume sosteneva che «la gente del luogo qui entra, è casa sua. Vogliamo che sia così»177. Esiste quindi un margine di errore nella stima del numero di visitatori dei musei etnografici di valle. Questa considerazione si applica soprattutto a quelle realtà che contano il numero degli ingressi senza avere nessun altro tipo di riscontro, come ad esempio quello che potrebbe derivare dal calcolare la quantità di biglietti emessi. Le difficoltà di questo metodo sono numerose: anche lo staff più affidabile potrebbe non trovarsi sempre sul posto o prestare un’attenzione non uniforme, inoltre nei momenti di maggiore affluenza, come durante le sagre o le feste, risulta davvero difficile fare un conteggio preciso 178. Nonostante lo scarto constatato nella stima dei visitatori, questi ultimi sono comunque piuttosto numerosi soprattutto se li si mette in relazione con il numero di presenze sul territorio, ovvero con il numero dei residenti sommato a quello dei turisti e degli abitanti le seconde case. Si tratta di un calcolo piuttosto difficile da effettuare perché i dati reperibili sui flussi turistici non tengono in considerazione le presenze sul territorio di una sola giornata, non valutano cioè la consistenza degli escursionisti, di coloro che effettuano una semplice gita in valle. Inoltre, in relazione alle seconde case, i dati desunti dai Comuni stimano solo il numero delle abitazioni e non anche di coloro che le abitano. Nonostante le difficoltà, mi sembrava importante tentare di fornire un quadro approssimativo delle presenze estive nei paesi che ospitano i musei etnografici per creare una “cornice” di riferimento all’interno della quale situare i dati relativi al numero di visitatori. Questi 175 Elemento tratto da un’intervista a Fabrizio Dovo realizzata in data 18/12/2010. Tratto da un’intervista a Enrica Paseri e Celeste Ruà realizzata in data 11/10/2009. 177 Frase tratta da un’intervista da me condotta a Olimpia e Silvana Ottonelli in data 30/07/2010. 178 Kotler N., Kotler P., “Marketing dei musei. Obiettivi, traguardi, risorse”, Edizioni di Comunità, Torino, 1999. 176 84 ultimi, infatti, non possono essere compresi se non sono collocati all’interno di un contesto specifico che irrimediabilmente ne influenza la dimensione perché “la taille du public potentiel d’un musée dépend de son mode d’insertion dans la société”179. Come già detto, i Comuni nei quali si trovano i musei etnografici di valle non hanno molti abitanti: Bellino ne conta appena 144 180. In questo paese durante tutto il 2010 sono stati riscontrati 294 turisti di provenienza diversa che in media si fermano sul territorio 1,64 giorni. Il numero delle seconde case, invece, si attesta intorno alle 200 abitazioni181. In questa prospettiva, i trecento visitatori del Museo del Tempo e delle Meridiane acquistano una certa rilevanza: la realtà etnografica, infatti, sembra essere in grado di attrarre tanto i residenti quanto i villeggianti, nonostante il loro breve periodo di permanenza. È possibile attuare una riflessione analoga anche in relazione al numero di visitatori del Museo del Costume di Chianale. La piccola borgata fa parte del Comune di Pontechianale che conta 187 residenti e che nel 2010 è stato visitato da 11.440 persone. Secondo il sindaco Alfredo Campi, le seconde case sono circa un migliaio su tutto il territorio comunale, più difficile è invece determinare il numero effettivo di presenze182. Anche se i dati regionali non indicano le differenze che intercorrono tra le frazioni, è facile immaginare che Chianale attiri una percentuale piuttosto alta dei turisti presenti nel Comune perché possiede alcuni impianti di risalita e perché fa parte del circuito “Borghi più belli d’Italia”. In quest’ottica i 3.000 visitatori del Museo del Costume sembrano essere una cifra sicuramente elevata, ma che comunque si colloca in un contesto molto vivo. La piccola realtà etnografica sembra rispondere bene all’interesse dei villeggianti vista anche la breve permanenza di questi sul territorio, che risulta essere di soli 2,34 giorni. Ritengo, invece, più difficile tentare di valutare l’interesse suscitato dalle esposizioni del Museo del Mobile di borgata Castello. I suoi 600 ingressi estivi sono di molto inferiori rispetto a quelli registrati al Museo del Costume che però si trova in una posizione decisamente più favorevole. Per le motivazioni 179 Teboul R., Champarnaud L., “Le public des musées. Analyse socio- économique de la demande muséale", l’Harmattan, Parigi, 1999. 180 Le informazioni contenute nei paragrafi successivi sono state dedotte da www.istat.it e da www.regione.piemonte.it Faccio riferimento in particolare al Rapporto dati statistici 2010, elaborato dall'Osservatorio Turistico Regionale, operante in Sviluppo Piemonte Turismo, in collaborazione con la Direzione Turismo. 181 Dato desunto grazie alla collaborazione di Laura Brun, di pendente del Comune di Bellino. 182 Riflessione tratta da un’intervista condotta a Campi Alfredo in data 10/03/2011. 85 indicate prima, Chianale è molto più frequentata di borgata Castello, quindi se un turista può decidere di visitare il Museo del Costume perché lo nota passeggiando per la frazione, questo è meno possibile per il Museo del Mobile. Castello infatti, pur essendo molto bella, non ha un vero e proprio centro e non è comoda per parcheggiare la macchina, elemento non da poco in un luogo che è difficile raggiungere diversamente. Casteldelfino, la “capitale” della Castellata, conta 180 abitanti, 770 seconde case e nel corso del 2010 è stato visitato solo da 128 persone che si sono fermate sul territorio una media di 3,66 giorni. Il paese non ha sviluppato un programma di eventi che possa attirare turisti anche nel periodo invernale: tutte le manifestazioni più importanti, infatti, si svolgono durante l’estate e sul territorio comunale non sono presenti impianti di risalita. Mi pare quindi di poter supporre che la grande maggioranza dei visitatori del 2010 si sia recata in paese nella bella stagione, periodo in cui è aperto anche il Museo etnografico “Jer à la Vilo”. Quest’ultimo, con i suoi duecento visitatori annui, ha quindi un’affluenza modesta che rispecchia la discreta frequentazione del territorio. Diversa, invece, la situazione di Sampeyre che, con i suoi 1090 abitanti, è il paese più popolato dell’alta valla Varaita183. Grazie ai suoi impianti di risalita e al programma di manifestazioni estive, Sampeyre è abbastanza frequentato durante tutto l’anno, un dato riscontrato anche dalla Regione Piemonte che nel 2010 ha contato sul territorio 24.113 presenza straniere. Il numero di turisti estivi, quelli che possono essere andati in visita al museo etnografico, è comunque inferiore. Secondo Vittorio Fino, assessore alla cultura del Comune, gli abitanti delle seconde case sono all’incirca 6.000184. La media di tremila ingressi nella realtà museale locale testimonia, quindi, una buona frequentazione della struttura. Oltre alle difficoltà riscontrate nel contare il numero di visitatori dei musei etnografici di valle, un altro problema consiste nel tentare di definire la loro identità. Con l’eccezione della realtà etnografica bellinese, che prende nota non solo del numero di visitatori, ma anche della loro provenienza, nessuno dei musei da me visitati ha condotto delle ricerche per comprendere meglio le caratteristiche 183 In riferimento al numero di abitanti, cifre analoghe a quelle di Sampeyre si riscontrano solo nei paesi della bassa val Varaita: Brossasco, 1099 abitanti e 606 metri di altitudine; Venasca, 1484 abitanti e 549 metri di altitudine; Piasco, 2855 abitanti e 480 metri di altitudine; Costigliole 3349 abitanti e 460 metri di altitudine; Verzuolo 6507 abitanti e 420 metri di altitudine. 184 Tratto da un’intervista a Vittorio Fino del 18/02/2011. 86 del suo pubblico. Del resto, anche a livello nazionale, questo tipo di indagini sono piuttosto rare e sono state realizzate solo da grandi strutture185. I primi studi sul pubblico dei musei sono stati condotti nel mondo anglosassone agli inizi del XX secolo, quando si pose attenzione al modo con cui il visitatore si rapportava alla collezione per verificare se l’esperienza di fruizione innescasse un processo di apprendimento. Un altro degli aspetti indagati in questo periodo era la fatica e lo sforzo che il pubblico poteva provare nell’esaminare gli oggetti e le opere esposte186. Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento si diffusero due filoni di analisi: uno di essi era centrato sull’individuazione del profilo sociodemografico del visitatore, anche al fine di verificare se un museo era in grado di attrarre un pubblico ampio e variegato. Il secondo aspetto indagato era l’efficacia delle esposizioni: gli studi del periodo volevano capire se e quanto un museo potesse contribuire all’incremento delle conoscenze della comunità. A partire dagli anni Ottanta del Novecento, aumenta la tendenza a sviluppare ricerche sui 185 Penso, ad esempio, alle indagini condotte dal Sistema Musei della Provincia di Modena nel 2007. In Piemonte la situazione dovrebbe modificarsi grazie all’applicazione degli standard museali. A partire dal 2003, infatti, la Regione Piemonte ha avviato un piano di lavoro per la definizione a livello regionale di questi standard, in applicazione dell' "Atto d’indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei" approvato nel 2001 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Gli ambiti di applicazione sono: 1 - Status giuridico 2 - Assetto Finanziario 3 - Strutture / Ambito 5 - Sicurezza 4 - Personale 6 - Gestione e cura delle collezioni 7 - Rapporti con il pubblico 8 - Rapporti con il territorio L'ambito n. 7 definisce le attività che ogni museo dovrebbe svolgere per offrire un servizio sufficientemente efficace al proprio pubblico. Le aree indagate, in relazione alle quali sono stati definiti i requisiti minimi e sono state prodotte le relative liste di controllo, di valutazione e di autovalutazione per il museo, sono le seguenti: • apertura al pubblico • accesso • accoglienza • sussidi alla visita • servizi educativi e didattici • attività • comunicazione e promozione • servizi accessori • analisi del pubblico In relazione all’ultimo punto, ovvero l’analisi del pubblico, cito dalla pubblicazione “Materiali per i musei” edita dalla Regione Piemonte: “il requisito minimo riguarda la registrazione e l’analisi con cadenza annuale dei dati sull’affluenza del pubblico. I livelli di qualità invece prevedono un’analisi maggiormente sistematica sul gradimento del pubblico, sulle motivazioni e aspettative legate alla visita, sul pubblico potenziale, sull’allestimento, sulla comunicazione interna ed esterna al museo e sui servizi offerti”. 186 Solima L., “Il pubblico dei musei. Indagine sulla comunicazione nei musei statali italiani”, Gangemi, Roma, 2000. 87 visitatori dei musei in ambiti di analisi molto specifici, come i comportamenti di fruizione del pubblico e le modalità di realizzazione di un’esposizione. Gli studi realizzati nel decennio successivo, invece, si caratterizzano per la maggiore attenzione dedicata all’esperienza di visita e alle motivazioni che portano alla scelta di recarsi in un museo. In quegli anni comincia a determinarsi uno slittamento dell’attenzione dei curatori, prima concentrati sulle esposizioni, successivamente attenti a soddisfare le esigenze del pubblico anche attraverso lo sviluppo di un approccio di marketing. Contemporaneamente si fa strada l’idea che un museo possa contribuire allo sviluppo locale attraverso la realizzazione di progetti strettamente legati al territorio. Le ricerche più recenti, invece, fanno riferimento anche alla domanda potenziale dei musei, ovvero tentano di indagare il profilo dei non- visitatori al fine di trovare delle leve per arginare i motivi di resistenza alla visita. Gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi anni di quello attuale, registrano la nascita di un nuovo filone di ricerca il cui focus verte sugli utenti del museo, coloro, cioè, che usufruiscono dei servizi museali attraverso i libri, le riviste, le televisione e internet 187. Come detto, risulta difficile tentare di comprendere la natura del pubblico dei musei etnografici della val Varaita. Come sostiene Daniele Jalla “ci siamo ormai abituati a preferire il plurale. La nozione di pubblico (letteralmente: un numero indeterminato di persone considerato nel loro complesso e aventi spesso interessi comuni, in quanto abitano o frequentano uno stesso luogo, assistono a un medesimo spettacolo ecc.) si è irreversibilmente frammentata – “segmentata” per la precisione – transitando definitivamente (o quasi) dal singolare al plurale”188. Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono possibile raggruppare il pubblico dei musei almeno in grandi “comunità interpretative”189, che possono essere pensate come “accomunate al loro interno dai medesimi bisogni, competenze, conoscenze e attese”190. Seguendo questo filone interpretativo, se si cerca cioè di trovare un minimo comune denominatore ai visitatori dei musei etnografici varaitini, mi pare di poter 187 Solima L., “Visitatore, cliente, utilizzatore: nuovi profili di domanda museale e nuove traiettorie di ricerca”, in Bollo A., I pubblici dei musei. Conoscenze e politiche, Franco Angeli, Milano, 2008. 188 Jalla D., “Considerazioni sul pubblico dei musei”, articolo contenuto negli appunti del corso di Museologia tenuto alla Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici. 189 Eilean Hooper Greenhill, “Nuovi valori, nuove voci, nuove narrative: l’evoluzione dei modelli comunicativi nei musei d’arte”, in Bodo S. (a cura di), Il museo relazionale. I musei d’arte europei e il loro pubblico, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2000. 190 Jalla D., (op. cit.). 