Colombatto Carlotta, Musei etnografici in Valle Varaita. Processi di

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Colombatto Carlotta, Musei etnografici in Valle Varaita. Processi di
Università degli Studi di Perugia
Università degli Studi di Firenze
Università degli Studi di Siena
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN BENI DEMOETNOANTROPOLOGICI
Tesi di specializzazione:
Musei etnografici in Valle Varaita.
Processi di patrimonializzazione e creatività culturale nelle Alpi occidentali
Specializzando
Relatore
Dott. Carlotta Colombatto
Prof. Daniele Jalla
anno accademico 2009 – 2010
INDICE
Indice
1
Introduzione
2
Capitolo 1 Raccogliere e conservare la memoria a mille metri di altitudine
8
1.1 San Peire
8
1.2 Il Museo Storico Etnografico di Sampeyre
23
1.3 Confini
34
Capitolo 2 Pratiche di patrimonio nella capitale della Castellata
44
2.1 Lu Ciasteldelfin
44
2.2 Il Museo Etnografico “Jer à la Vilo”
51
2.3 Politiche della memoria
56
Capitolo 3 Riflessioni sul pubblico dei musei a Bellino
64
3.1 Blins
64
3.2 Il Museo del Tempo e delle Meridiane
77
3.3 Comunità interpretative
83
Capitolo 4 Della cultura come artefatto
91
4.1 Punt e la Cianal
91
4.2 Il Museo del Mobile di Pontechianale
98
4.3 Il Museo del Costume e dell’Artigianato tessile
105
4.4 Contro la colonizzazione dell’immaginario
114
Conclusione
122
Bibliografia
132
1
INTRODUZIONE
La mia tesi di laurea fa proprie le riflessioni che sono emerse dal progetto “Musei
etnografici e beni DEA in Provincia di Cuneo. Dall’identità alla creatività”. La
ricerca, che ha avuto luogo da agosto 2010 a febbraio 2011 grazie a un
finanziamento della Regione Piemonte, è stata il mio primo impiego in abito
antropologico. L’idea di intraprendere un progetto di questo tipo è nata a seguito di
un confronto tra Adriano Favole ed alcuni funzionari. Si sentiva l’esigenza, da
entrambe le parti, di incrementare le conoscenze esistenti su tale parte di arco
alpino, con particolare attenzione ai musei etnografici presenti. La montagna
cuneese (valli Monregalesi, Tanaro, Pesio, Vermenagna, Gesso, Stura, Grana,
Maira, Varaita, Po le principali) si caratterizza per la fitta presenza di realtà
etnografiche, tanto che nel 2010 se ne contavano trentanove. Alcuni studi condotti
negli anni Novanta (Favole e Bessone, 2003) hanno messo in luce la nascita
recente di quasi tutti i musei esistenti allora, i quali apparivano come dei centri
molto attivi di ricerca e animazione culturale in contesti di forte spopolamento. In
netto contrasto con il dinamismo espresso dalle attività realizzate, vi erano però
degli allestimenti datati che contribuivano a fornire una visione statica, immune al
cambiamento ed edulcorata della montagna. A dieci anni da tali ricerche, altri studi
hanno testimoniato un ulteriore incremento di musei etnografici nell’arco alpino
cuneese1. Questi creano un quadro variegato in quanto a gestione e cura delle
collezioni, modalità espositive e attività realizzate. La ricerca alla quale ho
partecipato si proponeva di riflettere sulle dinamiche che hanno portato alla
nascita di un così gran numero di musei, nel tentativo di comprendere l’eventuale
legame con la realtà economica, sociale, culturale e politica locale. Un altro
elemento di interesse era rappresentato dal contrasto tra la vivacità e la creatività
delle associazioni che gestiscono i musei e l’assenza dei musei stessi dalle
politiche comunali, provinciali e delle Comunità Montane. Ci proponevamo di
ragionare anche sul ruolo esercitato da queste strutture nella contemporaneità,
sulla loro capacità di essere elementi di dinamismo nel presente alpino e non
luoghi in cui rimpiangere un passato irrimediabilmente perduto. Infine non
potevamo non riflettere sul significato della dicitura “museo etnografico”, una
1
Sibilla P., Porcellana V. (a cura di), “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei in
Piemonte e Valle d'Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009.
2
definizione, a nostro modo divedere, tutt’altro che scontata data anche la
dilatazione e contorsione che essa pare aver subito nella montagna cuneese.
L’equipe di lavoro era composta da tre ricercatori: Adriano Favole, Elisa Bellato ed
io. Per affrontare il campo abbiamo ritenuto opportuno che ognuno di noi si
concentrasse solo su alcune vallate invece che su tutto il territorio. Io ho lavorato
nelle valli Po, Varaita, Grana, e in parte di quelle Monregalesi.
La tesi di laurea si concentra unicamente sulla realtà museale ed etnografica della
val Varaita. Tale scelta è stata dettata da numerosi motivi, primo fra tutti la
discontinuità geografica del mio territorio di ricerca: in questa sede ho pensato che
non fosse produttivo tentare un’analisi di luoghi molto diversi e lontani tra di loro.
In secondo luogo ritengo che i musei varaitini siano un buon esempio di creatività
culturale: le progettualità dinamiche che propongono in un contesto caratterizzato
da difficoltà economiche e perdita di popolazione, a mio avviso, sono un fenomeno
molto interessante che attesta la loro capacità di porsi come soggetti attivi nella
contemporaneità del mondo alpino. Non nego che la decisione di soffermarmi
sulle realtà etnografiche della val Varaita sia stata dettata anche dal sentimento di
affezione che nutro nei confronti di questo territorio. Lì, più che altrove in Provincia
di Cuneo, mi sento in risonanza con le persone e i luoghi. Leonardo Piasere scrive
di tale sentimento in termini di “motto d’animo senza il quale non è possibile
nessuna comprensione”2, un “sentire-pensare” che permette di cogliere non tanto
e non solo quello che le persone dicono, ma anche il loro particolare essere ed
agire nel mondo3. Mi piace pensare che l’empatia e la risonanza che provo nei
confronti della val Varaita, oltre ad essere dei sentimenti positivi dal punto di vista
umano, siano produttivi anche professionalmente in quanto facenti parte del
metodo “perduttivo” teorizzato da Piasere. Secondo l’antropologo questa
metodologia etnografica “rimanda a un’acquisizione conscia o inconscia di schemi
cognitivo- esperienziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente già
interiorizzati […], tramite un’interazione continuata, ossia tramite una coesperienza prolungata in cui i processi di attenzione fluttuante e di empatia, di
abduzione e mimesi svolgono un ruolo fondamentale” 4.
2
Piasere L., (op. cit.), pp. 148.
Ivi.
4
Ibidem, pp. 56.
3
3
La mia tesi di laurea non pretende di essere un’analisi esaustiva dei musei
etnografici varaitini, essa si limita piuttosto a fornirne un’interpretazione. Il lavoro si
articola in quattro capitoli che presentano una struttura interna analoga. Essi si
compongono di alcuni paragrafi riguardanti ciascuno: il Comune che ospita la
realtà etnografica, il museo stesso ed infine uno dei quattro elementi che
compongono quello che il Professor Daniele Jalla definisce “il sistema di regole
proprio di un museo”. I paragrafi dedicati alle singole Municipalità vogliono essere
un tentativo di analisi del territorio, della sua storia, delle sue dinamiche sociali e
della gestione locale del patrimonio culturale. Si trattava di aspetti che mi
sembrava importante conoscere per comprendere meglio il contesto in cui sono
inseriti i musei etnografici. Questi ultimi sono “raccontati” in altri paragrafi, frutto
delle interviste condotte ai loro curatori. Le domande che ho posto, elaborate
insieme ad Adriano Favole ed Elisa Bellato nell’ambito del progetto comune, erano
volte a incrementare la mia conoscenza di questi musei e a metterne in luce le
caratteristiche più importanti. Le informazioni che ho cercato di reperire, per punti,
erano le seguenti:
• Informazioni di carattere generale
 Nome
 Data di fondazione
 Accessibilità territoriale
 Modalità di visita
• Gestione del museo
 Fondatori
 Proprietà
 Gestione
 Personale addetto
 Risorse finanziarie
 Sede
 Visitatori
• Supporti scientifici
 Supporti scientifici e didattici
 Attività didattiche e culturali
 Rapporti esterni e attività culturali
• La collezione
4
 Tipologia delle raccolte
 Origine della collezione
 Inventario
 Schedatura
 Stato di conservazione
 Allestimento
I paragrafi successivi, quelli che concludono ogni capitolo, contengono, a mio
avviso, le riflessioni teoriche più consistenti. Queste parti sono relative al “sistema
museo” e trattano rispettivamente della sede, delle collezioni, del pubblico e dei
protagonisti delle realtà etnografiche con le quali sono entrata in contatto.
Se “l’antropologia, come le società di cui si occupa, prende forma da una
molteplicità di incontri”5 allora i ringraziamenti non sono una semplice formalità.
Durante la ricerca di campo così come nel momento di scrittura della tesi sono
stati fondamentali i contributi dei gestori dei musei etnografici varaitini. Ringrazio
profondamente Celeste Ruà ed Enrica Paseri per le chiacchierate e per i momenti
di festa passati insieme. La loro compagnia mi ha portato più volte a riflettere sulla
dimensione ludica e aggregativa della valle. Dino Murazzano si è dimostrato una
persona-risorsa6 fondamentale, senza la quale non avrei formulato gran parte
delle riflessioni presenti all’interno della tesi. Rivolgo un pensiero affettuoso anche
a sua moglie Bea e a sua figlia Chiara che talvolta hanno partecipato alle nostre
chiacchierate. Il contributo di Ilaria Peyracchia al mio lavoro è stato indispensabile:
il confronto con lei nei pomeriggi passati insieme ha dato forma a numerose
considerazioni. Ringrazio sinceramente Fabrizio Dovo per tutto il tempo che mi ha
dedicato e per le risposte sempre esaustive alle mie numerose domande. Sono
molto grata a tutta la famiglia Ottonelli: a Olimpia, che spero di rivedere presto, e a
5
Favole A., “La palma del potere. I capi e la costruzione della società a Futuna (Polinesia
occidentale)”, il Seganalibro, Torino, 2000, pp. 4.
6
Nella tesi utilizzo l’espressione “persone-risorsa” per indicare i miei “informatori”, coloro che mi
hanno aiutato a comprendere il contesto culturale locale condividendo con me il loro sapere. Tale
dicitura mi fa pensare al mio viaggio in Nuova Caledonia, realizzato per condurre la ricerca di
campo necessaria a terminare il Corso di Laurea specialistico in Antropologia culturale. “Personerisorsa”, infatti, è l’espressione con la quale ci si riferisce ai propri collaboratori all’interno del
Centro culturale Tjibaou di Nouméa. Parlare degli informatori in termini di “risorse” permette di
sottolineare non solo la dimensione relazione, amicale, di fiducia reciproca, che caratterizza il
rapporto con questi individui, ma anche l’importanza del loro apporto al lavoro di ricerca. Mi piace
pensare alle mie persone-risorsa come a dei co-autori del mio scritto, anche se tutti gli errori e le
imprecisioni in esso contenuti sono solo opera mia.
5
Silvana, che durante i nostri incontri non ha mai risparmiato considerazioni
preziose. Ricordo con affetto e gratitudine il compianto Sergio Ottonelli, la valle ha
perso una persona e uno studioso straordinari e per me i suoi libri e il confronto
con lui hanno avuto un’importanza determinante.
Ho un debito di riconoscenza anche nei confronti di coloro che lavorano nei
Comuni nei quali si è svolta la ricerca. Le informazioni ricevute da Vittorio Fino,
Alfredo Campi, Giacomo Marc, Domenico Amorisco, Giovanna Barra, Matteodo
Barbara, Livio Fino, Laura Brun e Angela Sciapel sono servite a incrementare la
mia conoscenza del territorio. Mario Cordero, Fredo Valla, Giampiero Boschero,
Francesco Dematteis e Dominique Boschero, invece, si sono dimostrati delle
persone-risorsa indispensabili che hanno contribuito a vario titolo alla stesura di
questa tesi. Sono molto grata a Giovanni Bernard e Luigi Dematteis, i quali, con la
loro squisita ospitalità, mi hanno permesso di passare dei pomeriggi non solo
molto densi in quanto a informazioni ricevute, ma anche divertenti.
Ringrazio sinceramente il professor Daniele Jalla: il confronto con lui ha dato
forma e contenuti al mio lavoro ma soprattutto è stato uno stimolo importante che
mi ha permesso di incontrare persone nuove, leggere altri libri, affrontare
tematiche che non avevo considerato. Durante la stesura della tesi è stata
preziosa l’ospitalità e la cordialità di Erica Giacosa che, sempre gentile e
sorridente, mi ha aperto le porte di casa sua ogni volta che ne avevo bisogno.
Diego Mondo ha creduto da subito al progetto di ricerca “Musei etnografici e beni
DEA in Provincia di Cuneo”, e ad ogni chiacchierata si rivela una fonte inesauribile
di bibliografia e tematiche su cui riflettere. Rivolgo un pensiero pieno di affetto e
gratitudine al professor Adriano Favole che mi segue in modo attento e scrupoloso
nei miei lavori e che per me è un punto di riferimento in ambito personale e
professionale.
Sono oltremodo grata a Marco Prino per l’ospitalità, per le continue chiacchierate
sulla montagna, per avermi trasmesso il suo amore per il territorio e per avermi
insegnato che non si è mai abbastanza curiosi di ciò che ci circonda. I miei amici
di Torino, Casale e Perugia hanno allietato la scrittura della tesi con la loro
spensieratezza e mi hanno confortato con la loro compagnia. Un ringraziamento
speciale lo devo a tutta la mia famiglia e soprattutto a mia madre che
quotidianamente mi supporta e mi sopporta, e a mio cugino Antonio Lotito, il cui
6
contributo a livello informatico si è dimostrato determinante nel corso degli anni.
Con tutto l’affetto di una zia dedico il mio lavoro alla piccola Arianna.
7
CAPITOLO 1
RACCOGLIERE E CONSERVARE LA
MEMORIA A MILLE METRI DI ALTITUDINE
1.1 SAN PEIRE7
Prima dell’autunno 2009 non avevo mai visitato la valle Varaita. Decisi di partire
una mattina di novembre che, grigia e fredda, anticipava l’inverno che sarebbe
arrivato. La strada che ero intenzionata a percorrere scavalca la collina torinese e
si snoda tra i paesini della pianura saluzzese prima di salire a congiungersi con il
Colle dell’Agnello. Ancora oggi, nonostante l’abitudine al percorso, mi piace
osservare i mutamenti nel paesaggio, le diversità nella vegetazione e negli
insediamenti abitativi.
La prima tappa del mio viaggio in valle Varaita fu Sampeyre. Quel pomeriggio di
novembre avevo un
appuntamento
per
visitare
il
locale
museo
etnografico
ma il netto anticipo
con
cui
arrivai
mi
permise di aggirarmi
un po’ per il paese. Il
cuore
di
Borgata
centrale, frazione che
ospita
Sampeyre di Marco Bailone. Opera ottenuta per gentile
concessione dell’autore.
la
realtà
etnografica,
è
rappresentato
dall’ottocentesca Piazza della Vittoria. L’insediamento circostante, invece, è il
frutto dell’espansione di cinque piccoli nuclei abitativi medievali. Fin dal medioevo,
infatti, questa parte di Sampeyre è stata il centro della vita civile del paese perché
7
I titolo dei paragrafi che aprono i capitoli della tesi riportano i nomi dei paesi nella toponomastica
locale.
8
vi sorgeva la sede dell’autorità comunale, probabilmente collocata nell’attuale
casa Clary. Quest’ultima, datata 1455, come recita un’iscrizione tuttora visibile
sulla facciata, è il monumento più pregevole dell’architettura civile medievale del
luogo. La casa rappresenta un’interessante fusione tra lo stile costruttivo locale e
alcuni modelli di pianura. L’influenza delle tipologie architettoniche saluzzesi è
visibile nelle arcate presenti su tre lati al piano terra. Queste avevano lo scopo di
slanciare la figura dell’edificio e sono attualmente murate. Tuttavia, le componenti
di maggiore interesse della costruzione, che possiede una facciata sopraelevata
rispetto alle altre e un tetto proprio, sono rappresentate dalle bifore ornate sia da
decorazioni geometriche, sia da capitelli fregiati di teste umane 8. Come accade
per l’influenza saracena in valle, del tutto sconfessata dagli storici, nelle têtes
coupes è individuato un retaggio della cultura celtica. I Celti erano un popolo di
origine indoeuropea che, nel periodo di massima espansione (VI- III sec. a.C.),
erano presenti su un territorio piuttosto vasto. Quest’ultimo comprendeva gran
parte delle odierne Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania, il nord-est della
Spagna e la pianura Padania in Italia. I Celti appendevano i crani dei nemici,
trofeo di guerra, fuori dalle abitazioni come simbolo della forza di chi vi abitava e
come monito contro i nemici. Per questo popolo la testa aveva così la funzione di
difendere la casa contro le forze del male ed è tale funzione apotropaica che viene
trasmessa nel corso dei secoli fino in epoca cristiana 9.
La chiesa parrocchiale dedicata a San Pietro è collocata qualche metro più a valle
rispetto a Piazza della Vittoria. Attualmente il territorio di Sampeyre è diviso in tre
parrocchie mentre fino al secondo dopoguerra se ne potevano contare cinque. Si
tratta di una testimonianza dell’imponente decremento demografico subito dal
Comune nel corso del Novecento e in parte ancora in atto. La chiesa di San Pietro
è un edificio a impianto romanico, composto da una sola navata alla quale si
affiancano due cappelle, una delle quali può forse essere intesa come il nucleo
primitivo dell’edificio. Le tre componenti sono separate da snelli fasci di colonne in
pietra verde, sormontate da capitelli decorati con foglie stilizzate. All’interno della
chiesa, sulla parete perimetrale destra, è possibile osservare un’opera di grande
interesse realizzata dai pittori Tommaso e Matteo Biazaci. L’affresco, databile al
8
Ottonelli S., “Guida della Val Varaita. (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados
Usitanos, Bra, 1979.
9
D’Amico R., “L’anima segreta della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti
archeologici, simboli, miti e leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000.
9
decennio 1460-70, narra alcuni episodi della vita di Gesù con numerosi dettagli
tratti dai Vangeli Apocrifi. La parrocchiale ospita anche un antico fonte battesimale
in marmo bianco risalente al 1482 e una cinquecentesca acquasantiera collocata
nel transetto a sinistra dei fedeli 10. La facciata della chiesa di San Pietro presenta
uno dei più imponenti portali romanici del saluzzese. Realizzato in pietra verde,
esso si fregia di una decorazione nella quale elementi floreali accompagnano le
teste mozzate tipiche della valle11.
Il nucleo centrale di Sampeyre, compreso nell’area delineata da Piazza della
Vittoria e dalla parrocchiale dedicata a San Pietro, accrebbe la sua importanza nel
corso dei secoli perché in esso si svolgeva il mercato, istituito nel 1582 da Enrico
III. Fu proprio la presenza dell’area mercatale, punto di incontro e di scambio con
la popolazione dei paesi vicini, che portò ad una razionalizzazione della zona,
avvenuta nei primi dell’Ottocento. In questo periodo si spostò il cimitero da un sito
adiacente la chiesa al luogo attuale e si delimitò il lato meridionale della piazza
con una serie di costruzioni, andando così sempre più a incentivare e sottolineare
il carattere di luogo pubblico del centro12.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento, in Piazza della Vittoria e nella
porzione di abitato osservabile dalla strada che conduce al Colle dell’Agnello fu
largamente impiegato uno stile costruttivo riconducibile a quello presente nelle
città di pianura. Gli edifici costruiti all’epoca “nascono dalla semplice iterazione sul
terreno di tipologie abitative urbane, ibridate prospetticamente tramite gli stilemi
del rustico internazionale”13. L’alternanza di condomini a più piani ha radicalmente
modificato e rovinato, a mio modo di vedere, l’assetto della borgata centrale.
Come sostiene Sergio Ottonelli “il dissesto edilizio di Sampeyre è ormai un luogo
comune. È qui che la speculazione edilizia ha fatto in valle le sue prime prove,
nella seconda metà degli anni Sessanta; è qui che si è collaudato quel modello di
edilizia speculativa che si è poi tentato di esportare nel resto della valle grazie alle
consuete complicità politico amministrative”14. Un censimento del 1971 indicava,
infatti, la presenza di 453 abitazioni inutilizzate per mancanza di infrastrutture; già
10
Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i
paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009.
11
Ottonelli S., (op. cit.).
12
Ibidem.
13
De Rossi A., “Architettura alpina moderna in Piemonte e Valle d’Aosta”, Umberto Allemandi & C.,
Torino, 2005, pp. 59.
14
Ottonelli S., (op. cit.), pp. 165.
10
all’epoca, poi, solo il 24% degli alloggi risultava essere occupato dai residenti,
mentre il 59% del patrimonio edilizio era destinato ad uso turistico 15. La situazione
non è migliorata con il passare degli anni: nel 1981, a fronte di un totale di 3719
case, solo 653 di esse erano stabilmente abitate. Negli anni successivi, mentre
non crescono gli alloggi occupati quotidianamente, si moltiplicano quelli costruiti a
fini turistici: nel 1991 gli appartamenti sono 3971, nel 2001 raggiungono quota
425116. Lo sviluppo edilizio del paese, infatti, è in netto contrasto con la tendenza
demografica locale. Nonostante sia il Comune più popolato della media e dell’alta
valle17, Sampeyre si allinea con la generale perdita di popolazione che caratterizza
l’arco alpino occidentale e piemontese in particolare. Nel 1871 i residenti
nell’abitato erano 5503, nel 1961 scendevano a 2102 e nel 1978 erano 1628.
Come riporta l’Ufficio Anagrafe, attualmente i residenti in Sampeyre sono 1098 18.
Se si tratta di cifre veramente impressionanti, testimoni di un esodo senza ritorno,
il numero di abitanti tuttavia permette il mantenimento di alcuni servizi essenziali
come la posta, le rivendite alimentari e gli istituti scolastici. Sampeyre, infatti, è
l’ultimo paese prima del confine con la Francia ad ospitare una scuola elementare
e una scuola media. Sul territorio sono poi presenti alcune strutture di svago come
una discoteca ed un cinema, mentre nella piazza principale è possibile approfittare
di una rete wireless gratuita. Si tratta di una serie di elementi che non si trovano
altrove in valle Varaita, ad eccezione, forse, dei centri che si affacciano sul
saluzzese.
La ricchezza architettonica di Sampeyre, a mio avviso, è maggiormente
osservabile nelle piccole borgate, solo sfiorate dalla speculazione edilizia presente
altrove. Nelle frazioni, inoltre, più che nel centro del Comune, sono visibili elementi
riconducibili ai diversi periodi di fioritura architettonica che hanno caratterizzato
l’abitato.
Il periodo di relativo benessere che investe il territorio tra la seconda metà del
Quattrocento ed i primi anni del Cinquecento permette un imponente sviluppo
artistico. Lo stile architettonico locale può essere definito gotico, anche se la
15
Ibidem.
Tali dati statistici sono stati gentilmente forniti dall’Ufficio tecnico del Comune di Sampeyre.
17
In riferimento al numero di abitanti, cifre analoghe a quelle di Sampeyre si riscontrano solo nei
paesi della bassa val Varaita: Brossasco, 1099 abitanti e 606 metri di altitudine; Venasca, 1484
abitanti e 549 metri di altitudine; Piasco, 2855 abitanti e 480 metri di altitudine; Costigliole 3349
abitanti e 460 metri di altitudine; Verzuolo 6507 abitanti e 420 metri di altitudine.
18
Tali dati statistici sono stati desunti grazie alla collaborazione dell’ufficio anagrafe del Comune di
Sampeyre.
16
11
maggior parte delle case e delle borgate presenta elementi come le volte a botte, i
pilastri, i sistemi di passaggio coperti, normalmente considerati peculiari dell’arte
romanica. Oltre a tali caratteristiche “di importazione”, nell’architettura e nell’arte
locale è possibile osservare una componente locale molto forte. Quest’ultima si
esplica, ad esempio, negli architravi in legno o pietra a blocco unico, ma
soprattutto nelle figure antropomorfe e animalesche utilizzate come fregio
decorativo. Tali elementi architettonici e artistici tipici delle modalità costruttive
locali, sono visibili a borgata Martini. Questa si snoda lungo la strada che scende
al Varaita ed offre due esempi notevoli di portale ad architrave diritto, uno dei quali
è sorretto da capitelli ornati da teste mozzate 19.
A partire dal Quattrocento gli abitanti della valle cominciarono a pensare alla casa
come ad un bene familiare e la modificarono al fine di incrementare l’entrata della
luce ed il ricambio dell’aria. Le antiche modalità costruttive, basate sulla
prevalenza di vani interrati e sulla promiscuità tra uomini e animali, furono
abbandonate in favore di tipologie architettoniche nelle quali i volumi si elevano da
terra. Il XV secolo, in particolare, fu caratterizzato dall’impiego di una raffinata
tecnica di lavorazione della pietra. Tipici di questo periodo sono le cornici segna
piano, le colonne monolitiche, gli stipiti e gli architravi ricavati da un unico blocco di
pietra, i muri perimetrali più spessi costruiti al fine di assorbire la spinta delle volte,
anch’esse elementi architettonici innovativi20.
Nel XVI secolo l’attività edilizia della valle subisce una battuta d’arresto a causa
delle guerre e delle epidemie che stravolsero il periodo. Il Settecento, invece, fu
pervaso da un grande rinnovamento architettonico caratterizzato da una
rivalutazione del legno. Questo materiale, rispetto alla pietra, consente la
realizzazione di forme più ariose e leggere. In quello che Luigi Dematteis definisce
“il secolo d’oro dell’edilizia alpina”21, compaiono portici e loggiati coperti, grandi
balconate lignee e la scala in legno come elemento tanto decorativo quanto
funzionale. Le sezioni verticali in pietra, invece, all’epoca acquisiscono slancio con
l’introduzione del pilastro a sezione tonda. Quest’ultimo presupponeva alte
capacità tecniche ed era quindi un manufatto di elevato valore economico
19
Ottonelli S., (op. cit.).
Dematteis L., “Case contadine nelle Valli Occitane in Italia”., Priuli & Verlucca, Torino, 1983.
21
Ibidem pp. 24.
20
12
finalizzato non solo ad alleggerire l’edificio cui era destinato, ma anche ad
impreziosirlo.
Risale al Settecento, inoltre, la notevolissima opera di alcuni pittori itineranti, tra i
quali spicca per importanza Giors Boneto. Una serie di affreschi del celebre artista
sono visibili a borgata Villaretto, sui muri di una casa che si affaccia su una piccola
piazzetta laterale. La frazione è un gioiello di architettura alpina situato a 1100
metri di altitudine. La particolarità della borgata consiste nell’essere organizzata “a
ricetto”, essa possiede cioè una struttura chiusa da una cortina esterna composta
dai muri continui delle case adiacenti. Secondo Dematteis, si tratta di una tipologia
di insediamento piuttosto inusuale in val Varaita 22. La chiesa di Villaretto ospita
una croce in pietra verde scolpita nel 1503. La scultura medievale presenta dei
bracci bottonuti ornati con dei bassorilievi raffiguranti geometrie e fiori. La figura
del Cristo, il cui volto è purtroppo molto rovinato, si staglia rispetto alle altre. Ai
suoi piedi, la Madonna e san Giovanni sono raffigurati in un atteggiamento
rigidamente composto e con lo sguardo perso nel vuoto23.
Tra gli elementi architettonici di maggiore rilevanza presenti sul territorio
sampeyrese non si può non citare la chiesa di frazione Villar. La borgata, collocata
ai piedi di uno sperone roccioso, è stata quasi completamente ricostruita a partire
dalla seconda metà del Seicento dopo le gravi distruzioni della guerra del 1628 e
quelle causate da una frana nel 1655. L’edificio di culto ivi presente, a pianta
rettangolare, possiede un portale romanico le cui decorazioni, tuttavia, parrebbero
appartenere alla corrente successiva, il gotico. Il cortile davanti la chiesa si fregia
di una croce settecentesca in pietra verde, unica vestigia del cimitero che sorgeva
in loco24.
Anche a borgata Becetto è possibile osservare un edifico di culto di notevole
interesse. La chiesa della frazione, infatti, era un tempo uno dei più celebri
santuari mariani del Piemonte sud- occidentale. La parrocchiale è una costruzione
austera con una sola navata e una semplice facciata a capanna. Fondata nel
Duecento sul sito di una cappella risalente al 1028, la chiesa ha subito numerosi
cambiamenti che ne hanno stravolto la struttura originaria: il restauro
cinquecentesco ha distrutto quasi tutto l’edificio e ha costruito un primo campanile,
22
Ibidem.
Ottonelli S., (op. cit.).
24
Ibidem.
23
13
quest’ultimo venne restaurato e poi sostituito con quello attuale nel Settecento,
periodo nel quale venne eretto l’altare in marmo e il coro tutt’ora visibili; nel 1895,
infine, il pittore Netu Borgna di Martiniana Po ha affrescato l’abside. Guidato da
monaci benedettini, il santuario fu oggetto di venerazione nel corso dei secoli
anche a causa di una statua raffigurante una Madonna Nera, rubata nel corso del
Novecento25. Secondo Roberto D’Amico, la presenza di una statua di questo tipo
è da collegarsi all’eredità culturale celtica. I Celti veneravano Iside, simbolo della
terra madre, rappresentata nera come appunto la terra che nutre. La Madonna
Nera di Becetto, secondo l’autore, riproporrebbe in forma sincretica questo antico
culto26.
Il Comune di Sampeyre propone una serie cospicua di attività di valorizzazione del
proprio territorio, tanto durante l’estate, quanto nel periodo invernale 27. La
metodologia di pianificazione prevede la sinergia di tutte le associazioni e le pro
loco presenti, con le quali lavorare alla stesura del programma di manifestazioni.
La Municipalità non ha una propria politica culturale specifica perché preferisce sia
il territorio a manifestare le sue necessità in tal senso. Lavorare in stretta
collaborazione con le associazioni e le pro loco ha proprio la finalità di potenziare il
legame tra la popolazione e il Comune. Quest’ultimo dedica al suo programma
culturale un budget che si aggira intorno ai 15.000- 18.000 euro l’anno, cifra
all’interno della quale è previsto anche un fondo per il museo etnografico. A
seconda delle attività proposte, il Comune assume un ruolo di semplice
cofinanziatore oppure anche di organizzatore e gestore.
Dal 2002, ogni anno, la Municipalità pubblica un depliant che indica tutte le
manifestazioni previste per il periodo estivo. Durante la bella stagione, infatti, una
serie di attività piuttosto fitte occupano i mesi di luglio e agosto. Tra gli eventi,
numerosi sono gli appuntamenti dedicati al teatro in dialetto piemontese e al ballo
liscio. Alcuni pomeriggi, invece, sono rivolti all’animazione e allo spettacolo per i
bambini oppure all’immancabile mercatino dell’antiquariato. Tra le diverse pro loco
presenti sul territorio, quella di Sampeyre si caratterizza per l’occhio di riguardo
alle “mode” del divertimento giovanile contemporaneo. Nel corso degli anni, infatti,
l’associazione ha gestito la visione di partite di calcio, spettacoli teatrali con artisti
25
Rossi D., (op. cit.).