88 affermare che una parte piuttosto cospicua di essi sia rappresentato da turisti. Mi sembra un dato piuttosto evidente dall’analisi dei dati sopra riportati: le cifre elevate non possono essere state raggiunte solo dai residenti o dagli abitanti le seconde case, nonostante la ripetizione degli ingressi che, sebbene constatata, non è stata registrata. Potrebbe sembrare scontato, anche tautologico, riscontrare la presenza di turisti nei musei, a mio modo di vedere, tuttavia, era un dato importante da sottolineare visto che il rapporto con questa parte di pubblico sembra essere piuttosto controverso. Nessuna delle mie persone risorsa, ad eccezione di Fabrizio Dovo, mi ha mai parlato dei turisti che visitano il museo, mentre invece sono emerse a più riprese le dinamiche instaurate con il pubblico locale o con gli emigrati che tornano d’estate. I miei informatori mi hanno descritto più volte e con piacere le reazioni che l’allestimento provoca talvolta in questo altro tipo di visitatori: la sorpresa di ritrovare fotografie di posti o persone appartenuti a un’infanzia lontana, il piacere di vedere un oggetto dimenticato trasformato, ammantato di quella componente di magia che è propria dei beni da collezione 191. In qualche caso sembra quasi un’offesa notare la presenza di turisti nei musei. Ho sviluppato questa riflessione soprattutto a seguito dell’intervento di Beatris Ottonelli al convegno “Mestieri di una volta. Il lavoro di una comunità alpina raccontato dal territorio e dalla sua gente” che si è svolto a Bellino il 31 luglio 2010. In quell’occasione Beatris ha sottolineato come il Museo del costume di Chianale, allestito e gestito dai suoi genitori, non sia stato creato a fini turistici. Questa dimensione, ovvero la possibilità di attrarre dei turisti e di essere una risorsa in tal senso, è estranea, talvolta anche in contrasto, con la missione dei musei di valle. È emblematica in tal senso una frase di Fabrizio Dovo, che pure ha una visione diversa da quella della giovane Ottonelli: «l’aspetto turistico comunque per noi ha un’importanza, anche banalmente come gratificazione. Effettivamente quando tu riesci a far funzionare tutta una serie di attività, di cose, hai un certo riscontro, sicuramente fa piacere, è una soddisfazione. Purtroppo noi questo riscontro ce l’abbiamo di più dalla gente che viene da fuori che non dal paese. Qui mi succede ancora di vedere gente del paese che entra “Ma è carino qua, non ero mai venuto”, gente che è una vita che ce l’ha sotto il naso. Quindi sicuramente c’è 191 Silverstone R., “Il medium è il museo”, in Durant J., Scienza in pubblico. Musei e divulgazione del sapere, Clueb, Bologna, 1999. 89 una gratificazione anche da quel punto di vista, però è una parte. Noi l’abbiamo sempre visto come un momento per raccogliere e conservare la memoria, una casa comune del paese. Qui c’è tanta gente che ha dei pezzi di memoria, che ha vissuto.. è comunque un posto dove c’è un pezzo di memoria condivisa anche per chi ha avuto esperienze migratorie. Sicuramente è un po’ una casa comune. Per noi è importante questo aspetto»192. I musei etnografici varaitini non sono stati realizzati in chiave turistica, per intrattenere i villeggianti estivi. Anche se talvolta questa dimensione può essere presente e importante, essa non deve comunque soverchiare quella che è la missione di tali realtà. Come già detto, i musei di valle sembrano avere la finalità di conservare la memoria ma per pensare e progettare il territorio nel presente come nel futuro. 192 Frase tratta da un’intervista condotta a Fabrizio Dovo in data 18/12/2010. 90 CAPITOLO 4 DELLA CULTURA COME ARTEFATTO 4.1 PUNT E LA CIANAL Percorrendo la strada provinciale che conduce al Colle dell’Agnello, raggiunti i 1614 metri di altitudine, la presenza di un grosso lago artificiale segnala l’ingresso nel territorio di Pontechianale. Lo sbarramento delle acque del Varaita finalizzato a produrre energia elettrica è chiaramente visibile dai tornanti, un grosso muro in cemento che stride con il fervido paesaggio montano circostante. La vista del lago, una distesa d’acqua di due kilometri per uno, è sicuramente affascinante: completamente bianco e ghiacciato in inverno, ricco di sfumature d’azzurro durante l’estate. In passato, se durante la bella stagione si guardava sotto la superficie dell’acqua, era ancora possibile osservare i resti delle case, della parrocchiale e del cimitero che un tempo sorgevano proprio in quella porzione di avvallamento fluviale. La storia di borgata Chiesa “è il racconto di una sconfitta, di vecchie ferite, di molti ricordi e di tanta nostalgia”193. La frazione di Pontechianale fu sommersa completamente nel 1942 dal bacino artificiale creato dall’occlusione del Varaita nella vicina Castello. Gli operai cominciarono i lavori di costruzione della diga nel Pontechianale di Marco Bailone. Opera concessa dall’artista. 1936, dando così contemporaneamente, inizio, al processo di espropriazione delle terre e delle case degli abitanti. L’Enel si assunse l’onere di ricollocare il centinaio di residenti, di ricostruire la chiesa parrocchiale, il 193 Infossi P., “La vallata sommersa. Testimonianze ed immagini della frazione Chiesa di Pontechianale”, Museo del Mobile dell’Alta Valle Varaita, Savigliano, 2010, pp. 8. 91 cimitero, gli edifici civili e di ridistribuire campi, prati e orti. Nell’ipotesi di progetto veniva affermata la necessità di tutelare i diritti dei cittadini ricostruendo loro la casa, mentre per coloro che non erano presenti sul territorio era previsto un indennizzo in denaro. Tale pianificazione non teneva in considerazione i risvolti sociali che avrebbe avuto, l’impatto destabilizzante su persone costrette ad abbandonare la casa dove erano nate e cresciute. L’esito stesso del progetto, inoltre, appare criticabile, portato avanti tra numerose empasse gestionali di fatto mai risolte. Ad esempio, la frammentazione delle proprietà e l’assenza degli emigranti creò numerose difficoltà nelle trattative per eseguire le cessioni. Nonostante le complicazioni, le vendite furono accelerate dal provvedimento adottato nel 1939 dal Ministero dei lavori pubblici, con il quale si sanciva l’indifferibilità del progetto. Quest’ultimo assumeva così il carattere di priorità: i cittadini che non volevano o non potevano vendere, vennero sgomberati e le loro abitazioni occupate. L’entrata in guerra dell’Italia portò ad un rapido peggioramento della situazione: molti emigranti in Francia non poterono più varcare il confine, alcuni rientrarono solo a conflitto finito, indefinibili, poi, le perdite umane. Per quanto riguarda borgata Chiesa, le operazioni belliche preclusero a molte persone non solo di approfittare dell’offerta dell’Enel, ma anche, più semplicemente, di riprendere possesso dei propri beni mobili. Questi ultimi, come mi hanno rivelato Celeste ed Enrica, i gestori del Museo del Mobile che ha sede in Pontechianale, non vennero abbandonati al proprio destino: “Si dice che all’epoca gli antiquari facessero anche due o tre giri al giorno con il camion. L’importante era prendere. Poi la gente era in Francia. Praticamente hanno preso tutto, tanto veniva tutto sepolto”194. Come attestano numerosi documenti dell’epoca, la separazione dalle proprie case fu vissuta come un evento drammatico. Se possibile, tuttavia, fu il distacco dal vecchio cimitero a segnare il capitolo più doloroso della vicenda. Il trasporto delle salme rappresentava una circostanza dolente e delicata, non solo per i risvolti pratici intrinseci, ma anche per il carattere morale che assunse. La ditta costruttrice, infatti, aveva predisposto solo il trasporto dei corpi deceduti da dieci anni, gli altri erano destinati all’ossario o, chissà, ad essere sommersi con l’antico cimitero. Coloro che si opponevano potevano riesumare in modo autonomo i loro 194 Testimonianza contenuta in un’intervista a Celeste Ruà ed Enrica Paseri, da me condotta in data 11/10/2009. 92 parenti, oppure, se l’evento era troppo doloroso, avevano facoltà di chiedere la collaborazione degli operai che lavoravano alla diga 195. Accanto al cimitero sorgeva la Chiesa parrocchiale di S. Pietro in Vincoli, risalente al XV secolo. Questa presentava le stesse caratteristiche di molti luoghi di culto presenti nella valle: si affacciava su un modesto slargo con l’abside rivolta verso est e la facciata orientata ad ovest. Durante il periodo di costruzione della diga, la punta del campanile e il protiro vennero abbattuti al fine di recuperare le campane ed il portale. Questi ultimi sono attualmente visibili nella chiesa di S. Pietro costruita in borgata Maddalena. L’ingresso dell’antica parrocchiale, realizzato in marmo bianco con inserti in pietra verde, presenta una ghiera profondamente svasata con capitelli raffiguranti visi umani o teste di animale. All’interno della ghiera, nella lunetta che si affaccia sopra il portale, era collocato un pannello divisibile in due metà, raffigurante i Santi Pietro e Paolo. Il dipinto è stato successivamente sostituito da un’opera attribuibile al Gilardi, di manifattura più recente, che rappresenta il Buon Pastore196. È interessante notare, in relazione alla Chiesa di S. Pietro in Vincoli, come la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Piemonte avesse chiesto alla società costruttrice la diga di inviare la documentazione fotografica relativa al monumento. Questa risultava necessaria al fine di procedere nei lavori di smantellamento e ricostruzione della parrocchiale, per i quali era dovuta l’approvazione del Ministero dell’Educazione Nazionale. Nelle due occasioni in cui la Soprintendenza espresse tale richiesta, rispettivamente il 1936 ed il 1942, si sentì rispondere dalla società costruttrice che quest’ultima non era in grado di interpretare i criteri fotografici richiesti. Si tratta forse di una manifestazione di come, intorno alla creazione della centrale, gravitassero interessi rilevanti, tali da soverchiare le politiche dell’allora Ministero dell’Educazione. Oggi il lago è ormai indissolubilmente legato a Pontechianale. Oltre a essere fonte di attrazione per il turismo locale, non si possono dimenticare i benefici economici apportati ai Comuni interessati. Questi, riunitisi in consorzio per incassare i canoni di sfruttamento delle acque, ridistribuirono i proventi per realizzare opere pubbliche oppure interventi di interesse collettivo. Tra questi, non ultima, la 195 Infossi P., (op. cit.). Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados Usitanos, Bra, 1979. 196 93 costruzione della strada provinciale che raggiunge il Colle dell’Agnello e la Francia197. La demolizione di borgata Chiesa ha accresciuto l’interdipendenza tra le due frazioni inferiori del Comune di Pontechianale: Villaretto e Castello. Quest’ultima, in particolare, è molto interessante sotto il profilo storico e urbanistico. La sua posizione peculiare, di fatto appoggiata alla dorsale presente in loco, la rendeva un luogo strategico nel sistema difensivo pre-delfinale. All’epoca, infatti, era sentita soprattutto la necessità di operare un controllo dei traffici che si svolgevano attraverso il Colle. Tale funzione fu incrementata nel 1236 dalla costruzione di un forte alto 11 metri, con un perimetro di base di circa 22 metri. L’edificio era dotato di una, o forse di due, torri: i documenti medievali non permettono di fare luce in modo preciso su tale questione. Le servitù militari, la presenza della strada che conduce al Colle dell’Agnello e la necessità di avere accesso ai pascoli, hanno contribuito a delineare l’assetto urbanistico di borgata Castello. Quest’ultima, infatti, possiede una struttura radiale, centrata sullo spiazzo antistante la chiesa, dove si innestano le tre suddette vie di comunicazione. L’asseto urbanistico di frazione Castello è comune anche alle altre borgate presenti sul territorio di Pontechianale, le quali, in misura preponderante, ruotano attorno alla strada principale che porta al Colle dell’Agnello e ai piccoli collegamenti viari trasversali volti a rispondere alle esigenze del nucleo primitivo. In particolare, due sono le finalità attribuibili a tali sentieri: congiungevano la strada principale con i campi coltivati oppure si snodavano dentro le borgate. In questo secondo caso le vie erano sovente dotate di un ampio portale che teneva lontano visitatori indesiderati e che proteggeva dai rigori del clima. Quest’ultima tesi trova conferma nel fatto che molti di questi sentieri erano interamente coperti, proprio al fine di non esporre al freddo coloro che li percorrevano. Ai margini della strada principale che conduce al valico di confine ci sono le borgate Foresto e Maddalena, quest’ultima sede del Comune. La crescita di infrastrutture promossa a partire dagli anni Sessanta ha causato l’accorpamento di queste realtà alla vicina Rueite, rendendole paragonabili a piccoli quartieri di un nucleo urbano. In passato le tre borgate, di fatto equidistanti, erano caratterizzate da uno sviluppo modesto e controllato198. Il ruolo di capoluogo di frazione 197 198 Infossi P., (op. cit.). Ottonelli S., (op. cit.). 94 Maddalena è stato confermato anche dal recente sviluppo turistico, al quale si deve la costruzione degli impianti di risalita presenti in loco. Questi ultimi sono stati ripristinati e valorizzati dall’ultima amministrazione comunale, la quale ha promosso la ricostruzione della seggiovia. Discutendo con Alfredo Campi, sindaco di Pontechianale, è emerso come il comprensorio sciistico sia considerato una risorsa importante in termini occupazionali soprattutto per i giovani del luogo. Gli impianti di risalita danno lavoro a 16 persone, permettono di mantenere degli esercizi commerciali importanti come la panetteria e il supermercato, consentono ad alcuni maestri di sci di restare dove sono nati e cresciuti. Lo sfruttamento della risorsa turistica parrebbe quindi fornire la speranza di continuare ad abitare il territorio199. Si tratta di riflessioni che assumono caratteristiche particolari se inquadrate nel contesto sociale di Pontechianale. Il Comune, come gli altri della valle, ha subito un drammatico crollo demografico: dal 1861 al 2009 ha perso l’85% della popolazione residente. Il canonico Allais nel 1891 scrive di Pontechianale: “la popolazione dell’intiero Comune consta di 308 famiglie, ed è rappresentata dalla cifra nominale di 1566 persone” 200. Sergio Ottonelli, meno di un secolo dopo, nel 1979, conta 299 anime 201: lo scarto è talmente alto da assumere le caratteristiche di un’ecatombe. Il Comune, tuttavia, rispetto alle altre Municipalità della valle, presenta un andamento demografico anomalo. L'Istituto nazionale di statistica parrebbe confermare il decremento demografico ma, se si osservano i dati degli ultimi 20 anni, non sono presenti grosse variazioni: la popolazione di Pontechianale sembrerebbe quindi essersi assestata sulle 200 anime circa202. In questo contesto è comunque evidente come il dato occupazionale rivesta un’importanza notevole, la necessità di incrementarne la stima non può non collocarsi tra le prime preoccupazioni di un’amministrazione. La ricostruzione della seggiovia è un’opera recente, databile al 2010. È quindi ancora presto per valutarne l’effettiva portata sul tessuto economico locale. Se il turismo continua ad essere percepito come un potenziale economico importante, diverso rispetto al passato è il rapporto con l’ambiente naturale. Difficile, infatti, non notare come l’espansione edilizia incentivata negli anni Sessanta-Settanta abbia creato un forte senso di rottura con le strutture già 199 Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011. Allais C., “La Castellata. Storia dell’alta valle di Varaita”, l’Artistica Savigliano, 1985, pp. 11. 201 Ottonelli S., (op. cit.). 202 www.istat.it 200 95 esistenti, annoverabili alla tradizione costruttiva locale. Percorrendo la provinciale che conduce al Colle dell’Agnello le architetture urbane dei condomini fagocitano lo spazio un tempo occupato dalle abitazioni rurali, esempio di “organicità tra natura e cultura, tra valori formali e funzionali, determinata non solo dalle condizioni ambientali e climatiche estreme, ma anche dalla necessità di economizzare la fatica, di riutilizzare qualunque cosa” 203. Il contrasto è evidente e palesa “la speculazione edilizia di tipo parassitario” 204 innestata sul tentativo di valorizzazione turistica. Tale fenomeno è piuttosto lampante se si considera lo scarto presente tra le 101 famiglie residenti sul territorio e le 1213 abitazioni presenti205. Nella contemporaneità il Comune di Pontechianale si è dotato di un piano regolatore che limita gli stili architettonici utilizzabili sul territorio al fine di valorizzare e riproporre le modalità costruttive locali. Il sindaco, poi, ha sottolineato come la scelta di ristrutturare la seggiovia possa risultare vincente anche perché è stata effettuata su un territorio molto ricco dal punto di vista culturale. Secondo l’attuale amministrazione, “la cultura è la base di tutto”, è uno degli strumenti essenziali per la promozione del territorio. La riproposta di un turismo invernale necessita quindi di integrarsi con il tessuto culturale locale proprio al fine di mantenere se stessa nel tempo. “Se c’è cultura, se c’è storia, se c’è un paese che vive io penso che il turismo non muoia, potrà avere dei periodi di crisi ma andrà avanti”206. Il comune di Pontechianale presenta un’anomalia strutturale interessante. Esso è infatti dotato di due parrocchie, una delle quali comprende solo la borgata più a nord, Chianale, mentre la seconda riunisce le altre undici. L’isolamento di Chianale, situata a 1800 metri di altitudine, in realtà è stato causato dall’abbandono di altre tre borgate: Sellette, Chiabrand e Prachiaus, un fenomeno accaduto nel secolo scorso. Frazione Sellette, così chiamata perché sorge su una rupe caratterizzata da due dossi che conferiscono all’altura il profilo di una sella, è stata recentemente oggetto di un restauro. L’opera di ripristino ha fatto proprie le tecniche costruttive locali ed ha permesso che il paesino tornasse ad essere abitato, almeno d’estate. 203 De Rossi A., Ferrero G., “Il secolo breve dell’architettura alpina”, in L’Alpe n.1, inverno 19992000. 204 Ottonelli S., (op. cit.), pp. 108. 205 www.istat.it 206 Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011. 96 Borgata Chianale “è un caso unico in quanto a complessità urbanistica e ricchezza di spunti architettonici”207. Si tratta di una serie di caratteristiche che hanno permesso alla frazione di rientrare nel sistema “Borghi più belli d’Italia”. Situato a cavallo del Varaita, il cuore dell’antico borgo è rappresentato dal ponte in pietra che separa la chiesa di S. Lorenzo dalla cappella di S. Antonio e dall’antico tempio del culto riformato. San Lorenzo è una parrocchiale barocca che conserva un altare ligneo datato 1726. Questo termina con un arco a timpano spezzato coronato da due angioletti e si appoggia su quattro colonne tortili, realizzate in pino cembro ed ornate con tralci di vite. La chiesa di S. Antonio è stata la parrocchia di Chianale dal 1459 fino alla fine del Seicento. Il portale esterno, a triplice ghiera centinata, è ornato da capitelli che presentano visi umani e profili animaleschi, un tratto caratteristico della valle che adombra l’attribuzione alla tradizione tardo romanica. Poco distante dalla chiesa di S. Antonio è possibile osservare, benché integrato tra le case circostanti, le vestigia di un antico tempio calvinista. Come ci ricorda Sergio Ottonelli, Chianale “fu infatti, per buona parte del ‘600, l’unico centro della valle in cui fosse riconosciuto il libero esercizio del culto riformato e questa situazione privilegiata si protrasse fino alla vigilia della Revocazione dell’Editto di Nantes” 208. Gli edifici religiosi fanno da corollario ad un profilo urbanistico di grande seduzione. Percorrendo le strette stradine di Chianale, infatti, è possibile osservare una serie consistente di abitazioni che riutilizzano elementi medievali. Durante la stagione invernale, le risorse economiche e progettuali del Comune di Pontechianale sono interamente assorbite dal comprensorio sciistico. In estate, invece, le borgate si animano grazie ad una serie di attività piuttosto fitta. Tra queste numerosi sono i concerti di musica tradizionale, gli aperitivi e le cene a tema, le animazioni per i bambini e per i ragazzi. Non possono mancare, inoltre, i tornei di calcetto, pallavolo e tennis, istituiti grazie alla collaborazione dell’Enel. Tale programmazione è organizzata e realizzata dai commercianti di Pontechianale con il sostegno della proloco locale. Per stessa ammissione del sindaco, le attività promosse nel periodo estivo sono orientate soprattutto all’intrattenimento dei turisti piuttosto che alla valorizzazione del contesto culturale. Di profilo forse differente sono le diverse feste patronali che si declinano sul 207 208 Ottonelli S., (op. cit.), pp. 94. Ibidem, pp. 105. 97 territorio comunale: in estate è possibile assistere a S. Deliberata a Villaretto, S. Assunta a Castello, S. Rocco a Genzana e S. Lorenzo a Chianale209. Quest’ultima prevede che la popolazione locale indossi il costume tradizionale e nel 2010 si è articolata in una messa con incanto e concerto vocale, mentre le stradine del borgo sono state animate da un mercatino di prodotti tipici. Nell’ambito della programmazione estiva, il Comune assume il ruolo di ente finanziatore anche se si può sostenere che la sua compartecipazione in tal senso vari a seconda della manifestazione pianificata. L’intervento dell’amministrazione si fa maggiormente concreto, in termini sia economici, sia organizzativi, in relazione a “I sapori dell’Alevé” e a “Il ritorno dall’Alpe”. La prima manifestazione è dedicata alla cembreta presente sul territorio che con i suoi 825 ettari si caratterizza per essere il bosco di pini cembri più esteso d’Europa. La giornata di festa, grazie alla serie di mercatini che si snodano tra le strade della borgata centrale, vuole valorizzare i prodotti artigianali e alimentari locali. “Il ritorno dall’Alpe” si svolge a settembre e celebra la discesa delle greggi dagli alpeggi. La manifestazione ripropone in chiave moderna quello che, soprattutto in passato, era un momento di aggregazione importante. “Il ritorno dall’Alpe” si caratterizza anche per essere una vetrina considerevole per gli allevatori della zona i quali possono esporre i loro animali sul territorio comunale. Le pendici alpine circostanti Pontechianale sono solcate da una fitta rete di sentieri che lo collegano alla Francia e al Monviso. Questi però non sono stati curati dal Comune, in misura predominante essi sono stati creati e gestiti dal comparto forestale della Regione Piemonte. Tra i sentieri maggiormente suggestivi non si può non ricordare la passeggiata che si snoda nel vallone di borgata Torrette, dalla quale è possibile osservare una serie di incisioni rupestri presenti sulle rocce. La scelta comunale è stata quella di non valorizzare tale ricchezza a causa di una serie di episodi di vandalismo che si sono verificati 210. 4.2 IL MUSEO DEL MOBILE DI PONTECHIANALE Il Museo del Mobile di Pontechianale è situato nel cuore di borgata Castello. La struttura è facilmente visibile e identificabile perché situata vicino alla strada 209 210 www.ghironda.it Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011. 98 provinciale e perché segnalata con un grosso cartello. Il museo è visitabile unicamente nel periodo estivo, da luglio a settembre, con orari che variano annualmente. Durante l’estate 2010, dall’ultima settimana di luglio fino a fine agosto, è stato aperto tutti i giorni nel pomeriggio, mentre a settembre era fruibile solo di sabato e di domenica. La visita costa 2,50 euro ed è normalmente libera anche se il personale all’interno della struttura è sempre disponibile per chiarimenti ed informazioni. Il museo nasce nel 2005 su iniziativa di Celeste Ruà, Enrica Paseri e Paolo Infossi, tre privati cittadini interessati a coltivare quegli aspetti del patrimonio culturale locale percepito come tradizionale 211. Celeste, falegname di professione, appassionato di mobili e legno antico, può forse essere indicato come il principale promotore del museo. Insieme a Enrica, i due possiedono una casa a borgata Chianale nella quale risiedono soprattutto durante l’estate. La coppia è conosciuta sul territorio anche per la passione per la musica e per le serate che animano sovente nei locali della zona. L’idea di creare il museo nacque a seguito della realizzazione di un ambiente dal titolo “Vivere nel Settecento”, situato negli stessi locali dell’attuale museo. Il lavoro venne curato da Celeste «perché mi è sempre piaciuta la storia dei mobili» e in un anno fu visitato da 2500 persone. Il successo della mostra fu d’impulso alla creazione di un museo interamente dedicato alla storia della produzione mobiliera dell’alta valle Varaita anche se, come mi hanno rivelato i curatori, era loro desiderio che tale realtà avesse caratteristiche peculiari. La presenza di un museo del mobile a Pontechianale rientra all’interno di un panorama culturale particolare. In loco, infatti, vista anche l’importante presenza di materia prima di qualità, la lavorazione del legno per produrre manufatti era molto diffusa ed è considerata un’attività tradizionale. Tra gli elementi che caratterizzano la produzione mobiliera locale si possono annoverare le funzioni, legate all’uso di questi manufatti in case di montagna; la diffusa abilità manuale, che permetteva agli uomini di costruire quasi tutto ciò di cui avevano necessità; l’utilizzo del legno di conifere e di decorazioni ricorrenti212. Il risultato era il frutto di una “serie innumerevole di esperimenti di sintesi all’interno di un’antica e radicata cultura del 211 Le informazioni contenute in questo paragrafo sono riprese da alcune interviste condotte a Celeste Ruà ed Enrica Paseri in data 11/10/2009, 22/07/2010 e 6/12/2010. 212 Dematteis P., “Uno stile del mobile tradizionale detto «val Varaita»” in AA. VV., I mobili tradizionali della val Varaita. Guida ragionata e catalogo fotografico, Fusta, Saluzzo, 2006. 99 legno” basata sull’“utilizzo parsimonioso dei materiali a disposizione” e sul “rispetto verso forme e tipologie d’arredo locali”213. La produzione mobiliera seguiva il ciclo della vita degli uomini scandendone le tappe: una culla, una cassa dotale, una credenza raccontavano il percorso di un individuo, le sue fatiche e le sue ritualità214. Nel corso degli anni, si è diffusa l’espressione “stile val Varaita”, che indica la presenza di caratteristiche costruttive e ornamentali particolari nei manufatti lignei prodotti in passato sul territorio. Piero Dematteis, tuttavia, prende le distanze da tale dicitura perché preferisce sottolineare le influenze reciproche e le connessioni che, soprattutto in passato, univano i versanti. Gli elementi stilistici che accumunavano i mobili varaitini, infatti, erano diffusi anche in altre parti dell’arco alpino, “ovunque l’uomo si sia insediato adattando esigenze e modi di vita all’ambiente delle alte valli” 215. La produzione mobiliera si basava su una trasmissione di conoscenze che se avveniva all’interno della famiglia, si arricchiva anche dell’esperienza maturata durante la transumanza o la migrazione stagionale. Questa fitta rete di rapporti, di contatti, sfuma i confini culturali della valle mettendola in relazione con un contesto più ampio216. Nella seconda metà del Novecento, il progressivo esaurirsi della realizzazione di mobili si accompagna alla crescita del mercato dell’antiquariato e del mobile d’arte. Gli esemplari più numerosi e più apprezzati sono stati quasi tutti realizzati dal XII al XX secolo e provengono soprattutto dall’alta valle, in particolare dal territorio dei Comuni di Pontechianale, Bellino, Casteldelfino e da una parte di quello di Sampeyre. È in questo modo che “lo «stile Val Varaita» diventa un logo, un marchio d’origine, esteso a tutti i mobili tradizionali delle alte valli” 217. Dematteis, inoltre, fa notare il rilancio della produzione mobiliera di tipo tradizionale che si è avuta tra gli anni Sessanta e Ottanta. “Un’operazione condotta all’inizio con grande sensibilità e rispetto, che ben presto, sulla spinta di una domanda sempre crescente e sempre meno culturalmente motivata, degenererà in una produzione di largo consumo ad opera di disinvolti imitatori” 218. 213 Paseri E., “A misura d’uomo”, in AA. VV., I mobili tradizionali della val Varaita. Guida ragionata e catalogo fotografico, Fusta, Saluzzo, 2006, pp. 115-117. 214 Ibidem. 215 Dematteis P., (op. cit.), pp. 18. 216 Ibidem. 217 Ibidem pp. 20. 218 Ivi. 100 La realtà lavorativa nell’ambito della lavorazione del legno però è molto articolata: non si può negare l’esistenza di una rete di piccole imprese, di falegnami capaci che propongono nel presente la loro arte attingendo allo stile e alle modalità costruttive del passato, senza tuttavia imitarle banalmente. All’interno di un contesto economico difficile come quello della val Varaita, questi artigiani sembrano invece aver trovato una collocazione proficua. Il Museo del Mobile è quindi un’istituzione privata, totalmente gestita e amministrata da Enrica, Celeste e Paolo con l’ausilio delle sole loro risorse. L’apertura di tale realtà è stata possibile grazie anche al contributo “Valades”, erogato dall’allora Comunità Montana Valle Varaita, che ha finanziato al 50% la ristrutturazione del tetto dello stabile. Il museo, che dopo la sua istituzione non si è più avvalso di alcun tipo di sovvenzione, è situato nei locali di un antico fienile, i quali sono stati totalmente ristrutturati secondo i canoni architettonici locali. La struttura, di proprietà di Paolo e Celeste, è piuttosto piccola ma estremamente piacevole: il pavimento, così come il soppalco e la scala per raggiungerlo, sono totalmente in legno; i muri mostrano le pietre utilizzate per costruirli; le semplici teche espositive, realizzate da Celeste, sono cubi in vetro poggiati sopra i mobili in mostra o su strutture lignee appositamente create. L’effetto complessivo è di accogliente linearità. Gli oggetti presenti nel Museo del Mobile possono essere divisi in due sezioni: la collezione fissa e le esposizioni temporanee. Queste variano ogni estate e trattano argomenti diversi, la cui sola costante è quella di essere legati al territorio. La prima mostra realizzata ha esposto maschere lignee utilizzate in contesti carnevaleschi e provenienti soprattutto dal territorio del comune di Bellino. Nell’inverno 2005-2006 il museo ha eccezionalmente tenuto aperto con una collezione di mobili antichi, tipici del luogo, particolarmente interessanti per le decorazioni intagliate sulle superfici. L’estate dello stesso anno Celeste ha realizzato una mostra con la sua collezione privata di organetti, mentre l’anno dopo l’esposizione temporanea ha fornito uno spaccato dell’emigrazione dai territori dell’alta valle Varaita a partire dai primi del Novecento. Molto interessante, poi, è stata la tematica trattata nelle estati del 2008 e del 2009, quando il museo ha proposto una serie di foto e di oggetti provenienti da borgata Chiesa, la frazione di Pontechianale sommersa dalla diga costruita dall’Enel. 101 La collezione stabile presenta al piano terra del museo un ricco cassone nuziale, interamente decorato, proveniente dall’alta Valle, probabilmente da Caldane. Questo genere di mobili, così finemente intarsiati, erano solitamente