D’Amico R., (op.cit.).
27
Le informazioni a riguardo sono state reperite da un depliant realizzato dal Comune di Sampeyre
e da un’intervista all’ex assessore alla cultura, Vittorio Fino, da me condotta in data 19/02/2011.
26
14
di “Zelig”28, la festa della birra, esibizioni punk, reggae, ska, di musica latinoamericana. Questa pro loco, inoltre, sembra interessata alla pratica sportiva, come
si esplica nell’organizzazione pressoché annuale di tornei di calcetto, ping-pong,
tennis, beach volley e di bocce.
Osservando le manifestazioni estive proposte dal Comune di Sampeyre, alcune di
queste paiono essere finalizzate ad incrementare l’appeal turistico dell’area. A
partire dagli anni Sessanta, infatti, con la costruzione degli impianti di risalita, il
paese ha tentato di orientare le sue attività economiche in direzione di un
maggiore sfruttamento della risorsa rappresentata dal turismo. Tra le attività
estive, tuttavia, ve ne sono alcune sentite dalla popolazione locale come “proprie”,
come facenti parte del proprio specifico tessuto culturale. Queste manifestazioni,
data la loro importanza, sono frequentate anche da numerosi turisti, tuttavia a me
pare che esse siano realizzate per i sampeyresi e che siano orientate nelle loro
finalità a soddisfare taluni bisogni del territorio.
Tra gli appuntamenti più sentiti si distingue sicuramente “Lu ciantu viol”, una
giornata di festa che si svolge a fine luglio curata dalla pro loco di borgata Becetto.
L’evento comincia in mattinata con una passeggiata sugli antichi sentieri che
collegano Becetto a Dragoniere. Il percorso è accompagnato da musica
tradizionale, suonata dal vivo dai partecipanti alla festa. Giunti a Becetto, la
proloco della frazione organizza l’apertura dei bar e la “polentata” sui prati. Il resto
della pianificazione dell’appuntamento, l’incontro a Dragoniere così come la
presenza dei musicisti, risulta essere molto spontaneo. I suonatori, i ballerini, i
curiosi della valle e di quelle vicine, semplicemente, aspettano “Lu ciantu viol” per
trovarsi e festeggiare. Nonostante “la giovane età” della festa, che esiste solo dal
1984, questa sembra essere molto vissuta, mi è parso di riscontrare una sorta di
affezione all’evento. Non credo di trarre conclusioni errate nel sostenere come i
valligiani aspettino “Lu ciantu viol” non solo perché è indiscutibilmente un
momento divertente, di evasione, ma anche perché esso comincia ad assumere
un altro tipo di significato. Alcune persone risorsa sottolineano la forte portata
aggregativa di “Lu ciantu viol”, visto come un’occasione per condividere un
momento di convivialità “leggero” e per mangiare e bere in compagnia. Gli aspetti
indicati rimandano però ad alcuni significati simbolici che trascendono il valore
28
Zelig è un programma televisivo comico che prende il nome dall'omonimo locale milanese di
cabaret.
15
nutritivo del cibo. Come sostiene Douglas “ogni pasto è un evento sociale
strutturato che ne struttura altri a propria immagine”29, quindi tutto quanto ruota
intorno al regime alimentare e alla sua condivisione può essere pensato come un
momento centrale nella società. Il convito, infatti, attraverso pratiche di inclusione
ed esclusione, assume un carattere di ritualità e contribuisce a delineare e definire
le relazioni sociali. Mangiare insieme può essere un modo efficace per
sperimentare una convivialità leggera, simmeliana, intesa come una tipologia di
aggregazione fine a se stessa che trascende contenuti particolari. Tale forma di
interazione è fondata sull’intrattenimento e offre spazi di reciprocità in cui allentare
il peso di maschere, tempi, vincoli, presenti in altri momenti della vita quotidiana 30.
Se “solo quella socievole è una società a tutti gli effetti”31, “Lu ciantu viol” offre
terreno fertile per definire il senso di appartenenza alla comunità locale. Si tratta di
un fenomeno riscontrabile, a mio avviso, anche in talune pratiche di controllo
dell’alterità che vengono esercitate durante la festa. Alcune persone risorsa, infatti,
mi hanno confidato come i suonatori non tradizionali vengano biasimati perché
non rispettano quella che è la tipicità della manifestazione. In tale occasione non
mi è parso di riscontrare la pretesa di proporre un genere di musica immutato nel
tempo e nello spazio, privo di influenze esterne; a mio avviso, è invece presente il
desiderio di condividere una musicalità considerata locale. “Lu ciantu viol”, infatti,
si vuole articolato su moduli che, se non sono indicati come tradizionali vista la
giovane età della manifestazione, sono comunque sentiti come locali, come
ancorati al territorio. Alla luce di tali considerazioni, mi pare di poter affermare che
la festa in questione dia corpo a desideri di rapporti comunitari e di radicamento.
Se fornisce terreno fertile per tracciare i confini di società e per costruire il senso di
appartenenza ad essa, se contribuisce a scandire il tempo festivo della comunità,
“Lu ciantu viol” pare però operare “un gioco combinatorio con gli elementi di una
tradizione non più ad orizzonte unico” 32.
Tra gli eventi importanti, nei quali è possibile riscontrare la presenza di turisti ma
che i sampeyresi realizzano per sé stessi, non si può non citare la Baìo. Questa è
una festa molto amata dalla popolazione locale ed è considerata come tipica del
29
Douglas M., “Deciphering a Meal”, Routledge, London, 1997, pp. 44.
La Mendola S., Rettore V., “Indovina chi viene a cena? Accogliere o rifiutare l’alterità attraverso
l’invito a cena”, in Neresini F., Rettore V., Cibo, cultura, identità, Carocci, Roma, 2008.
31
Simmel G., “Socievolezza”, Armando, Roma, 1997, pp. 43.
32
Bravo G., “Le feste tradizionali? Sono figlie della modernità”, in L’Alpe n. 3, dicembre 2000, pp.
43.
30
16
territorio. Tale termine occitano equivale all’italiano “Abbazia, Abbadia” con il quale
si intendono tanto la festa, quanto il gruppo di partecipanti. Quest’ultimo è
composto unicamente da uomini, anche nel caso in cui debbano interpretare
personaggi femminili. La Baìo di Sampeyre si svolge ogni cinque anni e si articola
in quattro cortei: quello di Piasso, il capoluogo, quello delle borgate di Rore
(Roure), Calchesio (lou Chouchèis) e Villar (lou Vilà). La cadenza quinquennale
della festa è un’usanza recente, che risale agli anni Trenta del Novecento. In
passato la Baìo si poteva svolgere per più anni di seguito, così come subire
intervalli maggiori: la periodicità dipendeva dallo stato di prosperità e tranquillità
del paese. La festa ha luogo nelle due domeniche di settuagesima e di
sessagesima33 e nel giovedì grasso, anche se la richiesta di poterla svolgere viene
posta dai giovani delle borgate il giorno dell’Epifania, dopo aver formato un corteo
improvvisato. Durante l’intervallo di tempo tra la richiesta e la celebrazione della
Baìo, le donne sampeyresi si dedicano al confezionamento dei costumi dei loro
figli, mariti o fratelli, costumi che andranno successivamente disfatti. L’opinione
corrente, ancora molto radicata tra coloro che partecipano all’evento, vuole che la
festa si configuri come la cacciata dei Saraceni dalla valle, avvenuta
presumibilmente
intorno
all’anno
mille 34.
In
realtà
studi
storici
recenti
ridimensionano la portata di tale considerazione perché negano la presenza
stabile di arabi sul nostro territorio, annoverabile tutt’al più
ad incursioni
sporadiche. Plausibile, invece, è il legame della Baìo con associazioni giovanili
come le Abbazie degli Stolti o le Badie, nate nel tardo medioevo. Si trattava di
gruppi di ragazzi che controllavano e organizzavano i principali momenti festivi
della comunità. Anche antiche cerimonie precristiane di propiziazione per i nuovi
raccolti, che non scomparvero del tutto con l’avvento del cristianesimo ma che
vennero, in qualche misura, inglobate nella dimensione carnevalesca, erano
regolate dalle Badie. Queste ultime mantennero sempre una forma di autonomia,
un carattere indipendente rispetto al potere ecclesiastico o politico, esponendosi a
ripetuti
attacchi
da
parte
delle
autorità.
Soprattutto
nel
periodo
della
Restaurazione, queste associazioni giovanili erano viste come pericolosi focolai di
devianza e tanto la Chiesa, quanto i Savoia non lasciarono nulla di intentato per
33
Sono le domeniche che precedono la Pasqua di circa 70 e 60 giorni e che segnano l’inizio del
periodo carnevalesco.
34
A.A. V.V., “Baìo! Baìo! Storia, tradizione e realtà della Baìo di San Peyre”, Ousitanio Vivo,
Saluzzo, 1987.
17
sopprimerle. Quelle che sopravvissero furono costrette a ridimensionare i loro
ambiti di azione e a modificare le loro prerogative: le feste organizzate erano
sempre più qualificate come manifestazioni legate a ricorrenze religiose o come
rievocazioni storiche. È il caso della Baìo di Sampeyre, la cui marcata
storicizzazione le permise di evitare censure. Le modifiche interne alle Badie,
tuttavia, non furono dovute solo a fatti contingenti, ma anche al semplice passare
del tempo. Il corso dei secoli rese vecchie alcune prerogative e allentò il legame
tra i giovani che sempre meno si riconoscevano nelle associazioni di questo tipo.
Determinate caratteristiche invece si accentuarono: è il caso della connessione tra
i momenti di festa comunitaria e le Badie, tanto che tale denominazione passò
dall’indicare il gruppo di ragazzi, a riferirsi direttamente alla festa stessa. Secondo
alcuni la Baìo è “una pericolosa evoluzione verso un banale prodotto turistico”, a
mio avviso, visto l’orgoglio e l’impegno con cui viene organizzata e celebrata, non
può essere intesa in questo modo35. La Baìo, ma più in generale le feste di
montagna contemporanee, valorizzano il contesto culturale in cui si radicano.
Lungi dall’essere una degenerazione del patrimonio locale, esse al contrario
forniscono gli strumenti concettuali per agire nel presente, utilizzando pratiche e
saperi del passato. Le feste possono essere considerate come “figlie della
modernità” perché la loro vivacità non è connessa a territori isolati e protetti
dall’impatto dell’urbanizzazione, quanto piuttosto a zone coinvolte in processi di
scambio e comunicazione con aree più vaste. Anche i protagonisti, più che
persone chiuse ed immerse in un passato rurale, appaiono al contrario coinvolti e
attivi nelle strutture sociali contemporanee. Gian Luigi Bravo li definisce
“pendolari” proprio per indicare non tanto lo spostamento sul territorio, quanto il
movimento da un contesto socioculturale ad un altro 36.
Le feste continuano a ritmare il tempo comunitario riformulando tuttavia funzioni,
messaggi e finalità. Si tratta di un quadro reso possibile dall’ibridazione con
elementi esterni ascrivibili al mondo moderno e globale. Le feste, mentre
forniscono un bene di cui è manifesta la richiesta, come la necessità di instaurare
rapporti comunitari e di ritrovare le proprie radici, promuovono i prodotti ed il
turismo locale. Mentre trovano sempre più spazio nei media moderni, come la
35
36
De Angelis A., “Baìo. Storia e fortuna di un carnevale alpino”, in L’Alpe n. 3, dicembre 2000.
Bravo G.L., “Festa contadina e società complessa”, Angeli, Milano, 1984.
18
televisione, continuano a fornire terreno per il senso di appartenenza e per la
costruzione di una memoria comune37.
In relazione alla programmazione estiva, oltre a “Lu Ciantu Viol”, anche il resto
delle manifestazioni proposte dalla pro loco di Becetto si distinguono per
l’attenzione al contesto culturale locale. L’associazione cura diverse feste di
carattere religioso e civile, tra le quali ricordo la “passeggiata gastronomica” tra i
mulini, restaurati e messi in funzione per l’occasione. La proloco è molto attenta
anche al ripristino e al mantenimento delle antiche mulattiere presenti sul suo
territorio, una politica sfociata nella realizzazione di due percorsi naturalistici. Il
primo, a sviluppo circolare, collega borgata Graziani a borgata Morelli e si snoda
lungo il vallone del torrente Crosa. Durante tutto il tragitto una serie di pannelli
forniscono informazioni sulla flora locale. Il secondo percorso naturalistico curato
dalla proloco è stato realizzato insieme all’associazione culturale “Lu Rure” 38
perché il sentiero delineato tocca il territorio delle due frazioni. La passeggiata è
articolata in tre anelli, corrispondenti a tre differenti mulattiere, che collegano
Becetto, Rore e Ciaruntu, una borgata di Frassino, comune limitrofo di Sampeyre.
Anche in questo caso, lungo tutto il percorso è possibile osservare una serie di
pannelli che danno indicazioni sulla vegetazione circostante. La pro loco di
Becetto possiede un sito internet nel quale è possibile reperire informazioni in
merito alle attività proposte. Online, l’associazione ha pubblicato una cartina sia
dei sentieri che collegano la borgata con il centro di Sampeyre e con le altre
frazioni, sia dei piloni votivi presenti sul territorio. Sul sito, inoltre, sono presenti
informazioni sui forni e sui mulini di borgata, così come sulle principali opere
architettoniche e artistiche visibili a Becetto39.
L’associazione culturale “Lu Rure”, similmente alla pro loco di Becetto, propone
attività
finalizzate
alla
valorizzazione
del
patrimonio
culturale
locale.
L’associazione nacque agli inizi degli anni Ottanta per volere del gruppo di giovani
della borgata, tra cui Francesco Dematteis, che avevano fondato la cooperativa
“Lu viol”. Questa era sorta per promuovere progetti in ambito culturale e turistico
ma, dal momento che è un ente economico, una società commerciale, i suoi soci
devono essere persone che all’interno di essa hanno un ruolo attivo, di tipo
37
Ibidem.
L’associazione culturale “Lu Rure” riprende il nome “a nosto modo”, ovvero nell’occitano parlato
in loco, di borgata Rore.
39
www.prolocobecetto.it
38
19
lavorativo. La cooperativa, quindi, non poteva raccogliere le adesioni di quanti
frequentavano il territorio e partecipavano alle attività proposte dal gruppo pur
avendo un impiego diverso. Per ovviare a questa problematica si è creata
l’associazione “Lu Rure”, con la finalità di proporre attività unicamente in ambito
culturale. All’interno della cooperativa, invece, c’è stato «un rinnovamento
statutario, un mutamento nella compagine sociale e quel settore di attività turistica
non esiste più», è stato sostituito dal lavoro in ambito edilizio 40.Tra le attività
realizzate, l’associazione “Lu Rure” ha creato un progetto di ripristino delle antiche
fontane, ha messo dei dispositivi antincendio su tutta la borgata, si occupa della
manutenzione e della segnalazione dei sentieri, ha condotto una ricerca sulla
toponomastica del luogo ed ha curato una pubblicazione sui “sarvanot”. Questi
ultimi sono i folletti che popolano le fiabe e le leggende locali, spiriti del bosco cui il
gruppo di volontari ha dedicato anche un percorso naturalistico. La piacevole
passeggiata “Tumpi la pisso. Il sentiero dei sarvanot”, è finalizzata a mostrare le
bellezze naturalistiche del luogo ma, tra le rocce e la vegetazione, è possibile
osservare anche alcuni pupazzi che rappresentano questi spiritelli leggendari. Tali
raffigurazioni sono state create da un giovane artista del luogo, Marco Bailone, la
cui opera è piuttosto conosciuta in valle. Bailone, infatti, ha collaborato con la
Comunità Montana Valle Varaita ad alcuni progetti di valorizzazione del contesto
culturale locale. La sua mano sensibile e ironica ha illustrato il depliant “Òc: terra e
lenga”, incentrato sulla lingua e sulla cultura occitana, e ha realizzato alcune
“cartine” dei paesi della valle. In queste opere, che indicano le caratteristiche
proprie di ogni località, la struttura viaria dei centri abitati si deforma per accogliere
i personaggi tipici dell’opera di Bailone. Tali particolarissime “mappe” sono
distribuite gratuitamente nei bar, nei ristoranti, negli alberghi, come “guida” per
visitare il territorio. Il percorso naturalistico dedicato ai sarvanot è stato realizzato
grazie alla collaborazione degli abitanti di borgata Rore i quali per due mesi, nei
fine settimana, si sono organizzati in rueido41 al fine di ripristinare il sentiero e
collocare i pannelli.
40
Elementi tratti da un’intervista a Francesco Dematteis condotta in data 27/04/2011
Le rueido sono forme associazionistiche molto comuni in passato, adesso quasi completamente
scomparse, le quali prevedevano la collaborazione di tutte le braccia lavoratrici della borgata. I
gruppi così creati si riunivano per svolgere attività di interesse collettivo. Di norma maschili, anche
le donne prendevano parte alle rueido se gli uomini erano assenti.
41
20
Tra le manifestazioni di carattere culturale proposte dal Comune di Sampeyre,
cinque sono quelle che godono di “un occhio di riguardo”: i già citati “Lu Ciantu
Viol” e la Baìo, il concerto di S.Anna, la rassegna del cavallo di Merens, e la Fiera
di San Michele. In relazione agli ultimi tre eventi citati, il Comune ricopre un ruolo
tanto finanziatore, quanto organizzativo e gestionale. Per quanto riguarda “Lu
Ciantu Viol” la questione è un po’ diversa perché, come già detto, la
manifestazione è organizzata dalla proloco di Becetto. La Municipalità di
Sampeyre, però, dedica all’evento una serata in musica che, di norma, si svolge il
giorno prima della festa vera e propria. La Baìo, invece, è organizzata da coloro
che ricopriranno uno dei ruoli principali all’interno della manifestazione. Il Comune
collabora all’attuazione della festa chiudendo le strade e realizzando parte degli
allestimenti necessari al ballo che sancisce la fine dell’evento.
Il concerto di S. Anna ha luogo il primo agosto nel vallone omonimo, posto a
l’inverso42 del Comune. La manifestazione esiste solo da tre anni e ha ospitato, la
prima estate, la sezione di ottoni dell’Orchestra dell’Arena di Verona. L’edizione
successiva è stata dedicata al tango e ha visto l’esibizione del Quintettango,
mentre nel 2010 il concerto di S. Anna è stato tenuto dalla Banda Osiris.
Il cavallo Merens è originario del dipartimento dell'Ariège, nei Pirenei francesi, ed è
stato introdotto in val Varaita e in Italia da Francesco Dematteis nella seconda
metà degli anni Settanta. I Merens sono neri, di media taglia, hanno zampe
robuste e vengono utilizzati soprattutto per il lavoro nei campi in montagna dove le
peculiarità del terreno riducono la possibilità di usare macchinari. In Italia, il
riconoscimento ministeriale della razza è avvenuto solo nel 2010. Sampeyre
dedica ai Merens una fiera, articolata in tre giornate, dove vi sono concorsi per i
soggetti più prestanti e spettacoli vari. Si tratta anche di una vetrina importante per
gli allevatori della zona che hanno in questo modo l’occasione per pubblicizzare il
loro lavoro.
La Fiera di S. Michele si svolge il 25 settembre, data che tradizionalmente sanciva
il ritorno dagli alpeggi. Dal 2005, il giorno successivo la fiera, il Comune organizza
anche la sagra della raviole, piatto tipico della valle. Si tratta di particolari gnocchi
allungati preparati con patate e toma e conditi con burro fuso.
42
Termine che indica il versante della montagna con la minore esposizione al sole.
21
La fiera di S. Michele conclude quella che è la programmazione culturale estiva di
Sampeyre. In inverno, invece, i piccoli impianti di risalita che si snodano a l’inverso
rappresentano il fulcro di interesse comunale. “L’area sciabile di Sampeyre […] è
attrezzata con una sciovia e due moderne seggiovie biposto (Seggiovia S.Anna e
Seggiovia Varisella) che coprono un dislivello di circa 900m”43. Le risorse
economiche e progettuali del Comune sono, quindi, interamente spese in tal
senso. Il comprensorio sciistico è gestito da una società per azioni a capitale misto
di cui la Municipalità è il socio maggioritario. Le spese di gestione sono quindi
quasi totalmente a carico del Comune che fatica a reperire la cifra necessaria.
Questa si aggira intorno ai centomila euro annui ed è decisamente superiore
rispetto a quella stanziata per la valorizzazione e la tutela del patrimonio culturale
locale. Difficile, poi, riuscire a sancire l’effettivo beneficio economico apportato alla
comunità. Il turismo invernale sampeyrese, ad eccezione del periodo di Natale, è
caratterizzato da un approccio cosiddetto “mordi e fuggi”. I visitatori rimangono sul
territorio un giorno solo, normalmente la domenica, scarsi sono quindi gli introiti
degli hotel, limitati quelli dei bar 44. Solo una parte dei cittadini, però, è critica in
merito agli impianti sciistici. Queste persone tendono ad interrogarsi, in parallelo,
in relazione a quelle che vengono percepite come mancanze di gestione da parte
del Comune. Ad esempio, secondo l’opinione di alcune persone risorsa, pare
addirittura che la gestione delle nevicate nel 2010 sia stata piuttosto carente. A
causa della penuria di fondi, l’appalto agli spartineve è stato diminuito e affidato ad
una compagnia che, se tiene pulita la strada provinciale, non passa nelle borgate.
Il confronto con le risorse spese per gli impianti sciistici è quindi fonte di
polemiche.
Una parte cospicua degli abitanti di Sampeyre, tuttavia, sembra essere contenta
della gestione del turismo invernale. Il comprensorio sciistico appare a queste
persone come l’unico modo economicamente proficuo di sfruttare la risorsa
rappresentata dai villeggianti. Mi chiedo, però, quanto tale concezione non sia
figlia degli anni Ottanta e del miraggio di benessere che gli impianti di risalita,
allora, portavano con sé. La crisi del settore, infatti, è ormai nota 45 e anche il
Comune propone una politica di gestione del comprensorio diversa rispetto a
43
www.comune.sampeyre.cn.it
Informazioni reperite grazie all’intervista da me condotta a Vittorio Fino, ex assessore alla cultura
del Comune di Sampeyre.
45
Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”,Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
44
22
quella degli anni passati, non più solo basata sulle cosiddette “settimane bianche”,
ma che cerca di collegare la struttura al contesto culturale locale. In cima agli
impianti di risalita, infatti, è stata ristrutturata una grangia46 rispettando le modalità
architettoniche tradizionali. L’abitazione è adibita a rifugio e al suo interno sovente
si svolgono delle serate con musica tradizionale. Il comprensorio sciistico è
utilizzato dal Comune anche per proporre camminate con le racchette da neve in
luoghi un po’ insoliti e per realizzare delle serate con astronomi in cui si guardano
e studiano le stelle. Si tratta di una serie di manifestazioni che, a mio modo di
vedere, possono essere pensate come un timido tentativo di inserire gli impianti di
risalita all’interno di una politica generale di valorizzazione del patrimonio culturale
locale.
1.2 IL MUSEO STORICO ETNOGRAFICO DI SAMPEYRE
Fabrizio Dovo ha un’aria cortese e gentile mentre gira nella toppa la chiave del
Museo Storico Etnografico di Sampeyre47. In quel freddo, primo pomeriggio di
novembre trovare la struttura non è stato complicato, situata com’è nel cuore del
paese, all’interno della parte più antica. Il museo è raggiungibile percorrendo
l’attuale via Roma, la quale collega Piazza della Vittoria, sede del municipio e
centro dell’abitato, al bivio da cui si diparte la strada per le borgate di Becetto e
Dragoniere. La sede dell’istituzione è un’antica casa signorile risalente al XVI
secolo, in passato dimora della famiglia Savio di Saluzzo. L’aspetto odierno della
costruzione si deve ad alcuni ampliamenti dell’edificio attuati nel Settecento. Si
tratta di una serie di modifiche che ne definirono tanto la facciata, dove è possibile
osservare un grande affresco dall’attribuzione incerta raffigurante l’ostensione
della Sindone, quanto le sale interne, alcune delle quali vantano antichi soffitti a
cassettoni. Nel corso degli anni l’edificio ha ricoperto funzioni diverse, in quanto è
stato, ad esempio, sede del Comune e di una scuola e, a partire dal 1981, anche
sede del museo etnografico. Quest’ultimo è aperti tutti i giorni durante le maggiori
festività e nei mesi di luglio e agosto. Nel novembre in cui ho visitato per la prima
volta il museo mi sono avvalsa della gentilezza di Fabrizio, ex vicepresidente
46
Termine locale che indica un’abitazione temporanea, utilizzata durante l’estate e collocata a
quote più elevate rispetto alla casa di residenza.
47
Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state tratte da due interviste condotte a
Fabrizio Dovo in data 20/10/2009 e 29/07/2010, nonché dalla brochure di presentazione del museo
e dal sito internet www.etnomuseosampeyre.it
23
dell’associazione che gestisce la struttura. Quest’ultima viene comunque aperta
durante la stagione fredda anche per scuole e gruppi.
L’idea di creare un museo etnografico a Sampeyre è nata a metà degli anni
Settanta in ambiente scolastico. Alcuni professori della scuola media locale
cominciarono a ragionare sull’esistenza di una serie di oggetti legati alla vita
contadina i quali stavano entrando rapidamente in disuso, con il rischio correlato di
venire gettati o di deteriorarsi irrimediabilmente. C’era, all’epoca, la sensazione di
stare smarrendo non soltanto dei manufatti, ma anche parte di quel mondo cui
erano intrinsecamente collegati. I docenti coinvolsero, quindi, i ragazzi in un
progetto di recupero e valorizzazione di ciò che era sentito come «una
testimonianza materiale, un qualcosa legato alla tradizione del lavoro che poteva
perdersi». La collezione nacque in modo spontaneo, «come provocazione», frutto
del desiderio di insegnanti e ragazzi di ragionare su tale tematica. Moltiplicatisi
forse in maniera inaspettata, gli oggetti furono acquisiti dal Comune ed esposti nei
locali dell’attuale museo.
Di proprietà comunale, quest’ultimo fu quindi gestito dall’assessorato alla cultura
fino al 2002. Nel corso dei vent’anni di amministrazione municipale, il museo ha
subito vicende alterne, in particolare, sembra che l’interesse nei suoi riguardi fosse
scemato nel corso degli anni Novanta quando «veniva aperto a volte, certi anni
non veniva aperto proprio, certi anni veniva aperto per qualche periodo se […]
c’erano delle scolaresche interessate». All’inizio del millennio il Comune si rese
protagonista di un rinnovato interesse per il museo locale e realizzò, con la
collaborazione di alcuni giovani, un progetto di riallestimento delle sale. Tale
cooperazione fece sorgere nei ragazzi l’interesse, la voglia, di continuare l’impresa
sviluppando nuove progettualità. Grazie ad una convenzione stabilita con il
Comune, a partire dal 2002 la gestione della struttura venne totalmente affidata a
questi giovani riunitosi, successivamente, nell’associazione “Mireio”. Questa,
creata nel 2006, è dotata di autonomia giuridica e amministrativa. La
denominazione dell’associazione è un omaggio all’opera dello scrittore provenzale
Frédéric Mistral, premio Nobel per la letteratura nel 1904. “Mireio” è il titolo della
sua opera più importante e riprende il nome della protagonista, una giovane
fanciulla a servizio presso la famiglia Mistral in Provenza. La ragazza affascina
l’immaginario del giovane poeta e ne diventa in qualche modo la “musa”. Mireio
era originaria di Sampeyre, frazione Rossi, e al secolo si chiamava Maddalena
24
Giovenale. Da quando gestisce il museo, l’associazione che porta il suo nome ha
incrementato tanto le sale espositive quanto le attività proposte. Uno dei fini
perseguiti era quello di trasformare la realtà museale «in un piccolo centro
culturale» inserendola in «un discorso più ampio», all’interno del quale
racchiudere anche conferenze, mostre, corsi e pubblicazioni. Il rapporto con il
Comune
rimane
molto
intenso
perché
l’amministrazione
collabora
economicamente al mantenimento della struttura.
L’ingresso al museo non prevede il pagamento di un biglietto ma è comunque
presente la possibilità di fare un’offerta. Nel periodo estivo la visita è libera, mentre
in inverno le aperture su prenotazione si avvalgono della presenza di una guida.
L’esposizione si snoda in dieci sale il cui criterio allestitivo è “ispirato alle attività e
ai cicli produttivi tradizionali” 48.
La prima sala prevede un’introduzione di carattere storico al paese di Sampeyre.
Al suo interno è presente uno dei pezzi di maggiore importanza tra quelli che
compongono la collezione museale. Si tratta del fondo fotografico PignattaMartino, che deve il nome a due fotografi vissuti nel paese a cavallo tra Ottocento
e Novecento. Le immagini sono circa duecento e documentano diversi aspetti
della vita contadina locale tra il 1890 e la fine della seconda guerra mondiale.
Come mi ha confidato Fabrizio, l’acquisizione di tale fondo è avvenuta in modo
«alquanto rocambolesco» perché, trovato in una casa da restaurare all’epoca
dell’«edilizia selvaggia di Sampeyre», è stato salvato dall’immondizia da un
passante di particolare sensibilità. Un altro oggetto di rilievo contenuto in questa
prima sala è un’antica macchina dell’anagrafe, uno strumento che veniva utilizzato
per creare i documenti d’identità. Completa l’allestimento una grande vetrina a
muro contenente capi d’abbigliamento usati soprattutto in contesti importanti come
i matrimoni.
La stanza attigua ospita alcuni oggetti utilizzati in passato durante il lavoro nei
campi: sul pavimento sono disposti trebbiatrici, aratri, ventilabri e slitte. Una serie
di foto documentano poi la trasformazione del latte in burro e formaggio.
48
www.etnomuseosampeyre.it
25
Dal lavoro nei campi a quello più
tipicamente
femminile,
la
sala
successiva è dedicata alle attività
riservate
alla
donna
come
la
lavorazione della canapa e della
lana, della farina e del latte. Una
delle pareti della stanza ospita
alcune fotografie raffiguranti due
coppie
di
sposi,
trovate
casualmente nel solaio del palazzo
che ospita il museo. Si tratta di
Una sala del Museo Storico-Etnografico di
Sampeyre. Foto dell’autrice.
immagini con una storia particolare scoperta grazie all’interessamento di un
visitatore francese. Fabrizio mi raccontava della collaborazione sorta tra alcuni
membri del direttivo e questo ragazzo d’oltralpe originario di Sampeyre il quale
desiderava avere notizie della sua famiglia. Dopo una serie di ricerche
caratterizzate da coincidenze «al limite del soprannaturale», è emersa
praticamente l’intera storia di vita del nonno di questo visitatore, avo che si è
scoperto essere il figlio di una delle coppie di sposi le cui foto erano esposte sul
muro della stanza riservata al lavoro femminile. A mio avviso si tratta di un
interessante esempio del rapporto che il museo ha instaurato con una parte del
suo pubblico e degli abitanti di Sampeyre. Le collezioni esposte si compongono in
misura rilevante di oggetti donati o prestati, pochissimi sono i pezzi acquistati. Il
direttivo stabilisce quindi un rapporto privilegiato con le persone che offrono loro i
manufatti, con il desiderio di essere un «punto di riferimento», una «casa
comune». Si tratta di un sentire che si manifesta anche nell’allestimento, accusato
da alcuni di essere troppo caotico. In realtà «gran parte degli oggetti sono nelle
stanze anche per un motivo: perché la gente che li porta poi ha piacere di vederli
esposti». L’allestimento deve le sue caratteristiche al desiderio di «valorizzare
questo interesse delle persone» le quali offrono manufatti che «hanno un valore a
livello familiare» al fine di «ricordare i loro parenti o per evitare che alcune cose
vadano perdute». Mi sembra di poter affermare che se “l’obbiettivo primario” del
museo “è la conservazione e la trasmissione della memoria storica ed
26
etnografica”49 di Sampeyre, un’attenzione particolare è rivolta al “ritorno” nei
confronti di coloro che hanno collaborato con le loro donazioni alla crescita della
collezione.