dei doni fatti da un ragazzo alla sua promessa sposa. Come per i fuselli del tombolo, la finezza della decorazione era un modo per valutare le abilità tecniche dei giovani, sulle quali eventualmente basare la propria scelta matrimoniale. Sempre al piano terra del museo, è possibile osservare una credenza, un armadio e delle sedie, tutti realizzati in pino cembro. Le sedie presenti sono molto particolari perché decorate con le iniziali sia del capofamiglia cui erano state offerte, sia dell’artigiano che le aveva prodotte. Al piano superiore del museo è possibile osservare un cassettone in pino cembro, all’interno del quale veniva riposto l’abito tradizionalmente usato sul territorio. Quest’oggetto, realizzato da un signore di Pontechianale, presenta un particolare intarsio in noce, pianta non utilizzata in loco, a forma di cuore e di fiore. Accanto a questo cassettone è possibile osservare un altro armadio in pino Interno del Museo del Mobile. Foto dell’autrice. cembro intarsiato, così come un tombolo fornito di ben 39 fuselli finemente decorati. Sempre nel piano soppalcato del museo, Celeste ha esposto la riproduzione, da lui stesso realizzata, della cassetta di un venditore ambulante di bottoni, manufatto che solitamente era portato a spalle. Gli oggetti in mostra, che non sono né schedati né inventariati, si presentano in buono stato di conservazione. Il restauro dei mobili è stato curato da Celeste, ebanista di professione nonché proprietario di parte dei manufatti presenti nel museo. La stragrande maggioranza di questi ultimi, tuttavia, risulta essere in prestito temporaneo. «Nel momento in cui si mette in piedi una mostra si decide quale sarà il tema dell’anno successivo e da lì si parte e si va a raccogliere proprio in giro per le case». Gli allestimenti sono quindi realizzati grazie alla 102 collaborazione della gente di vallata che, secondo la sensibilità dei curatori del museo, risulta essere interessata a quegli aspetti della cultura locale percepiti come tradizionali. Enrica e Celeste sottolineavano come si fosse creato un rapporto particolare con coloro che hanno prestato gli oggetti. Dopo l’iniziale reticenza, è prevalso un meccanismo che Enrica sostiene essere volto alla valorizzazione dei manufatti stessi. Oggetti vissuti, oggetti della quotidianità, magari presenti da generazioni in casa, ai quali non si dava, per questo, particolare rilevanza, hanno acquisito una valenza differente dopo essere stati esposti nel museo. Avere fatto parte di un allestimento museale, in altre parole, ha aumentato l’importanza di tali beni agli occhi dei proprietari. Questo in un contesto di più generale interesse per quella che viene definita e pensata come “tradizione”. Secondo Enrica, sul territorio si è recentemente generata una voglia di tornare alle proprie radici, di scoprire il proprio passato familiare. Tale processo ha interessato aspetti culturali diversi, non solo i saperi connessi alla quotidianità, ma anche la ritualità, le feste, la musica, come ricorda Celeste. Un fenomeno di difficile interpretazione, secondo i curatori del museo, una cui possibile spiegazione è forse riscontrabile nell’«opposizione alla globalizzazione». È opinione di Enrica che quando «tutti possono avere tutto […], le cose che sono davvero uniche cominciano ad avere un valore diverso, a maggior ragione se è un qualcosa che delinea una storia tua, personale». E tale storia personale, nella sensibilità dei curatori, emerge con forza maggiore in un territorio come quello della valle che visivamente ha conservato numerosi aspetti del proprio passato. «Penso che nei posti dove si legge di più la storia, forse la vai a cercare di più». L’interesse per quegli aspetti della cultura percepiti come tradizionali influisce sul numero di visitatori del Museo del Mobile. Non è possibile indicare l’entità precisa di quest’ultimi perché i curatori non ne tengono un elenco aggiornato e il numero dei biglietti emessi è solo indicativo dal momento che alcune persone, come ad esempio gli amici o coloro che prestano gli oggetti, entrano gratuitamente. L’affluenza poi varia molto a seconda della mostra proposta: quest’anno i visitatori sono stati all’incirca 300, quasi la metà di quelli registrati in occasione dell’esposizione incentrata su borgata Chiesa. Altalenante è anche l’afflusso giornaliero, un fenomeno sottolineato da Celeste il quale sostiene che «qui tante volte entrano venti persone al giorno, tante volte una». I curatori si mostrano contenti dei visitatori che attraggono non tanto in termini di quantità, quanto 103 piuttosto, se così si può dire, di qualità. Enrica e Celeste hanno riscontrato la presenza di un’utenza fissa, interessata ogni anno all’esposizione proposta. «Sta diventando bello perché in linea di massima le persone che entrano, entrano perché sono interessate e quello è l’obbiettivo». La passione espressa nel museo si è estesa a quella parte dei visitatori che ogni estate ritornano incuriositi dal nuovo progetto, «una bellissima soddisfazione» secondo Celeste. Visto l’afflusso turistico estivo che caratterizza Pontechianale, è innegabile che gran parte dell’utenza dell’istituzione museale non sia del posto. Tuttavia, tra gli “affezionati”, i valligiani sono numerosi, a mio avviso complice non solo l’interesse per le tematiche affrontate, ma anche l’amicizia che li lega a Celeste ed Enrica, conosciuti parimenti per la musica. Il Museo del Mobile ha curato la pubblicazione del catalogo della prima mostra realizzata. “Maschere rituali in legno dell’arco alpino occidentale”, edito con il patrocinio della Comunità Montana Valle Varaita e del Comune di Pontechianale, si apre con una presentazione di Almerino de Angelis ed è stato curato da Paolo Infossi. Quest’ultimo è l’autore anche de “La vallata sommersa. Testimonianze ed immagini della frazione Chiesa di Pontechianale”, pubblicazione edita sempre dal museo. L’impossibilità di realizzare altri volumi è indicata dai curatori nell’assoluta mancanza di fondi destinati a strutture private. «Noi siamo sempre in perdita. Quest’anno è andata bene, siamo andati in pari». Le difficoltà di gestione sono sopperite dalla grande passione che Enrica e Celeste sentono per la loro creazione, un interesse rinnovato ogni anno grazie anche alla realizzazione di mostre diverse. Questi progetti nascono dal desiderio dei curatori di documentarsi, estate dopo estate, su tematiche nuove. Nell’allestimento delle esposizioni temporanee, Enrica e Celeste vedono un’occasione, anche personale, per accrescere la conoscenza del patrimonio culturale locale. Il museo si presenta in modo diverso ogni anno, differenziandosi in questo modo, secondo la sensibilità dei gestori, dalle altre realtà etnografiche presenti sul territorio. Nonostante condividano con esse l’intento di «far conoscere, mantenere, conservare e preservare», Celeste ed Enrica ritengono che la loro struttura sia maggiormente orientata alla sensibilizzazione. Tale caratteristica si esplica proprio nell’affrontare con cadenza periodica tematiche diverse ma contemporaneamente legate al territorio. Si tratta di una strategia tramite la quale viene rinnovato l’interesse dei visitatori e la loro disponibilità ad apprendere. 104 4.3 IL MUSEO DEL COSTUME E DELL’ARTIGIANATO TESSILE Il Museo del Costume e dell’Artigianato tessile sorge nel cuore di Chianale, in un’antica Missione Cappuccina219. La struttura, segnalata con un grosso pannello alle porte del paese, è facilmente raggiungibile seguendo la stradina principale che si snoda tra le case in muratura, così belle e suggestive. Anche l’edificio che ospita il museo è di indiscutibile fascino: arroccata in posizione dominante, la missione assume il suo profilo attuale a metà del Settecento. Gran parte dell’edificio, tuttavia, così come l’inizio in loco delle attività dei cappuccini, sono antecedenti: i frati si radicano sul territorio già nel 1659 al fine di combattere il culto riformato. La missione chiude i battenti nel 1794 per timore di un’invasione da parte delle truppe francesi rivoluzionarie, attacco che avvenne nello stesso anno e che causò un durissimo saccheggio di Pontechianale e delle sue borgate. Dopo qualche decennio di totale abbandono, intorno al 1820 l’edificio torna ad essere casa parrocchiale e tale rimarrà fino al secondo dopoguerra. A partire dal 1960 la missione perde nuovamente qualsiasi tipo di funzionalità, lo stato di incuria in cui era precipitata fu interrotto solo dalla ristrutturazione volta a trasformarla in sede del Museo del Costume. Quest’ultimo fu inaugurato il 13 settembre del 2008, un’occasione particolare nella quale la struttura rimase aperta tre giorni. Dal 2009, invece, il museo è aperto in maniera costante nei mesi di luglio e agosto, l’ultimo fine settimana di giugno e il primo di settembre, sempre in orario pomeridiano. La visita, che costa 2,50 euro, normalmente non è guidata ma il personale all’interno è sempre disponibile per eventuali precisazioni. La prima volta che ho visitato il museo sono stata piacevolmente accolta da Sergio, Silvana e Olimpia Ottonelli, i promotori e gestori della struttura. Sergio Ottonelli, in particolare, era una persona di grande erudizione conosciuta sul territorio anche per le sue pubblicazioni sulla storia e la cultura della val Varaita. L’intero gruppo familiare è attivo nella promozione e valorizzazione del tessuto culturale locale da più di vent’anni. In passato gli Ottonelli facevano parte di un gruppo, il Comitato per S. Lorenzo, costituitosi per organizzare la festa patronale estiva di Chianale. Quest’ultima, come riportato da Silvana, non era un semplice momento di convivialità, ma dava spazio a manifestazioni culturali di più ampio 219 Le informazioni presenti in questo paragrafo sono tratte da una serie di interviste realizzate a Olimpia, Silvana e Sergio Ottonelli, in data 30/07/2010, 23/11/2010 e 2/02/2011. 105 respiro. A San Lorenzo, il comitato organizzatore di cui gli Ottonelli erano membri curava la realizzazione di mostre fotografiche con tematiche incentrate sul territorio, spesso realizzate grazie all’ausilio di immagini prestate da persone del paese. Numerose, poi, le pubblicazioni edite dall’associazione, tra cui “Ben minjà ben begü. Alimentazione e cucina tradizionale a Chianale” e due ricerche sul costume femminile dell’alta valle Varaita, datate 1982 e 1995. Il Comitato per San Lorenzo, più in generale, era interessato alla valorizzazione della cultura locale, passione espressa anche nell’organizzazione del ballo della festa patronale. In quest’occasione, in modo pionieristico rispetto al resto della valle, venivano invitati a suonare gruppi di musica occitana. Anche quando la costituzione del museo era ancora un’idea astratta, l’associazione acquistava già materiale facente parte del costume tradizionale. Con questo termine normalmente si indica il vestito utilizzato dalle donne della Castellata, sul territorio di Bellino, Casteldelfino e Pontechianale, che, più di quello maschile, si distingueva per la sua peculiarità. Diverso da quello portato nei territori attigui, l’abito femminile era caratterizzato da una serie precisa e particolare di indumenti e da un modo specifico di indossare il grembiule. La chamizo, quasi sempre di tela di canapa, è una camicia con maniche lunghe che copriva il corpo fino a metà polpaccio. Normalmente non aveva decorazioni, salvo le iniziali ricamate con un filo rosso e un colletto di tessuto più fine, a volte di merletto lavorato al tombolo. Quando il colletto non era presente, si rimediava indossandone uno cucito su una pettorina aperta sui lati. Sopra la chamizo le donne vestivano lu gunelot, una sottana di lana e canapa, senza maniche, con scollo “a V”. Questa, in genere chiara, era foderata in basso con una fascia colorata seguita da una fettuccia. Similmente, anche la scollatura veniva bordata con un tessuto a colori vivaci, qualche volta delimitato da ricami. Scura era invece la chamizòlo, il pesante abito di panno normalmente esposto alla vista. A tronco di cono, esso si distingue per i tre particolari costoloni posteriori e per i nastri che coprivano l’attaccatura delle maniche. Sopra la chamizòlo veniva indossato lu muchèt, uno scialle quadrato piegato in modo da formare un triangolo sulla schiena. L’allacciatura anteriore di tale fazzoletto era coperta dalla pettorina che si accompagnava al grembiule. Quest’ultimo, lu fuydil, era annodato sotto le ascelle, appena sopra la curva del seno. Molto particolare è poi la cuffia della Castellata, sostituita però in tempi recenti con un fazzoletto. Il copricapo si 106 compone di una calotta in organza o in tela fine, di una parte posteriore fittamente pieghettata e di un tesa che incornicia il viso, lavorata con il tombolo per i giorni festivi. Completa l’abito tradizionale lu kulét, una monile da allacciare dietro il collo realizzato con una fettuccia ricoperta da perline di vetro. Da questo primo elemento si diparte un nastro cui sono fissati in alto un cuore e in basso una croce, normalmente dorate. Il vestito, così sommariamente descritto, fu indossato dalle donne della Castellata grosso modo dal Settecento fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Il passare del tempo ha apportato delle modifiche all’abito, come già si è detto in relazione alla cuffia. Il vestito utilizzato nella quotidianità, inoltre, era diverso da quello indossato in occasioni festive, più sfarzoso e realizzato con materiali pregiati. I termini usati nella descrizione sono quelli diffusi sul territorio di Chianale, negli altri comuni interessati le singole parti del vestito potevano avere denominazioni diverse220. Le fonti iconografiche, non solo la ritrattistica ma anche le fotografie d’epoca, forniscono una documentazione sul sistema vestimentario che appare caratterizzata in termini di genere. L’abbigliamento degli uomini, già a partire dal secondo Settecento, riflette l’adeguamento alla moda borghese e cittadina, raccontando così gli effetti della mobilità, della connessione tra montagna e pianura, dell’emigrazione stagionale, temporanea e maschile. Gli abiti femminili, per contro, sono quelli tradizionalmente tramandati e rivelano le tipologie locali, le differenze di vallata o di villaggio, la tenace resistenza dei capi, dei modelli e dei colori settecenteschi221. L’esodo stagionale degli uomini ha avuto delle ripercussioni non solo sulle modalità di abbigliarsi, ma anche sul ruolo della donna all’interno del contesto sociale. Nelle realtà spopolate per alcuni mesi all’anno dalla controparte maschile, avveniva una sorta di “femminilizzazione” della vita economica, sociale e lavorativa. Soprattutto nei territori in cui la migrazione aveva luogo durante l’estate, le donne si facevano carico sia dei lavori agricoli, sia di quelli relativi all’alpeggio. A causa di tale fenomeno, la laboriosità femminile è divenuta una specie di topos della letteratura alpina scientifica e di viaggio. Tuttavia, nonostante la gravosità del carico di lavoro lasciato dagli emigranti sulle spalle delle donne, i 220 AA. VV., “Froli e sanchet. Il costume femminile in alta valle Varaita”, edizioni del Comitato per S. Lorenzo (Chianale), Torino, 1995. 