Continuando il percorso espositivo, all’interno della sala che si incontra
successivamente è possibile osservare la ricostruzione di un’aula di scuola
elementare di inizio Novecento. In effetti i banchi in legno con lo sgabello fisso ivi
presenti sono stati trovati all’interno dei locali stessi del museo, il quale, in
passato, ha ospitato una sede scolastica. A riguardo, è forte il contrasto con la
situazione attuale: a fine Ottocento le scuole elementari di Sampeyre, borgate
comprese, erano 14, adesso invece se ne conta una sola.
La quinta stanza del museo espone una serie di oggetti utilizzati dal carradore e
dall’arrotino, due figure lavorative quasi completamente scomparse, cancellate dal
progresso tecnologico. Quello dell'arrotino, in particolare, era anche uno dei
mestieri caratteristici dell'emigrazione montanara stagionale e temporanea.
Quest’ultima può essere considerata come un’“importante e quasi universale
strategia di espansione delle risorse locali” 50. A causa delle asperità del clima e
della scarsità di terreno, sembrerebbe ovvio pensare che le comunità alpine
dovessero avvicinarsi maggiormente ad un’economia di sussistenza. In realtà
proprio le difficoltà del territorio limitarono la possibilità di questi popoli di
raggiungere l’autosufficienza ed incentivarono l’apertura delle economie locali.
L’emigrazione alpina però non si configura come “una disordinata fuga dalla
miseria”51 e gli uomini che scendevano dalle montagne per lavorare in pianura non
erano solo mendicanti o vagabondi. L’emigrante alpino, al contrario, si
caratterizzava per essere un piccolo commerciante o un artigiano in grado di
svolgere anche lavori di alta specializzazione. Inoltre, il fatto innegabile che la
povertà della terra abbia spinto molti uomini alla migrazione non deve indurre a
trarre conclusioni sulla loro situazione economica. Numerosi studi attestano che il
fenomeno migratorio era diffuso in tutti gli strati sociali e che tendeva anzi ad
essere più frequente tra la popolazione maggiormente benestante. L’esodo
stagionale e temporaneo non può essere considerato come “una semplice
49
Ibidem
Viazzo P.P., “Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo
a oggi”, il Mulino, Bologna, 1990, pp. 189.
51
Viazzo P.P., “Il paradosso alpino”, in L’Alpe n.1, inverno 1999- 2000.
50
27
strategia di sopravvivenza imposta dall’ambiente alpino” 52, in quanto era invece un
“fattore di mobilità nella gerarchia economica e sociale del villaggio” 53. Alcuni dei
protagonisti di questa che potremmo definire “migrazione di qualità”, ricavavano
dai loro spostamenti una certa prosperità e a volte anche ricchezza 54.
Alla lavorazione della canapa, un'altra attività in passato largamente diffusa sul
territorio, è dedicata la zona espositiva successiva. Qui l’intenzione del direttivo
era quella di spiegare la manipolazione della fibra tessile al fine di ottenere due
filati: uno più sottile utilizzato per vestiti e coperte, ed uno più grezzo e spesso con
cui venivano realizzate le corde.
Il museo etnografico di Sampeyre possiede un piccolo cortile interno sul quale si
affacciano due stanze, anch’esse utilizzate a fini espositivi. In questo caso il
direttivo ha tentato di ricreare due botteghe artigiane, anche per quanto riguarda il
loro aspetto esterno. Uno degli esercizi ricostruiti è quello di un calzolaio,
corredato di macchina da cucire, forme di legno, chiodi di diversa entità e
scarponi. La bottega è completa perché ripresa nella sua interezza da quella di un
prozio di Fabrizio, il quale appunto svolgeva tale mestiere. Anche per il
vicepresidente dell’associazione Mireio, la pratica espositiva si mescola con il
desiderio di non dimenticare il proprio passato familiare ma, al contrario di
valorizzarlo. L’altra saletta che si affaccia sul cortile interno può essere
considerata come “un tributo
a muli e cavalli, fedeli, generosi e instancabili
compagni di fatica dei lavoratori d'un tempo” 55. Insieme a basti, collane e selle, in
loco una serie di foto illustrano l’impiego degli animali per il lavoro dei campi ed il
trasporto dei materiali.
La stanza attigua alla sala conferenze è dedicata alla «festa più sentita, più amata
di Sampeyre»: la Baìo. Appena entrati sulla sinistra un’imponente vetrina contiene
la collezione Luigi Carlino, si tratta di riproduzioni in scala, alte all’incirca venti
centimetri, raffiguranti i personaggi del corteo festivo. Carlino era un sarto
sampeyrese che, impossibilitato a lavorare, negli ultimi anni della sua vita, si
dedicò alla realizzazione dei pupi esposti, un omaggio al museo del suo paese.
Agli angoli della sala, fanno bella mostra di sé le bandiere dei cortei del
capoluogo, e delle borgate di Rore, Calchesio e Villar. Attualmente le Baìe del
52
Viazzo P.P., (op. cit.), pp. 201.
Ivi.
54
Viazzo P.P., (op. cit.).
55
www.etnomuseosampeyre.it
53
28
Comune di Sampeyre sono quattro, in passato invece erano più numerose, ma
alcune, come quelle di Becetto e Sant’Anna, sono ormai definitivamente
scomparse. Un recente lavoro di analisi ha permesso di datare le quattro bandiere
esposte, che si è scoperto risalire al XVIII secolo. Alcune parti del drappo del
capoluogo sono invece più antiche, attribuibili al XVII secolo. Si tratta di quattro
pezzi di notevole importanza storica e documentale che, tuttavia, hanno fatto
nascere qualche piccolo contenzioso in seno al paese. Come mi rivelava lo stesso
Fabrizio «è una cosa su cui qualcuno storce il naso il fatto che noi teniamo
esposte le bandiere, perché, teoricamente, non potrebbero essere viste se non nei
tre giorni della festa». Al centro della sala, dispiegata su una serie di strutture
autoportanti, è possibile osservare una documentazione fotografica della Baìo
sampeyrese, immagini che aiutano a comprendere meglio alcuni aspetti della
manifestazione ed a calarla nel contesto locale.
Il percorso espositivo del museo culmina con una sala dedicata alla lavorazione
del legno. Qui l’associazione ha voluto rappresentare l’intero processo di
manipolazione del materiale: dalla pianta all’oggetto finito. È quindi possibile
osservare le varie tipologie di legno utilizzate localmente, tagliate a sezioni per
meglio coglierne le specificità. Sono presenti anche una serie di seghe di diverso
tipo e materiale che, a seconda delle loro caratteristiche, permettevano di tagliare
la pianta in maniere differenti. Parte di questi oggetti provengono dalla bottega di
un falegname locale e sono stati donati dal figlio di costui. Si tratta di beni in ottimo
stato di conservazione anche perché utilizzati fino ad epoche recenti. Appena
entrati sulla sinistra della sala si estende il tipico banco di lavoro dell’ebanista,
corredato da tutti i principali strumenti di lavorazione del legno. Un imponente
armadio d’epoca rende, infine, l’idea di cosa doveva essere il prodotto finito di
questi artigiani56. Trovo molto interessante l’accennato collegamento con la
produzione mobiliera contemporanea che si ricava da alcuni pannelli a muro i
quali illustrano le differenze tra i mobili tradizionalmente realizzati in valle e quelli
di nuovo design proposti dall’Agenzia del Legno. Si tratta di un progetto avviato
nel 1999 dall’allora Comunità Montana Valle Varaita, con la collaborazione
dell’Agenzia dei Servizi Formativi della Provincia di Cuneo e grazie al sostegno di
finanziamenti europei. L’Agenzia del Legno aveva come finalità la messa in rete
56
In valle Varaita, a Pontechianale, è presente un museo etnografico interamente dedicato alla
produzione mobiliera locale.
29
delle oltre cento realtà aziendali di Valle impegnate nella produzione di mobili,
giocattoli, feretri e strumenti musicali. Un altro degli scopi perseguiti era appunto
quello di “rilanciare” la produzione, lo stile tradizionale degli arredi realizzati in loco
attraverso un nuovo design degli stessi. Tale rilettura venne condotta con la
consulenza del Politecnico di Torino a seguito di una documentazione sulla storia
artigianale locale57.
L’intero percorso espositivo del Museo Storico Etnografico di Sampeyre si avvale
di una serie di pannelli espositivi che facilitano la comprensione delle sale. La
collezione in mostra si compone di oltre 750 pezzi, quasi tutti in buono stato di
conservazione salvo la presenza, in alcuni casi, di tarli. Il museo fa riferimento ad
un antiquario di fiducia per il restauro dei manufatti «più gravi», laddove invece
non sussistono particolari perplessità sulla manutenzione dei beni questa «si basa
sulla buona volontà di tutti». Ogni oggetto esposto è correlato da un cartellino
esplicativo con il nome del bene in italiano e “a nosto modo” 58. Questa “etichetta”
ricalca, anche se in formato ridotto, l’inventario dei manufatti del museo. Alcune
ragazze del direttivo avevano inoltre realizzato la catalogazione BDM dei beni
relativi alla filiera del legno, al lavoro femminile e di parte di quelli inerenti la
lavorazione della canapa. Per un ulteriore approfondimento delle tematiche cui fa
riferimento l’esposizione, è possibile consultare la piccola biblioteca interna del
museo. Il fondo si compone di oltre 300 volumi, quasi tutti di carattere etnografico,
antropologico e storico. La biblioteca contiene anche una serie di riviste di difficile
reperimento come “La Beidana”, “Valados Ousitanos” e “Lou Temp Nouvel”,
periodico culturale a cura della Associazione Soulestrelh, che analizza la vita sulle
Alpi grazie all’apporto di studiosi di diversa formazione.
Decisamente numerose sono le attività didattiche e culturali proposte dai ragazzi
del direttivo durante i mesi di apertura del museo. L’estate 2010 l’associazione
Mireio ha curato l’allestimento di due mostre: la prima “Biodiversità e bellezze
naturali
del
territorio
cuneese”,
un’esposizione
fotografica
realizzata
in
collaborazione con l’Associazione Pro Natura di Cuneo, ha avuto luogo a partire
dal mese di luglio fino a metà di quello successivo. Dal 15 di agosto a metà
settembre la sala conferenze ha invece ospitato “De bères e d’escufie”, una
mostra di cuffie, merletti e fuselli delle valli Varaita e Maira realizzata da Giampiero
57
58
www.agenform.it
Tale dicitura indica, in valle Varaita, il particolare tipo di dialetto parlato localmente.
30
Boschero, un avvocato originario di Frassino con la passione per la cultura locale
ed in particolar modo per la lingua e per i merletti al tombolo, dei quali è anche un
artigiano. Infine, a settembre inoltrato, il museo ha dedicato un paio di giorni alla
rassegna sull’architettura d’alpeggio curata dalle architette Enrica Paseri e
Barbara Martino.
Per l’estate passata il direttivo aveva organizzato anche due corsi: uno di intaglio
su pietra, realizzato grazie al supporto di Adriano Martino, ed uno di balli
tradizionali curato dal gruppo Trigomigo.
Piuttosto fitto poi, il calendario di conferenze cui era possibile assistere al museo.
Gli argomenti trattati spaziavano in ambiti molto vasti: alcune sere erano
incentrate sul contesto naturale,
problematiche
di
carattere
storico,
matematico,
etnografico di valle,
altre
ancora
altre su
presentavano
libri
recentemente editi.
3 luglio
“Tracce del passato e del presente nelle nostre valli”.
Proiezione e incontro con l’associazione Passi in Libertà.
17 luglio
“Echi di silenzio: ricordi di salite tra emozioni e sensazioni”.
Presentazione del libro e incontro con l’autore Gianni Abbà.
24 luglio
“Cinquecento anni di cartografia in Valle Varaita”. Incontro
con il Dottor A. De Angelis, ricercatore di storia locale.
30 luglio
“Tra circo e cinema: i volti sconosciuti di un viso noto”.
Colloquio con Luciano Sforzi, intervista di Nanni Gianaria,
musiche di Euphoria Quartet.
5 agosto
“Giochiamo con la matematica”. Incontro per ragazzi con il
prof. Peiretti, giornalista, scrittore e studioso di scienze
matematiche.
“Riformati e Cappuccini in Alta Valle Varaita nel Seicento”.
Incontro con J.L. Bernard, ricercatore di storia locale.
8 agosto
Mercatino equo-solidale
9 agosto
“Croazia, un tuffo nel mondo perduto”. Incontro con il
Domenico Sanino, presidente dell’associazione Pro Natura di
Cuneo.
11 agosto
“Storia di un filo d’erba: passeggiando alla scoperta delle erbe
31
di Sampeyre”. Incontro per bambini e genitori con Nadia,
accompagnatrice naturalistica.
12 agosto
“Giochi di numeri”. Incontro con il prof. Peiretti.
16 agosto
Presentazione della mostra “De bères e d’escufie” e incontro
con A. De Angelis e G.P. Boschero, studiosi di storia locale.
18 agosto
“Mangiar per erbe: piccoli segreti di cucina sulle erbe”.
Incontro per bambini e genitori con Nadia, accompagnatrice
naturalistica.
21 agosto
“Valle Po: da Revello al Colle delle Traversette seguendo la
Via del Sale”. Incontro con il prof. Oscar Casanova,
rappresentante del CAI nella Commissione Protezione della
Montagna.
24 settembre
“Campi, prati, boschi e pascoli: il paesaggio agro-silvopastorale del Comune di Sampeyre nel Catasto del 1739”.
Incontro di presentazione della tesi di laurea di Chiara
Graffione.
Anche negli anni passati le attività del museo erano così consistenti. Oltre alle
variazioni annuali, alcuni appuntamenti possono essere considerati quasi “fissi”. È
il caso dei corsi di intaglio su pietra e su legno realizzati da Adriano Martino, il
quale ha collaborato con l’associazione Mireio anche in fase di allestimento del
museo perché ha ricreato, su modello originale, uno dei tomboli esposti. Un
discorso analogo può essere fatto tanto per le lezioni di danza tradizionale tenute
dal gruppo Trigomigo, tanto per la presenza di alcuni relatori. Il museo collabora
da qualche anno con Giovanni Bernard, studioso di storia locale, e con il professor
Peiretti, insegnante, giornalista e scrittore: entrambi propongono quasi ogni estate
conferenze su tematiche diverse.
D’inverno l’attività del museo si assottiglia ma non si spegne del tutto. In dicembre
e gennaio sono state organizzate ancora due serate: la prima, dal titolo “Arte del
Quattrocento nella Parrocchiale SS. Pietro e Paolo di Sampeyre”, presentava lo
studio storico-artistico realizzato da Simona Garzino; nella seconda, invece, è
stato mostrato il film “Sonn d’uvern de i Sarvanot” del regista Bruno Sabbatini. Per
tutto il mese di dicembre fino al 9 gennaio, poi, lungo via Roma e via Vittorio
32
Emanuele, sono state proiettate una serie di foto d’epoca tratte dall’archivio del
museo.
Le attività fin qui delineate, così come le aperture del museo, sono gestite dal
direttivo dall’associazione Mireio con l’occasionale collaborazione di qualche
stagista. Quando sono necessari dei contributi esterni per tenere aperto il museo,
l’associazione ha previsto un rimborso spese perché, secondo l’opinione di
Fabrizio, «ci sembrava giusto come gratificazione per dei ragazzi che stanno
facendo un lavoro».
L’istituzione museale con sede in Sampeyre ha un buon riscontro di pubblico in
quanto riesce ad avere una media di tremila visitatori ogni anno. Tra questi, una
buona componente è sicuramente rappresentata dai turisti ma non è soltanto
grazie ad essi che il museo riesce a proporre e incrementare le sue attività. Come
mi ha rivelato Fabrizio: «l’aspetto turistico per noi ha un’importanza, anche
banalmente come gratificazione. Effettivamente quando tu riesci a far funzionare
tutta una serie di attività, di cose, hai un certo riscontro, sicuramente fa piacere, è
una soddisfazione che ti dà anche quella voglia di.. purtroppo noi questo riscontro
ce l’abbiamo di più dalla gente che viene da fuori che non dal paese. Qui mi
succede ancora di vedere gente del paese che entra “Ma è carino qua, non ero
mai venuto”, gente che è una vita che ce l’ha sotto il naso». Il rapporto con i
sampeyresi appare, per certi versi, controverso perché se una parte di essi non
sembra essere interessato al museo, la stessa cosa non si può sostenere per i
restanti. Come detto più sopra, alcuni compaesani di Fabrizio donano o prestano
oggetti che hanno un valore personale e familiare, «si fanno prendere» dal gioco
espositivo e «portano i nipoti a vedere». Il museo è riuscito a delineare un
rapporto quasi di “fidelizzazione” con parte del suo uditorio il quale tende a seguire
la programmazione proposta. «Abbiamo creato un’utenza di affezionati, se
vogliamo, che seguono le mostre e vengono alle conferenze», un rapporto
particolare che sembra gratificare il direttivo anche perché «noi abbiamo sempre
visto il museo come un momento per raccogliere e conservare la memoria, una
casa comune del paese».
33
1.3 CONFINI
La sede del Museo Storico Etnografico di Sampeyre è una suggestiva dimora
seicentesca situata nel cuore della municipalità. Il caso sampeyrese, tuttavia, non
presenta caratteristiche inedite, al contrario è piuttosto comune che i musei
dell’arco alpino cuneese siano ospitati in edifici storici. In contesto vallivo tale
fenomeno è piuttosto evidente: il Museo del Tempo e delle Meridiane di Bellino
così come il Museo del Mobile di Pontechianale hanno la loro sede in due case
risalenti al Settecento, secolo al quale è datata anche la Missione cappuccina che
accoglie il Museo del Costume. Si tratta di edifici diversi tra loro sia per l’uso che
ne veniva fatto in passato, sia per le peculiarità che li caratterizzano, ma che
tuttavia sono accomunati da un incontestabile valore storico e artistico.
Le sedi dei musei etnografici della val Varaita hanno in comune un’altra
caratteristica: sono ubicate in montagna. Tentare di dare una definizione di tale
territorio è un atto tutt’altro che scontato perché, nonostante la catena alpina si
imponga alla vista nella materialità tangibile dei suoi paesaggi, queste immagini
non bastano a rendere univoche le idee che le associamo.
A partire dalla fine dell’Ottocento, quando nacque il turismo, le Alpi cominciarono
ad essere oggetto degli stereotipi più diversi. Senza soluzione di continuità si
passava dall’orofilia all’orofobia, dal considerare il territorio come un luogo
incontaminato, vero, puro, dove le persone vivevano con genuina semplicità; al
ritenerlo, viceversa, una zona impervia, quasi demoniaca, abitata da gente rozza,
descolarizzata, sottosviluppata mentalmente e che prestava scarsa attenzione
all’ambiente naturale. Il processo di attribuzione di significati alla montagna è
presente anche nella contemporaneità, quando i diversi attori che si muovono in
contesto alpino, ovvero i politici, le associazioni, le Ong, propongono la loro
peculiare visione delle Alpi.
Il geografo tedesco Werner Bätzing sottolinea la possibilità di definire tale catena
montuosa in sei modi diversi i quali variano a seconda del punto di vista utilizzato.
Le scienze naturali considerano territorio alpino la porzione di suolo presente
intorno ai 2000 metri, la sola a distinguersi, per processi e condizioni specifiche,
dalle zone a media e bassa quota. Le Alpi, così delimitate in modo molto ristretto,
non sono abitate e, dal punto di vista cartografico, assumono le sembianze di un
arcipelago di isole.
34
Le vie di comunicazione, le città e le zone industriali vengono di solito escluse
dalla definizione di catena alpina data dai turisti. Questi ultimi, normalmente,
intendono la montagna come la porzione di territorio presente sopra i mille metri di
altitudine, un’area in cui vivono appena 0,8 milioni di abitanti.
Dal punto di vista agricolo vengono escluse dalle politiche di sostegno alle zone
montane tutte le aree favorevoli, e cioè i terreni pianeggianti di fondovalle. La
partizione territoriale così delimitata è abitata da 5-6 milioni di persone.
La geografia, invece, definisce le Alpi come “un complesso montuoso compatto,
geologicamente separato dagli Appennini, dai massicci ercinici (Esterel, Maures
ecc.) e dalle Dinaridi”59. Tale descrizione non si basa su considerazioni di tipo
economico quanto piuttosto su criteri che tengono conto della continuità del rilievo.
La Convenzione delle Alpi60 fa riferimento ad un territorio più vasto, che si estende
per 190.000 kmq e che nel 2000 contava 14,3 milioni di abitanti. La partizione in
questione combina indicatori di carattere naturale ed economico e coincide con
l’immagine corrente delle Alpi, le quali comincerebbero laddove il pendio si fa più
acclive. Questa visione è condivisa anche da quegli Stati europei dotati di una
politica volta allo sviluppo integrato dell’area alpina, ovvero di leggi in materia di
montagna che perseguono un equilibrio tra economia e ambiente.
L’Unione Europea, fin dal 1974, considera le Alpi unicamente come componenti
delle unità amministrative regionali nelle quali sono ubicate. Tale considerazione è
volta a non frammentare le partizioni territoriali e a creare uno spazio politico più
esteso in Europa. L’area così delimitata raggiunge una popolazione di 70 milioni di
abitanti e una superficie di 400.000 kmq61.
Attraverso tale partizione Bätzing dimostra come una definizione oggettiva delle
Alpi, libera da giudizi di valore, non sia possibile. Le idee associate alla catena
alpina dimostrano come uno spazio naturale o un paesaggio vengano sempre
percepiti in una prospettiva umana, culturalmente determinata. La materialità
59
Bätzing W., “Le Alpi : una regione unica al centro dell'Europa”, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
Si tratta di una risoluzione in 89 punti che voleva essere un trattato internazionale sulla
salvaguardia del territorio alpino. La Convenzione è stata redatta alla prima Conferenza delle Alpi
(Berchtesgaden 1989), ma fu solo in occasione della seconda Conferenza (Salisburgo 1991) che il
testo fu sottoscritto da Austria, Francia, Italia, Liechtenstein, Svizzera, Germania e Comunità
europea. La Slovenia si aggiunse appena venne riconosciuta la nuova repubblica nel 1993. La
Convenzione della Alpi è entrata in vigore nel 1995 e in quattro anni è stata ratificata da tutti gli
Stati alpini, ultima l’Italia, nel 1999.
61
Bätzing W., (op. cit.).
60
35
tangibile della montagna non irrigidisce i confini che la definiscono, né contribuisce
a rendere oggettive le concezioni che possediamo di essa.
Nonostante le difficoltà di definizione, le Alpi, sembrano interagire in modo
particolare con le istituzioni museali presenti non soltanto in val Varaita, ma anche,
più in generale, in Provincia di Cuneo e in Piemonte. Una stima condotta nel 2007
da Piercarlo Grimaldi rivela la presenza sul territorio piemontese di 328 musei
etnografici62. Se si osserva l’ubicazione di tali istituzioni secondo un’ottica che ne
tenga in considerazione l’altitudine, è possibile individuare 200 musei nei Comuni
compresi tra 0 e 500 metri, una cifra pari al 61% del totale. Tra 500 e 800 metri
hanno istituito la loro sede 70 musei, corrispondenti al 21%; oltre gli 800 metri
sono presenti 58 musei, ovvero il 18% del totale. Analizzando la disposizione dei
Comuni piemontesi per altitudine si osserva l’ubicazione di 107 Municipalità oltre
gli 800 metri sul livello del mare. Le cifre dimostrano quindi come, in montagna, un
Comune su due si avvalga della presenza, sul proprio territorio, di un museo
etnografico63. Tale tendenza è dimostrata anche da uno studio successivo
condotto nel 2009 da Paolo Sibilla e Valentina Porcellana. I due antropologi
riscontravano la presenza di 103 musei etnografici nell’arco alpino piemontese, 39
dei quali ubicati in Provincia di Cuneo64. In relazione a questi ultimi, se si
considera la loro disposizione geografica, è possibile osservare come essi siano
situati, salvo rare eccezioni, sopra i 700 metri di altitudine. All’interno di questa
fascia altimetrica, in Provincia di Cuneo, sono presenti 58 Comuni, il 67% dei quali
possiede, quindi, un museo etnografico sul proprio territorio.
Le stime fin qui delineate parrebbero dimostrare come, in Piemonte, tale tipo di
istituzione museale sia maggiormente frequente in territorio alpino che altrove. Se,
come detto precedentemente, i concetti associati alla montagna sono molteplici e
variabili, quando sono partita per il campo avevo anch’io delle “idee” riguardo il
mio territorio di ricerca. Nella “cassetta degli attrezzi” da antropologa avevo letture,
come Nuto Revelli65 e Werner Bätzing, che illustrano la drammatica perdita di
popolazione e le problematiche di tipo economico presenti nell’arco alpino
62
Porporato D., Grimaldi P., “Feste e musei : patrimoni, tecnologie, archivi etnoantropologici”,
Omega, Torino, 2007.
63
Osservazione posta in essere da Davide Porporato in occasione del convegno “Buone pratiche
di comunità. I musei etnografici: presidi di sostenibilità locale”, tenutosi all’Università di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo in data 14/12/2010.
64
Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena. Le minoranze linguistiche e i loro musei in Piemonte e
Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009.
65
Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002.
36
cuneese. Queste difficoltà mi spingevano a pensare che il territorio fosse anche
privo di creatività culturale ma la ricerca di campo ha smentito questa conclusione
affrettata.
Nel suo libro “Le Alpi”, Bätzing traccia un quadro storico dei mutamenti intercorsi
in ambito economico e demografico non solo nella montagna cuneese, ma anche
in tutto l’arco alpino. Fattori importanti in tal senso cominciarono a manifestarsi
nella seconda metà dell’Ottocento con l’avvento della rivoluzione industriale. La
costruzione delle reti ferroviarie, a partire dal 1854, e la creazione di insediamenti
industriali, dal 1890, ad esempio, causarono cambiamenti consistenti. In breve
tempo alcuni settori economici di tipo tradizionale, come l’artigianato, l’attività
estrattiva e il commercio con animali da soma entrarono in crisi, mentre
contemporaneamente
si
indebolì
anche
l’agricoltura.
Tale
processo
fu
accompagnato da una forte migrazione che, a differenza di quella stagionale
endemica e proficua per l’economia locale, assunse carattere definitivo e causò
spopolamento.
Tra il 1870 e il 1950, infatti, circa il 60% dei Comuni alpini subirono un forte crollo
demografico. Il restante 40%, al contrario, crebbe grazie ai profitti resi
dall’industrializzazione. Le città alpine poste sulle nuove direttrici ferroviarie, infatti,
erano ben collegate ai centri industriali europei e il loro tessuto economico ne fu
avvantaggiato.
Il periodo compreso tra il 1950 e il 1980 investì nuovamente la Alpi provocando
mutamenti notevoli. In molti Comuni nacque il turismo di massa mentre
l’industrializzazione venne decentrata in numerose vallate di bassa quota e ben
accessibili, soprattutto ai margini della catena alpina. Le città montane poste lungo
le direttrici di transito vennero ulteriormente rivalutate dal punto di vista economico
e la loro accessibilità migliorò grazie all’ampliamento della rete viaria.
Quelle regioni alpine che non vennero rivalutate né dal turismo né dal
decentramento industriale subirono un’ulteriore perdita demografica. Tra esse
spiccano le Alpi italiane liguri, piemontesi e carniche, le Alpi meridionali francesi e
gran parte del Ticino e dei Grigioni.
A partire dal 1980 in tutta Europa si è assistito ad una terzializzazione del sistema
economico, si tratta di un fenomeno che ha investito anche le Alpi mutandone
ulteriormente l’assetto. Gli insediamenti industriali montani sono entrati in forte
crisi e sono costretti a chiudere o a licenziare un gran numero di personale.
37
Parallelamente anche il turismo ha perso la sua dinamica, i centri medio- piccoli si
trovano in difficoltà economica mentre le stazioni più grandi riescono a imporsi sul
mercato. L’attività turistica non è più un fenomeno ramificato ma ha assunto un
carattere nastriforme o puntiforme. Le città alpine poste lungo le direttrici di
transito sono diventate ancora più accessibili grazie alle autostrade ed è
aumentata
la
loro
interdipendenza
con
i
centri
economici
europei.
Contemporaneamente si è assiste ad un fenomeno nuovo: l’hinterland delle città
europee più grandi è aumentato in modo talmente notevole da comprendere al
suo interno anche alcune zone di montagna. È quanto avviene nei dintorni di
Vienna, Salisburgo, Monaco, Nizza, Ginevra, Zurigo, Torino e Milano. Le Alpi
meridionali francesi, che per oltre un secolo furono caratterizzate da un forte
spopolamento perdono questo loro primato proprio a causa di un’urbanizzazione
della Costa Azzurra che si estende fino in territorio alpino. Attualmente le aree
maggiormente interessate da fenomeni di perdita di popolazione sono le Alpi
Cozie meridionali (Valli Varaita, Maira, Grana e Stura) e le Alpi liguri 66.
La val Varaita è quindi un chiaro esempio di questa tendenza: tutti i Comuni
ubicati sopra i 500 metri di altitudine si sono resi protagonisti di una perdita di
popolazione di portata drammatica. Dal 1861 al 2009 Frassino, Pontechianale,
Bellino e Melle hanno avuto un decremento demografico pari al 85%,
Casteldelfino all’88%, Valmala e Isasca al 91%, Brossasco e Venasca al 67%. Le
Municipalità elencate continuano ad essere investite dalla diminuzione di cittadini
con l’eccezione di Valmala e Venasca che dal 2001 al 2009 sono cresciute
rispettivamente del 26,8% e dello 0,8%. Nonostante la decrescita, i Comuni
presenti sotto i 650 metri hanno comunque più di mille abitanti, ovvero possiedono
il numero minimo di residenti che permette il mantenimento dei servizi essenziali.
Dal 1861 al 2001 le Municipalità della val Varaita ubicate sotto i 500 metri di
altitudine, escluso Rossana, hanno visto un incremento demografico importante:
Piasco del 57%, Costigliole del 24% e Verzuolo del 34% 67.
Un’altra lettura che aveva influenzato l’“idea” dell’arco alpino cuneese che mi ero
costruita è stata la pubblicazione che attesta i risultati del progetto DIAMONT.
Quest’ultimo ha avuto luogo dal 2005 al 2008 ed è stato lanciato nell’ambito del
programma europeo “Spazio Alpino”. Il progetto, finanziato dall’Unione Europea
66
67
Bätzing W., “Le Alpi tra urbanizzazione e spopolamento”, in L’Alpe n.1, inverno 1999-2000.
Dati statistici ripresi da www.istat.it
38
ma coordinato e amministrato nel suo complesso dall’Istituto di Geografia
dell’Università di Innsbruck, era teso a rafforzare la coesione economica e sociale
all’interno dell’Unione stessa.
I geografi austriaci tracciano un quadro del bilancio demografico alpino dal quale
emerge come la catena montuosa presenti caratteristiche diverse a seconda delle
aree prese in considerazione. Ad esempio, alcune regioni beneficiano del
fenomeno migratorio mentre altre ne sono influenzate negativamente. Le Alpi
bavaresi settentrionali e le relative colline pedemontane, così come l’intera regione
alpina francese, ad eccezione dell’alta Savoia, si contraddistinguono per la
presenza di Comuni che registrano saldi migratori positivi. Al contrario, la
maggioranza delle Municipalità ubicate nelle Alpi svizzere, slovene e austriache
registra saldi negativi.
La parte meridionale della regione alpina, inoltre, rileva tassi molto bassi di
dipendenza giovanile, cui fanno da contraltare valori elevati di dipendenza senile.
Si tratta di dati che esprimono la vitalità socio economica futura: meno bambini e
adolescenti oggi significano meno popolazione attiva, meno contribuenti e meno
genitori domani. L’area alpina così delimitata si caratterizza per essere quella
economicamente maggiormente svantaggiata. Si può quindi affermare che la
parte meridionale delle Alpi soffra di un circolo vizioso articolato nei seguenti
elementi: meno adolescenti, meno popolazione attiva e consumatori, attrattiva
ridotta e infine esodo aziendale e chiusura dei negozi, perdita dei posti di lavoro
ed emigrazione dei giovani.
L’arco alpino piemontese presenta un saldo migratorio composito, variegato e
variabile a seconda del territorio. Altrettanto non si può dire per quanto riguarda il
tasso di dipendenza giovanile e senile. In relazione al primo rapporto, i Comuni
ubicati nella montagna cuneese si attestano quasi tutti su quote inferiori al 19,6%.
Solo intorno al capoluogo si registra qualche eccezione che raggiunge quote
comprese tra il 19,6% e il 27,4%. Un fenomeno analogo si registra in riferimento al
tasso di dipendenza senile: nelle Municipalità indicate, escluse quelle a fondovalle
o vicine a Cuneo, i valori sono quasi ovunque superiori al 35%, laddove variano
non scendono mai oltre al 20%68.
68
Tappeiner U., Borsdorf A., Tasser E. (a cura di), “Atlante delle Alpi”, Spektrum akademischer
Verlag, Heidelberg, 2008.
39
In relazione al bilancio demografico, la val Varaita presenta un quadro composito
ma in linea con le tendenze della Provincia. Se si osservano i dati dal 2002 al
2009, è possibile riscontrare come la crescita naturale sia ovunque negativa ad
eccezione dei Comuni di fondovalle: Rossana e Costigliole hanno un andamento
altalenante mentre Verzuolo è in crescita costante. Il medesimo trend è rilevabile
in relazione al saldo migratorio: nelle Municipalità dell’alta valle è negativo,
positivo invece nella zona che si affaccia sulla pianura. Nella fascia altimetrica
intermedia, il quadro è maggiormente complesso: Frassino, Melle, Brossasco e
Venasca tendono ad oscillare, Isasca presenta valori negativi, cifre positive invece
a Valmala. Il trend di crescita totale non presenta sorprese in quanto ricalca
l’andamento rilevato per il saldo migratorio. L’indice di vecchiaia è molto alto in
tutta la val Varaita anche se decresce sensibilmente al diminuire dell’altitudine 69.
Secondo il progetto DIAMONT, la catena alpina facente parte della Provincia di
Cuneo rientrerebbe, in misura preponderante, nelle “zone rurali dimenticate”,
descritte dai geografi austriaci come un territorio caratterizzato da un evidente
invecchiamento della popolazione e da un declino particolarmente marcato
dell’agricoltura. Le ragioni di questa tendenza vanno ricercate nella scarsa rete di
infrastrutture di trasporto presenti nell’area. Si tratta di veri e propri territori inattivi
e a rischio di spopolamento70.
Prima di partire per il campo avevo immaginato che le difficoltà di natura
economica e demografica riscontrabili nella montagna cuneese avessero prodotto
una parallela perdita di creatività culturale. Come già detto, la ricerca ha smentito
quella che era una conclusione affrettata: ho potuto constatare, invece, l’esistenza
di numerose associazioni e lo sviluppo di consistenti progettualità. A partire dagli
anni Sessanta al presente, infatti, i gruppi associazionistici che operano sul
territorio hanno ripristinato antichi sentieri; ristrutturato piloni votivi, chiese e
meridiane; riproposto la lavorazione del merletto al tombolo; curato pubblicazioni,
dvd e giornali. Anche le feste e la musica godono di particolare attenzione: nel
corso degli anni le associazioni hanno ridato vita a eventi che non venivano più
realizzati, ne hanno proposti di nuovi e hanno incentivato quelli già presenti sul
territorio. In questo senso è celebre il caso delle Baìo: recentemente, infatti, sono
state riproposte quelle di Frassino, Bellino e della borgata Villar di Sampeyre.
69
70
Dati statistici ripresi da www.istat.it
Tappeiner U., Borsdorf A., Tasser E. (op. cit.).
40
Molto interessante, a mio modo di vedere, è anche il caso di “Lu ciantu viol”, una
festa che, nonostante la sua giovane età, viene percepita come “propria”, come
ancorata al territorio. La musica occitana e popolare è proposta da numerosi
suonatori e da alcuni gruppi, tra cui gli Ubac e i Charé Moulâ. In val Varaita le
danze legate a questo tipo di musica sono molto diffuse anche tra i ragazzi ed è
quindi piuttosto frequente che l’animazione di serate proposte dalle associazioni o
dai Comuni si concretizzi in un “ballo”. I giovani, in particolare, sembrano essere
attenti alla cultura locale, come si evince dalla loro presenza in alcuni gruppi
associazionistici attivi sul territorio.
Nell’arco temporale preso in considerazione, tuttavia, è possibile riscontrare delle
differenze nelle tematiche affrontate. Gli anni Sessanta e Settanta, infatti, si fecero
portatori del movimento di scoperta, tutela e valorizzazione della lingua occitana.
Quest’ultima, chiamata anche lingua d’oc, deve il suo nome alla particella
affermativa oc, che deriva dal latino hoc est. Tale criterio di individuazione
dell’idioma deriva da Dante Alighieri il quale distingueva in questo modo la parlata
occitana da quella d’oil, dalla quale deriva il francese moderno, e dall’italiano.
L’occitano, detto “a nosto modo” in val Varaita, è quindi una lingua neolatina
diffusa su un territorio piuttosto vasto. Questo comprende la Francia meridionale,
in particolare la porzione di Stato racchiusa da una linea che congiunge Bordeaux
a Briançon e passa sensibilmente sopra Limoges, Clermont-Ferrand e Valence,
nonché la val d’Aran in Spagna e le valli Chisone, Germanasca, Pellice, Po,
Bronda, Infernotto, Varaita, Maira, Grana, Stura, Gesso, Vermenagna, Corsaglia,
le valli della Bisalta e l’alta valle di Susa in Italia.
In territorio italiano, la questione della lingua e della cultura occitana ricoprì un
ruolo importante a partire dagli anni Sessanta 71. Nel 1961 Gustavo Buratti fondò
l’Escolo du Po, un’associazione nata proprio con lo scopo di valorizzare l’idioma
locale. Tra i ragazzi del gruppo vi erano persone di spicco per il panorama
culturale locale, come Giampiero Boschero, Sergio Ottonelli, Giuliano GascaQueirazza, Corrado Grassi, Arturo Genre, Antonio Bodrero e Sergio Arneodo.
Quest’ultimo fondò un giornale dal titolo “Coumboscuro. Periodico della minoranza
provenzale in Italia” che diffuse le idee maturate dall’Escolo du Po. Il clima del ’68
71
Gli elementi contenuti in questa parte del paragrafo sono stati dedotti da alcune interviste
condotte a Giampiero Boschero in data 15/06/2011, a Fredo Valla il 9/06/2011 e a Silvana Ottonelli
in data 19/04/2011.
41
influenzò anche le valli occitane italiane e i giovani facenti parte di questo gruppo
associativo decisero di estendere la loro sfera di interessi ai problemi sociali,
economici e politici presenti in tale territorio. In val Varaita alcuni dei componenti
dell’Escolo du Po fondarono il giornale “Lou Soulestrelh” insieme a Gustavo Malan
e Osvaldo Coisson, i quali nel 1943 avevano partecipato alla stesura della Carta di
Chivasso72. Per poter realizzare la pubblicazione, il gruppo di giovani crea
un’associazione omonima la cui unica funzione era quella di mantenere la
proprietà editoriale della rivista.
All’inizio degli anni Settanta François Fontan, fondatore e ideologo del partito
nazionalista occitano, si rifugiò in val Varaita come esule politico. Le sue idee si
diffusero rapidamente e in loco sorse il Movimento Autonomista Occitano, volto a
fare dell’Occitania uno Stato indipendente. Il pensiero di Fontan creò tensioni
all’interno dell’Escolo du Po, in quanto non tutti i componenti aderirono alla
corrente politica proposta dal francese. Riunitasi nel 1972 a Coumboscuro,
l’associazione istituì due commissioni: la prima per stabilire una norma grafica con
cui scrivere la lingua, l’altra incarica di revisionare lo statuto interno. La prima
commissione, a seguito di un lavoro imponente, creò la cosiddetta grafia
concordata: di tipo fonematico, essa tiene conto dei suoni aventi carattere
distintivo e si basa su un sistema di segni in grado di trascrivere tutte le parlate
occitane. Diversa è invece la grafia classica o alibertina, creata nel 1935 da Louis
Alibert. Questa norma propone l’unità grafica della lingua basandosi sull’etimologia
latina. La seconda commissione istituita dall’Escolo du Po fu invece boicottata dai
membri dell’associazione contrari al mutamento. Questi problemi interni portarono
ad uno scioglimento del gruppo che, di fatto, non esiste più.
Le idee di Fontan crearono dei dissidi anche all’interno dell’associazione che
gestiva il giornale “Lou Soulestrelh” tanto che alcuni suoi membri, i quali aderivano
al MAO, realizzarono un’altra pubblicazione dal titolo “Ousitanio Vivo”, edita
ancora adesso. Questi disaccordi causarono la fine del periodico “Lou
Soulestrelh”, l’associazione omonima invece si strutturò effettivamente come tale
ed è tuttora attiva sul territorio. Tra i progetti realizzati da questo gruppo emerge
“Lou temp nouvel”, un periodico edito dal 1975. Anche il gruppo di giovani facenti
72
La Carta di Chivasso è una dichiarazione dei diritti delle popolazioni alpine che postulava la
realizzazione di un sistema politico federale e repubblicano su base regionale e cantonale.
42
parte del MAO si organizzarono in associazioni culturali e pubblicarono alcune
riviste. Oltre al già citato “Ousitanio Vivo”, anche il giornale “Valados Usitanos”
emerge da questo contesto, il quadrimestrale, infatti, è stato creato da Sergio
Ottonelli e Giampaolo Giordana nel 1978. Nello stesso periodo Ines Cavalcanti ha
formato la “Chambra d’òc”, un’associazione nella quale l’attenzione alle dinamiche
economiche delle valli è sempre stata importante. Il suo obiettivo generale è infatti
quello di “elaborare e realizzare progetti trasversali alle Valli, con una visione
complessiva di questo territorio in modo da coniugare la necessità di
riappropriazione linguistica-culturale e l'internazionalità del popolo occitano alla
sua rinascita economica”73.
Le associazioni e le pubblicazioni citate sono tuttora presenti nonostante la fine
del Movimento Autonomista Occitano. Questa corrente politica perse la sua
dinamicità e, di fatto, scomparve negli anni Novanta, periodo in cui anche la tutela
e valorizzazione del patrimonio culturale locale seguì forme e direzioni diverse. La
breve panoramica che ho tracciato non pretende di essere un quadro esaustivo
delle dinamiche culturali che si sono sviluppate nella seconda metà del
Novecento, era mia intenzione, invece, sottolineare la creatività e la dinamicità del
territorio. Nell’arco temporale considerato, l’interesse dei locali nei confronti del
proprio patrimonio è sempre stato considerevole anche se mi pare che sia stato
indirizzato su fenomeni diversi. Se negli anni Sessanta-Settanta la lingua occitana
era il fulcro delle politiche culturali del territorio, nel presente esse sembrano
comprendere al loro interno anche altri fenomeni, tra cui la costruzione dei musei
etnografici.
73
www.chambradoc.it
43
CAPITOLO 2
PRATICHE DI PATRIMONIO NELLA
CAPITALE DELLA CASTELLATA
2.1 LU CIASTELDELFIN
Quella mattina di agosto il paese era inondato di sole e del vociare allegro dei
partecipanti alla Sagra del miele e delle erbe curative. La via centrale del paese,
l’antica strada che conduceva al Colle dell’Agnello, era piena di bancarelle che
vendevano prodotti alimentari e artigianato locale.
“Il capoluogo di Casteldelfino giace alle falde del versante esposto a mezzodì sulla
sponda sinistra ed in prospetto dell’angolo di unione di due torrentelli, che
scendendo dalle vallette superiori di Pontechianale e di Bellino costituiscono il
Varaita che dà il nome alla Vallea. La sua altezza dal livello del mare è di metri
1310”74. La vilo de Ciasteldelfin, ovvero la borgata centrale, il capoluogo, di
Casteldelfino, ha una
struttura allungata e
monoassiale
appunto
si
che
sviluppa
seguendo lo Chemin
Royal, la strada che
conduceva al valico di
confine
prima
venisse
costruita
che
la
circonvallazione,
realizzata tra la fine
Casteldelfino di Marco Bailone. Opera concessa dall’artista.
degli anni Cinquanta e
gli anni Settanta75. Come riporta Claudio Allais, tale particolare conformazione era
già presente nell’Ottocento76 ed è rimasta inalterata fino ai giorni nostri.
74
Allais C., “La Castellata. Storia dell’alta valle di Varaita”, l’Artistica, Savigliano, 1985, pp. 3.
Dematteis L., “Case contadine nelle Valli Occitane in Italia”, Priuli & Verlucca, Torino, 2006.
76
Allais C., (op. cit.).
75
44
Casteldelfino si caratterizza per un modello di organizzazione territoriale che
accentrava nel capoluogo funzioni e servizi. Anche il sistema di comunicazione è
coerente con questo assetto perché rivela la preoccupazione di connettere le
borgate alla Vilo a scapito dei collegamenti tra le singole frazioni, meno curati 77.
Il cuore del paese è rappresentato dallo slargo dove lo Chemin Royal si divide in
due tronconi, uno dei quali conduceva a Bellino, l’altro al confine. Il giorno della
Sagra del miele, la “Truei”, una fontana dove l’acqua sgorga da tre bocche
ricavate da un masso a forma di animale, forse un rospo, era nascosta alla vista
dal continuo passaggio di curiosi. La fontana è il vero fulcro della piccola piazza
anche perché il rilievo marmoreo che la sovrasta, raffigurante una Madonna
affiancata dalle armi di Francia e del Delfinato, è datato 1504 78.
Poco oltre la “Truei”, sulla strada che si snoda verso la montagna, si trova casa
Ronchail. Si tratta di un piacevole esempio di architettura signorile cinquecentesca: molto
bella è la loggia ad arcate pensili che arricchisce la facciata a valle, orientata nel senso
della migliore esposizione solare. Le tre colonne in pietra del loggiato sono sovrastate da
79
capitelli nei quali ritornano le têtes coupées tipiche della valle .
Nel 2005 è stato ristrutturato il seicentesco convento dei Cappuccini, anch’esso
situato nel cuore della Vilo, per ospitare un centro di documentazione sul bosco
dell’Alevé. Con i suoi 800 ettari di estensione, si tratta della foresta di pini cembri
più estesa d’Europa e si snoda sul territorio di Casteldelfino, Sampeyre e
Pontechianale. Conosciuto anche ai romani, il bosco dell’Alevé fu soggetto a
protezione già a partire dal XIV secolo, il che spiega la presenza di alcuni
esemplari che hanno più di quattrocento anni di età. Dal 1949 la cembreta è
iscritta nel registro nazionale dei boschi da seme, un atto che permette
all’Amministrazione Forestale di utilizzare i pinoli raccolti per ricreare realtà simili
in altri parti d’Italia. La significativa biodiversità che caratterizza il suo habitat è
stata riconosciuta a livello europeo e il bosco dell’Alevé, nel 2000, è stato
dichiarato Sito di Interesse Comunitario80. Il centro di documentazione, realizzato
a Casteldelfino e gestito dal Parco del Po, offre ai visitatori una piccola
77
Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados
Usitanos, Bra, 1979.
78
Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i
paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009.
79
Ottonelli S., (op. cit.).
80
www.ghironda.com
45
ricostruzione dell’ecosistema della cembreta, un breve percorso dove è possibile
osservare alcuni animali impagliati e la riproduzione di talune specie vegetali.
Funzionale alla particolare struttura monoassiale di Casteldelfino è la presenza di
un’unica parrocchia, caratteristica che fa del paese un caso unico tra i Comuni
dell’alta valle Varaita81. In occasione della Sagra del miele e delle erbe curative ho
avuto modo di prendere parte alla visita della parrocchiale condotta da Dino
Murazzano. Dino, persona risorsa importante e membro dell’associazione “Jer à la
Vilo” che gestisce il museo etnografico di Casteldelfino, illustrava le caratteristiche
artistiche e architettoniche della chiesa dedicata a Santa Margherita nell’ambito
del progetto Mistà. Quest’ultimo dura normalmente da metà luglio alla fine di
agosto ed è organizzato dalla Comunità Montana Valli del Monviso e dai Comuni
di Saluzzo, Barge, Busca, Costigliole, Sampeyre, Sanfront e Verzuolo. Nell’ambito
del Festival Mistà è possibile assistere a concerti di musica jazz, classica e world
music che normalmente vengono tenuti all’aperto di fronte ad edifici di particolare
rilevanza storica ed architettonica. Il progetto, che è giunto alla sua decima
edizione, è finalizzato anche alla valorizzazione degli edifici di culto e della
gastronomia del territorio interessato82.
Come ci ha illustrato Dino, la parrocchiale di Casteldelfino presenta un grande
campanile seicentesco disegnato dall’architetto torinese Gian Giacomo Plantery 83
e caratterizzato da particolari doccioni angolari in pietra verde ornati di figure
zoomorfe. Data la sua posizione a ridosso della strada provinciale, la torre
campanaria si impone allo sguardo di quanti risalgono la valle e domina il paese.
La pietra ollare presente nel campanile ritorna in facciata accompagnata dal
marmo bianco, entrambi i materiali, infatti, sono stati utilizzati per realizzare il
portale romanico. Quest’ultimo è attorniato da una serie di piccole colonne i cui
capitelli sono decorati con le figure antropomorfe tipiche della valle accompagnate
da motivi geometrici e zoomorfi. La chiesa si articola in quattro cappelle laterali e
in un’unica navata centrale sormontata da una volta a botte. Anche i capitelli
presenti all’interno dell’edificio di culto riprendono le decorazioni che ornano il
portale. L’interno della chiesa si fregia di un ciclo di affreschi a opera del pittore
81
Ottonelli S., (op. cit.).
www.festivalmista.it
83
Attivo, tra barocco e neoclassicismo, Gian Giacomo Plantery fu uno dei protagonisti del
rinnovamento urbanistico ed edilizio di Torino. L’architetto divenne celebre per gli interni
scenografici e le volte particolari (dette planteriane) che realizzò in alcuni palazzi aristocratici.
Notevoli anche le chiese, tra cui quelle dell’Assunta e della Pietà a Savigliano.
82
46
buschese Tommaso Biasacci, i quali illustrano la vita di San Giovanni Battista.
Nella seconda cappella di sinistra si trova un fronte battesimale risalente al
Quattrocento ornato con i motivi araldici della Francia e del Delfinato a
testimonianza del legame politico dell’alta valle 84.
Casteldelfino, infatti, fu capitale della Castellata, un’area politico-amministrativa di
cui facevano parte anche i Comuni di Bellino e Pontechianale. Questa zona,
insieme alla val Chisone, al Queyras, a Oulx e Briançon, componeva gli
Escartons, una confederazione alpina autonoma. Le comunità presenti in questa
zona avevano comprato la loro indipendenza al Delfino Umberto II, una particolare
situazione giuridica sancita con la Carta delle Libertà del 1343, nota anche come
Grande Charte Briançonnaise. Si tratta di una sorta di costituzione che decretava
l’affrancamento dalle servitù feudali, il diritto alla libertà individuale, alla proprietà
privata e all’autogestione del territorio. Il termine Escartons, che deriva dal verbo
escartonner, ovvero “dividere”, “ripartire” e indica nella sua radice le modalità di
gestione della Federazione. Oneri e doveri di ogni genere erano spartiti, appunto,
tra le singole comunità, le quali organizzavano anche un reciproco sostegno in
caso di difficoltà. La gestione delle terre comunali e il mantenimento dell’ordine
pubblico erano affidati ad alcune persone elette dal popolo sulla base delle loro
riconosciute virtù morali. La Repubblica degli Escartons cessò di esistere con il
trattato di Utrecht del 1713, la cui stipula pose fine alla Guerra di Successione
Spagnola. Con la firma della pace, i Savoia acquisirono il diritto di governo su
quella parte del territorio della Federazione che adesso fa parte dell’Italia 85.
Il Parco del Po, grazie a un finanziamento della Regione Piemonte, ha realizzato
nel 2007 un centro di documentazione relativo a questa particolare realtà politica
del passato. L’“Espaci Escartons” è situato vicino alla parrocchiale e al suo interno
è possibile visionare libri e video sulla lingua, la cultura, la natura, l’architettura e la
storia della Castellata. Il centro è collegato telematicamente con altre realtà
analoghe presenti a Oulx, Pragelato, Chateaux Queyras e Briançon, ovvero gli
altri centri principali che componevano gli Escartons.
Al Delfino Umberto II si deve anche la costruzione del castello presente sul
territorio comunale. Di questa fortificazione non rimangono ormai che pochi ruderi
recentemente messi in sicurezza per renderli visitabili. In passato la rocca era un
84
85
Rossi D., (op. cit.).
Allais C., (op. cit.).
47
imponente edificio a tre piani, alto ventitré metri e circondato da un cortile
quadrato recintato. Su uno sperone roccioso adiacente sorgeva la torre di vedetta
collegata al castello mediante un ponte levatoio 86.
Come riporta Claudio Allais, a questa fortificazione si deve probabilmente la
denominazione attuale di Casteldelfino. L’agglomerato urbano era già noto nel X
secolo con il Nome di Villa Sant’Eusebio ed era situato leggermente più a valle
rispetto alla posizione attuale. Il paese fu interamente distrutto da un’alluvione del
1391 che risparmiò solo la chiesa omonima87. L’edificio di culto dedicato a
Sant’Eusebio è attualmente visitabile e, come sostiene Sergio Ottonelli, si tratta
dell’“unica architettura anteriore al XV secolo che la valle abbia integralmente
conservato”88. La chiesa ha un alto campanile a vela triforato e un portale situato
sul fianco sud-est in direzione dell’antico paese scomparso. Il portale, con arco a
tutto sesto, è in tufo ed è sormontato da un architrave megalitico 89. All’interno della
Chiesa l’associazione “Jer à la Vilo” ha allestito una mostra dal titolo “I Santi del
Popolo” con il fine di illustrare l’iconografia dei santi diffusa in valle. A seguito
dell’alluvione che distrusse Villa Sant’Eusebio, il paese prese il nome di Castrum
Delphini ad indicare la fortificazione voluta da Umberto II.
La presenza sul territorio di forza idraulica fu ben presto utilizzata dai
casteldelfinesi per incrementare il tessuto economico dell’abitato. Come ricorda
Ottonelli, già nel Settecento in loco era presente una struttura preindustriale
all’interno della quale trovavano spazio tanto la lavorazione del legno e del ferro,
quanto la produzione e commercializzazione dei panni di lana. A queste attività si
accompagnava la gestione amministrativa del territorio 90, una “vocazione” di
Casteldelfino che non si esaurisce con la fine della Repubblica degli Escartons ma
continua anche nell’Ottocento. Il canonico Allais sottolinea la presenza nel
capoluogo di “una sala comunale, d’un ufficio postale e telegrafico, d’una stazione
dei R.R. carabinieri e d’una brigata di guardie forestali. […] La posta vi giunge una
volta al giorno per mezzo di una vettura pubblica che presta il servizio da
86
Ottonelli S., (op. cit.).
Allais C., (op. cit.)
88
Ottonelli S., (op. cit.), pp. 142.
89
Ibidem.
90
Ibidem.
87
48
Casteldelfino a Sampeyre, in corrispondenza di un’altra che da questo luogo lo
estende al tramvia di Venasca” 91.
Il tessuto economico del paese si è radicalmente modificato nel corso del tempo:
sul territorio oggi vi sono soprattutto impiegati, operai, agricoltori e molti
pensionati92. Anche la peculiare gestione amministrativa del territorio è venuta
meno: Casteldelfino adesso svolge funzioni analoghe a qualsiasi altro Comune. Il
paese, inoltre, si inserisce nell’andamento demografico negativo caratteristico
delle Alpi occidentali. Dall’Ottocento a oggi Casteldelfino ha perso l’88% della
popolazione e nel 2010 contava solo 180 abitanti. In anni più recenti la situazione
non è certo migliorata: dal 2002 al 2009 il tasso di crescita totale ha registrato
valori compresi tra lo zero e il meno 12% 93.
Lo spopolamento drammatico che ha caratterizzato il paese diventa tangibile in
inverno, quando gli scuri delle case sono chiusi e nelle stradine deserte non si
incontra nessuno. D’estate, soprattutto in occasione di feste come la Sagra del
miele, il volto malinconico di Casteldelfino lascia il posto alle allegre risate dei
bambini e al vociare divertito dei villeggianti.
Il paese, tuttavia, sembra non avere una forte vocazione turistica. La
programmazione
estiva
si
articola
in
cinque
manifestazioni
soltanto:
“Casteldelfinando in fiore” a giugno, la festa patronale di Santa Margherita
preceduta da una “notte bianca”, il concerto di Ferragosto e la già citata Sagra del
miele e delle erbe curative. In occasione del Natale, invece, i casteldelfinesi si
impegnano nella realizzazione di un presepe vivente. Limitato anche l’interesse
dimostrato nei confronti degli sport invernali: sul territorio esiste una sola pista da
fondo composta da due anelli di 5 e 12 km94. Indipendente dalla vocazione
turistica del territorio, il Comune ha comunque realizzato numerose attività per la
salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio locale, come si deduce
dall’attenzione riservata, ad esempio, al bosco dell’Alevé, al museo etnografico e
all’architettura locale. L’amministrazione precedente, il cui mandato era durato
quasi trent’anni nonostante le interruzioni previste per legge, aveva affidato la
gestione della programmazione culturale all’associazione “Jer à la Vilo”. Questa,
91
Allais C., (op. cit.), pp. 6.
Dato desunto grazie alla collaborazione di Angela Sciapel, dipendente del Comune di
Casteldelfino.
93
www.istat.it
94
www.comune.casteldelfino.cn.it
92
49
grazie ad un budget annuale di cinquemila euro fornito dal Comune, si occupava
delle feste, dell’inaugurazione della pista da fondo e realizzava una serie di
progetti. All’associazione “Jer à la Vilo” si deve, ad esempio, la messa in sicurezza
dei ruderi del castello e la realizzazione di una serie di pannelli che ne illustrano la
storia e le caratteristiche; il restauro del lavatoio comunale e della Chiesa di
Sant’Eusebio, quest’ultimo realizzato nel 2004 grazie a fondi europei; la
promozione di alcuni concerti estivi, la messa in opera e la valorizzazione della
“via dei forni”95. Come tutti i paesi della valle, Casteldelfino ha almeno un forno per
ogni sua borgata. Si tratta di strutture costruite in pietra locale con una portata
media di circa 50 pani di due kg ciascuno. In passato i forni erano utilizzati una
sola volta all’anno nei mesi di novembre e di dicembre, quando le famiglie della
frazione provvedevano alla panificazione necessaria a soddisfare il fabbisogno
annuale96. Il Comune aveva predisposto il recupero architettonico di queste
strutture e nel 2007, in occasione della festa “Casteldelfinando in fiore”, il forno
della borgata centrale è stato acceso per la prima volta dopo cento anni. Nel 2007
l’associazione “Jer à la Vilo” ha realizzato le visite guidate ai forni del paese i quali,
per l’occasione, erano stati dotati anche di un piccolo rinfresco con prodotti locali.
Questo gruppo di casteldelfinesi è stato anche “l’inventore” della Sagra del miele e
delle erbe curative. Come mi ha detto Dino, la festa è stata creata «da noi
trent’anni fa per cercare di fermare la gente un weekend in più»97 sul territorio e
per arginare l’esodo che si verificava dopo ferragosto.
L’amministrazione attuale, invece, ha una modalità di valorizzazione e tutela del
patrimonio differente: essa ha estromesso l’associazione “Jer à la Vilo” dalla
programmazione culturale e, in un primo tempo, anche dalla gestione del museo 98.
La conduzione comunale ha portato ad alcuni cambiamenti: sono state introdotte
sia la notte bianca che precede la festa patronale, sia il presepe vivente, il quale
però non è realizzato con persone di Casteldelfino. È stata riproposta la festa
incentrata sulla fioritura primaverile che, come le altre che si svolgono in estate, è
animata da una banda musicale anch’essa non locale. Il Comune ha realizzato un
progetto di ripristino di alcune mulattiere, antiche vie di comunicazione che
univano borgate e paesi. Queste sono state denominate “viol d’i reire”, i “sentieri
95
Elemento tratto da un’intervista a Dino Murazzano condotta in data 27/04/2011.
Elemento tratto da un’intervista a Luigi Dematteis del 27/04/2011.
97
Frase ripresa da un’intervista a Dino Murazzano condotta in data 27/04/2011
98
Riflessione tratta da un’intervista a Dino Murazzano del 27/04/2011.
96
50
degli antenati”, e sono al centro dell’attività escursionistica proposta dalla
Municipalità. I percorsi individuati sono sei: la via medievale che raggiunge Elva, la
via del bosco, la via delle borgate alte, la via che conduce all’antica miniera del
ferro di Torrette, e la già citata via dei forni. Un altro progetto imponente che il
Comune sta realizzando riguarda la costruzione della Piazza dei Santi del popolo.
Questa è stata ricavata dallo spazio determinato dal primo tornante della
circonvallazione ed è collegata al paese attraverso una strada che prenderà la
medesima denominazione dello spiazzo. La Piazza dei Santi del popolo si
compone di una serie di gradini di cemento, disposti a semicerchio come quelli di
un teatro romano, che guardano un loggiato in legno sotto il quale saranno
disposte una serie di statue bronzee di alcuni santi, tra i quali Padre Pio. Il
progetto in questione è stato realizzato grazie a un finanziamento di sessantamila
euro erogato dalla Regione Piemonte e finalizzato alla valorizzazione del
patrimonio culturale locale.