221 Gri G.P., “Tessere tela, tessere simboli. Antropologia e storia dell’abbigliamento in area alpina”, Forum, Udine, 2000. 107 lavori svolti da quest’ultime erano caratterizzati da uno scarso valore economico e da una bassa considerazione sociale, aspetti per i quali le Alpi non differivano dalle altre società rurali italiane. Elementi importanti di distinzione si hanno, invece, per quanto riguarda gli ambiti decisionali di cui godeva la controparte femminile in assenza di padri, mariti e fratelli. Sulle montagne piemontesi, gli atti notarili del Settecento e dell’Ottocento documentano la diffusa pratica di delegare alle donne di famiglia la gestione tanto dei patrimoni fondiari, quanto dei proventi finanziari della migrazione. Tale ricorso alle autorità amministrative e giudiziarie implicava per le madri e le mogli la necessità di acquisire una certa dimestichezza con la scrittura ed il calcolo matematico. Si tratta di una tendenza dimostrata anche dall’analisi della distribuzione e dello sviluppo dell’alfabetismo femminile, in rapida crescita sulle montagne a partire dai primi dell’Ottocento. La maggiore autonomia di cui godevano le donne a causa della migrazione dei loro padri e mariti non era relativa solo alla gestione della casa, della terra e del denaro familiare, ma investiva anche altri ambiti di natura tanto privata quanto pubblica. L’analisi dei testamenti in alcune comunità montane del versante francese ha permesso di osservare come le donne avessero diritto alla proprietà della terra e come tali possedimenti facessero parte della loro dote. I mariti, poi, non potevano sottrarre alle loro mogli né la terra né i beni componenti la dote stessa. Nelle realtà alpine caratterizzate da una forte emigrazione maschile pare, inoltre, che ci fosse una minore insistenza sui valori della verginità, della sottomissione, dell’onore e un giudizio meno rigido sulla maternità delle nubili 222. Gli inconsueti margini di autonomia delle donne di montagna, non devono indurre a considerare la condizione femminile paritaria in rapporto a quella maschile. È necessario, inoltre, sottolineare le profonde disuguaglianze presenti nei paesi e tra i versanti. Per esempio, è facile immaginare che le donne sposate godessero di una considerazione differente rispetto a quelle nubili, così come “si può presumere che la condizione della donna fosse diversa nelle Alpi francesi, dove prevalevano costumi di divisibilità ereditaria, rispetto alle Alpi austriache dove la proprietà veniva trasmessa ad un solo erede maschio”223. Tuttavia, le mogli, le sorelle, le madri che popolavano l’arco alpino occupavano un posto centrale nelle società in 222 Audenino P., Corti P., “Il mondo diviso. Uomini che partono, donne che restano”, in L’Alpe n.4, giugno 2001. 223 Viazzo P.P., “Alpi: terra di donne?”, in L’Alpe n.4, giugno 2001, pp. 11. 108 cui vivevano ed ebbero la possibilità di sperimentare una forma di gestione della famiglia, della terra e del denaro del tutto precoce ed estranea al resto della società preindustriale224. L’abbigliamento di una comunità è il suo specchio, il suo doppio. Trasmette informazioni sui valori, sui confini, sulla storia, sulla conformazione interna di una società. Si tratta di un fenomeno riscontrabile anche nelle Alpi, dove, appunto, le dissomiglianze di genere relative al modo di abbigliarsi riflettevano i diversi percorsi di vita di uomini e donne. Queste ultime, in particolare, sembrano essere legate al costume locale perché meno condizionate da elementi esterni rispetto ai loro compagni che migravano. È, quindi, dall’abbigliamento femminile che si distinguono i paesi, le valli, le epoche, è attraverso i vestiti della donne che si delimitano i confini di una comunità. L’abbigliamento femminile si carica così di significati profondi: esso diventa una risorsa simbolica che veicola e rivela il senso di appartenenza al territorio. Il rigido sistema vestimentario tradizionale contribuisce, pertanto, a creare, tutelare, preservare ed esibire il sentimento di adesione a una comunità. La ricerca antropologica ha modificato la propria “cassetta degli attrezzi” in relazione ai significati ed alle funzioni del senso di appartenenza, inteso non più come un fenomeno di struttura, una realtà oggettiva, ma come un flusso, una costruzione in continua rielaborazione 225. “I Noinonostante tutti i loro tentativi di reificazione e solidificazione- sono strutture inevitabilmente aperte, sensibili a ciò che proviene dall’alterità”226. Per costruire le proprie Forme di Umanità, i soggetti sociali si alimentano delle diversità riscontrate nel presente di altre società o nel proprio stesso passato 227. Si tratta di un meccanismo palesato anche dal sistema vestimentario: mentre gli abiti erano esibiti e sentiti come locali, come caratterizzanti un territorio perché ereditati dagli antenati, i dettagli, gli ori, i nastri di seta, i bottoni, rimandano a botteghe lontane e ai collegamenti operati dagli ambulanti 228. Studi antropologici recenti hanno dimostrato l’esistenza di atteggiamenti femminili diversi in relazione ai costumi tradizionali: se in certe zone l’aver avuto la forza di cambiare era mostrata con orgoglio, altrove era il vestito tradizionale a essere 224 Ibidem. Gri G.P., (op. cit.). 226 Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini A., Costruire il passato. Il dibattito sulle tradizioni in Africa e in Oceania, Paravia, Torino, 1999, pp. XII. 227 Ivi. 228 Gri G.P., (op. cit.). 225 109 indossato con fierezza. Questo è forse il caso delle donne Ottonelli, una famiglia che, in generale, mi sembra legata anche affettivamente all’abito tipico dell’alta valle. Il fatto stesso che il sistema vestimentario fosse stato condiviso dai loro avi, mi pare abbia orientato l’atteggiamento degli Ottonelli nel presente: come mi ha confidato Olimpia «Io mi sono sposata in costume, nel vestito da sposa di mia nonna». Oltre a tale legame di carattere personale, la passione di questa famiglia per l’abito tradizionale ha altre ragioni. Durante la festa di S. Lorenzo «era diventata un’abitudine» vestirlo, come mi hanno rivelato Silvana e Olimpia, ma tale pratica non può essere considerata una manifestazione di tipo folklorico. Chianale e i suoi abitanti mantengono una relazione particolare con il costume femminile perché in loco è stato portato quotidianamente da alcune donne fino agli inizi degli anni Settanta. La piccola borgata al confine con la Francia è stato quindi l’ultimo paese della valle ad abbandonare tale modalità di abbigliarsi. Questa passione della famiglia Ottonelli, alimentata in modi diversi, ha quindi dato origine alle collezioni presenti nel museo, create grazie all’acquisto di capi da privati e antiquari ma soprattutto all’incanto229. L’attività di ricerca sull’abbigliamento tradizionale è stata accresciuta negli ultimi dieci anni quando l’organizzazione della festa di S. Lorenzo è passata alle proloco e l’obiettivo primo del Comitato è diventato la realizzazione della struttura museale. Attualmente la collezione è composta da 700 manufatti selezionati e in buono stato di conservazione, il cui cuore è costituito da abiti femminili. Tutti i beni sono inseriti in un inventario informatizzato che comprende, per la maggior parte dei manufatti, anche una fotografia. Silvana difende inoltre l’importanza di un altro inventario, in formato cartaceo, un vero e proprio quaderno all’interno del quale vengono annotati gli acquisti, il loro prezzo e la data, le donazioni e il nome di chi le ha offerte. L’inventario, così come tutti gli altri aspetti gestionali e organizzativi del museo, sono curati dalla famiglia Ottonelli, mentre con il resto del Comitato di S. Lorenzo si realizzano solo sporadiche collaborazioni. Anche l’allestimento è stato interamente progettato, e in parte realizzato, dagli Ottonelli. Silvana e Olimpia mi hanno raccontato dell’entusiasmo maturato per 229 Espressione utilizzata per indicare le aste che solitamente seguono le messe proferite in occasioni particolari. Il ricavato degli acquisti così realizzati viene devoluto alle piccole chiese o cappelle. 110 l’attività di disposizione degli oggetti e di creazione delle vetrine. «È stata una cosa molto artigianale e molto appassionante. Ci ha appassionato anche proprio l’esecuzione materiale. Veder nascere da pezzi di stoffa messi così e vederli prendere vita… è stata una cosa magnifica». L’esito del lavoro di allestimento ha interessato una sala articolata su due piani. Quello inferiore si apre con due strutture autoportanti finalizzate all’esposizione di fotografie. Su una, in particolare, sono presentate le tavole fotografiche realizzate dal parroco don Luigi Gianotti all’inizio del Novecento. Si tratta di un fondo molto importante perché il Padre era l’unico fotografo residente in Chianale ed ha così avuto modo di raccogliere numerose testimonianze di vita locale. La seconda struttura autoportante espone fotografie di diversa provenienza attestanti l’infanzia vissuta tra il 1850 e la fine del secondo conflitto mondiale. Proprio di fronte all’ingresso della sala una pedana ospita alcuni manichini in legno ognuno dei quali presenta un capo facente parte dell’abito tradizionale femminile. In mezzo ad essi un altro manichino totalmente abbigliato documenta il risultato finale della vestizione. Alle spalle della struttura, dal sottoscala che troneggia al centro dell’ambiente sono state ricavate alcune vetrine che espongono i vestiti da sposa più preziosi. Le teche presenti sul muro perimetrale contengono Sampeyre o sottane di dell’alta valle Varaita, cuffie da bambino con il pizzo in crine di cavallo e alcuni preziosi. monili discretamente Importante per dimensioni e forma è la vetrina La vetrina che segue la curva absidale all’interno del Museo del Costume. che segue la curva absidale ricalcandone la linea. Al suo interno è possibile osservare una serie interessante di cuffie da donna utilizzate quotidianamente o nei giorni festivi, fazzoletti da spalla o da testa provenienti da Sampeyre o dai comuni della Castellata ed infine pettorine di diverso tessuto che venivano cucite o attaccate al grembiule. Altri tre espositori in legno sono poi situati lungo il percorso di visita al fine di mostrare, rispettivamente, una serie 111 cospicua di nastri, alcuni indumenti da bambino e gli oggetti necessari per la lavorazione al tombolo. Tanto la parte inferiore di queste teche, realizzata in legno locale, quanto tutte le vetrine del piano superiore sono state create artigianalmente da Sergio Ottonelli. Come da espresso desiderio dei curatori, le strutture espositive sono di lineare semplicità al fine di non creare contrasto con la pregevole architettura degli ambienti. Tra di essi, piccolo ma decisamente suggestivo, coperto con una volta a ombrello, è il vano dell’antica sacrestia, accessibile dal piano inferiore. Quest’area vuole essere una sala multimediale all’interno della quale proiettare foto o video. Parte dell’esposizione presente nel locale al piano superiore documenta la produzione e l’uso del drap, un particolare tipo di tessuto ottenuto facendo infeltrire “a freddo” la lana. Vetrine a parte sono poi dedicate tanto alle sottane in “mezzalana”, una tela realizzata intrecciando lana e canapa, tanto alle calzature di panno, utilizzate fino ad anni recenti nella stagione fredda. Al piano superiore sono poi esposte alcune coperte fyasà, tipiche della locale tessitura e realizzate con l’ausilio di telai molto grossi e appositamente designati. L’allestimento del Museo del Costume è stato realizzato dalla famiglia Ottonelli anche grazie ad alcuni finanziamenti: il primo erogato dall’Interreg IIIA Alcotra Sittalp (€ 12.500), l’altro stanziato dalla Regione Piemonte grazie alla legge 58/1978 (€ 6.000). La restaurazione della Missione Cappuccina, di proprietà della parrocchia ma in comodato d’uso al Comitato per S. Lorenzo, ha comportato un impiego importante di mezzi finanziari ed è stato possibile grazie al progetto museale presente. Il gruppo di fondi maggiormente consistente, infatti, è stato erogato dall’Unione Europea sulla base di un’iniziativa che destinava fondi per la ristrutturazione di edifici sede di musei (circa € 380.000 su progetto Interreg IIIA Alcotra Sittalp). Il primo contributo (£ 3.000.000), invece, è stato stanziato nel 2001 dalla Cassa di Risparmio di Saluzzo per mettere in sicurezza il tetto in lose della missione. Successivamente, un più ampio intervento realizzato dalla Comunità Montana Valle Varaita (circa € 32.000), ha permesso il recupero della loggia situata a sud dell’edificio, la quale si stava progressivamente staccando dal corpo principale. I contributi regionali ed europei presentano tutti una quota di cofinanziamento dall’importo variabile. È sempre l’Unione Europea che ha aiutato il Museo del Costume a realizzare la sua prima attività didattica. Nell’ambito del Piano Integrato Transfrontaliero 112 Marittime Mercantour, il museo ha ricevuto un fondo da utilizzare per collaborare con le scuole. Il finanziamento copriva il viaggio, il pranzo ed il pernottamento degli studenti, l’entrata al museo, il riscaldamento dello stesso e l’impegno dei gestori. I progetti proposti sono stati accettati da due classi della scuola elementare di Piasco e da una dell’Istituto d’Arte Bodoni di Saluzzo. Con i ragazzi più grandi l’attività si è incentrata sull’arte del ricamo realizzato seguendo le modalità tradizionalmente presenti sul territorio. «Invece per i bambini delle elementari […] abbiamo preparato delle sagome in cartoncino che dovevano vestire con tutti i capi d’abbigliamento». Nonostante qualche iniziale preoccupazione Silvana e Olimpia hanno riscontrato l’esito positivo del progetto «Avevamo molti timori e invece è andata benissimo. […] È stata una cosa riuscita». Durante il suo primo anno di apertura, nel corso dei mesi estivi in cui era accessibile, il Museo del Costume è stato visitato da circa 3.000 persone. Duemila settecento, invece, gli ingressi registrati l’estate successiva. Si tratta di cifre consistenti e accertate dal numero di biglietti emessi, regolarmente segnato su un quaderno interno. A questi visitatori devono però aggiungersi i residenti in Chianale o coloro i quali, originari del paese, vi ritornano in vacanza. Queste persone non pagano il prezzo d’ingresso e, quindi, non è possibile stabilirne l’entità precisa. Si tratta di un gruppo particolare di visitatori con i quali i gestori sembrano intrattenere un rapporto speciale «La gente del luogo qui entra, è casa sua. Vogliamo che sia così. Ci sono delle persone, francesi, figli di immigrati, che hanno la casa qui, che vengono tutti i giorni. Fanno il loro giro, si siedono un momento, è una cosa che a loro piace da matti. È una cosa magnifica». Nonostante il successo ottenuto nei primi due anni di apertura gli Ottonelli continuano ad avere progetti per potenziare la struttura museale. «Volevamo fare un dvd di presentazione di attività artigianali legate al museo tipo la fabbricazione dei bottoni, il telaio, la vestizione di una donna, qualche leggenda che riguarda il filo, la filatura». È sentita la necessità di aumentare la componente multimediale per meglio sfruttare il vano dell’antica sacrestia e la postazione computer recentemente acquistata. Altri progetti riguardano, invece, la gestione e l’esposizione degli oggetti. Gli Ottonelli pensano tanto alla compilazione di una schedatura dei manufatti, contenente informazioni maggiormente approfondite rispetto a quelle presenti nell’inventario, quanto alla realizzazione di una nuova 113 vetrina che esponga materiale prezioso di nuova acquisizione. Sergio, in particolare, riscontrava come le donazioni fossero aumentate dopo l’apertura del museo: «è stata un’estate magnifica dal punto di vista delle acquisizioni, un colpo di fortuna dopo l’altro, abbiamo avuto delle donazioni straordinarie, eccezionali, cose che non avremmo mai pensato». In particolare, proprio il numero delle donazioni sembra essersi incrementato a causa della visibilità del Museo: «abbiamo avuto delle donazioni di grande valore perché cominciano a vedere un punto di riferimento». 