2.2 IL MUSEO ETNOGRAFICO “JER À LA VILO”
Il museo etnografico “Jer à la Vilo” si trova in località Casermette, una frazione
separata dal borgo centrale di Casteldelfino dalla recente circonvallazione. Il
museo, di proprietà del Comune, è ospitato all’interno di una caserma militare
risalente al 194599. Non tutti gli spazi dell’edificio sono occupati dalle collezioni
etnografiche, anzi una buona parte di esso è inutilizzata durante l’anno. Solo in
occasione della Sagra del miele e delle erbe curative, la caserma, a forma di ferro
di cavallo, viene interamente occupata. Quando ho avuto l’occasione di
parteciparvi, si entrava a una delle estremità dell’edificio e, tra bancarelle di miele,
dolci e formaggi, si accedeva direttamente al museo. Era un pomeriggio assolato
e caldo e la manifestazione ebbe, a mio avviso, un ottimo successo di pubblico. Le
strade del paese così come l’interno della caserma erano gremite di gente e
anche il museo fu visitato da un numero consistente di persone.
All’interno della struttura le collezioni etnografiche sono suddivise in quattro sale
comunicanti, ognuna delle quali tratta un argomento diverso. Nel primo ambiente,
davanti ad una riproduzione della facciata della chiesa di Santa Margherita, sono
99
Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state ricavate da alcune interviste condotte a
Dino Murazzano in data 12/10/2009, 20/08/2010, 14/12/2010, 27/04/2011 e dal sito
www.comune.casteldelfino.cn.it/11vie/vietradizioni.html
51
esposti alcuni abiti tradizionali, cuffie ornate di pizzo realizzato con il tombolo e i
nastri utilizzati in contesto festivo. Questa sala ospita anche alcuni animali
impagliati donati da un cacciatore del luogo. L’associazione “Jer à la Vilo” ha
accettato questa donazione anche se non è strettamente inerente alle tematiche
trattate perché il museo «è delle famiglie di Casteldelfino». Le collezioni
etnografiche sono state realizzate grazie al contributo dei casteldelfinesi che
hanno prestato i manufatti esposti. «Ci sono 18 persone che hanno prestato degli
oggetti. Naturalmente il museo ha anche degli oggetti suoi, che sono stati donati,
gli altri invece sono delle famiglie che in qualsiasi momento desiderino riaverli noi
glieli restituiamo». La genesi del museo si riflette nell’allestimento, dove
l’associazione ha cercato di esporre tutti i manufatti che sono stati messi a
disposizione per incentivare il legame della popolazione locale con il museo.
La seconda sala ricalca la precedente nello stile espositivo: in questo spazio è
stata ricreata in scala la facciata di una grangia e, davanti ad essa, vi sono gli
oggetti necessari al lavoro della terra,
del legno e del miele. La grangia era
un’abitazione
temporanea,
utilizzata
durante l’estate e collocata a quote più
elevate rispetto alla casa di residenza.
In relazione a quest’ultima le grange
sono di norma più piccole e rudimentali,
dotate, tuttavia, di muri in pietra e di
possibilità di alloggio per uomini e
animali in locali separati. Questo tipo di
dimore si possono trovare sul territorio
sia in insediamenti singoli, sia a gruppi e
sono solitamente circondate da terreni
di proprietà adibiti a prati, pascoli o
seminativi100. Gli oggetti esposti nel
museo,
a
eccezione
di
pochissimi
La seconda sala del Museo “Jer à la Vilo”.
Foto dell’autrice.
elementi, non sono contenuti all’interno delle vetrine. Tale caratteristica è una
scelta allestitiva consapevole che lascia trasparire il carattere “artigianale” con cui
100
Dematteis L., (op. cit.).
52
è stata realizzata l’esposizione. Secondo Dino, il museo curato dall’associazione
di cui è membro è «fatto col cuore, un museo non come se ne vedono molti in giro
dove gli oggetti sono sistemati in teche, molto più sistemati». In fase di
realizzazione dell’allestimento l’attenzione sembra essere stata maggiormente
rivolta al pubblico: «le famiglie di Casteldelfino, quando vengono a visitarlo,
specialmente nel periodo di festa, ricordano i loro antenati e questo a noi fa
piacere».
Il desiderio di trasmettere una memoria comune emerge forse soprattutto
dall’esposizione realizzata nella sala successiva. Qui, sul pavimento, sono messi
in mostra diversi manufatti utilizzati nella lavorazione della segale, mentre alle
pareti sono appese una serie di foto antiche che ritraggono la popolazione di
Casteldelfino. Alcune immagini raffigurano uomini e donne nell’atto di lavorare la
terra, mentre si dedicano ad attività artigianali o in occasioni festive; altre ne fanno
invece il ritratto, come quello lasciato dai migranti quando partivano.
Il lavoro di raccolta di foto significative per la memoria storica di Casteldelfino è
stata la prima attività svolta dall’associazione “Jer à la Vilo” nell’ambito della
progettazione
dell’omonimo
museo.
Questo
nacque
nel
1995,
mentre
l’associazione si cosituì concretamente come tale il 12 novembre 1994 anche se il
gruppo di cinque amici che la compongono era attivo nella valorizzazione del
patrimonio culturale locale già dal 1993. Il loro interesse si è concretizzato nella
realizzazione di alcuni progetti importanti. Insieme al Comune e alla Parrocchia,
l’associazione “Jer à la Vilo” ha curato il restauro della cappella di S. Bernardo, di
una meridiana del XIX secolo, della facciata della Confraternita dei Benedettini,
dell’antico lavatoio comunale e della chiesa di S. Eusebio. Parallelamente il
gruppo di casteldelfinesi ha creato le collezioni etnografiche del museo e ne ha
realizzato gli allestimenti. In passato come oggi è l’associazione “Jer à la Vilo” che
gestisce la struttura e ne cura le esposizioni. Nel 1999 il museo di Casteldelfino ha
realizzato una mostra fotografica sulle meridiane presenti sul territorio comunale
mentre l’anno successivo l’esposizione temporanea ha interessato i costumi
femminili tipici dell’alta valle Varaita. Nel 2001 le sale del museo etnografico hanno
ospitato una rassegna di lavori al tombolo e una mostra fotografica sui piloni votivi.
Sullo stesso tema verte anche il cortometraggio dal titolo “L’oratori retroubà”
curato dall’associazione “Jer à la Vilo” e realizzato da Bruno Sabbatini nel 2009. Il
video narra la storia di un giovane originario di Casteldelfino cui un’anziana
53
parente lascia una cospicua eredità a condizione che restauri il pilone di famiglia. I
lavori di ristrutturazione saranno l’occasione per il ragazzo di riscoprire le proprie
radici e la propria storia.
I piloni sono una “testimonianza di devozione” molto diffusa in val Varaita. A
Casteldelfino, Bellino e Pontechianale queste strutture sono numerose ma non
raggiungono la frequenza osservabile, ad esempio, a Sampeyre e Melle. Si tratta
di un fenomeno che può essere spiegato considerando le vicende religiose della
Castellata, caratterizzata, fino ai primi del Settecento, da una forte presenza del
culto riformato. La struttura del pilone è piuttosto semplice e si è mantenuta
costante nel corso del tempo: di altezza variabile esso possiede un tettuccio in
lose a due spioventi che protegge dalle intemperie la piccola costruzione in pietra,
sovente livellata con dello stucco. Sul lato che guarda verso la strada è ricavata la
nicchia che ospita le immagini del Santo cui è dedicato il pilone e che in molti casi
è stata affrescata da pittori itineranti 101. Queste strutture possono essere suddivise
in cinque categorie: il pilone votivo, realizzato per mantenere un voto fatto o in
segno di ringraziamento; il pilone rogazionale, eretto allo scopo di propiziare il
buon esito della semina e del raccolto; il pilone processionale, tappa di una
processione; il pilone crocevia, situato nel punto di intersezione delle strade; infine
il pilone funebre, costruito sul percorso del corteo che trasportava la salma dalla
chiesa al Campo Santo102.
L’associazione “Jer à la Vilo” ha proiettato il film “L’oratori retroubà” nelle frazioni
di Casteldelfino ma anche a Piasco e in valla Maira. Al gruppo di amici, infatti,
piace lavorare in sinergia con le altre realtà presenti sul territorio: «con il progetto
Mistà siamo degli operatori culturali. Poi collaboriamo anche con il Parco del Po
all’apertura del diorama allestito al centro del paese».
L’attenzione espressa dall’associazione nei confronti della religiosità popolare
emerge anche da un’altra iniziativa condotta dal gruppo di amici. Nel 2006 essi
hanno curato un’indagine sui santi che erano oggetto di devozione nel territorio
della Castellata. La ricerca si è concentrata in particolare sui reperti storicoartistici, ovvero sull’iconografia espressa dai piloni e dagli affreschi. L’analisi
condotta ha avuto come esito sia una pubblicazione, curata da Isabel Ottonelli con
101
Ottonelli I. (a cura di), “I Santi. Testimonianze di devozione in alta valle Varaita”, Associazione
culturale Ier a la Vilo, Casteldelfino, 2008.
102
Da “L’oratori retroubà” di Bruno Sabbatini.
54
la collaborazione di Sergio Ottonelli e Giovanni Bernard, sia una mostra. Questa è
stata allestita nei locali della piccola Chiesa di S. Eusebio, sottoposta a restauro
nel 2004. L’edificio di culto ha ospitato anche una conferenza di due giorni sempre
sul tema dei Santi oggetto di venerazione in valle, un evento volto ad approfondire
le ricerche condotte fino a quel momento. Nel 2006 l’associazione “Jer à la Vilo”
ha realizzato anche un’esposizione sugli animali evocati in contesti rituali, di festa,
come ad esempio l’orso di segale. La mostra era stata arricchita da un piccolo
convegno di esperti su questa tematica, al quale era stato invitato anche Piercarlo
Grimaldi.
Nelle esposizioni del museo etnografico sono presenti dei pannelli che illustrano la
storia della Castellata e degli Escartons, un argomento che è stato trattato anche
nell’altra pubblicazione e nell’altro video realizzati dell’associazione. Il libro, dal
titolo “Il castello ritrovato”, narra la storia della costruzione di questa fortezza ed è
stato curato anch’esso da Isabel Ottonelli. “Escartons. Terra di libertà”, creato da
Bruno Sabbatini nel 2004, si concentra, invece, sulle vicende che portarono alla
formazione di questa confederazione di territori.
La quarta sala del museo ospita una serie di mobili antichi, corredati con diversi
attrezzi da cucina. Sul pavimento, inoltre, è possibile osservare il quadrante,
ancora funzionante, dell’orologio della chiesa di Bertines, frazione di Casteldelfino.
Gli oggetti del museo sono stati tutti inventariati e fotografati con una duplice
metodologia. L’associazione “Jer à la Vilo”, infatti, possiede sia un semplice
quaderno, sul quale sono stati annotati i manufatti e il nome dei loro proprietari, sia
un archivio informatizzato, dove all’elenco dei beni si accompagna anche una loro
foto.
In occasione della Sagra del miele e delle erbe curative il museo era veramente
affollato. Gruppi di turisti, sacchetti di acquisti alla mano, si soffermavano a
guardare gli oggetti e le fotografie esposte scambiandosi considerazioni sul modo
di vivere “di una volta”. Secondo l’opinione di Dino, nel resto dell’estate e
dell’anno, «potranno transitare duecento persone», una cifra attendibile ma che
non è confrontabile con dei registri. Il museo, infatti, è molto frequentato da scuole
e gruppi: nell’inverno 2010-2011, ad esempio, è stato visitato da tre scolaresche e
da altrettante comitive, quest’ultime provenienti da Nizza, Roma e dalla Germania.
I giorni di apertura, invece, sembrano essersi ridotti nel corso del tempo. Come
segnalato dal sito internet del Comune di Casteldelfino, dove la struttura ha un
55
pagina dedicata, il museo dovrebbe essere visitabile tutti i giorni ad agosto, su
prenotazione nel resto dell’estate e nella stagione fredda. In realtà «durante l’anno
prevalentemente siamo aperti su richiesta e poi nel mese di agosto, se riusciamo,
un paio di volte alla settimana, nel fine settimana». Se, come è evidente dai
numerosi progetti realizzati, non manca la buona volontà dell’associazione, i
problemi si creano in relazione al reperimento di fondi per gestire la struttura. Il
museo si basa unicamente sul volontariato del gruppo mentre sono scarsi i
contributi ricevuti dalle amministrazioni pubbliche. Decisamente risicata è anche la
partecipazione del Comune che talvolta sembra avere un atteggiamento quasi
conflittuale nei confronti dell’associazione “Jer à la Vilo”, come si esplica dal
tentativo di estrometterla dalla gestione del museo.
La realtà etnografica sembra attraversare un periodo di “stasi” causato anche dal
recente progetto di spostamento delle collezioni. La caserma nel quale è
attualmente ubicata si trasformerà in un polo sportivo, come da progetto dell’ultima
Amministrazione comunale. Questa però si impegna e sistemare le collezioni in
«un’altra struttura al centro del paese, vicino alla parrocchiale, che come logistica
forse è meglio ma come sistemazione noi dovremmo stravolgere tutto il nostro
sistema che abbiamo creato in questi anni con il museo. I locali non saranno più
come questi, molti oggetti non ci saranno più, bisognerà poi prendere decisioni in
merito a sistemare diversamente gli oggetti». La preoccupazione dell’associazione
sembra essere quella di preservare l’antico allestimento perché in esso era
possibile osservare tutti i manufatti prestati dai casteldelfinesi. Questa metodologia
di esposizione è percepita come un fattore importante per creare, incrementare e
mantenere il legame del paese con la struttura. Solo accettando e mettendo in
mostra tutti gli oggetti donati dalla popolazione il museo può considerarsi integrato
nel territorio ed essere «delle famiglie di Casteldelfino».
2.3 POLITICHE DELLA MEMORIA
Gli oggetti esposti nel museo etnografico “Jer à la Vilo” di Casteldelfino forniscono
uno spaccato della vita contadina locale. Il tempo storico documentato è quello
della “tradizione” e come tale non è precisamente collocato da un punto di vista
cronologico. Se la tradizione può essere intesa come una rappresentazione
selettiva del passato, orientata verso il futuro e che risponde alle esigenze del
56
presente103, le modalità con cui avviene tale rappresentazione rimangono celate.
Nel museo di Casteldelfino non c’è quindi l’intento di documentare un’epoca
storica precisa, anche se una datazione dei manufatti in mostra permette di
collocarli quasi tutti tra la seconda metà dell’Ottocento e la fine della Seconda
Guerra Mondiale. A questo gruppo più nutrito di oggetti si aggiunge qualche
eccezione risalente al Settecento.
Finalità analoghe si riscontrano anche nelle altre realtà etnografiche presenti in
valle Varaita. Se alcuni musei si concentrano su una sola tematica, la temporalità
cui si riferiscono è sempre quella della tradizione, del tempo degli antenati.
L’obiettivo delle esposizioni sembra essere quello di veicolare la memoria del
paese, di trasmettere il ricordo di un modo di vivere il territorio che era proprio
degli avi. Come mi diceva Fabrizio Dovo in relazione al Museo etnografico di
Sampeyre: «noi l’abbiamo sempre visto come un momento per raccogliere e
conservare la memoria, una casa comune del paese. È comunque un posto dove
c’è un pezzo di memoria condivisa anche per chi ha avuto esperienze
migratorie»104. Interessante il pensiero di Enrica Paseri: «Forse la gente quando
viene su di qua cerca un po’ le origini, non so, forse perché si vedono ancora
molte cose antiche, […] si sente ancora questa sensazione di culla delle origini e
di senso delle radici. Penso che nei posti dove si legge di più la storia forse la vai
a cercare di più»105.
Nonostante le differenze riscontrate in relazione agli argomenti trattati, le collezioni
etnografiche sono state assemblate in modo simile. Ad eccezione del Museo del
Costume di Chianale, che ha comprato la grande maggioranza degli oggetti
all’incanto e che solo di recente comincia ad avere delle donazioni, tutti gli altri
hanno coinvolto la popolazione locale. Ad esempio Celeste ed Enrica, i curatori
del Museo del Mobile di Pontechianale, allestiscono ogni nuova mostra chiedendo
in prestito ad amici e conoscenti gli oggetti necessari. Similmente, i manufatti che
compongono le esposizioni delle realtà etnografiche di Sampeyre, Casteldelfino e
Bellino sono stati donati dalla popolazione dei rispettivi paesi 106.
103
Bellagamba A., Paini A. (a cura di), “Costruire il passato. Il dibattito sulle tradizioni in Africa e
Oceania”, Paravia, Torino, 1999, pp.144.
104
Considerazione tratta da un’intervista da me condotta a Fabrizio Dovo in data 20/10/2009.
105
Frase tratta da un’intervista ad Enrica Paseri condotta il 11/10/2009.
106
Considerazioni derivate dalle interviste condotte ai curatori dei musei etnografici elencati.
57
Le modalità con cui sono state realizzate le collezioni si rispecchiano anche
nell’allestimento. Il desiderio dei curatori sembra essere ovunque quello di esporre
tutti gli oggetti che le persone del paese hanno donato o prestato. Come nel caso
di Casteldelfino, questa prassi allestitiva trova la sua ragion d’essere nel tentativo
di coinvolgere la popolazione locale e di sviluppare un senso di affezione nei
confronti del museo. Durante i nostri incontri, infatti, Dino ha sovente sottolineato
gli sforzi fatti dall’associazione “Jer à la Vilo” affinché la struttura da loro creata
fosse percepita come propria dalle famiglie del paese 107. Un fenomeno analogo è
presente anche a Sampeyre dove: «gran parte degli oggetti sono nelle stanze
anche per un motivo, perché la gente che li porta poi ha piacere di vederli esposti.
[..] Allora noi finché possiamo cerchiamo di far stare le cose»108.
Si tratta di una prassi che fa da contraltare alla litigiosità e al campanilismo diffusi
nella valle. Questo fenomeno è stato rilevato anche da altri studiosi del mondo
alpino come Camanni, che parla espressamente di “pregiudizi e convinzioni
ataviche”109, e Werner Bätzing110. A mio avviso, un esempio palese di questa
situazione è dato dall’assenza, in tutti i musei ad eccezione di quello presente a
Bellino, di materiali illustrativi che rimandino alle altre realtà etnografiche del
territorio. Tale mancanza permane anche quando vengono realizzate esposizioni
temporanee che trattano argomenti sviluppati in un altro museo etnografico locale.
Le singole strutture, invece, instaurano collaborazioni importanti con note
personalità di valle che lavorano nell’ambito della cultura. È il caso, ad esempio,
della mostra realizzata a Sampeyre e curata da Giampiero Boschero, del lavoro
congiunto dei curatori del Museo del Mobile e Paolo Infossi, della già citata
pubblicazione cha ha coinvolto l’associazione “Jer à la Vilo” e Sergio e Isabel
Ottonelli. Questi studiosi possono forse essere pensati come i passeurs culturels
di cui parlano Adriano Favole e Matteo Aria a proposito dell’Oceania, persone a
cavallo tra “universi semantici differenti” che si sono fatti portatori di fenomeni di
riscoperta e rivalutazione del contesto culturale di origine 111.
107
Considerazioni tratte dalle interviste condotte a Dino Murazzano in data 12/10/2009, 20/08/2010
e 14/12/2010.
108
Frase tratta da un’intervista a Dovo Fabrizio condotta il 29/07/2010.
109
Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pp. 91.
110
Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”,Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
111
Aria M., Favole A., “Passeurs culturels, patrimonializzazione condivisa, creatività culturale
nell’Oceania francofona. L’articolo è di prossima pubblicazione.
58
Quello che manca sul territorio sono invece i punti di contatto tra i singoli musei.
Una situazione che, a mio avviso, compromette la valorizzazione del patrimonio
etnografico di valle il quale risulta essere penalizzato nella sua fruizione. Chi è
interessato a conoscere le singole strutture oppure ad approfondire una tematica
deve fare da solo un lavoro di connessione o cercare l’aiuto di un ufficio turistico
che però non è presente in tutti i paesi. La quasi totale assenza di contatti tra i
musei rivela il loro essere “luoghi di conflitto”. Lungi dall’essere uno spazio neutro,
queste realtà si identificano con le persone che le gestiscono, un gruppo esiguo
con il quale si può o meno aver legato. Il museo non è quindi un’entità astratta ma
è il prodotto del lavoro di alcuni soggetti e solo in tal senso viene percepito e
giudicato112.
Le collezioni museali sono il fulcro dei progetti espositivi di tutte le realtà
etnografiche presenti in valle Varaita. Il ricorso alla moderna tecnologia negli
allestimenti è pressoché nullo, in parte sicuramente perché il costo di queste
strutture è esoso e le risorse sono scarse. Fabrizio Dovo a riguardo mi diceva: «ci
sono dei musei della zona che, avendo ampie disponibilità finanziarie, possono
fare ricostruzioni multimediali, possono fare effetti speciali. Noi non avendo questo
tipo di disponibilità puntiamo più sulle cose concrete»113. Inoltre, in tutti i comitati
scientifici, quando sono stati istituiti, non era presente un museologo di
professione
che
potesse
suggerire
strategie
espositive
maggiormente
all’avanguardia.
La mancata attenzione nei confronti del patrimonio immateriale che caratterizza
l’allestimento di questi musei, secondo me è dovuta soprattutto alla centralità che
l’oggetto, in quanto tale, continua ad avere per i curatori. In alcuni casi, come detto
in precedenza, le modalità espositive sono influenzate dal desiderio di compiacere
coloro che hanno donato i manufatti. In altre situazioni, quando i curatori del
museo sono anche i fautori della collezione, essi assumono le caratteristiche del
collezionista vero e proprio. Questi ultimi instaurano un rapporto privilegiato con gli
oggetti, incomprensibile ai profani, fatto di rimandi ad altre storie e ad altre realtà.
Anche se il manufatto è ricercato per essere successivamente esposto nel museo,
esso finisce col perdere le sue “relazioni funzionali” per essere, invece, desiderato
112
113
Riflessione tratta da una chiacchierata con Ilaria Peyracchia che si è svolta in data 12/12/2010.
Considerazione tratta da un’intervista da me condotta a Fabrizio Dovo in data 18/12/2010.
59
e contemplato in quanto tale114. Gli ambiti di utilizzo, ma anche gli universi
simbolici e rituali degli oggetti, concorrono a formare nella mente del collezionista
una sorta di “enciclopedia magica” con la quale egli non solo ordina i beni raccolti,
ma si crea una visione del mondo115. Infatti, il metodo di classificazione con il
quale i manufatti vengono immagazzinati e/o esposti rimanda alle specifiche storie
non solo di produzione dell’oggetto, ma anche di appropriazione dello stesso.
Indipendentemente dalla relazione stabilita con il bene materiale, scegliere di
mettere in mostra un oggetto in un museo presuppone tanto una valutazione
dell’oggetto stesso, quanto l’instaurazione di un particolare tipo di rapporto con la
cultura da cui proviene116. Nell’esporre manufatti originari di un determinato
contesto sociale e culturale, qualora l’intento sia quello di rappresentarlo, il
curatore di un museo “non può non porsi l’obbiettivo di avvalorare una teoria,
segnatamente una teoria della cultura”117.
La fioritura di musei etnografici in val Varaita è strettamente connessa alla
“colonizzazione” da parte della “civiltà urbana” avvenuta soprattutto nella seconda
metà del Novecento. Sono gli anni del rapido spopolamento della montagna
causato, in parte, dalla crescita di industrie in pianura che attirarono mano
d’opera. Parallelamente, il fenomeno dello sci e del turismo di massa “è destinato
a sferrare l’ultimo colpo di grazia all’indipendenza economica e culturale della
montagna”118. Come sostiene Batzing “con la grande trasformazione strutturale
crolla non solo il sistema economico e di sfruttamento tradizionale, ma anche il
sistema culturale, che viene messo in discussione dai moderni valori «urbani»,
caratterizzati da un’impronta industriale e terziaria” 119. Si tratta di un fenomeno che
causa un duplice contrasto: da una parte la modernità non si concilia bene con le
esperienze di vita quotidiana presenti in montagna, dall’altra parte essa
rappresenta la fine della povertà e l’esaltazione della libertà personale, un
“progresso che non si può e non si vuole arrestare” 120. Sono gli anni di cui Nuto
Revelli traccia un affresco disincantato ne “Il mondo dei vinti” 121, un periodo in cui
114
Benjamin W., “Parigi capitale del XIX secolo: i passages di Parigi”, Einaudi, Torino, 1986.
Ibidem.
116
Baxandall M., “Intento espositivo”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in mostra.
Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995.
117
Ibidem pp. 20.
118
Camanni E., (op. cit.), pp. 50.
119
Bätzing W., (op. cit.), pp. 330.
120
Ibidem pp. 331.
121
Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002.
115
60
era frequente l’emulazione di modelli culturali e di consumo urbani, così come era
diffuso un sentimento di vergogna nei confronti delle origini valligiane. I primi
musei etnografici nascono come reazione a tale complesso di marginalità e
propongono una visione diversa della cultura di appartenenza. Il rinnovato orgoglio
con cui si guarda al passato, a mio avviso, è presente anche nei musei più recenti.
In valle Varaita non sembra più essere presente questa sensazione di disagio nei
confronti delle proprie origini. Al contrario, se la componente materiale gode di
così tanta considerazione all’interno dei musei etnografici è anche perché gli
oggetti collezionati sembrano ristabilire connessioni tra la storia individuale e
quella collettiva. Salvarli dall’insignificanza appare quindi come un tentativo per
meglio comprendere la storia locale122. Se i curatori di un museo etnografico non
possono non avvalorare una teoria della cultura, quella che emerge dalle realtà
varaitine si fa portatrice di un rinnovato orgoglio nei confronti del proprio passato.
Gli oggetti esposti possono essere interpretati come dei semiofori, essi cioè non
hanno più utilità di tipo strumentale, ma sono dotati di un significato particolare in
quanto sono i rappresentanti dell’invisibile. Secondo Pomian, quest’ultimo può
essere declinato in modi diversi ma, a mio avviso, l’invisibile cui si riferiscono gli
oggetti esposti nei musei etnografici della valle è ciò che è molto lontano nel
tempo. Solo un bene facente parte di una collezione può diventare semioforo e
trasformarsi in portatore di significati. La trasformazione degli oggetti in simboli
presuppone la capacità di risvegliare memorie, raccontare storie e ricreare
ambienti123. La centralità di cui godono i manufatti nelle esposizioni dei musei
etnografici della val Varaita può forse essere intesa come un metodo per creare
una “politica della memoria” che rivaluti il contesto culturale degli avi così a lungo
denigrato. I curatori delle realtà presenti mi pare considerino gli oggetti come lo
strumento
principe
per
veicolare
questo
messaggio.
Attraverso
la
loro
connessione con l’invisibile, i beni collezionati sono in grado di praticare tanto una
nostalgia “chiusa”, caratterizzata dal rimpianto di ciò che è irrimediabilmente
perduto, tanto una nostalgia “aperta”, che fa dell’elaborazione del lutto un seme su
cui costruire un futuro nuovo. La nostalgia aperta non guarda al passato per
riproporlo nel presente, essa piuttosto lo considera come una fonte di valori e di
122
Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009
Pomian K., “Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi- Venezia XVI- XVII secolo”, Il Saggiatore,
Milano, 1997.
123
61
strumenti per agire nella contemporaneità124. A mio avviso, gli oggetti esposti nei
musei della valle rimandano a quest’ultimo tipo di nostalgia proposto da Bodei
perché si collocano all’interno di realtà dinamiche che realizzano progettualità
concrete per il territorio. I beni esposti veicolano una visione diversa del passato
grazie alla quale è possibile operare nel presente con modalità diverse. La
realizzazione di dvd, pubblicazioni, mostre, conferenze, incontri, se possono
apparire eventi quasi scontati in una grande metropoli non lo sono affatto in
piccole realtà spopolate e dal complicato tessuto economico. La rivalutazione del
passato, grazie all’esposizione degli oggetti che ne facevano parte, è l’assunto di
partenza per la realizzazione di pratiche che appaiono di grande dinamismo e che
animano il tessuto culturale locale. L’attenzione al presente è sentita anche dalle
mie persone risorsa. Molto chiara in tal senso è la riflessione di Ilaria Peyracchia la
quale sostiene che la missione dei musei contemporanei non deve essere quella
di rimpiangere il passato, ma di rendersi protagonisti della realtà valligiana
attuale125. Anche Dino Murazzano ha espresso una considerazione analoga: «I
musei etnografici… indietro di trent’anni non ce n’erano perché i musei erano la
gente che viveva il territorio. Adesso son venuti per ricordarti cosa faceva quella
gente lì, ma per ricordare cosa? Un attrezzo che non lavora più? È brutto» 126.
Ricordare il passato non basta più, è necessario agire nella contemporaneità,
rivivere la montagna, anche attraverso lo sviluppo di progettualità all’interno delle
realtà etnografiche.
La grande fioritura di questo tipo di musei in val Varaita e la trasformazione dei
beni componenti le loro collezioni in simboli di un passato scelto, selezionato e
rivalutato mi fa pensare alle pratiche di patrimonializzazione e alle politiche della
memoria presenti in taluni Paesi decolonizzati. Alcuni di questi hanno fatto proprio,
plasmato ed adattato il concetto occidentale di patrimonio come forma di
legittimazione dello Stato-nazione. Non solo la maggior parte dei Paesi africani e
del Medio Oriente, ma anche alcuni gruppi minoritari europei e americani,
adottarono una politica culturale che valorizza e tutela i loro beni culturali.
L’importanza del patrimonio è tale perché contribuisce a definire la nazione
124
Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009.
Riflessione tratta da un’intervista da me condotta ad Ilaria Peyracchia in data 19/02/2011.
126
Tratto da un’intervista a Dino Murazzano svolta in data 14/12/2010.
125
62
stessa, il contenuto culturale diventa l’essenza dello Stato 127. La relazione tra beni,
cultura e società può essere definita dall’individualismo possessivo teorizzato da
Macpherson tale per cui esiste un legame tra l’agente e le cose su cui agisce
perché se da un lato queste diventano di sua proprietà, dall’altro l’individuo viene
ad essere definito dalle cose oggetto della propria azione 128. Come sostiene Irene
Maffi, il patrimonio, “selezionato, valorizzato e rivendicato”, è considerato come la
reificazione della storia e dell’identità di un gruppo ed “è diventato la posta in gioco
di relazioni politiche più o meno asimmetriche”. Si tratta di una serie di
considerazioni che possono essere estese anche alla pratica museologica. Nel
periodo post coloniale popoli, gruppi di persone, minoranze etniche ma anche
nazioni e città hanno fatto propria la concezione occidentale tale per cui essere
rappresentati in un museo significa essere riconosciuti come presenza culturale 129.
Queste realtà diventano quindi luoghi di negoziazione politica tra gli attori implicati.
Forse l’attenzione rivolta alle collezioni museali in val Varaita può essere pensata
come il tentativo di delineare una serie di beni culturali che, come Macpherson ha
teorizzato, contribuiscano a definire l’essere “montanaro” nella contemporaneità.
Gli oggetti esposti sono quindi dei semiofori perché raccontano storie e risvegliano
memorie che danno corpo ai gruppi sociali di valle. Forse il proliferare di musei
etnografici può essere interpretato come un tentativo di reazione alla marginalità
non solo economica, ma anche culturale che caratterizza questa parte di Alpi
piemontesi. Così delineato il museo si caratterizza per essere una componente
importante nella battaglia contro “la crisi della presenza” 130 riscontrabile in
contesto vallivo.
127
Maffi I. (a cura di), “Introduzione”, in Antropologia anno 6 n.7, Meltemi, Roma, 2006.
Handler R., “Avere una cultura. Nazionalismo e preservazione del patrimoine del Quebec”, in
Stocking jr. G. W. Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Ei Editore, Roma,
2000.
129
Alpers S., “Il museo come modo di vedere”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in
mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995.
130
De Martino E., “La fine del Mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi,
Torino, 1977.
128
63
CAPITOLO 3
RIFLESSIONI SUL PUBBLICO DEI MUSEI A
BELLINO
3.1 BLINS
Si accede al comune di Bellino percorrendo la strada che si snoda a l’ubac di
Casteldelfino. Questa costeggia il ripido versante della montagna, stretta nella
gola orientata Est-Ovest che da quota 1370 metri ospita il paese. Per la precisione
“i limiti altimetrici del territorio comunale vanno dai 3340 m del Mongioia ai 1370 m
tra Varaita e lou Coumbàl la Coumbo, al confine con Casteldelfino; mentre gli
insediamenti permanenti attuali (les ruà) sono compresi nella fascia tra i 1390 m
della Rubieréto ed i 1710 m de lou Ciazàl”131.
Il toponimo Bellino ha origini incerte ed è a tutt’oggi di difficile spiegazione.
Secondo Giovanni Bernard tre
sono
le
possibili
interpretazioni
di
questo
nome: potrebbe derivare da
un cognome ancora diffuso
nella
Provincia
oppure
potrebbe
di
Cuneo,
ricordare
Belenus, la divinità celtica del
sole paragonabile all’Apollo
dei
Romani132.
spiegazione,
La
invece,
terza
si rifà
Bellino di Marco Bailone. Opera concessa gentilmente
dall’autore.
all’antico francese “belins” che significa “pecore”, in questo caso il nome del paese
sarebbe stato influenzato dall’economia locale nella quale l’allevamento ovino
131
Dematteis L., “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”, Priuli & Verlucca, Torino,
1993, pp. 8.
132
Maggiori informazioni sulla figura di Belenus si possono trovare in D’Amico R., “L’anima segreta
della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti archeologici, simboli, miti e
leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000 e in Jorio P., “Il magico, il divino, il favoloso nella
religiosità alpina”, Priuli e Verlucca, Torino, 2006.
64
giocava
un
ruolo
importante133.
Roberto
D’Amico,
invece,
fornisce
un’interpretazione diversa del toponimo, che in parte unisce e mescola le
precedenti. Secondo l’autore l’origine del nome Bellino non si deve solo ai Celti e
al loro culto del sole ma, più nello specifico, all’osservazione che essi facevano di
questa stella. L’equinozio di primavera, infatti, cadeva in un periodo in cui di notte
era possibile osservare la costellazione dell’ariete che in gallico si dice appunto
Belin134.
La gola nella quale si trova il paese è dominata dalla strana Rocca Senghi, una
roccia che la tradizione vuole protagonista di una leggenda. Il luogo dove sorge
questo macigno, infatti, sarebbe stato teatro di uno scontro avvenuto tra Dio e il
diavolo. Quest’ultimo avrebbe sfidato il Signore a staccare un masso dal Pelvo
della Chiabrera che, con i suoi 3.152 metri, è una delle vette più alte della valle, e
a posarlo nel luogo della sfida. Il risultato della provocazione è stato Rocca Senghi
che, tra l’altro, è composta dallo stesso materiale litico del Pelvo. Si narra che il
diavolo, colpito dall’esito dell’impresa di Dio, avesse tentato di emularlo senza
avere altrettanta fortuna: il masso da lui staccato si frantumò nei mille pezzi che
compongono la pietraia del Prefiol. Si tratta di un curioso agglomerato di rocce di
notevoli dimensioni e con forme squadrate che si trova poco oltre
borgata
Chiazale, verso l’altopiano di Sant’Anna135. Il Delfino di Vienna (l’odierna Vienne
sul Rodano) nel 1228 pose mano alla costruzione o al rafforzamento di un’opera
difensiva, nota come Castrum Dalphinale Pontis Bellini, che si trovava proprio in
cima a Rocca Senghi. La fortezza, di cui nulla è rimasto, doveva controllare una
postazione di guardia situata nei pressi di frazione Ribiera che, all’epoca
dell’edificazione del maniero, segnava la frontiera tra i possedimenti del Delfino e
quelli del Marchesato di Saluzzo136.
Chiazale, Celle e Prafauchier sono le tre borgate che compongono il “quartiere
alto” di Bellino. Tradizionalmente, infatti, si ritiene che il paese sia composto da
due zone, una partizione che affonda le sue radici nel tempo e non è legata solo
alla presenza di due parrocchiali o alla vicinanza più o meno marcata delle
frazioni. Tra i due quartieri di Bellino, infatti, esisteva una vera e propria rivalità che
133
Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i
paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009.
134
D’Amico R., “L’anima segreta della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti
archeologici, simboli, miti e leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000.
135
Rossi D., (op. cit.).
136
Dematteis L., (op. cit.).
65
sfociava talvolta anche in liti o in risse. Il conflitto era particolarmente evidente in
occasione dei matrimoni, per consuetudine celebrati tra appartenenti alla stessa
area. Nei casi in cui la ragazza provenisse dal quartiere “rivale”, invece, il futuro
marito doveva pagare i giovani del rione della moglie, quasi una sorta di
“risarcimento” per aver limitato le loro possibilità matrimoniali. Al fine di sancire
definitivamente l’unione, gli sposi camminavano sotto un arco fiorito situato in
prossimità di entrambi i quartieri137.
Queste usanze relative al matrimonio si sono mantenute fino agli anni Settanta del
Novecento, ma altre tracce della rivalità tra le due aree sono ancora presenti.
Parlando con Giovanni Bernard in relazione alla rassegna “travai e üzonses d’en
bot” è emerso come, in quell’occasione, avessero partecipato gli abitanti di
entrambe le aree di Bellino perché un quartiere non era più in grado di animare da
solo la manifestazione: «la prima volta che lo abbiamo fatto quelli di su non
venivano, per carità. […] Nel 2000 han cominciato a venir giù quelli di Celle perché
non bastava più la gente»138. Anche Bellino, infatti, non si è sottratto al marcato
spopolamento che ha caratterizzato la valle dal secondo dopoguerra ad oggi. Dal
1951 al 2009 il paese, che attualmente conta 144 residenti, ha perso il 76% della
popolazione139.
Come sostiene Giacomo Marc, assessore alla cultura ed ex sindaco di Bellino:
«Le feste sono appannaggio dei comitati locali. Il Comune interviene dando un
contributo ma l’organizzazione, il coinvolgimento, la regia sono dei due comitati».
Questi ultimi sono: il Comitato di San Jacou, un gruppo di ragazzi molto giovani
che animano sia la festa patronale del “quartiere basso”, sia la rassegna dei
mestieri di un tempo, e il Comitato di Santo Spirito, che gestisce la festa patronale
dell’altro rione e la Beò. Ai due Comitati si aggiunge l’associazione “Pasteur de
Blins” che organizza la Fiera del 10 ottobre, una mostra-mercato del bestiame e
del formaggio locale140.
La manifestazione “travai e üzonses d’en bot” è una rievocazione dei mestieri
presenti in passato sul territorio. La rassegna si svolge a borgata Chiesa che per
l’occasione si anima di pastori, contadini, falegnami, mentre passeggiando tra le
suggestive stradine una visita guidata gratuita illustra le metodologie utilizzate per
137
Rossi D., (op. cit.).
Tratto da un’intervista da me condotta a Giovanni Bernard in data 02/05/2011.
139
www.istat.it
140
Tratto da un’intervista condotta a Giacomo Marc in data 02/05/2011.
138
66
fare il fieno, il pane, il formaggio, per filare e per tagliare la legna da costruzione.
“Travai e üzonses d’en bot” è una manifestazione che si svolge ogni tre anni e che
coinvolge unicamente gli abitanti di Bellino. Nel 2010 l’evento è durato tre giorni,
ognuno dei quali era animato da un’attività diversa: la prima sera sono stati
proiettati dei filmati con le edizioni precedenti della rassegna, il pomeriggio
successivo invece i curatori di alcuni musei varaitini, della vicina val Maira e del
Queyras sono intervenuti a un convegno sul lavoro alpino tradizionale. La piccola
conferenza, in realtà, è stata un’interessante occasione di confronto sulle
metodologie e sulle problematiche della museologia locale. La seconda giornata si
è conclusa con una cena a base di polenta e salsiccia e con una serata in musica.
La rassegna vera e propria ha avuto luogo l’ultimo giorno, concluso con la
degustazione del pane realizzato durante la manifestazione e con una serata di
balli occitani.
La Beò è “una specie di sfilata carnevalesca con regole convenzionali di antica
tradizione”141. Questa festa popolare si svolgeva ogni anno il martedì grasso a
conclusione del carnevale e ha avuto luogo fino al 1958, salvo un’interruzione di
cinque anni, dal 1940 al 1945, causata dalla guerra. Nel 2000 il Comitato di Santo
Spirito ha ricominciato ad organizzare la Beò, la quale però ha subito una serie di
modifiche rispetto alla manifestazione tradizionale. La festa contemporanea,
infatti, si svolge con cadenza triennale e a essa prendono parte anche le donne e
alcuni abitanti del “quartiere basso”, a causa del citato problema di perdita di
popolazione. È rimasto invariato lo svolgimento della Beò, che è sostanzialmente
una sfilata di persone che indossano un costume e che hanno un ruolo fisso. Lo
sviluppo della festa segue un rituale consacrato dalla tradizione anche se lascia
molto spazio all’estro sia del pubblico sia degli attori. Il gruppo, che poteva arrivare
anche a quaranta persone, ha sempre e solo sfilato nel territorio della parrocchia
di Santo Spirito: la manifestazione partiva da Celle, andava a Chiazale, ritornava a
Celle, si recava a Prafauchier per poi chiudere l’evento nuovamente a Celle 142.
Le numerose ipotesi fatte dagli studiosi non sono riuscite né a rintracciare
chiaramente le origini di questa festa, né a spiegarne in modo univoco le sue
caratteristiche. L’interpretazione locale è simile a quella proposta a Sampeyre,
dove si fanno risalire le origini della Baìo alla cacciata dei Saraceni dalla valle. È
141
142
Deferre M., “Il carnevale a Blins”, Nouvel Temp, n.7, maggio 1978, pp. 6.
Deferre M., (op. cit.).
67
probabile, tuttavia, che la festa sia nata in un periodo più antico e che sia
anch’essa collegata con le Abbadie degli Stolti, le Badie, gruppi di giovani che a
partire dal tardo medioevo organizzarono le feste della comunità 143. Jean-Luc
Bernard, invece, sostiene che ci sia un’affinità tra la Beò e i misteri medievali, i
quali ripetevano nel periodo precedente la quaresima la scena della fuga degli
Ebrei dall’Egitto. Secondo questa ipotesi la figura de Lou Viéi acquisterebbe un
significato particolare perché non farebbe più solo le veci del patriarca all’interno
della famiglia, ma ricorderebbe Mosè che guida il suo popolo nel deserto 144.
Ho trovato molto interessante l’ipotesi di Maria Deferre che tenta di spiegare la
mancata partecipazione del quartiere basso di Bellino alla Beò. Secondo la
studiosa, questa parte del paese sarebbe stata più ligia alla religione cattolica,
come si esplica dalla pratica, viva fino alla seconda guerra mondiale, di realizzare
la Crouzà, una specie di Passione della Settimana Santa. Il quartiere basso
avrebbe quindi “lasciato” all’altra parrocchia, più laica e spregiudicata, la tradizione
profana che era rappresentata dalla Beò per dedicarsi a una manifestazione
squisitamente religiosa. La Deferre nota, infine, che questa parte di Bellino adesso
è sede del Municipio, come se l’amministrazione centrale si sentisse
maggiormente autorizzata a esercitare il suo potere nel quartiere più tranquillo e
pio del paese145.
Le borgate bellinesi, nonostante siano divise in “quartieri”, hanno un assetto
territoriale ed un carattere aggregativo comune. Ogni frazione di Bellino è
circondata da terreni coltivabili proporzionati alla sua grandezza che, in passato,
erano in grado di assicurare il fabbisogno cerealicolo dell’insediamento. Un altro
principio importante e ovunque rispettato, era di costruire non solo al riparo da
alluvioni, frane e valanghe, ma anche in modo tale da non sottrarre terreno fertile
alle colture. Le case presentano il frontespizio orientato in direzione del massimo
soleggiamento che, come riporta Luigi Dematteis, molto spesso non corrisponde
al mezzogiorno ma all’orientamento a Sud-Est che permette di ricevere meglio i
raggi che attraversano la valle146.
143
Ibidem.
Bernard J.L., “Nosto modo. Testimonianza di civiltà provenzale alpina a Blins”, Coumboscuro
centre prouvençal, Busca, 1992.
145
Deferre M., (op. cit.).
146
Dematteis L., (op. cit.).
144
68
Borgata Celle, nel “quartiere alto” di Bellino, ospita la parrocchiale settecentesca
dedicata a S. Spirito. La chiesa venne costruita per evitare che gli abitanti delle tre
borgate in quota dovessero percorrere diversi chilometri per partecipare alle
funzioni religiose che si svolgevano nella zona del paese situata più a valle. Tale
percorso era particolarmente difficoltoso soprattutto nei mesi freddi quando una
spessa coltre di neve ricopre l’intero territorio. Nel 1777 il vescovo di Torino venne
personalmente in visita a Bellino per rendersi conto del disagio che vivevano i
fedeli del “quartiere alto” e diede così il benestare per la costruzione del nuovo
luogo di culto. La chiesa di Santo Spirito è orientata verso sud e, secondo una
leggenda, furono le donne le maggiori promotrici dei lavori. Queste trasportarono
instancabilmente nei loro grembiuli la sabbia necessaria alla costruzione. L’altare
barocco, dorato e ornato da una corona retta da due angeli, è stato realizzato da
Jean Baptiste Allais di Bertines147 che Sergio Ottonelli definisce “uno dei più validi
artigiani del legno che la valle abbia mai avuto” 148. La cupola sovrastante il coro è
decorata con un ciclo di affreschi che rappresentano i quattro evangelisti 149.
Sui muri di una casa privata di Chiazale, un’altra delle frazioni che compongono il
“quartiere alto” di Bellino, si legge ancora la scritta “Guardie doganali”. La
costruzione ospitava l’antico corpo militare istituito perché sorvegliasse sul
pagamento dei dazi previsti nel commercio di alcuni beni, come ad esempio il
sale. La vigilanza delle autorità sabaude sui valichi di confine e le facilitazioni di
accesso ai mercati della bassa valle causarono una contrazione negli scambi con
la Francia. I commerci con l’altro versante della montagna, invece, erano molto
attivi quando la Castellata faceva parte degli Escartons, la citata confederazione
autonoma che univa territori adesso francesi e italiani. Il 1713 pose fine a questa
entità politica particolare e decretò la nascita del contrabbando. Il rifornimento di
sale, cioccolato, zucchero e tabacco sui mercati dell’Ubaye e del Queyras, infatti,
è stato consueto fino alla seconda guerra mondiale. Il baratto era la forma più
praticata di acquisizione di questi beni che venivano scambiati soprattutto con il
riso. Il contrabbando era molto frequente soprattutto d’estate, quando le famiglie
salivano alle grange, e si intensificò dopo lo sbarco degli Alleati nell’Italia
meridionale a causa della quasi totale assenza di sale dal territorio. Come
147
Bertines è una borgata di Casteldelfino.
Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados
Usitanos, Bra, 1979, pp. 129.
149
Ibidem.
148
69
testimonia la presenza di un corpo di guardie doganali, questa forma di commercio
era piuttosto praticata a Bellino, che dista dal confine solo due chilometri e che è
ben collegato alla Francia tramite una serie di sentieri. È facile immaginare che il
contrabbando non fosse realizzato con l’intenzione di delinquere o con la volontà
di arricchirsi, quanto piuttosto per sopravvivere in un momento storico difficile e in
un territorio nel quale la percezione della frontiera doveva essere ancora piuttosto
labile150.
La parrocchiale di S. Giacomo riunisce le borgate di Balz, Chiesa, Fontanile,
Masdelbernard, Pleyne e Ribiera, le frazioni che compongono il “quartiere basso”
di Bellino. La chiesa sorge probabilmente sulle rovine di un antico edificio di culto
ed è il risultato di successive ristrutturazioni. Dell’antica struttura medievale è
ancora possibile osservare solo il campanile a due piani con bifore e un’alta
cuspide monolitica, un elemento della costruzione che Ottonelli definisce “forse il
più antico monumento romanico-lombardo della valle”151. La chiesa è stata
trasformata in tempio riformato nel 1578 per essere riconsacrata nel 1603, periodo
in cui ne venne modificato anche l’orientamento tramite l’apertura dell’attuale
ingresso a Ovest e la costruzione dell’abside a Est. Osservando i muri esterni
della parrocchiale è possibile notare alcune tracce delle ristrutturazioni di cui è
stata oggetto. Per costruire le pareti, infatti, sono stati impiegati alcune pietre
scolpite che probabilmente facevano parte di un altro edificio. Di questi frammenti
murati all’esterno fanno parte un animale che potrebbe essere un bue, un volto
barbuto, un busto decorato con bottoni, e una testa con i capelli disposti a
raggiera. Questa particolare capigliatura reca tracce di pittura rossa e ha portato
ad interpretare il rilievo come un’iconografia di Belenus. L’interno della chiesa di S.
Giacomo ha una sola navata in stile barocco sormontata da una volta a botte. Sul
lato destro, ovvero nella parte rivolta a sud della parrocchiale, si trova una
cappella dedicata a S. Antonio che conserva un fonte battesimale in stile gotico
risalente al Quattrocento. Di fianco al portone d’ingresso è murata acquasantiera
che rappresenta un leone coronato di spine152. Secondo Luigi Dematteis, la dedica
a San Giacomo di questa chiesa confermerebbe l’ipotesi che vuole Bellino uno dei
punti di sosta nel pellegrinaggio verso Santiago di Compostela. “Analoga
150
Bernard G., “Lou saber. Dizionario enciclopedico dell’occitano di Blins”, Ousitanio Vivo,
Venasca, 1996.
151
Ibidem, pp. 123.
152
Rossi D., (op. cit.).
70
conferma può venire da un capitello del primitivo edificio romanico, oggi utilizzato
quale basamento della croce cimiteriale, con figurazioni molto simili alle famose
«Vergini Nere» che si ritrovano sul «Camino» per Santiago”153.
Passeggiando per le vie delle borgate che compongono il comune di Bellino, si
possono notare numerosi esempi delle modalità costruttive tradizionali. Come
sostiene Sergio Ottonelli “In nessun altro posto della valle l’architettura rustica ha
raggiunto una così alta perfezione e complessità di forme. […] Con gli spioventi
dei tetti ampi e dispiegati come ali, così che di lontano certe case isolate danno
l’idea di uccelli in atto di spiccare il volo, ornate di colonne, di fregi, di affreschi a
soggetto sacro o profano e di meridiane, le case di Blins sono veri tesori d’arte” 154.
Il pregio del paese è anche quello di essere stato risparmiato dalla speculazione
edilizia che in valle Varaita ha rovinato il volto di altri Comuni.
Le abitazioni di Bellino sono di tipo multifunzionale, ovvero sono state concepite
per ospitare sia la famiglia, sia i locali destinati agli animali e ai prodotti della terra.
Un altro criterio di uniformità consiste nelle modalità di costruzione, anch’esse
piuttosto simili su tutto il territorio comunale. Il tetto a due falde è dotato di grandi
sporti frontali e laterali, mentre come manto di copertura sono utilizzate le lose. I
muri non sono realizzati “a secco” ma dotati di pietre passanti di legatura e di un
sigillante che negli edifici più antichi era un impasto di argilla, mentre in quelli più
moderni è stata utilizzata la malta di calce155. Le case bellinesi tradizionali hanno
tre piani: il primo era occupato dalla stalla alla quale sovente si affiancavano altri
due locali, uno per le pecore e l’altro per la cantina. D’inverno la stalla ospitava
anche la famiglia, una strategia fondamentale per difendersi dal freddo. Il primo
piano, invece, era destinato all’abitazione umana e vi si trovavano la cucina e le
stanze da letto. L’ultimo locale della casa era il fienile, situato sotto il tetto perché
serviva ad isolare contro il freddo. Le componenti funzionali della casa bellinese si
accompagnano a elementi decorativi di pregio. Ad esempio le porte, realizzate in
modo da essere estremamente solide e resistenti, si ornano a fine Ottocento di
decorazioni geometriche e floreali. I balconi erano costruiti per rispondere alle
esigenze della vita contadina e non a scopo civile, tuttavia molti di essi vantano
delle belle balaustre tornite. Come nota Ottonelli, anche l’impiego stesso dell’arco
153
Dematteis L., (op. cit.).
Ottonelli S., (op. cit.), pp. 121.
155
Dematteis L., (op. cit.).
154
71
manifesta una cura che va oltre la sua funzione portante. Un elemento molto
ricorrente a Bellino sono i portali megalitici realizzati con le pietre provenienti dal
Prefiol. Espressione di solidità formale, questi monoblocchi litici sono così
frequenti nelle borgate da diventare quasi un tratto caratteristico 156.
L’intento decorativo unito a quello strettamente funzionale ricorre anche nel caso
delle fontane. Risalenti quasi tutte al XIX secolo, esse sono composte da due
grossi blocchi di pietra: uno verticale ornato con la testa di un leone da cui
fuoriesce l’acqua, l’altro orizzontale e scavato in modo tale da formare la vasca157.
Le fontane, realizzate con il materiale estratto dalla pietraia del Prefiol, sono un
elemento interessante e molto diffuso a Bellino tanto che il Comune ha deciso di
istituire intorno ad esse un progetto di recupero e valorizzazione. Come sosteneva
Giacomo Marc, il restauro di dieci delle diciannove fontane presenti a Bellino è
stato il primo passo nell’istituzione di un “percorso dell’acqua” che tocchi tutte le
borgate. Il turista sarebbe così invogliato a visitare le frazioni per osservare le
fontane, il lavatoio comunale, un antico sistema di irrigazione e due moderne
centraline per la produzione di energia idroelettrica. Queste sono state costruite a
ridosso del Varaita ma mantengono le tipologie architettoniche tradizionali in modo
da apparire simili alle altre case. Il canale di irrigazione, attivo fino al Settecento,
portava l’acqua dalla parte alta, ovvero da Celle e Chiazale, fino alla parte bassa,
a Fontanile e a Chiesa. Questo correva sulla destra orografica ed era interrato, nei
punti dove attraversava le pietraie, invece, una serie di tronchi scavati facevano da
canaline. Il “percorso dell’acqua” è un progetto in fase di realizzazione per il quale
è ancora necessario restaurare tanto l’antico lavatoio, quanto il suddetto canale di
irrigazione158.
Le mura delle abitazioni di Bellino sono ornate anche da numerosi affreschi a
carattere profano o sacro. Tra questi ultimi, in particolare, sono presenti dei
soggetti che si discostano dalla ortodossia cattolica. È il caso, ad esempio, della
crocifissione dipinta in borgata Celle nei pressi della parrocchiale. Nell’opera le tre
Marie sono viste frontalmente mentre il Cristo è rappresentato di spalle, coperto
dalla croce. L’affresco è molto particolare perché sembra quasi che il tema
centrale dell’opera non sia la Crocifissione, della quale si vede ben poco, ma le tre
156
Ibidem.
Rossi D., (op. cit.).
158
Tratto da un’intervista a Giacomo Marc condotta in data 02/05/2011.
157
72
fedeli. La spiegazione ufficiale di questa particolare scelta pittorica chiamerebbe in
causa una questione di orientamento: dipinto in questo modo il Cristo guarderebbe
a Gerusalemme159. Esiste però un’altra possibile interpretazione che attribuisce la
paternità dell’opera ai catari rifugiatesi nelle valli alpine per scappare alle
persecuzioni indette contro di loro. Nel credo cataro, infatti, non vengono
riconosciute la simbologia del Cristo in croce, il commercio delle reliquie e
l’autorità del Pontefice. Questa serie di elementi furono sufficienti a inimicarsi
Papa Innocenzo III che dichiarò la sua crociata contro i catari il 24 giugno 1209. Le
persecuzioni durarono 35 anni e furono perpetrate soprattutto dalle truppe
comandate da Simone de Monfort. È stato accertato che a seguito della
repressione quattromila fedeli si sparsero per l’Europa e soprattutto nell’Italia
settentrionale, presentandosi come mercanti, viaggiatori, trovatori e fabbricatori di
carta. Roberto D’Amico sottolinea che anche per ragioni politiche la quasi totalità
della nobiltà occitana appoggiò e protesse i catari 160.
Tra gli affreschi a carattere profano non si possono non citare le numerose
meridiane che abbelliscono i muri delle case di Bellino. Il paese è un caso raro ed
interessante perché su un territorio così piccolo si contano ben 35 quadranti solari
e alcune abitazioni ne possiedono più d’uno. Si tratta di cifre piuttosto elevate se si
considera che in tutta Italia ci sono circa 15.000 meridiane, 5.000 di queste sono
in Piemonte e 2.000 in Provincia di Cuneo161. Secondo la trattazione di Ivanna
Casasola, gli orologi solari bellinesi sono stati realizzati tra la fine dell’Ottocento e
la prima metà del Novecento da gente del luogo. Questi “montanari sapienti”
probabilmente avevano avuto a loro disposizione dei trattati che spiegavano come
realizzare una meridiana, secondo una “tradizione” di consultazione di testi che
pare non essere estranea alla Bellino ottocentesca. L’arte gnomonica però
metteva a frutto anche la capacità di questi artigiani di valutare il passare del
tempo guardando la posizione del sole o delle stelle, un’attitudine molto diffusa in
passato. Le meridiane bellinesi, che sono quasi tutte collocate nel “quartiere alto”
del paese, sono state realizzate con il sistema ad ore francesi, segno del legame
ancora presente tra territori che un tempo facevano parte degli Escartons e che
invece all’epoca erano già divisi da un confine di Stato. Questo sistema di
159
Rossi D., (op. cit.).
D’Amico R., (op. cit.).
161
Rossi D., (op. cit.).
160
73
realizzazione di un orologio solare fraziona la giornata in ventiquattro ore e separa
quelle mattutine da quelle pomeridiane attraverso una linea verticale che indica il
mezzogiorno vero locale. Ivanna Casasola propone un’interpretazione della nutrita
presenza di meridiane a Bellino: secondo la giovane studiosa i quadranti solari
rappresentano un tentativo di “riappacificazione” con l’inesorabile avvicinarsi della
morte. Ciò che induce la Casasola a considerarli in questo modo è, in primo luogo,
la presenza di frasi, di motti, che ornano le meridiane e che fanno riferimento
quasi sempre ai temi della caducità e della fine. Se gli orologi solari sono “portatori
di significato” è anche a causa delle forti connotazioni simboliche intrinsecamente
legate alla loro natura. Tra questi elementi, che, a mio modo di vedere, sono stati
legati a interpretazioni dal gusto eccessivamente “esotico”, primeggia l’utilizzo
dell’ombra che da sempre, nei miti e nelle leggende, è stata associata al mondo
degli spiriti e dell’aldilà. Secondo Ivanna Casasola non è un particolare irrilevante
anche la presenza di decorazioni pittoriche che raffigurano galli o altri uccelli. “Tale
soluzione stilistica può essere vista in stretta connessione con l’alone di animismo
che circonda l’ombra e che ritroviamo nelle trasposizioni allegoriche dello spirito
sotto forma di animale”162. Le meridiane possiedono un’altra caratteristica
rilevante: esse contengono al loro interno un paradosso. Nei quadranti solari,
infatti, l’area del cielo è in basso e quella della terra in alto; le ora mattutine si
leggono guardano la porzione di orologio a destra, quella cioè orientata verso
ovest, dove il sole tramonta; l’esatto opposto avviene in relazione alle ore
pomeridiane. Secondo la Casasola l’inserimento del paradosso rimanda a una
realtà asimmetrica e indivisibile che trascende in questo modo il concetto stesso di
tempo, il quale, per sua natura, divide ed è strutturato in parti. Ciò che non è
divisibile e non è soggetto allo scorrere del tempo non può morire, in questo modo
le meridiane superano la nozione di morte e propongono una riappacificazione
con essa. Questa interpretazione è possibile facendo riferimento ad un contesto,
com’era quello bellinese a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel quale il bisogno
di domesticare la morte era molto più sentito di quanto non lo sia nella
contemporaneità. Le ritualità funebri, progressivamente abbandonate a partire dal
1930, riflettevano la pregnanza anche collettiva dell’evento. Queste avevano come
fine la regolamentazione del comportamento dei vivi, un atto che può essere
162
Casasola I., “Ombra fugace. L’esperienza del tempo sui muri della comunità alpina di Bellino”,
Alzani, Pinerolo, 2007, pp. 236.
74
pensato come una sorta di controllo esercitato su un evento estraneo e misterioso.
La fine delle ritualità funebri è strettamente collegata alla modifica dell’idea stessa
di morte, la quale ha perso il suo alone di sacralità per essere negata e al
contempo allontanata dal contesto sociale 163.
Il Comune ha istituito un programma di recupero e valorizzazione del patrimonio
gnomonico di Bellino164. Dal 1999 al 2002 sono state restaurate tutte le meridiane
del territorio grazie alla collaborazione di Solaria Opere, una ditta di Saluzzo. Il
progetto di recupero dei quadranti solari è stato realizzato grazie a un
finanziamento di novanta milioni di Lire erogato dal GAL “Valli di Viso” 165 che
gestiva i fondi previsti nel programma Leader II dell’Unione Europea 166.
Per valorizzare le meridiane sono stati creati dei segnavia dislocati in tutte le
borgate e un piccolo depliant volto a presentare il patrimonio gnomonico bellinese
nella sua totalità. I pannelli situati nelle frazioni compongono un percorso che,
come mi ha detto Giacomo Marc: «è composto da tre livelli e quattro aree. I tre
livelli sono: il livello quello della persona che con la macchina scende e guarda la
meridiana che ha a pochi metri dalla macchina; il secondo livello è già un po’ più
lungo e un po’ più complesso ed è quello che prevede di entrare all’interno delle
borgate; il terzo livello, invece, è quello fuori dalle borgate, ci sono 6 quadranti che
sono sugli alpeggi. Quindi abbiamo fatto i tre livelli e poi diviso in quattro zone: la
zona di Chiesa e Rivera dove ci sono una parte di quadranti, la zona di Celle, la
zona di Chiazale e la zona degli alpeggi». I pannelli presenti lungo il percorso dei
quadranti solari sono stati illustrati con dei disegni ripresi da quelli realizzati da
Luigi Dematteis nel suo libro “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”.
Questi segnavia riproducono le borgate e segnalano le case decorate con i
quadranti solari.
163
Ibidem.
Le informazioni contenute in quest’ultima parte del paragrafo sono state dedotte da un’intervista
condotta a Giacomo Marc in data 02/05/2011.
165
I Gruppi di Azione Locale (GAL), sono dei partenariati locali, regolarmente costituiti, che
possono essere composti da strutture pubbliche, agenzie semi-pubbliche e privati. Nella
composizione della partnership locale, a livello decisionale, gli enti pubblici non possono superare il
50% del partenariato locale. I GAL hanno il compito di elaborare la strategia di sviluppo del
territorio in cui operano e a tal fine gestiscono i fondi che derivano dai programmi comunitari
Leader.