4.4 CONTRO LA COLONIZZAZIONE DELL’IMMAGINARIO A fini esplicativi, vorrei tentare di pensare ai prodotti e alle manifestazioni della cultura alpina in termini di beni culturali. Questa espressione è entrata di recente a fare parte del lessico specialistico e viene usata per indicare i componenti materiali ed immateriali del patrimonio. Introdotta per la prima volta nel 1954 dalla Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali in caso di guerra, la dicitura in questione è stata ripresa in Italia un decennio dopo dalla Commissione Franceschini. Quest’ultima era stata incaricata di formulare proposte per la salvaguardia del patrimonio storico e artistico, la cui tutela era diventata un compito della Repubblica previsto anche dalla Costituzione. Rispetto alla precedente Legge Bottai (1939), il cambiamento intercorso fu notevole: venne superata una visione dei beni culturali fondata sul concetto del bello, del raro, del prezioso, per considerarli invece “testimoni di civiltà”. Non soltanto “monumenti” quindi, ma anche “documenti” in grado di rappresentare i valori di una cultura indipendentemente dal loro carattere estetico 230. Secondo Daniele Jalla è possibile riconoscere tre tipologie di beni culturali in area alpina: i beni tradizionali, le cui caratteristiche non sono fondamentalmente cambiate da quelle che possedevano in passato; i beni innovati, che hanno invece subito un processo di mutamento; infine i beni contemporanei, la cui introduzione è recente e risponde alle esigenze della contemporaneità. Per quanto riguarda i beni tradizionali, con tale denominazione non vengono indicati quei prodotti o quelle manifestazioni culturali del tutto esenti da modifiche, in quanto, 230 Jalla D., “La tradizione siamo noi”, in L’Alpe n.9, dicembre 2003. 114 semplicemente, ciò non è possibile. “I centri, le regioni ed i territori precisamente delimitati non esistono prima dei contatti”231. Con la denominazione in questione, invece, vengono indicati quei beni la cui qualità e specificità si fonda su un insieme di ingredienti solo marginalmente modificati dal mutato contesto sociale ed economico. Affinché un bene culturale sia identificato come tale è necessario che la sua qualità e il suo valore siano socialmente riconosciuti. Tale considerazione è figlia dell’idea di cultura propria di una società e del tempo in cui si muove; si tratta, in altri termini, di un valore storicamente determinato. Quando un bene è considerato culturale, esso viene sottoposto a una speciale protezione fisica e giuridica che varia in relazione al valore assegnato al bene stesso. Quest’ultimo è quindi sottoposto a un regime di tutela, le cui forme e modalità possono essere diverse232. Al fine di tutelare i beni culturali in area alpina è necessario che questa funzione non si ponga soltanto in termini passivi come “esercizio delle attività dirette ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione”233. Una tutela efficace deve prevedere anche forme di sostegno e di incentivazione che assicurino vitalità e futuro alle manifestazioni e ai prodotti culturali presenti sul territorio. È quindi necessario che la tutela si avvicini al concetto di valorizzazione intesa come “ esercizio delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso” 234. Per tutelare-valorizzare il patrimonio culturale alpino è necessario agire anche in termini economici prendendo in considerazione non soltanto l’offerta ma anche la domanda. Si tratta di una strategia volta a creare un rapporto nuovo tra collettività e patrimonio, un rapporto più consapevole del valore della cultura e del suo impatto sulla vita quotidiana. La sopravvivenza e vitalità del patrimonio culturale alpino sono legate al fatto di essere o divenire parte di una cultura diffusa e radicata che risponde ai bisogni, desideri e necessità della contemporaneità 235. 231 Clifford J., “Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX”, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. 232 Jalla D., (op. cit.). 233 Art. 3 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. 234 Art. 6 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. 235 Jalla D., (op. cit.). 115 A mio avviso, le funzioni di tutela e valorizzazione dei beni DEA delineate dal Codice dei Beni Culturali sono svolte all’interno di alcuni musei etnografici presenti nell’arco alpino. La prima istituzione di questo tipo, nella montagna piemontese, nasce a Coumboscuro, in Valle Grana, nel 1961. L’opera di Sergio Arneodo rientra in una corrente di museografia spontanea che si sviluppa nell’Italia del centro-nord negli anni Sessanta-Settanta del Novecento. Si tratta del periodo del cosiddetto boom economico, la fase di grande sviluppo delle industrie che attirano manodopera dalle campagne. Mentre queste rapidamente si spopolano, viene abbandonato e ripudiato lo stile di vita contadino, considerato foriero di miserie in contrasto con la dimensione del benessere che l’industrializzazione portava con sé. Sono anni all’insegna della dimenticanza, è forte il desiderio di “perdere ciò che ci portiamo dietro”, “l’odore di vacca e di stalla”. In quel periodo mondi sicuramente di sofferenza, povertà e miseria, ma anche di competenze e di saperi vengono cancellati, si vogliono dimenticare236. La museografia spontanea nasce come risposta a tale tendenza all’oblio, come “coscienza del prezzo pagato per il passaggio ad una vita migliore”237. Creati in stretto rapporto con i rigattieri e le discariche di colpo piene di oggetti del mondo contadino, i primi musei etnografici cercano di “trovare l’ordine smarrito delle cose” 238. La raccolta di manufatti diventa importante per fissare la memoria in un’immagine meno turbinosa del passato e in situazioni, come quella dell’arco alpino occidentale, caratterizzate da una forte diaspora, essi contribuiscono a mantenere nel luogo di origine un centro simbolico. Alcuni musei della montagna cuneese corrispondono a questo modello di genesi. Si tratta, a mio avviso, delle istituzioni più antiche presenti sul territorio o di quelle gestite e create da persone ancorate a una visione nostalgica del passato. Come sottolineato in precedenza, numerose pubblicazioni239 mostrano la crescita esponenziale di musei etnografici in Piemonte e in area montana. Nonostante le caratteristiche che accomunano queste realtà e che sono chiaramente percepibili 236 Clemente P., “La poubelle agréée : oggetti, memoria e musei del mondo contadino” in Parole Chiave 9. La memoria e le cose, Donzelli, Roma, 1996. 237 Cirese A. M., “Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine”, Einaudi, Torino, 1977. 238 Clemente P., (op. cit.). 239 Cito due esempi: Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei in Piemonte e Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009 e Bravo G.L., “Feste, masche, contadini: racconto storico- etnografico sul basso Piemonte”, Carocci, Roma, 2005. 116 anche dopo una prima visita, altrettante sono le differenze rilevabili. I musei etnografici presentano delle diversità nel modo in cui sono gestite, studiate, analizzate le collezioni; nell’allestimento stesso e nel rapporto con le moderne tecniche espositive; nei programmi rivolti ai visitatori così come nel coinvolgimento delle comunità locali. La definizione stessa di museo etnografico sembra aver subito una dilatazione, una contorsione fino a comprendere al suo interno fenomeni molto diversi accomunati solo da “somiglianze di famiglia” 240. In tale mosaico di complessità e di varietà mi è parso di cogliere una tendenza recente ascrivibile ad alcune aree montane di particolare fervore creativo. Tra queste zone alpine attente al contesto culturale locale mi sentirei di includere anche la val Varaita. Se spostiamo l’attenzione dalle collezioni ai protagonisti, dagli oggetti e tecniche espositive a coloro che hanno fondato i musei, emergono dinamiche interessanti. I curatori delle realtà etnografiche varaitine fanno parte di categorie professionali diverse, tra di loro vi sono studenti, insegnanti, artigiani, architetti, commercianti e anche qualche pensionato. Il lavoro svolto dai miei informatori e le loro esperienze di vita li ha messi in contatto con le strutture sociali contemporanee, ambiti in cui essi appaiono attivi e dinamici. I gestori delle realtà etnografiche con le quali sono entrata in contatto non sono persone chiuse, immerse in un passato rurale. Essi sembrano interagire in modo particolare con tale dimensione temporale: in valle gli anni de “Il mondo dei vinti”241 sono lontani, il passato non è più fonte di imbarazzo o di vergogna, né si guarda ad esso con nostalgia. I musei non nascono più come contraltare di una generale tendenza all’oblio ma sembrano ancorarsi in un contesto in cui pare sorpassato il “complesso di subalternità nei confronti della civiltà urbana” così ben teorizzato da Camanni 242. Con il passato, infatti, è necessario avere un rapporto organico in quanto al suo interno si trovano le fonti del sentimento di appartenenza, i fondamenti di ciò che riteniamo dovere essere. Il passato deve essere individuato, selezionato e riconfermato, perderlo è un rischio perché mina le basi della rivendicazione identitaria. Quest’ultima tuttavia può essere preclusa da un eccessivo avvicinamento a tale dimensione temporale, dalla quale è quindi necessario, 240 Wittgenstein L., “Ricerche filosofiche”,Einaudi, Torino, 1983. Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002. 242 Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 1997. 241 117 contemporaneamente, allontanarsi. Il passato, tuttavia, non è una dimensione oggettivamente data e definita, il colonialismo ha dimostrato come, per quei popoli che l’hanno subito, si sia creata la necessità non solo di ripristinare un rapporto con il passato, ma anche di sceglierne uno. Proprio l’esperienza delle devastazioni coloniali ha dato prova dell’esistenza di una pluralità di passati i quali attendono di essere rintracciati e immaginati per porsi come ispiratori e fautori del senso di appartenenza a un contesto culturale e sociale. Tuttavia non esistono dei passati preconfezionati, al contrario questi sono oggetto non soltanto di scelta, ma anche di costruzione. Tutte queste caratteristiche, la discontinuità, la molteplicità, la capacità di essere oggetto di selezione, rappresentazione, costruzione ed anche di reificazione, spostano l’attenzione dal passato al presente. È a partire da un presente, da un Noi in un presente che un certo passato prende corpo e si costruisce una storia. Le due dimensioni così indicate hanno quindi un rapporto bidirezionale: le caratteristiche, le necessità del presente costruiscono il passato; quest’ultimo, così delineato, ispira il presente nella sua inevitabile progettualità di futuro243. Attraverso le loro esposizioni e attività, a mio modo di vedere, i musei etnografici varaitini sviluppano un tipo di rapporto organico con il passato. Come è chiaro, i modelli socio culturali degli avi non vengono più riproposti nel presente, tuttavia da essi si attinge per agire nella contemporaneità. La rivalutazione di un passato scelto e selezionato è l’assunto di partenza per vivere nell’oggi, per affermarsi come presenza culturale. Il rapporto così definito con tale dimensione temporale si accompagna alla risemantizzazione del contesto culturale in cui sorgono i musei. Le realtà etnografiche, infatti, si fanno portatrici di un processo di individuazione e definizione dei beni DEA presenti sul territorio, in un’ottica di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale così delineato. Attraverso i processi di rivalutazione del passato e di ridefinizione della dimensione culturale locale, i musei di valle e i loro curatori si fanno portatori di una nuova visione della Forma di Umanità244 abitante lo spazio alpino. Questo 243 Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino, 1999. 244 Espressione utilizzata dal Professor Remotti in Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino, 1999. 118 fenomeno, al quale mi piace pensare in termini di antropopoiesi 245, è anche una scelta ideologica che, a mio avviso si articola in due componenti. In val Varaita, come è chiaro, non è presente una totale adesione né ai modelli considerati tradizionali, derivati dal passato, né a quelli urbani. Secondo Valentina Porcallana è possibile parlare di colonizzazione dello spazio alpino da parte della città. Le popolazioni di montagna subirono la presenza massiccia di un altro gruppo umano, sperimentarono l’imposizione di una diversa dimensione della temporalità e della spazialità, cui fece da contraltare la frantumazione culturale, la perdita del senso di sé e del proprio ruolo sociale246. Un fenomeno analogo è stato riscontrato anche da Camanni. Il complesso di subalternità nei confronti della civiltà urbana teorizzato dall’autore presuppone una “colonizzazione dell’immaginario” 247 finalizzata a uniformare il contesto culturale ed economico alpino a modelli cittadini. Attualmente però sul territorio mi è parso di cogliere se non un rifiuto dello stile di vita e dei modelli di consumo urbani, sicuramente la necessità di adattarli al territorio. A più voci, inoltre, viene criticata quella modernità paventata dai modelli urbani, la quale non si è dimostrata foriera del benessere che pareva promettere. La modernità, per essere tale, prende le distanze da qualsiasi tipo di cultura e tradizione. Essa ha la pretesa di essere non una Forma di Umanità tra le tante, ma l’unica possibile e corretta. Tale concezione si radica nell’idea propria della modernità di basarsi sulla conoscenza della natura, una conoscenza che le 245 Secondo Francesco Remotti, l’essere umano modella costantemente società e cultura perché tramite tale fenomeno egli plasma se stesso ed ottiene il completamento di cui ha bisogno. In antropologia culturale, Clifford Geerz riprende il tema dell’uomo come animale “difettoso”, “incompiuto”, incapace di sopravvivere facendo affidamento sulle sole caratteristiche biologiche. La cultura interviene a colmare le lacune intrinseche la specie umana e diviene quindi strumento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Come sostiene Herder, l’apparato culturale è una seconda genesi dell’uomo che dura tutta la vita. La cultura ha quindi un compito antropogenetico irrinunciabile ma anche continuo, incessante ed inevitabilmente arbitrario e contingente. La prospettiva antropogenetica, tuttavia, rifiuta qualsiasi forma di determinismo culturale perché non reifica società e cultura. Queste non sono entità indipendenti rispetto alle persone, al contrario esse sono delle creazioni dell’uomo, attraverso le quali egli plasma se stesso. L’antropogenesi assume quindi le caratteristiche anche di antropopoiesi. Secondo tale prospettiva, l’essere umano è dotato di un certo grado di libertà nel momento in cui costruisce se stesso. Tale forma di autodeterminazione si traduce anche in una mancanza di modelli fissi, di forme di umanità cui attingere. Il processo di antropopoiesi è quindi assolutamente arbitrario ma ammettere questa caratteristica significherebbe indebolirne l’efficacia. Al fine di evitare tale delegittimazione si dotano i modelli di umanità di indipendenza e autonomia, rinnegando la libertà di scelta e considerandoli un’imposizione di “altri”, come gli antenati o gli spiriti. 246 Porcellana V., “Il paese dove le galline beccano le stelle. Riflessioni antropologiche sul mondo alpino contemporaneo”, in Giordano E., Delfino L., Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità, Priuli & Verlucca, Torino, 2009. 247 Gruzinski S., “La colonizzazione dell’immaginario. Società indigene e occidentalizzazione nel Messico spagnolo”, Einaudi, Torino, 1994. 119 permetterebbe di svelare e far conoscere al mondo le strutture naturali dell’umanità. Espandendosi la modernità ha distrutto le peculiarità locali che incontrava sul suo cammino senza poter realizzare strategie differenti in quanto la Forma di Umanità che propone non permette diversità248. A mio modo di vedere, le politiche di patrimonializzazione condotte dai curatori dei musei etnografici varaitini si fanno portatrici di questo particolare rapporto sia con la modernità, sia con quegli aspetti della propria cultura percepiti come tradizionali. Il contatto con l’alterità, intesa tanto in senso spaziale e sincronico, tanto in senso temporale e diacronico, fornisce piuttosto una serie di elementi che vengono reinterpretati, deviati in circoli interpretativi impregnati di località, fino a considerarli facenti parte del proprio essere Umanità nel presente 249. I curatori delle realtà etnografiche di valle possono essere descritti come dei montanari “per scelta”250, mi pare che essi sviluppino “un’alpinità progettata”251, fatta di amore per il territorio e di attività concrete per rendere dinamico e creativo il contesto culturale locale. Una parte di queste persone, come Fabrizio Dovo, Ilaria Peyracchia e il compianto Sergio Ottonelli, similmente ai passeurs culturels d’oltreoceano descritti da Adriano Favole e Matteo Aria 252, si sono formati in contesti diversi da quelli di origine. Il loro ritorno sulle montagne si è concretizzato in un processo di “rivalorizzazione di luoghi, memorie e tradizioni” 253 anche attraverso saperi imparati in contesti diversi. Alcuni fondatori delle realtà etnografiche alpine, tra cui mi pare di poter annoverare parte dell’associazione “Jer à la Vilo”, la famiglia Ottonelli e di nuovo Ilaria Peyracchia, ha invece scelto di abitare la montagna. Tale decisione non appare sempre indolore perché sono ancora numerose le difficoltà connesse alla mancanza dei servizi essenziali, agli spostamenti non agevoli, e alla penuria di lavoro. Queste persone cominciano a parlare della loro scelta come “eticamente”, “politicamente”, “ecologicamente” corretta, oppure, più semplicemente ma in modo altrettanto esplicativo, come una scelta di affezione, nonostante le difficoltà dell’isolamento e della solitudine. Sul campo parrebbe essere percepibile non più una dinamica di spopolamento, ma di 248 Remotti F., “Prima lezione di antropologia”, Laterza, Bari, 2000. Remotti F., (op. cit.), 1999. 250 Camanni E., (op. cit.). 251 Espressione ripresa dall’intervento di Giuseppe Dematteis al Primo Forum sul Patrimonio culturale nell’ambito del Piano Integrato Transfrontaliero PNM/PNAM. 252 Aria M., Favole A., “Passeurs culturels. Patrimonializzazione condivisa, creatività culturale nell’Oceania francofona”, articolo di prossima pubblicazione. 253 Ibidem. 249 120 sottopopolamento, tale per cui coloro che vivono l’arco alpino non guardano con nostalgia al passato o con invidia all’area urbana, ma ragionano in termini concreti per creare le possibilità di continuare a vivere il territorio. 121 CONCLUSIONE I paragrafi che chiudono i capitoli della tesi trattano di quello che Daniele Jalla definisce “il sistema di regole proprio di un museo”. Ognuno di essi, quindi, affronta rispettivamente la sede, le collezioni, il pubblico e i protagonisti delle realtà etnografiche varaitine. Rispetto ai paragrafi precedenti, che si caratterizzano per essere incentrati su un museo specifico e sul suo territorio, quelli conclusivi tentano un’analisi comparativa delle strutture e sviluppano riflessioni di carattere generale. In conclusione vorrei riprendere quanto detto in queste sezioni per fornire un quadro d’insieme del mio lavoro. In relazione alla sede dei musei etnografici varaitini, quasi tutte le realtà con le quali sono entrata in contatto sono ubicate in edifici di grande pregio architettonico. Il Museo Storico-Etnografico di Sampeyre si trova in un’antica casa nobiliare mentre risalgono al Settecento il fienile che ospita il Museo del Mobile, l’abitazione che accoglie il Museo del Tempo e delle Meridiane, il convento cappuccino che è sede del Museo del Costume di Chianale. Oltre all’intrinseco valore storico-artistico di queste strutture, ciò che a mio avviso è veramente interessante è il fatto che esse siano in montagna. Dare una definizione di tale territorio è un atto tutt’altro che scontato, nonostante esso si imponga allo sguardo nella sua materialità tangibile fatta di roccia, neve, boschi, prati, strade e insediamenti. Nel suo libro “Le Alpi”, Bätzing dimostra chiaramente come sia possibile dare una definizione diversa dello spazio alpino a seconda del soggetto interpellato: le scienze naturali, i turisti, gli agricoltori, i geografi, la Convenzione delle Alpi e l’Unione Europea forniscono tutti una loro interpretazione diversa della montagna254. La materialità così tangibile delle Alpi, quindi, non rende affatto univoche le idee che associamo loro. Quando sono partita per il campo avevo anch’io la mia “idea” di montagna. Quello che mi aspettavo di trovare era una valle completamente spopolata, con gravi difficoltà economiche e, di conseguenza, anche priva di creatività culturale. Questa interpretazione era dettata da una serie di letture come Nuto Revelli 255 e lo stesso Bätzing. In effetti la val Varaita, come sostengono gli autori ma anche 254 255 Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”, Bollati Boringhieri, Torino, 2005. Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002. 122 alcune mie persone risorsa, è caratterizzata da una grave decrescita demografica e da una serie di problematiche nel tessuto economico. La conclusione a cui ero giunta, ovvero la mancanza di progettualità, di dinamicità in ambito culturale, era, invece, errata. Le Alpi cuneesi, salvo qualche eccezione256, non sono state fortemente condizionate dal decentramento industriale e dal turismo di massa che ha interessato altri territori montani. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento al presente, arco temporale preso in considerazione da Bätzing, esse sono state caratterizzate da una perdita di popolazione dai toni drammatici. I settori economici tradizionali, infatti, sono andati in crisi e non sono stati efficacemente sostituiti con attività diverse257. Coloro che abitavano la montagna cuneese hanno cominciato a cercare fortuna altrove: in Francia, seguendo percorsi già tracciati dalla migrazione temporanea dei loro avi, o in pianura, dove nella seconda metà del Novecento fabbriche come la Michelin di Cuneo e la Fiat di Torino, hanno cominciato ad attirare mano d’opera. La val Varaita rientra in questa casistica: nel periodo indicato, tutti i Comuni sopra i cinquecento metri hanno subito una decrescita demografica sconcertante, con valori compresi tra il -91% di Valmala e Isasca e il -80% di Sampeyre258. Anche in questa porzione di arco alpino, lo spopolamento e le problematiche nel tessuto economico si manifestavano in parallelo, influenzandosi a vicenda. Nonostante lo spopolamento e le difficoltà economiche, la valorizzazione del patrimonio culturale locale è sempre stata molto attiva. Si tratta di un fenomeno osservabile, a mio avviso, in un arco di tempo più vicino ai giorni nostri: quello che va dagli anni Settanta al presente. In questo periodo, in val Varaita, sono state realizzate numerose pubblicazioni, alcuni filmati, diversi restauri di elementi architettonici di pregio e di interesse antropologico, sono state proposte feste nuove e si sono mantenute quelle tradizionali, viene coltivata la musica occitana e sono editi due periodici che trattano temi strettamente legati al territorio. Gli attori di queste proposte hanno età differenti e non mancano ragazzi anche molto giovani. L’arco temporale preso in considerazione, tuttavia, non è stato omogeneo in quanto a progettualità realizzate. Negli anni Sessanta e Settanta, infatti, 256 Mi riferisco alla valle Vermenagna e a Limone Piemonte, meta sciistica piuttosto nota. Bätzing W., (op. cit.). 258 www.istat.it 257 123 l’attenzione alla lingua e alla cultura occitana era più marcata, come dimostra la nascita di numerose associazioni, anche a carattere politico, create all’epoca per tutelare questa particolare specificità culturale della valle. Con il tempo mi pare che tale interesse sia in parte scemato a favore di altre progettualità come, ad esempio, la riproposta di alcune feste e la realizzazione di musei etnografici. Si tratta di realtà che sembrano dialogare in modo privilegiato con l’arco alpino cuneese se si pensa che sul territorio il 67% dei Comuni sopra i 700 metri di altitudine possiede un museo di questo tipo. La percentuale sale a quote molto vicine al 100% intorno ai mille metri sopra il livello del mare. I primi musei etnografici delle valli cuneesi sono stati istituiti negli anni Settanta del Novecento. Si tratta di realtà che mi pare possano rientrare in quella corrente di museografia spontanea che nasce all’incirca nello stesso periodo nell’Italia centrosettentrionale. All’epoca, lo sviluppo industriale e i posti di lavoro che esso offriva assorbirono mano d’opera dalle campagne. Il boom economico, la “modernità”, prometteva il benessere e proponeva uno stile di vita in netto contrasto con quello contadino. Mentre la campagna si spopolava, mentre si abbandonava un mondo di sofferenze e miserie, si perdevano anche i saperi e le competenze che comportava l’abitare in quei territori. Il passato contadino diventava fonte di vergogna ed era forte il desiderio di dimenticarlo, di cancellarlo. Gli oggetti che facevano parte di questa realtà venivano gettati via, ed è proprio dall’immondizia, dai rigattieri che i primi musei etnografici attinsero per formare le loro collezioni259. Essi nascevano in contrasto con questa tendenza all’oblio, per costruire la memoria di un mondo che stava scomparendo. La raccolta di oggetti diventava lo strumento principe per mantenere vivo il ricordo, per raccontare la storia di un territorio260. Mi pare che i primi musei etnografici di montagna nascano con delle finalità e in un contesto molto simili. I modelli culturali urbani, con i quali i montanari entrarono in contatto a seguito della colonizzazione dello spazio alpino e della migrazione, generarono un sentimento di inadeguatezza e di vergogna per le proprie origini261. Anche in montagna, quindi, le prime realtà etnografiche facevano da contraltare al desiderio di dimenticare il passato e anzi sono state costruite proprio per alimentarne il ricordo. 259 Rappresentativo, in tal senso, è il lavoro svolto da Ettore Guatelli a Ozzano Taro (PR) Clemente P., “La poubelle agrée: oggetti, memoria e musei del mondo contadino”, in Parole Chiave n. 9 La memoria e le cose, Donzelli, Roma, 1996. 261 Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 1997. 260 124 Tuttavia, solo una parte limitata dei musei etnografici alpini nascono negli anni Settanta e possono corrispondere al modello di genesi indicato. In val Varaita, ad esempio, soltanto la realtà sampeyrese affonda le sue radici in quel periodo, anche se si costituisce concretamente come tale un decennio dopo. Numerosi studi, infatti, testimoniano la crescita esponenziale di musei etnografici che si è avuta in Piemonte e nell’arco alpino regionale negli ultimi trent’anni 262. Il caso della val Varaita testimonia questa tendenza in quanto tre dei suoi cinque musei sono stati istituiti a partire dal 2000. Le realtà varaitine più recenti si ancorano in un contesto molto diverso, che guarda con orgoglio alle proprie origini e che tutela e valorizza in modo consapevole il proprio patrimonio culturale. Rispetto ai musei etnografici nati negli anni Settanta, quelli più recenti presentano delle differenze anche nelle modalità con cui si sono formate le collezioni. Ad eccezione di Sampeyre, infatti, che ha salvato dall’immondizia alcuni dei suoi oggetti, tutte le altre realtà etnografiche varaitine hanno comprato o preso in prestito i beni che espongono. Anzi, mi pare di poter affermare che la maggioranza delle collezioni locali si siano formate proprio grazie alla donazione o al prestito dei manufatti. Con il passare del tempo e l’aumentare dei musei, il rapporto privilegiato con i rigattieri è stato sostituito dalla stretta relazione con gli abitanti del paese. Le scelte espositive locali, in molti casi, sono il frutto di questo rapporto particolare. I curatori dei musei con i quali sono entrata in contatto, infatti, hanno più volte sottolineato la volontà di esporre tutto quello che veniva loro donato. Questa modalità allestitiva è finalizzata a coinvolgere la popolazione locale e a sviluppare un sentimento di affezione nei confronti della struttura, ma viene vista anche come una sorta di “ritorno” del contributo dato alla costruzione della collezione e quindi del museo. Visitando le realtà etnografiche di valle risulta subito evidente come gli oggetti siano il fulcro delle esposizioni locali. La mancata attenzione al patrimonio immateriale può essere spiegata facendo riferimento al rapporto particolare instaurato con coloro che hanno donato i manufatti ma, a mio avviso, si tratta di un fenomeno causato anche da altre motivazioni. In alcuni casi, infatti, quando i curatori dei musei sono anche i fautori della collezione, essi assumono le 262 Cito due esempi: Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei in Piemonte e Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009 e Bravo G.L., “Feste, masche, contadini: racconto storico- etnografico sul basso Piemonte”, Carocci, Roma, 2005. 