166
Il programma di iniziativa comunitaria LEADER, acronimo dal francese “Liaison entre actions de
développement de l'économie rurale” sostiene progetti di sviluppo rurale ideati a livello locale al
fine di rivitalizzare il territorio e di creare occupazione.
164
75
Oltre al depliant, il Comune ha realizzato una guida di questo percorso dove:
«sono state inserite le immagini fotografiche delle meridiane ante e post
ristrutturazione e dove sono state indicate le caratteristiche tecniche della
meridiana». La ditta Solaria, invece, ha curato l’edizione del volume “Le ore
serene di Bellino”, una piccola guida fotografica alle bellezze naturali e
architettoniche del paese con particolare riferimento ai quadranti solari. Il Comune
ha supportato l’iniziativa acquistando una serie di copie e finanziando in questo
modo la pubblicazione del libro. La Municipalità è stata maggiormente propositiva
in relazione al testo della Casasola, edito grazie all’interessamento e al contributo
economico del Comune stesso.
Di provenienza regionale, invece, erano i fondi utilizzati nella realizzazione
dell’osservatorio astronomico. Si tratta di una piccola casetta in pietra costruita
con il materiale proveniente dal crollo di un forno settecentesco. La struttura ha un
tetto in finte lose che, grazie ad un sistema motorizzato, si apre a metà scorrendo
su delle guide. Per il manto di copertura non è stato possibile utilizzare delle pietre
vere perché il loro peso avrebbe reso impossibile il movimento. Il tetto, inoltre, è
dotato di un sistema di serpentine che si riscaldano per sciogliere la neve e il
ghiaccio invernali, permettendo così l’utilizzo della struttura anche durante la
stagione fredda. Il Comune, inoltre, ha intenzione di dotare il telescopio di una
telecamera e di collegarlo al Museo del Tempo, in modo da rendere possibile la
visione del cielo all’interno della realtà etnografica.
La costruzione dell’osservatorio astronomico ha lo scopo di incentivare i
villeggianti a pernottare sul territorio. Più in generale, lo sviluppo di progetti di
carattere culturale è volto a creare una forma di turismo lento e attento al territorio
che possa incrementare le risorse economiche dei bellinesi. Giacomo Marc
sostiene che: «noi abbiamo fatto una scelta, in qualche modo obbligata […]: la
valutazione era che il turismo di Bellino non può essere quello di Pontechianale
perché il turismo di Pontechianale è basato sul turismo invernale, sulle seconde
case, sugli impianti sciistici. A Bellino non ci sono queste cose, è impossibile
crearle perché ci vorrebbero dei fondi enormi e poi bisognerebbe stravolgere tutta
quella che è la parte naturale, paesaggistica del paese e quindi abbiamo deciso di
puntare su un altro tipo di turismo. L’altro tipo di turismo deve essere un turismo
non di massa, tranquillo, che viene, visita ecc…». A Bellino, lo sviluppo di
progettualità culturali ha coinvolto diversi studiosi che hanno collaborato al fine di
76
valorizzare le caratteristiche di ogni borgata. Alcune delle attività realizzate, come
il percorso dell’acqua e delle meridiane, denotano un interesse a tematiche di
carattere storico e antropologico che, a mio avviso, è una caratteristica importante.
La volontà di approfondire, valorizzare e tutelare elementi culturali che
caratterizzano il territorio non è un fenomeno così diffuso nelle altre
Amministrazioni comunali con le quali sono entrata in contatto. Se lo sfruttamento
della risorsa turistica conduce all’elaborazione di progettualità simili a quelle
realizzate a Bellino, a mio modo di vedere, può essere pensato come una
strategia economica da perseguire anche altrove.
3.2 IL MUSEO DEL TEMPO E DELLE MERIDIANE
La visita al Museo del tempo e delle meridiane di Bellino vuole essere la
conclusione ideale di una passeggiata tra le borgate del paese 167. A seguito del
restauro dei quadranti solari terminato nel 2002, l’Amministrazione comunale di
allora ha sentito la necessità di creare un luogo in cui approfondire la conoscenza
del patrimonio gnomonico locale. Il museo, infatti, offre nozioni in merito alla
costruzione di una meridiana, alla vita dello gnomonista e fornisce indicazioni
anche sulle tipicità di Bellino.
Nata nel 2005 per volontà del Comune, la piccola realtà etnografica è stata
realizzata grazie a un finanziamento europeo di centocinquantamila euro. I fondi
sono stati utilizzati per ristrutturare la struttura, allestire le sale, lastricare la
stradina che porta al museo, la quale si snoda all’interno di borgata Celle, e per
restaurare alcuni antichi affreschi che si trovano sia sull’edificio che ospita la sede
museale, sia su una casa adiacente.
In fase di progettazione e realizzazione, la realtà etnografica bellinese si è avvalsa
dell’appoggio di un comitato scientifico. Quest’ultimo era composto da alcuni
membri dell’Amministrazione, da Solaria Opere e da due architetti tra i quali
Roberta Allasia, già nota nelle valli per la sua collaborazione ad altri progetti di
167
Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state tratte da un’intervista a Giacomo Marc
del 02/05/2011, da tre interviste a Ilaria Peyracchia condotte in data 31/07/2010, 12/12/2010 e
19/02/2011, così come da http://www.comune.bellino.cn.it/archivio/pagine/Museo_del_Tempo.html
77
questo tipo168. Gli aspetti culturali soggiacenti la costruzione di una meridiana,
invece, sono stati curati dallo studioso locale Giovanni Bernard.
Il Museo del Tempo è situato nel cuore di borgata Celle, all’interno di un edificio
interessante dal punto di vista architettonico perché frutto delle tipologie edili
tradizionali. In passato la costruzione era stata la sede della scuola della borgata,
testimonianza di un periodo in cui i bambini erano ancora numerosi in paese. Nel
2010, infatti, i bellinesi di età inferiore ai 14 anni erano il 6,6% della popolazione,
per un totale di sole 10 persone169.
I locali dell’attuale museo hanno ospitato anche l’abitazione delle suore di Bellino.
Si tratta della Comunità delle Figlie del Cuore Immacolato di Maria creata nel 1945
da Don Ruffa, un prete che ancora oggi è considerato come una figura di grande
coraggio. Bartolomeo Ruffa nasce a Pontechianale nel 1913 da una famiglia
povera, il padre faceva l’arrotino ed è morto nella Prima Guerra Mondiale
lasciando i suoi cari nella miseria. Il giovane studia undici anni a Torino, nel 1936
viene ordinato sacerdote e nominato parroco di Bellino, un paese che lascerà per
ordini superiori solo nel 1972. Figura di grande carisma, il frate francescano ed
esorcista era molto amato dai bellinesi a causa del suo costante impegno al
servizio della comunità170. Giovanni Bernard racconta un episodio risalente alla
Seconda Guerra Mondiale nel quale Don Ruffa difese i suoi fedeli dai tedeschi e
riuscì ad evitare che venissero loro confiscate le mucche, scongiurando così che
si aggravassero le difficoltà già presenti. A conflitto finito, invece, il frate fu
condannato a tre mesi di reclusione per avere distribuito gratuitamente delle
medicine. Si tratta di due soli momenti della vita molto intensa di Don Ruffa,
rappresentativi però della dedizione dimostrata nei confronti di Bellino e della sua
gente171. La Comunità di religiose da lui istituita aveva salvato molte giovani dalla
miseria perché proponeva un destino diverso da quello matrimoniale, reso poco
probabile dagli anni di guerra. Le Figlie del Cuore Immacolato di Maria avevano
offerto un futuro a quelle ragazze che non trovavano da sposarsi perché troppi dei
loro coetanei erano morti sul campo di battaglia 172. Questa Comunità di suore è
168
L’architetto Roberta Allasia è il curatore scientifico del Museo Seles, il Museo dei mestieri
itineranti di Marmora.
169
www.istat.it
170
www.ghironda.com
171
“Coumboscuro. Periodico della minoranza provenzale in Italia”, novembre/ dicembre 1998.
172
Dematteis L., “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”, Priuli & Verlucca, Torino,
1993.
78
sopravvissuta fino ai giorni nostri, le ultime religiose sono attualmente in convento
a Piasco.
Il museo bellinese è composto da due sale: nella prima alcune teche espongono
antichi strumenti di misurazione del tempo, come le clessidre e le meridiane
trasportabili. Tra queste spicca per interesse la “meridiana del pastore” che
segnalava l’ora giornaliera se collocata in cima ad un bastone. La prima sala
ospita anche alcuni trattati scientifici settecenteschi che riguardano la misurazione
del tempo, così come due proiezioni, una delle quali verte sulla Béo di Bellino.
L’altro filmato che si può vedere all’interno del museo etnografico è stato
realizzato da Fredo Valla e ha come tema lo scorrere delle stagioni e delle ore
giornaliere. Nel video dodici persone del posto recitano altrettanti proverbi relativi
ai vari mesi dell’anno ed hanno sullo sfondo il bel paesaggio rappresentato dalla
gola di Bellino. I protagonisti hanno età diverse: lo scorrere del tempo è così
rappresentato anche dall’alternarsi di generazioni differenti, sempre più anziane. A
ogni mese dell’anno corrisponde un proverbio ma anche un paesaggio e un ora
del giorno particolari, elementi che si percepiscono grazie al variare dello sfondo. Il
filmato è quindi composto da diverse sezioni: si parte da gennaio, il crepuscolo,
rappresentato da un bambino, per terminare a dicembre, al tramonto, con una
persona anziana, passando per giugno, mezzogiorno, con il proverbio recitato da
un giovane di mezza età. La realizzazione del video di Fredo Valla è stata un
metodo efficace sia per sensibilizzare i bellinesi alla costruzione della realtà
etnografica, sia per renderli partecipi dei lavori. Come mi ha raccontato Ilaria
Peyracchia, che ha gestito il museo nel 2010, gli abitanti del paese hanno reagito
molto bene alla proposta del regista «tant’è che mia nonna era offesa perché non
l’avevano selezionata all’interno del filmato. Quello in qualche modo fa capire che
ci tenevano se no non avrebbero assolutamente partecipato».
L’interesse dei locali nei confronti del museo emerge anche dalle donazioni degli
oggetti esposti nella seconda sala. Questa è stata realizzata grazie al contributo
teorico di Ivanna Casasola, la cui pubblicazione sulle meridiane di Bellino è l’unica
che tratta l’argomento in modo specifico ed esaustivo. Nella seconda stanza del
museo vi sono alcune teche che contengono gli strumenti utilizzati dagli
gnomonisti, sormontate da pannelli che spiegano l’impiego di questi manufatti. La
Casasola, infatti, dimostra come gli artigiani bellinesi riuscissero a realizzare un
orologio solare con attrezzi molto semplici grazie all’osservazione del movimento
79
delle stelle. Come sostiene Ilaria «gli strumenti che ci sono sono stati concessi
dalle famiglie degli gnomonisti di Bellino e dintorni. Lì c’è stata la partecipazione
del territorio: erano propensi a far conoscere l’arte dei loro antenati e hanno
concesso molto favorevolmente i pezzi». Gli oggetti presenti nel museo, che sono
in buono stato di conservazione e che sono stati inventariati dal comitato
scientifico, non sono, se non in minima parte, di proprietà del Comune. La
maggioranza dei beni in vetrina, infatti, è in prestito temporaneo.
La parte centrale della seconda sala ospita una serie di pannelli che espongono la
documentazione relativa ai personaggi di Bellino che hanno costruito i quadranti
solari. Ivanna Casasola è riuscita a determinare l’identità di sei artigiani locali:
Luca Roux, nato nel 1885 a Celle e autore di tre quadranti; Bernard Richard, forse
il maestro di Roux, visto che era più anziano e anch’egli di Celle; Giovanni Levet,
attivo a Chiazale agli
inizi
del
Novecento;
infine Richard Matteo,
autore
di
meridiana.
una
I
sola
pannelli
raccontano quel poco
di biografia di questi
bellinesi
che
si
è
riuscita a rintracciare e
li mettono in relazione
con i quadranti solari
da loro realizzati.
L’allestimento
della
La seconda sala del Museo del Tempo e delle Meridiane. Foto
dell’autrice.
seconda sala del Museo del tempo descrive anche la vita che si svolge a Bellino, il
suo ambiente, la sua storia e le sue attività economiche. Trovo molto interessante
questa attenzione nei confronti del presente perché denota una sensibilità inedita,
assente nelle esposizioni degli altri musei etnografici di valle. A riguardo considero
significativo il pensiero di Ilaria: «secondo me la potenzialità dei musei oggi è
proprio quella: non soltanto un sospirare a quel tempo in cui tutto era bello e c’era
tanta gente, ma rendersi conto di come è attualmente e cercare di fare qualcosa
per lo stato attuale delle cose».
80
Il Museo del Tempo e delle Meridiane di Bellino è aperto i fine settimana di luglio,
le prime tre settimane e l’ultimo week-end di agosto nonché le domeniche di
settembre sempre in orario pomeridiano, dalle 15,30 alle 18,30. L’ingresso costa
tre euro, i gruppi oltre le dieci persone pagano due euro a testa, è gratuito, invece,
per i bambini sotto i sei anni. La visita normalmente è libera anche se il personale
all’interno è sempre disponibile per ulteriori chiarimenti. Come già detto, nel 2010
la gestione del museo era affidata alla Peyracchia: era lei che ne assicurava le
aperture, che gestiva le attività con le scuole e i gruppi, che curava le visite
guidate. In questo periodo all’interno della struttura era possibile reperire i depliant
realizzati dalla Comunità Montana inerenti le strutture ricettive e i musei di valle
«in modo tale che Bellino, attraverso il museo, avesse un pochettino il suo ufficio
turistico». Anche questa caratteristica non si riscontra nelle altre realtà
etnografiche varaitine ed è frutto della riflessione di Ilaria, la quale sostiene: «io
non sono propensa a proporti solo il mio museo, ti offro la possibilità, anzi punto
sul fatto che tu visiti anche gli altri, o che se hai bisogno di trovare un posto letto a
Sampeyre, io ho il depliant con l’elenco delle strutture ricettive. Secondo me
questo significa far conoscere la valle nel suo insieme, non solo le specificità di
Bellino. Io sono fermamente convinta che si debba proporre la valle, non una
specificità, non Bellino. Si deve lavorare insieme». Questa visione, questa volontà
di cooperare non solo nella valorizzazione del patrimonio locale, ma anche per
incrementare la risorsa turistica, mi sembra piuttosto inedita in contesto vallivo,
caratterizzato da un dilagante campanilismo per stessa ammissione di alcune mie
persone risorsa173.
L’anno precedente all’incarico di Ilaria Peyracchia il museo etnografico è stato
gestito dalla Liberlab di Savigliano la quale curava anche tutte le attività culturali
estive del Comune di Bellino. Tra queste emerge “Les Montagnart”, un programma
di manifestazioni legate al territorio che si distingue per le tematiche trattate e per
le collaborazioni instaurate. Tra le attività proposte nell’ambito del progetto vi
erano incontri, conferenze, laboratori per i bambini, un concorso fotografico, delle
mostre e delle proiezioni cinematografiche. La manifestazione trattava ogni anno
un tema diverso che verteva però sulle tipicità del territorio, sugli elementi
economici, sociali e culturali che caratterizzano questa parte di arco alpino. Hanno
173
Tratto dalle interviste a Giacomo Marc del 02/05/2011, a Dino Murazzano del 27/04/2011 e a
Silvana Ottonelli del 19/04/2011.
81
collaborato con “Les Montagnart” alcune personalità importanti tra cui Ugo Giletta,
Giampiero Boschero, Sandro Gastinelli, Bruno Sabbatini e Fredo Valla. Tutte e tre
le edizioni del programma sono state realizzate grazie ad alcuni finanziamenti
regionali, il Comune, invece, ha contribuito attraverso la proposta dei temi da
affrontare. Giacomo Marc mi ha anticipato che “Les Montagnart” non verrà
realizzato nell’estate del 2011: «perché ogni tanto bisogna cambiare e poi perché
[la manifestazione] non è stata tanto sentita dai bellinesi: era vista come una cosa
calata dall’alto».
Dal 2005, anno della sua inaugurazione, al 2008, il Museo del Tempo e delle
Meridiane era gestito dal gruppo di guide turistiche “La Grisaille”, prima come
società, poi solo nella persona di Tiziana Gallian che attualmente lavora in
Comunità Montana.
La piccola realtà etnografica bellinese è visitata, in media, da 300 persone ogni
anno, una stima confermata anche da alcuni registri appositamente realizzati. Nel
corso del primo periodo di apertura questa cifra era più alta perché il museo ha
attratto i proprietari delle seconde case, numerose in paese. Secondo Ilaria queste
persone non ritornano molto sovente a visitare il museo perché la collezione è
fissa, non ci sono variazioni stagionali, quindi dopo una prima visita l’interesse si
attenua e non è rinnovato. Si tratta di una problematica che è stata rilevata anche
dall’Amministrazione comunale, la quale prevede di arginare il fenomeno con la
realizzazione di mostre temporanee. Queste dovrebbero essere allestite all’interno
di un laboratorio che la Municipalità ha intenzione di costruire grazie a dei fondi
provenienti dal Piano Integrato Transfrontaliero “Monviso”. I finanziamenti previsti
da questo progetto europeo servirebbero per restaurare l’antico fienile presente
nell’ultimo piano dell’edificio che ospita il museo. Lo spazio così ricavato sarebbe
utilizzato per creare un laboratorio destinato a mostre o a eventi di carattere
didattico. Giacomo Marc sosteneva che: «quello che verrà fatto sarà legato molto
alle scuole e ai gruppi di studio che vogliono venire a capire come funzionano le
meridiane in generale e come sono fatte quelle di Bellino in particolare».
La frase di Giacomo rivela l’interesse nutrito dal Museo del tempo nei confronti
della didattica, ambito nel quale è molto attivo. Ogni anno circa tre o quattro
scolaresche di tutte le età si recano in gita alla struttura, attratte dalle progettualità
mirate che vengono proposte. Per i bambini delle elementari, ad esempio, sono
state organizzate delle giornate che prevedevano una passeggiata per le vie delle
82
borgate ad osservare i quadranti solari, la visita del museo, il pranzo al rifugio
Melezé e nel pomeriggio un gioco riguardante le meridiane, per mettere a frutto
quanto appreso in mattinata. Grazie anche all’intervento del PIT Monviso, nella
primavera 2011 il museo ha in previsione due laboratori: uno con una scuola
elementare di Venasca, l’altro con un istituto superiore di Cuneo. Quest’ultimo
progetto è realizzato grazie alla collaborazione dell’“Associazione astrofili Bisalta”,
un gruppo di appassionati che spiegherà ai ragazzi come costruire una meridiana.
Rientra nelle attività previste dal PIT Monviso anche il contributo di uno
gnomonista francese il quale si recherà a Bellino nell’estate 2011 per spiegare le
tecniche d’oltralpe utilizzate nella costruzione di una meridiana. Il progetto, che è
connesso al museo e al patrimonio di quadranti solari presente in paese, è aperto
a tutti coloro che vorranno parteciparvi.
3.3 COMUNITÀ INTERPRETATIVE
Secondo le stime di Ilaria Peyracchia, il Museo del Tempo e delle Meridiane di
Bellino è visitato da circa 300 persone nel corso di tutto il periodo di apertura.
Come già detto, questa cifra è confermata da alcuni registri appositamente
compilati e basati sul numero di biglietti emessi. La medesima metodologia di
valutazione del numero di visitatori viene applicata nel Museo del Costume di
Chianale. Qui la famiglia Ottonelli tiene un quaderno sul quale annota
giornalmente il numero di biglietti che sono stati comprati. Negli altri musei
etnografici di valle non è presente un metodo altrettanto analitico di stima delle
visite: il calcolo, anche laddove segnato su appositi registri, è fatto semplicemente
contando le persone che entrano nella struttura.
Entrambi i modi di valutazione riportano il numero delle visite e non il numero dei
visitatori, in altre parole dalle cifre in questione non è possibile capire se ci sono
persone che si recano al museo più di una volta. La presenza dei “visitatori di
affezione” è invece attestata da alcuni informatori, come ad esempio Olimpia
Ottonelli che ricordava: «ci sono delle persone qui, francesi, figli di immigrati, che
hanno la casa qui, che vengono tutti i giorni»174. Anche Fabrizio Dovo, in relazione
174
Frase tratta da un’intervista da me condotta a Olimpia e Silvana Ottonelli in data 30/07/2010.
83
al Museo Storico-Etnografico di Sampeyre, sosteneva che: «noi abbiamo
sicuramente un’utenza di affezionati che tendono a tornare» 175.
Le cifre che attestano il numero di visitatori delle realtà etnografiche varaitine,
inoltre, non tengono conto degli amici o di coloro che abitano nel paese che ospita
il museo. Si tratta di persone alle quali normalmente non viene richiesto l’acquisto
del biglietto d’ingresso e che quindi non rientrano nelle stime fatte dai gestori. È il
caso, ad esempio, del Museo del Mobile di Pontechianale nel quale coloro «che
hanno prestato gli oggetti chiaramente possono entrare gratis» 176. Anche Olimpia
Ottonelli in relazione al Museo del Costume sosteneva che «la gente del luogo qui
entra, è casa sua. Vogliamo che sia così»177.
Esiste quindi un margine di errore nella stima del numero di visitatori dei musei
etnografici di valle. Questa considerazione si applica soprattutto a quelle realtà
che contano il numero degli ingressi senza avere nessun altro tipo di riscontro,
come ad esempio quello che potrebbe derivare dal calcolare la quantità di biglietti
emessi. Le difficoltà di questo metodo sono numerose: anche lo staff più affidabile
potrebbe non trovarsi sempre sul posto o prestare un’attenzione non uniforme,
inoltre nei momenti di maggiore affluenza, come durante le sagre o le feste, risulta
davvero difficile fare un conteggio preciso 178.
Nonostante lo scarto constatato nella stima dei visitatori, questi ultimi sono
comunque piuttosto numerosi soprattutto se li si mette in relazione con il numero
di presenze sul territorio, ovvero con il numero dei residenti sommato a quello dei
turisti e degli abitanti le seconde case. Si tratta di un calcolo piuttosto difficile da
effettuare perché i dati reperibili sui flussi turistici non tengono in considerazione le
presenze sul territorio di una sola giornata, non valutano cioè la consistenza degli
escursionisti, di coloro che effettuano una semplice gita in valle. Inoltre, in
relazione alle seconde case, i dati desunti dai Comuni stimano solo il numero delle
abitazioni e non anche di coloro che le abitano. Nonostante le difficoltà, mi
sembrava importante tentare di fornire un quadro approssimativo delle presenze
estive nei paesi che ospitano i musei etnografici per creare una “cornice” di
riferimento all’interno della quale situare i dati relativi al numero di visitatori. Questi
175
Elemento tratto da un’intervista a Fabrizio Dovo realizzata in data 18/12/2010.
Tratto da un’intervista a Enrica Paseri e Celeste Ruà realizzata in data 11/10/2009.
177
Frase tratta da un’intervista da me condotta a Olimpia e Silvana Ottonelli in data 30/07/2010.
178
Kotler N., Kotler P., “Marketing dei musei. Obiettivi, traguardi, risorse”, Edizioni di Comunità,
Torino, 1999.
176
84
ultimi, infatti, non possono essere compresi se non sono collocati all’interno di un
contesto specifico che irrimediabilmente ne influenza la dimensione perché “la
taille du public potentiel d’un musée dépend de son mode d’insertion dans la
société”179.
Come già detto, i Comuni nei quali si trovano i musei etnografici di valle non
hanno molti abitanti: Bellino ne conta appena 144 180. In questo paese durante tutto
il 2010 sono stati riscontrati 294 turisti di provenienza diversa che in media si
fermano sul territorio 1,64 giorni. Il numero delle seconde case, invece, si attesta
intorno alle 200 abitazioni181. In questa prospettiva, i trecento visitatori del Museo
del Tempo e delle Meridiane acquistano una certa rilevanza: la realtà etnografica,
infatti, sembra essere in grado di attrarre tanto i residenti quanto i villeggianti,
nonostante il loro breve periodo di permanenza.
È possibile attuare una riflessione analoga anche in relazione al numero di
visitatori del Museo del Costume di Chianale. La piccola borgata fa parte del
Comune di Pontechianale che conta 187 residenti e che nel 2010 è stato visitato
da 11.440 persone. Secondo il sindaco Alfredo Campi, le seconde case sono circa
un migliaio su tutto il territorio comunale, più difficile è invece determinare il
numero effettivo di presenze182. Anche se i dati regionali non indicano le differenze
che intercorrono tra le frazioni, è facile immaginare che Chianale attiri una
percentuale piuttosto alta dei turisti presenti nel Comune perché possiede alcuni
impianti di risalita e perché fa parte del circuito “Borghi più belli d’Italia”. In
quest’ottica i 3.000 visitatori del Museo del Costume sembrano essere una cifra
sicuramente elevata, ma che comunque si colloca in un contesto molto vivo. La
piccola realtà etnografica sembra rispondere bene all’interesse dei villeggianti
vista anche la breve permanenza di questi sul territorio, che risulta essere di soli
2,34 giorni. Ritengo, invece, più difficile tentare di valutare l’interesse suscitato
dalle esposizioni del Museo del Mobile di borgata Castello. I suoi 600 ingressi
estivi sono di molto inferiori rispetto a quelli registrati al Museo del Costume che
però si trova in una posizione decisamente più favorevole. Per le motivazioni
179
Teboul R., Champarnaud L., “Le public des musées. Analyse socio- économique de la
demande muséale", l’Harmattan, Parigi, 1999.
180
Le informazioni contenute nei paragrafi successivi sono state dedotte da www.istat.it e da
www.regione.piemonte.it Faccio riferimento in particolare al Rapporto dati statistici 2010, elaborato
dall'Osservatorio Turistico Regionale, operante in Sviluppo Piemonte Turismo, in collaborazione
con la Direzione Turismo.
181
Dato desunto grazie alla collaborazione di Laura Brun, di pendente del Comune di Bellino.
182
Riflessione tratta da un’intervista condotta a Campi Alfredo in data 10/03/2011.
85
indicate prima, Chianale è molto più frequentata di borgata Castello, quindi se un
turista può decidere di visitare il Museo del Costume perché lo nota passeggiando
per la frazione, questo è meno possibile per il Museo del Mobile. Castello infatti,
pur essendo molto bella, non ha un vero e proprio centro e non è comoda per
parcheggiare la macchina, elemento non da poco in un luogo che è difficile
raggiungere diversamente.
Casteldelfino, la “capitale” della Castellata, conta 180 abitanti, 770 seconde case e
nel corso del 2010 è stato visitato solo da 128 persone che si sono fermate sul
territorio una media di 3,66 giorni. Il paese non ha sviluppato un programma di
eventi che possa attirare turisti anche nel periodo invernale: tutte le manifestazioni
più importanti, infatti, si svolgono durante l’estate e sul territorio comunale non
sono presenti impianti di risalita. Mi pare quindi di poter supporre che la grande
maggioranza dei visitatori del 2010 si sia recata in paese nella bella stagione,
periodo in cui è aperto anche il Museo etnografico “Jer à la Vilo”. Quest’ultimo, con
i suoi duecento visitatori annui, ha quindi un’affluenza modesta che rispecchia la
discreta frequentazione del territorio.
Diversa, invece, la situazione di Sampeyre che, con i suoi 1090 abitanti, è il paese
più popolato dell’alta valla Varaita183. Grazie ai suoi impianti di risalita e al
programma di manifestazioni estive, Sampeyre è abbastanza frequentato durante
tutto l’anno, un dato riscontrato anche dalla Regione Piemonte che nel 2010 ha
contato sul territorio 24.113 presenza straniere. Il numero di turisti estivi, quelli che
possono essere andati in visita al museo etnografico, è comunque inferiore.
Secondo Vittorio Fino, assessore alla cultura del Comune, gli abitanti delle
seconde case sono all’incirca 6.000184. La media di tremila ingressi nella realtà
museale locale testimonia, quindi, una buona frequentazione della struttura.
Oltre alle difficoltà riscontrate nel contare il numero di visitatori dei musei
etnografici di valle, un altro problema consiste nel tentare di definire la loro
identità. Con l’eccezione della realtà etnografica bellinese, che prende nota non
solo del numero di visitatori, ma anche della loro provenienza, nessuno dei musei
da me visitati ha condotto delle ricerche per comprendere meglio le caratteristiche
183
In riferimento al numero di abitanti, cifre analoghe a quelle di Sampeyre si riscontrano solo nei
paesi della bassa val Varaita: Brossasco, 1099 abitanti e 606 metri di altitudine; Venasca, 1484
abitanti e 549 metri di altitudine; Piasco, 2855 abitanti e 480 metri di altitudine; Costigliole 3349
abitanti e 460 metri di altitudine; Verzuolo 6507 abitanti e 420 metri di altitudine.
184
Tratto da un’intervista a Vittorio Fino del 18/02/2011.
86
del suo pubblico. Del resto, anche a livello nazionale, questo tipo di indagini sono
piuttosto rare e sono state realizzate solo da grandi strutture185.
I primi studi sul pubblico dei musei sono stati condotti nel mondo anglosassone
agli inizi del XX secolo, quando si pose attenzione al modo con cui il visitatore si
rapportava alla collezione per verificare se l’esperienza di fruizione innescasse un
processo di apprendimento. Un altro degli aspetti indagati in questo periodo era la
fatica e lo sforzo che il pubblico poteva provare nell’esaminare gli oggetti e le
opere esposte186. Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento si diffusero due
filoni di analisi: uno di essi era centrato sull’individuazione del profilo sociodemografico del visitatore, anche al fine di verificare se un museo era in grado di
attrarre un pubblico ampio e variegato. Il secondo aspetto indagato era l’efficacia
delle esposizioni: gli studi del periodo volevano capire se e quanto un museo
potesse contribuire all’incremento delle conoscenze della comunità. A partire dagli
anni Ottanta del Novecento, aumenta la tendenza a sviluppare ricerche sui
185
Penso, ad esempio, alle indagini condotte dal Sistema Musei della Provincia di Modena nel
2007. In Piemonte la situazione dovrebbe modificarsi grazie all’applicazione degli standard
museali. A partire dal 2003, infatti, la Regione Piemonte ha avviato un piano di lavoro per la
definizione a livello regionale di questi standard, in applicazione dell' "Atto d’indirizzo sui criteri
tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei" approvato nel 2001 dal
Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Gli ambiti di applicazione sono:
1 - Status giuridico
2 - Assetto Finanziario
3 - Strutture / Ambito 5 - Sicurezza
4 - Personale
6 - Gestione e cura delle collezioni
7 - Rapporti con il pubblico
8 - Rapporti con il territorio
L'ambito n. 7 definisce le attività che ogni museo dovrebbe svolgere per offrire un servizio
sufficientemente efficace al proprio pubblico. Le aree indagate, in relazione alle quali sono stati
definiti i requisiti minimi e sono state prodotte le relative liste di controllo, di valutazione e di
autovalutazione per il museo, sono le seguenti:
• apertura al pubblico
• accesso
• accoglienza
• sussidi alla visita
• servizi educativi e didattici
• attività
• comunicazione e promozione
• servizi accessori
• analisi del pubblico
In relazione all’ultimo punto, ovvero l’analisi del pubblico, cito dalla pubblicazione “Materiali per i
musei” edita dalla Regione Piemonte: “il requisito minimo riguarda la registrazione e l’analisi con
cadenza annuale dei dati sull’affluenza del pubblico. I livelli di qualità invece prevedono un’analisi
maggiormente sistematica sul gradimento del pubblico, sulle motivazioni e aspettative legate alla
visita, sul pubblico potenziale, sull’allestimento, sulla comunicazione interna ed esterna al museo e
sui servizi offerti”.