125 caratteristiche proprie del collezionista. Questi vedono negli oggetti “qualcosa di più e di altro” rispetto ai semplici proprietari, i manufatti sono svuotati delle loro relazioni funzionali per essere considerati portatori di significati diversi. Questa sorta di fascinazione che i collezionisti subiscono nei confronti degli oggetti, li spinge a desiderarli e contemplarli in quanto tali, indipendentemente dal fatto che essi siano stati ricercati per far parte di un museo 263. Se i beni materiali godono di così tanta considerazione all’interno delle realtà etnografiche della val Varaita è anche perché essi fanno parte di una politica della memoria volta a rivalutare il passato. Gli oggetti sono visti come lo strumento privilegiato per trasmettere il rinnovato orgoglio con cui si guarda al contesto culturale degli avi. I manufatti sono dei semiofori, dei portatori di significato264 perché raccontano la storia di un territorio in cui le origini montanare non sono più fonte di vergogna, in cui il complesso di subalternità nei confronti della società urbana265 è ormai sorpassato. I beni esposti, a mio avviso, praticano una nostalgia aperta266 che non guarda con rimpianto ad un passato perduto, ma che da esso attinge per interpretare il presente e per agire nella contemporaneità. Le realtà museali, infatti, oltre alle modalità espositive indicate prima, propongono una serie di attività sul territorio davvero consistenti. La realizzazione di dvd, pubblicazioni, mostre, conferenze, restauri, solo per citare qualche esempio, non sono eventi scontati in un contesto caratterizzato da problematiche di tipo demografico ed economico. La rivalutazione del passato, anche grazie agli oggetti che ne facevano parte, è l’assunto di partenza per presentare progetti che animano il tessuto culturale locale. Queste attività fanno dei musei etnografici dei luoghi di dinamicità e di creatività, dei centri di risorse per il territorio. L’importanza di veicolare la memoria del paese determina anche il rapporto instaurato con i visitatori delle realtà etnografiche varaitine. Incrociando le stime relative al numero di residenti, delle seconde case e dei villeggianti estivi267, emerge come questi musei siano piuttosto frequentati durante il loro periodo di apertura. Tuttavia, sarebbe poco corretto non sottolineare come gran parte dei 263 Benjamin W., “Parigi capitale del XIX secolo: i passages di Parigi”, Einaudi, Torino, 1986. Pomian K., “Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi- Venezia XVI- XVII secolo”, Il Saggiatore, Milano, 1997. 265 Camanni E., (op. cit.). 266 Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009. 267 Dati desunti grazie alla collaborazione dei Comuni con i quali sono entrata in contatto e dal sito www.regione.piemonte.it 264 126 visitatori siano i turisti che si recano sul territorio nella bella stagione. Le cifre molto elevate presenti in qualche caso non possono essere state raggiunte solo con i residenti o con gli abitanti delle seconde case, anche nel caso in cui avessero ripetuto l’ingresso. Il numero di abitanti, del resto, è talmente esiguo da non permettere di tenere aperte le strutture durante l’inverno. Lo sfruttamento della risorsa turistica, inteso non solo in termini di intrattenimento dei villeggianti, ma anche come proposta di un turismo lento e attento alle caratteristiche del territorio, non sembra rientrare nella missione dei musei varaitini. I curatori, sebbene compiaciuti dall’interesse sollevato in persone che non popolano la valle, hanno come fine la conservazione della memoria del paese. Essi sembrano quindi più attenti al riscontro con il contesto locale e con coloro che hanno donato gli oggetti piuttosto che con i turisti estivi. Anche dal rapporto con il pubblico emerge, quindi, il legame con il territorio e il desiderio di rivalutarne e ricordarne il passato. Queste caratteristiche, come già detto, sono però proiettate nella contemporaneità. Le politiche della memoria condotte dai musei con i quali sono entrata in contatto si fanno portatrici di un processo di individuazione dei beni culturali presenti sul territorio. Sono i curatori, le associazioni che gestiscono le realtà etnografiche, che sottolineano e rivendicano la rilevanza culturale dei mobili, dei vestiti tradizionali, delle meridiane, dei piloni votivi. Con le loro attività e le loro scelte espositive, i musei etnografici di valle costruiscono di fatto il patrimonio locale. Queste pratiche di patrimonializzazione rappresentano un’ulteriore modalità di azione nel presente alpino, un altro modo per agire nella contemporaneità. La selezione e rivendicazione del patrimonio può essere considerata come il tentativo di dare forma ai gruppi sociali. “Avere” una cultura, possedere e valorizzare i beni culturali del territorio, contribuisce a reificare la storia e l’identità di un popolo268. Se esiste un legame tra un soggetto e le cose che possiede perché queste contribuiscono a definire l’individuo, allora il patrimonio diventa l’essenza stessa di un Noi, contribuisce a determinare le Forme di Umanità. Tuttavia, non è sufficiente avere una cultura e una storia, le affermazioni di 268 Maffi I. (a cura di), “Introduzione”, in Antropologia anno 6 n.7, Meltemi, Roma, 2006. 127 proprietà da parte di una collettività devono essere riconosciute da altri 269. Le strategie atte a definire i beni culturali, quindi, possono avere delle implicazioni di carattere politico ed essere la posta in gioco in relazioni di potere più o meno asimmetriche270. La pratica museologica si inscrive in queste dinamiche in quanto essere rappresentati in un museo, avere la possibilità di mostrare il proprio patrimonio culturale in una di queste strutture, significa essere riconosciuti come presenza culturale271. L’attenzione che gli oggetti godono nelle scelte espositive dei musei etnografici varaitini, può forse essere pensata come il tentativo di delineare dei beni culturali che contribuiscano a definire l’essere “montanaro” nel presente. Il patrimonio così selezionato dà forma ai gruppi sociali locali in un tentativo di resistere alla “crisi della presenza”272 riscontrabile in valle. Se le realtà etnografiche varaitine possono essere considerate dei centri di risorse per il territorio, dei luoghi in cui si vive il presente della montagna, è anche perché, attraverso le loro pratiche di patrimonializzazione, sono un tentativo di reazione alla marginalità non solo economica, ma anche culturale che caratterizza questa parte di Alpi piemontesi273. Se spostiamo l’attenzione dalle collezioni ai protagonisti, dalle modalità con cui sono esposti gli oggetti a coloro che hanno creato e animano i musei etnografici di valle, emerge un altro fenomeno interessante. Queste persone fanno parte di categorie professionali diverse: vi sono insegnanti, impiegati, artigiani, studenti, commercianti e anche alcuni pensionati. Ciò che accomuna i curatori è l’interesse per il patrimonio culturale locale e lo sviluppo di progettualità atte a valorizzarlo anche all’esterno dell’ambito museale. Le associazioni che gestiscono le realtà etnografiche, infatti, spesso sono attive anche in eventi e manifestazioni che non riguardano direttamente il museo. Un caso emblematico è quello di Casteldelfino: il gruppo “Jer à la Vilo” ha realizzato due dvd, altrettante pubblicazioni, un paio di mostre e alcuni restauri, per citare solo qualche esempio, senza coinvolgere direttamente la struttura che gestisce. Anche una recente esposizione temporanea 269 Handler R., “Avere una cultura. Nazionalismo e preservazione del patrimoine del Quebec”, in Stocking jr. G. W. Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Ei Editore, Roma, 2000. 270 Maffi I., (op. cit.). 271 Alpers S., “Il museo come modo di vedere”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995. 272 De Martino E., “La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi, Torino, 1977. 273 Camanni E., (op. cit.). 128 è stata allestita altrove: all’interno della chiesa di Sant’Eusebio che era stata ristrutturata grazie all’interessamento dell’associazione. Il Museo del Mobile di Pontechianale fornisce un altro esempio interessante del coinvolgimento dei gestori in attività culturali che esulano da quelle realizzate con la realtà etnografica. Celeste Ruà ed Enrica Paseri, infatti, animano le feste locali proponendo brani di musica popolare che lui suona e lei canta. La volontà di partecipare a eventi culturali differenti è un fenomeno molto interessante. Le attività realizzate dai musei e, in parallelo, quelle portate avanti in occasioni diverse dai loro gestori, fanno pensare a una montagna creativa, che cerca di vivere la contemporaneità senza farsi vincere dalle difficoltà che essa porta con sé. I musei etnografici varaitini possono essere considerati dei centri di risorse per il territorio anche a causa della dinamicità delle persone che li gestiscono. Queste ultime, a mio avviso, si fanno portatrici di una diversa visione del Noi abitante lo spazio alpino. Il delinearsi di una nuova Forma di Umanità, un fenomeno al quale mi piace pensare in termini di antropopoiesi, si manifesta attraverso l’opera di queste persone sul territorio. I musei etnografici varaitini, come già detto, attraverso le loro scelte allestitive e le loro progettualità, definiscono il patrimonio culturale locale. Questo processo di patrimonializzazione mi sembra che emerga anche dalle attività realizzate in altri contesti dai loro curatori. L’identificazione del patrimonio locale può essere pensata come un tentativo di costruzione del proprio universo culturale e sociale. La scelta di animare il territorio con mostre, conferenze, pubblicazioni, dvd, restauri ma anche con la musica e le feste, tutte attività nelle quali i musei o i loro gestori sono coinvolti a vario titolo, è dettata e risponde ad esigenze locali. Le attività realizzate non sono state proposte nel tentativo di incrementare l’appeal turistico dell’area e anche laddove questa dimensione sia presa in considerazione e apprezzata, essa non nega il carattere principale di queste manifestazioni: incrementare la vivibilità locale, lottare contro la “crisi della presenza”274. La creazione della dimensione culturale implica un processo di allontanamento e contemporaneamente di avvicinamento al passato. Questo deve essere selezionato e riconfermato perché attraverso di esso si gettano le basi per la 274 De Martino E., “La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi, Torino, 1977. 129 rivendicazione identitaria e si formula il senso di appartenenza a un luogo e a una cultura. Tuttavia il passato non è una dimensione oggettivamente data, al contrario esso è discontinuo, molteplice, può essere oggetto di selezione, rappresentazione, costruzione e reificazione. Si tratta di una serie di caratteristiche che spostano l’attenzione alla dimensione contemporanea: è a partire da un Noi in un presente che un passato si delinea come tale. Se le necessità del presente costruiscono il passato, quest’ultimo, così creato, ispira il presente nella sua progettualità di futuro275. Tale particolare rapporto con questa dimensione temporale è visibile non solo, come detto precedentemente, nella gestione delle collezioni museali, ma anche nelle attività svolte parallelamente dai gestori delle realtà etnografiche. I musei varaitini guardano con orgoglio al proprio passato, in esso vi trovano i fondamenti delle loro particolarità culturali, ma questa riflessione non conduce al rimpianto di una dimensione perduta, è piuttosto la base per agire nel presente. La rivalutazione di un passato scelto, selezionato e delineato per ispirare il presente, a mio avviso, è l’assunto di partenza anche per criticare la “modernità”. La costruzione di una Forma di Umanità è un processo ideologico che si articola in due componenti. In val Varaita mi è parso di cogliere la necessità di adattare al territorio i modelli culturali urbani importati a seguito di quella che Valentina Porcellana definisce la colonizzazione dello spazio alpino 276. Anche la modernità da essi paventata, che distrugge le peculiarità locali e prende le distanze da qualsiasi tipo di cultura e tradizione277, è bersaglio di critiche. Tuttavia, se non è presente una totale adesione ai modelli culturali urbani, si può cogliere un allontanamento anche dalla tradizione e dal passato. L’Alterità, intesa sia in senso spaziale e sincronico, sia in senso temporale e diacronico278, fornisce piuttosto una serie di elementi che vengono fatti propri, adattati e risemantizzati per agire nel presente. I musei etnografici della val Varaita sono, quindi, un racconto 279. Narrano la storia di un territorio che nonostante lo spopolamento, la speculazione edilizia e le colate 275 Remotti F., “Prefazione” in Bellagamba A., Paini A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino, 1999. 276 Porcellana V., “Il paese dove le galline beccano le stelle. Riflessioni antropologiche sul mondo alpino contemporaneo”, in Giordano E., Delfino D., Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità, Priuli & Verlucca, Torino, 2009. 277 Remotti F., “Prima lezione di antropologia”, Laterza, Bari, 2000. 278 Remotti F., (op. cit.), 1999. 279 Riflessione desunta dalla mostra “Quante storie. Il museo è un racconto”, ospitata nel centro di documentazione Valle Stura a Sambuco. 130 di cemento, la marginalizzazione economica e culturale, lotta per affermarsi nell’oggi, per essere riconosciuto come una delle tante forme di contemporaneità. I musei etnografici appaiono come uno dei luoghi in cui contrastare la crisi della presenza, in cui ricostruire il tessuto culturale locale. Il racconto fatto dai musei è in movimento, non si lascia rinchiudere all’interno degli edifici, delle sale espositive, delle teche. La narrazione si espande per descrivere la capacità di un popolo di rigenerarsi e ricostruirsi anche a partire dalle connessioni con l’esterno. I musei etnografici sono dei centri di risorse e di creatività perché riflettono sulla spiccata capacità delle culture umane di “riarticolare post modernità e tradizione”280, di costruire Forme di Umanità. Essi presentano la valle non come un “grumo di identità”, ma come una “sintesi creativa” 281, in perenne divenire, una riformulazione permanente282 che, nonostante le difficoltà, guarda al futuro. 280 Favole A., “Oceania. Isole di creatività culturale”, Laterza, Roma- Bari, 2010, pp. 101. Ibidem pp. 34. 282 Tjibaou J.M., “La presence kanak”, Odile Jacob, Parigi, 1996. 281 131 BIBLIOGRAFIA AA. VV., “Baìo! Baìo! Storia, tradizione e realtà della Baìo di San Peyre”, Ousitanio Vivo, Saluzzo, 1987. AA. VV., “I mobili tradizionali della val Varaita. Guida ragionata e catalogo fotografico”, Fusta, Saluzzo, 2006. Allais C., “La Castellata. Storia dell’alta valle di Varaita”, l’Artistica, Savigliano, 1985. Bätzing W., “Le Alpi. 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