186
Solima L., “Il pubblico dei musei. Indagine sulla comunicazione nei musei statali italiani”,
Gangemi, Roma, 2000.
87
visitatori dei musei in ambiti di analisi molto specifici, come i comportamenti di
fruizione del pubblico e le modalità di realizzazione di un’esposizione. Gli studi
realizzati nel decennio successivo, invece, si caratterizzano per la maggiore
attenzione dedicata all’esperienza di visita e alle motivazioni che portano alla
scelta di recarsi in un museo. In quegli anni comincia a determinarsi uno
slittamento dell’attenzione dei curatori, prima concentrati sulle esposizioni,
successivamente attenti a soddisfare le esigenze del pubblico anche attraverso lo
sviluppo di un approccio di marketing. Contemporaneamente si fa strada l’idea
che un museo possa contribuire allo sviluppo locale attraverso la realizzazione di
progetti strettamente legati al territorio. Le ricerche più recenti, invece, fanno
riferimento anche alla domanda potenziale dei musei, ovvero tentano di indagare il
profilo dei non- visitatori al fine di trovare delle leve per arginare i motivi di
resistenza alla visita. Gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi anni di quello
attuale, registrano la nascita di un nuovo filone di ricerca il cui focus verte sugli
utenti del museo, coloro, cioè, che usufruiscono dei servizi museali attraverso i
libri, le riviste, le televisione e internet 187.
Come detto, risulta difficile tentare di comprendere la natura del pubblico dei
musei etnografici della val Varaita. Come sostiene Daniele Jalla “ci siamo ormai
abituati a preferire il plurale. La nozione di pubblico (letteralmente: un numero
indeterminato di persone considerato nel loro complesso e aventi spesso interessi
comuni, in quanto abitano o frequentano uno stesso luogo, assistono a un
medesimo spettacolo ecc.) si è irreversibilmente frammentata – “segmentata” per
la precisione – transitando definitivamente (o quasi) dal singolare al plurale”188.
Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono possibile raggruppare il pubblico dei musei
almeno in grandi “comunità interpretative”189, che possono essere pensate come
“accomunate al loro interno dai medesimi bisogni, competenze, conoscenze e
attese”190.
Seguendo questo filone interpretativo, se si cerca cioè di trovare un minimo
comune denominatore ai visitatori dei musei etnografici varaitini, mi pare di poter
187
Solima L., “Visitatore, cliente, utilizzatore: nuovi profili di domanda museale e nuove traiettorie di
ricerca”, in Bollo A., I pubblici dei musei. Conoscenze e politiche, Franco Angeli, Milano, 2008.
188
Jalla D., “Considerazioni sul pubblico dei musei”, articolo contenuto negli appunti del corso di
Museologia tenuto alla Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici.
189
Eilean Hooper Greenhill, “Nuovi valori, nuove voci, nuove narrative: l’evoluzione dei modelli
comunicativi nei musei d’arte”, in Bodo S. (a cura di), Il museo relazionale. I musei d’arte europei e
il loro pubblico, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2000.
190
Jalla D., (op. cit.).
88
affermare che una parte piuttosto cospicua di essi sia rappresentato da turisti. Mi
sembra un dato piuttosto evidente dall’analisi dei dati sopra riportati: le cifre
elevate non possono essere state raggiunte solo dai residenti o dagli abitanti le
seconde case, nonostante la ripetizione degli ingressi che, sebbene constatata,
non è stata registrata.
Potrebbe sembrare scontato, anche tautologico, riscontrare la presenza di turisti
nei musei, a mio modo di vedere, tuttavia, era un dato importante da sottolineare
visto che il rapporto con questa parte di pubblico sembra essere piuttosto
controverso. Nessuna delle mie persone risorsa, ad eccezione di Fabrizio Dovo,
mi ha mai parlato dei turisti che visitano il museo, mentre invece sono emerse a
più riprese le dinamiche instaurate con il pubblico locale o con gli emigrati che
tornano d’estate. I miei informatori mi hanno descritto più volte e con piacere le
reazioni che l’allestimento provoca talvolta in questo altro tipo di visitatori: la
sorpresa di ritrovare fotografie di posti o persone appartenuti a un’infanzia lontana,
il piacere di vedere un oggetto dimenticato trasformato, ammantato di quella
componente di magia che è propria dei beni da collezione 191.
In qualche caso sembra quasi un’offesa notare la presenza di turisti nei musei. Ho
sviluppato questa riflessione soprattutto a seguito dell’intervento di Beatris
Ottonelli al convegno “Mestieri di una volta. Il lavoro di una comunità alpina
raccontato dal territorio e dalla sua gente” che si è svolto a Bellino il 31 luglio
2010. In quell’occasione Beatris ha sottolineato come il Museo del costume di
Chianale, allestito e gestito dai suoi genitori, non sia stato creato a fini turistici.
Questa dimensione, ovvero la possibilità di attrarre dei turisti e di essere una
risorsa in tal senso, è estranea, talvolta anche in contrasto, con la missione dei
musei di valle. È emblematica in tal senso una frase di Fabrizio Dovo, che pure ha
una visione diversa da quella della giovane Ottonelli: «l’aspetto turistico comunque
per noi ha un’importanza, anche banalmente come gratificazione. Effettivamente
quando tu riesci a far funzionare tutta una serie di attività, di cose, hai un certo
riscontro, sicuramente fa piacere, è una soddisfazione. Purtroppo noi questo
riscontro ce l’abbiamo di più dalla gente che viene da fuori che non dal paese. Qui
mi succede ancora di vedere gente del paese che entra “Ma è carino qua, non ero
mai venuto”, gente che è una vita che ce l’ha sotto il naso. Quindi sicuramente c’è
191
Silverstone R., “Il medium è il museo”, in Durant J., Scienza in pubblico. Musei e divulgazione
del sapere, Clueb, Bologna, 1999.
89
una gratificazione anche da quel punto di vista, però è una parte. Noi l’abbiamo
sempre visto come un momento per raccogliere e conservare la memoria, una
casa comune del paese. Qui c’è tanta gente che ha dei pezzi di memoria, che ha
vissuto.. è comunque un posto dove c’è un pezzo di memoria condivisa anche per
chi ha avuto esperienze migratorie. Sicuramente è un po’ una casa comune. Per
noi è importante questo aspetto»192. I musei etnografici varaitini non sono stati
realizzati in chiave turistica, per intrattenere i villeggianti estivi. Anche se talvolta
questa dimensione può essere presente e importante, essa non deve comunque
soverchiare quella che è la missione di tali realtà. Come già detto, i musei di valle
sembrano avere la finalità di conservare la memoria ma per pensare e progettare
il territorio nel presente come nel futuro.
192
Frase tratta da un’intervista condotta a Fabrizio Dovo in data 18/12/2010.
90
CAPITOLO 4
DELLA CULTURA COME ARTEFATTO
4.1 PUNT E LA CIANAL
Percorrendo la strada provinciale che conduce al Colle dell’Agnello, raggiunti i
1614 metri di altitudine, la presenza di un grosso lago artificiale segnala l’ingresso
nel territorio di Pontechianale. Lo sbarramento delle acque del Varaita finalizzato a
produrre energia elettrica è chiaramente visibile dai tornanti, un grosso muro in
cemento che stride con il fervido paesaggio montano circostante. La vista del lago,
una distesa d’acqua di due kilometri per uno, è sicuramente affascinante:
completamente bianco e ghiacciato in inverno, ricco di sfumature d’azzurro
durante l’estate. In passato, se durante la bella stagione si guardava sotto la
superficie dell’acqua, era ancora possibile osservare i resti delle case, della
parrocchiale e del cimitero che un tempo sorgevano proprio in quella porzione di
avvallamento fluviale.
La storia di borgata Chiesa “è il racconto di una sconfitta, di vecchie ferite, di molti
ricordi
e
di
tanta
nostalgia”193. La frazione di
Pontechianale fu sommersa
completamente nel 1942 dal
bacino
artificiale
creato
dall’occlusione del Varaita
nella vicina Castello. Gli
operai cominciarono i lavori
di costruzione della diga nel
Pontechianale di Marco Bailone. Opera concessa
dall’artista.
1936,
dando
così
contemporaneamente,
inizio,
al
processo di espropriazione delle terre e delle case degli abitanti. L’Enel si assunse
l’onere di ricollocare il centinaio di residenti, di ricostruire la chiesa parrocchiale, il
193
Infossi P., “La vallata sommersa. Testimonianze ed immagini della frazione Chiesa di
Pontechianale”, Museo del Mobile dell’Alta Valle Varaita, Savigliano, 2010, pp. 8.
91
cimitero, gli edifici civili e di ridistribuire campi, prati e orti. Nell’ipotesi di progetto
veniva affermata la necessità di tutelare i diritti dei cittadini ricostruendo loro la
casa, mentre per coloro che non erano presenti sul territorio era previsto un
indennizzo in denaro. Tale pianificazione non teneva in considerazione i risvolti
sociali che avrebbe avuto, l’impatto destabilizzante su persone costrette ad
abbandonare la casa dove erano nate e cresciute. L’esito stesso del progetto,
inoltre, appare criticabile, portato avanti tra numerose empasse gestionali di fatto
mai risolte. Ad esempio, la frammentazione delle proprietà e l’assenza degli
emigranti creò numerose difficoltà nelle trattative per eseguire le cessioni.
Nonostante le complicazioni, le vendite furono accelerate dal provvedimento
adottato nel 1939 dal Ministero dei lavori pubblici, con il quale si sanciva
l’indifferibilità del progetto. Quest’ultimo assumeva così il carattere di priorità: i
cittadini che non volevano o non potevano vendere, vennero sgomberati e le loro
abitazioni
occupate.
L’entrata
in
guerra
dell’Italia
portò
ad
un
rapido
peggioramento della situazione: molti emigranti in Francia non poterono più
varcare il confine, alcuni rientrarono solo a conflitto finito, indefinibili, poi, le perdite
umane. Per quanto riguarda borgata Chiesa, le operazioni belliche preclusero a
molte persone non solo di approfittare dell’offerta dell’Enel, ma anche, più
semplicemente, di riprendere possesso dei propri beni mobili. Questi ultimi, come
mi hanno rivelato Celeste ed Enrica, i gestori del Museo del Mobile che ha sede in
Pontechianale, non vennero abbandonati al proprio destino: “Si dice che all’epoca
gli antiquari facessero anche due o tre giri al giorno con il camion. L’importante era
prendere. Poi la gente era in Francia. Praticamente hanno preso tutto, tanto
veniva tutto sepolto”194.
Come attestano numerosi documenti dell’epoca, la separazione dalle proprie case
fu vissuta come un evento drammatico. Se possibile, tuttavia, fu il distacco dal
vecchio cimitero a segnare il capitolo più doloroso della vicenda. Il trasporto delle
salme rappresentava una circostanza dolente e delicata, non solo per i risvolti
pratici intrinseci, ma anche per il carattere morale che assunse. La ditta
costruttrice, infatti, aveva predisposto solo il trasporto dei corpi deceduti da dieci
anni, gli altri erano destinati all’ossario o, chissà, ad essere sommersi con l’antico
cimitero. Coloro che si opponevano potevano riesumare in modo autonomo i loro
194
Testimonianza contenuta in un’intervista a Celeste Ruà ed Enrica Paseri, da me condotta in
data 11/10/2009.
92
parenti, oppure, se l’evento era troppo doloroso, avevano facoltà di chiedere la
collaborazione degli operai che lavoravano alla diga 195.
Accanto al cimitero sorgeva la Chiesa parrocchiale di S. Pietro in Vincoli, risalente
al XV secolo. Questa presentava le stesse caratteristiche di molti luoghi di culto
presenti nella valle: si affacciava su un modesto slargo con l’abside rivolta verso
est e la facciata orientata ad ovest. Durante il periodo di costruzione della diga, la
punta del campanile e il protiro vennero abbattuti al fine di recuperare le campane
ed il portale. Questi ultimi sono attualmente visibili nella chiesa di S. Pietro
costruita in borgata Maddalena. L’ingresso dell’antica parrocchiale, realizzato in
marmo bianco con inserti in pietra verde, presenta una ghiera profondamente
svasata con capitelli raffiguranti visi umani o teste di animale. All’interno della
ghiera, nella lunetta che si affaccia sopra il portale, era collocato un pannello
divisibile in due metà, raffigurante i Santi Pietro e Paolo. Il dipinto è stato
successivamente sostituito da un’opera attribuibile al Gilardi, di manifattura più
recente, che rappresenta il Buon Pastore196. È interessante notare, in relazione
alla Chiesa di S. Pietro in Vincoli, come la Regia Soprintendenza ai Monumenti del
Piemonte avesse chiesto alla società costruttrice la diga di inviare la
documentazione fotografica relativa al monumento. Questa risultava necessaria al
fine di procedere nei lavori di smantellamento e ricostruzione della parrocchiale,
per i quali era dovuta l’approvazione del Ministero dell’Educazione Nazionale.
Nelle due occasioni in cui la Soprintendenza
espresse tale richiesta,
rispettivamente il 1936 ed il 1942, si sentì rispondere dalla società costruttrice che
quest’ultima non era in grado di interpretare i criteri fotografici richiesti. Si tratta
forse di una manifestazione di come, intorno alla creazione della centrale,
gravitassero interessi rilevanti, tali da soverchiare le politiche dell’allora Ministero
dell’Educazione.
Oggi il lago è ormai indissolubilmente legato a Pontechianale. Oltre a essere fonte
di attrazione per il turismo locale, non si possono dimenticare i benefici economici
apportati ai Comuni interessati. Questi, riunitisi in consorzio per incassare i canoni
di sfruttamento delle acque, ridistribuirono i proventi per realizzare opere
pubbliche oppure interventi di interesse collettivo. Tra questi, non ultima, la
195
Infossi P., (op. cit.).
Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados
Usitanos, Bra, 1979.
196
93
costruzione della strada provinciale che raggiunge il Colle dell’Agnello e la
Francia197.
La demolizione di borgata Chiesa ha accresciuto l’interdipendenza tra le due
frazioni inferiori del Comune di Pontechianale: Villaretto e Castello. Quest’ultima,
in particolare, è molto interessante sotto il profilo storico e urbanistico. La sua
posizione peculiare, di fatto appoggiata alla dorsale presente in loco, la rendeva
un luogo strategico nel sistema difensivo pre-delfinale. All’epoca, infatti, era sentita
soprattutto la necessità di operare un controllo dei traffici che si svolgevano
attraverso il Colle. Tale funzione fu incrementata nel 1236 dalla costruzione di un
forte alto 11 metri, con un perimetro di base di circa 22 metri. L’edificio era dotato
di una, o forse di due, torri: i documenti medievali non permettono di fare luce in
modo preciso su tale questione. Le servitù militari, la presenza della strada che
conduce al Colle dell’Agnello e la necessità di avere accesso ai pascoli, hanno
contribuito a delineare l’assetto urbanistico di borgata Castello. Quest’ultima,
infatti, possiede una struttura radiale, centrata sullo spiazzo antistante la chiesa,
dove si innestano le tre suddette vie di comunicazione.
L’asseto urbanistico di frazione Castello è comune anche alle altre borgate
presenti sul territorio di Pontechianale, le quali, in misura preponderante, ruotano
attorno alla strada principale che porta al Colle dell’Agnello e ai piccoli
collegamenti viari trasversali volti a rispondere alle esigenze del nucleo primitivo.
In particolare, due sono le finalità attribuibili a tali sentieri: congiungevano la strada
principale con i campi coltivati oppure si snodavano dentro le borgate. In questo
secondo caso le vie erano sovente dotate di un ampio portale che teneva lontano
visitatori indesiderati e che proteggeva dai rigori del clima. Quest’ultima tesi trova
conferma nel fatto che molti di questi sentieri erano interamente coperti, proprio al
fine di non esporre al freddo coloro che li percorrevano.
Ai margini della strada principale che conduce al valico di confine ci sono le
borgate Foresto e Maddalena, quest’ultima sede del Comune. La crescita di
infrastrutture promossa a partire dagli anni Sessanta ha causato l’accorpamento di
queste realtà alla vicina Rueite, rendendole paragonabili a piccoli quartieri di un
nucleo urbano. In passato le tre borgate, di fatto equidistanti, erano caratterizzate
da uno sviluppo modesto e controllato198. Il ruolo di capoluogo di frazione
197
198
Infossi P., (op. cit.).
Ottonelli S., (op. cit.).
94
Maddalena è stato confermato anche dal recente sviluppo turistico, al quale si
deve la costruzione degli impianti di risalita presenti in loco. Questi ultimi sono stati
ripristinati e valorizzati dall’ultima amministrazione comunale, la quale ha
promosso la ricostruzione della seggiovia. Discutendo con Alfredo Campi, sindaco
di Pontechianale, è emerso come il comprensorio sciistico sia considerato una
risorsa importante in termini occupazionali soprattutto per i giovani del luogo. Gli
impianti di risalita danno lavoro a 16 persone, permettono di mantenere degli
esercizi commerciali importanti come la panetteria e il supermercato, consentono
ad alcuni maestri di sci di restare dove sono nati e cresciuti. Lo sfruttamento della
risorsa turistica parrebbe quindi fornire la speranza di continuare ad abitare il
territorio199. Si tratta di riflessioni che assumono caratteristiche particolari se
inquadrate nel contesto sociale di Pontechianale. Il Comune, come gli altri della
valle, ha subito un drammatico crollo demografico: dal 1861 al 2009 ha perso
l’85% della popolazione residente. Il canonico Allais nel 1891 scrive di
Pontechianale: “la popolazione dell’intiero Comune consta di 308 famiglie, ed è
rappresentata dalla cifra nominale di 1566 persone” 200. Sergio Ottonelli, meno di
un secolo dopo, nel 1979, conta 299 anime 201: lo scarto è talmente alto da
assumere le caratteristiche di un’ecatombe. Il Comune, tuttavia, rispetto alle altre
Municipalità della valle, presenta un andamento demografico anomalo. L'Istituto
nazionale di statistica parrebbe confermare il decremento demografico ma, se si
osservano i dati degli ultimi 20 anni, non sono presenti grosse variazioni: la
popolazione di Pontechianale sembrerebbe quindi essersi assestata sulle 200
anime circa202. In questo contesto è comunque evidente come il dato
occupazionale rivesta un’importanza notevole, la necessità di incrementarne la
stima non può non collocarsi tra le prime preoccupazioni di un’amministrazione. La
ricostruzione della seggiovia è un’opera recente, databile al 2010. È quindi ancora
presto per valutarne l’effettiva portata sul tessuto economico locale.
Se il turismo continua ad essere percepito come un potenziale economico
importante, diverso rispetto al passato è il rapporto con l’ambiente naturale.
Difficile, infatti, non notare come l’espansione edilizia incentivata negli anni
Sessanta-Settanta abbia creato un forte senso di rottura con le strutture già
199
Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011.
Allais C., “La Castellata. Storia dell’alta valle di Varaita”, l’Artistica Savigliano, 1985, pp. 11.
201
Ottonelli S., (op. cit.).
202
www.istat.it
200
95
esistenti, annoverabili alla tradizione costruttiva locale. Percorrendo la provinciale
che conduce al Colle dell’Agnello le architetture urbane dei condomini fagocitano
lo spazio un tempo occupato dalle abitazioni rurali, esempio di “organicità tra
natura e cultura, tra valori formali e funzionali, determinata non solo dalle
condizioni ambientali e climatiche estreme, ma anche dalla necessità di
economizzare la fatica, di riutilizzare qualunque cosa” 203. Il contrasto è evidente e
palesa “la speculazione edilizia di tipo parassitario” 204 innestata sul tentativo di
valorizzazione turistica. Tale fenomeno è piuttosto lampante se si considera lo
scarto presente tra le 101 famiglie residenti sul territorio e le 1213 abitazioni
presenti205. Nella contemporaneità il Comune di Pontechianale si è dotato di un
piano regolatore che limita gli stili architettonici utilizzabili sul territorio al fine di
valorizzare e riproporre le modalità costruttive locali. Il sindaco, poi, ha sottolineato
come la scelta di ristrutturare la seggiovia possa risultare vincente anche perché è
stata effettuata su un territorio molto ricco dal punto di vista culturale. Secondo
l’attuale amministrazione, “la cultura è la base di tutto”, è uno degli strumenti
essenziali per la promozione del territorio. La riproposta di un turismo invernale
necessita quindi di integrarsi con il tessuto culturale locale proprio al fine di
mantenere se stessa nel tempo. “Se c’è cultura, se c’è storia, se c’è un paese che
vive io penso che il turismo non muoia, potrà avere dei periodi di crisi ma andrà
avanti”206.
Il comune di Pontechianale presenta un’anomalia strutturale interessante. Esso è
infatti dotato di due parrocchie, una delle quali comprende solo la borgata più a
nord, Chianale, mentre la seconda riunisce le altre undici. L’isolamento di
Chianale, situata a 1800 metri di altitudine, in realtà è stato causato
dall’abbandono di altre tre borgate: Sellette, Chiabrand e Prachiaus, un fenomeno
accaduto nel secolo scorso. Frazione Sellette, così chiamata perché sorge su una
rupe caratterizzata da due dossi che conferiscono all’altura il profilo di una sella, è
stata recentemente oggetto di un restauro. L’opera di ripristino ha fatto proprie le
tecniche costruttive locali ed ha permesso che il paesino tornasse ad essere
abitato, almeno d’estate.
203
De Rossi A., Ferrero G., “Il secolo breve dell’architettura alpina”, in L’Alpe n.1, inverno 19992000.
204
Ottonelli S., (op. cit.), pp. 108.
205
www.istat.it
206
Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011.
96
Borgata Chianale “è un caso unico in quanto a complessità urbanistica e ricchezza
di spunti architettonici”207. Si tratta di una serie di caratteristiche che hanno
permesso alla frazione di rientrare nel sistema “Borghi più belli d’Italia”. Situato a
cavallo del Varaita, il cuore dell’antico borgo è rappresentato dal ponte in pietra
che separa la chiesa di S. Lorenzo dalla cappella di S. Antonio e dall’antico tempio
del culto riformato. San Lorenzo è una parrocchiale barocca che conserva un
altare ligneo datato 1726. Questo termina con un arco a timpano spezzato
coronato da due angioletti e si appoggia su quattro colonne tortili, realizzate in
pino cembro ed ornate con tralci di vite. La chiesa di S. Antonio è stata la
parrocchia di Chianale dal 1459 fino alla fine del Seicento. Il portale esterno, a
triplice ghiera centinata, è ornato da capitelli che presentano visi umani e profili
animaleschi, un tratto caratteristico della valle che adombra l’attribuzione alla
tradizione tardo romanica. Poco distante dalla chiesa di S. Antonio è possibile
osservare, benché integrato tra le case circostanti, le vestigia di un antico tempio
calvinista. Come ci ricorda Sergio Ottonelli, Chianale “fu infatti, per buona parte
del ‘600, l’unico centro della valle in cui fosse riconosciuto il libero esercizio del
culto riformato e questa situazione privilegiata si protrasse fino alla vigilia della
Revocazione dell’Editto di Nantes” 208. Gli edifici religiosi fanno da corollario ad un
profilo urbanistico di grande seduzione. Percorrendo le strette stradine di
Chianale, infatti, è possibile osservare una serie consistente di abitazioni che
riutilizzano elementi medievali.
Durante la stagione invernale, le risorse economiche e progettuali del Comune di
Pontechianale sono interamente assorbite dal comprensorio sciistico. In estate,
invece, le borgate si animano grazie ad una serie di attività piuttosto fitta. Tra
queste numerosi sono i concerti di musica tradizionale, gli aperitivi e le cene a
tema, le animazioni per i bambini e per i ragazzi. Non possono mancare, inoltre, i
tornei di calcetto, pallavolo e tennis, istituiti grazie alla collaborazione dell’Enel.
Tale
programmazione
è
organizzata
e
realizzata
dai
commercianti
di
Pontechianale con il sostegno della proloco locale. Per stessa ammissione del
sindaco, le attività promosse nel periodo estivo sono orientate soprattutto
all’intrattenimento dei turisti piuttosto che alla valorizzazione del contesto culturale.
Di profilo forse differente sono le diverse feste patronali che si declinano sul
207
208
Ottonelli S., (op. cit.), pp. 94.
Ibidem, pp. 105.
97
territorio comunale: in estate è possibile assistere a S. Deliberata a Villaretto, S.
Assunta a Castello, S. Rocco a Genzana e S. Lorenzo a Chianale209. Quest’ultima
prevede che la popolazione locale indossi il costume tradizionale e nel 2010 si è
articolata in una messa con incanto e concerto vocale, mentre le stradine del
borgo sono state animate da un mercatino di prodotti tipici.
Nell’ambito della programmazione estiva, il Comune assume il ruolo di ente
finanziatore anche se si può sostenere che la sua compartecipazione in tal senso
vari a seconda della manifestazione pianificata. L’intervento dell’amministrazione
si fa maggiormente concreto, in termini sia economici, sia organizzativi, in
relazione a “I sapori dell’Alevé” e a “Il ritorno dall’Alpe”. La prima manifestazione è
dedicata alla cembreta presente sul territorio che con i suoi 825 ettari si
caratterizza per essere il bosco di pini cembri più esteso d’Europa. La giornata di
festa, grazie alla serie di mercatini che si snodano tra le strade della borgata
centrale, vuole valorizzare i prodotti artigianali e alimentari locali. “Il ritorno
dall’Alpe” si svolge a settembre e celebra la discesa delle greggi dagli alpeggi. La
manifestazione ripropone in chiave moderna quello che, soprattutto in passato,
era un momento di aggregazione importante. “Il ritorno dall’Alpe” si caratterizza
anche per essere una vetrina considerevole per gli allevatori della zona i quali
possono esporre i loro animali sul territorio comunale.
Le pendici alpine circostanti Pontechianale sono solcate da una fitta rete di sentieri
che lo collegano alla Francia e al Monviso. Questi però non sono stati curati dal
Comune, in misura predominante essi sono stati creati e gestiti dal comparto
forestale della Regione Piemonte. Tra i sentieri maggiormente suggestivi non si
può non ricordare la passeggiata che si snoda nel vallone di borgata Torrette,
dalla quale è possibile osservare una serie di incisioni rupestri presenti sulle rocce.
La scelta comunale è stata quella di non valorizzare tale ricchezza a causa di una
serie di episodi di vandalismo che si sono verificati 210.
4.2 IL MUSEO DEL MOBILE DI PONTECHIANALE
Il Museo del Mobile di Pontechianale è situato nel cuore di borgata Castello. La
struttura è facilmente visibile e identificabile perché situata vicino alla strada
209
210
www.ghironda.it
Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011.
98
provinciale e perché segnalata con un grosso cartello. Il museo è visitabile
unicamente nel periodo estivo, da luglio a settembre, con orari che variano
annualmente. Durante l’estate 2010, dall’ultima settimana di luglio fino a fine
agosto, è stato aperto tutti i giorni nel pomeriggio, mentre a settembre era fruibile
solo di sabato e di domenica. La visita costa 2,50 euro ed è normalmente libera
anche se il personale all’interno della struttura è sempre disponibile per
chiarimenti ed informazioni.
Il museo nasce nel 2005 su iniziativa di Celeste Ruà, Enrica Paseri e Paolo
Infossi, tre privati cittadini interessati a coltivare quegli aspetti del patrimonio
culturale locale percepito come tradizionale 211. Celeste, falegname di professione,
appassionato di mobili e legno antico, può forse essere indicato come il principale
promotore del museo. Insieme a Enrica, i due possiedono una casa a borgata
Chianale nella quale risiedono soprattutto durante l’estate. La coppia è conosciuta
sul territorio anche per la passione per la musica e per le serate che animano
sovente nei locali della zona.
L’idea di creare il museo nacque a seguito della realizzazione di un ambiente dal
titolo “Vivere nel Settecento”, situato negli stessi locali dell’attuale museo. Il lavoro
venne curato da Celeste «perché mi è sempre piaciuta la storia dei mobili» e in un
anno fu visitato da 2500 persone. Il successo della mostra fu d’impulso alla
creazione di un museo interamente dedicato alla storia della produzione mobiliera
dell’alta valle Varaita anche se, come mi hanno rivelato i curatori, era loro
desiderio che tale realtà avesse caratteristiche peculiari.
La presenza di un museo del mobile a Pontechianale rientra all’interno di un
panorama culturale particolare. In loco, infatti, vista anche l’importante presenza di
materia prima di qualità, la lavorazione del legno per produrre manufatti era molto
diffusa ed è considerata un’attività tradizionale. Tra gli elementi che caratterizzano
la produzione mobiliera locale si possono annoverare le funzioni, legate all’uso di
questi manufatti in case di montagna; la diffusa abilità manuale, che permetteva
agli uomini di costruire quasi tutto ciò di cui avevano necessità; l’utilizzo del legno
di conifere e di decorazioni ricorrenti212. Il risultato era il frutto di una “serie
innumerevole di esperimenti di sintesi all’interno di un’antica e radicata cultura del
211
Le informazioni contenute in questo paragrafo sono riprese da alcune interviste condotte a
Celeste Ruà ed Enrica Paseri in data 11/10/2009, 22/07/2010 e 6/12/2010.
212
Dematteis P., “Uno stile del mobile tradizionale detto «val Varaita»” in AA. VV., I mobili
tradizionali della val Varaita. Guida ragionata e catalogo fotografico, Fusta, Saluzzo, 2006.
99
legno” basata sull’“utilizzo parsimonioso dei materiali a disposizione” e sul “rispetto
verso forme e tipologie d’arredo locali”213. La produzione mobiliera seguiva il ciclo
della vita degli uomini scandendone le tappe: una culla, una cassa dotale, una
credenza raccontavano il percorso di un individuo, le sue fatiche e le sue
ritualità214.
Nel corso degli anni, si è diffusa l’espressione “stile val Varaita”, che indica la
presenza di caratteristiche costruttive e ornamentali particolari nei manufatti lignei
prodotti in passato sul territorio. Piero Dematteis, tuttavia, prende le distanze da
tale dicitura perché preferisce sottolineare le influenze reciproche e le connessioni
che, soprattutto in passato, univano i versanti. Gli elementi stilistici che
accumunavano i mobili varaitini, infatti, erano diffusi anche in altre parti dell’arco
alpino, “ovunque l’uomo si sia insediato adattando esigenze e modi di vita
all’ambiente delle alte valli” 215. La produzione mobiliera si basava su una
trasmissione di conoscenze che se avveniva all’interno della famiglia, si arricchiva
anche dell’esperienza maturata durante la transumanza o la migrazione
stagionale. Questa fitta rete di rapporti, di contatti, sfuma i confini culturali della
valle mettendola in relazione con un contesto più ampio216.
Nella seconda metà del Novecento, il progressivo esaurirsi della realizzazione di
mobili si accompagna alla crescita del mercato dell’antiquariato e del mobile
d’arte. Gli esemplari più numerosi e più apprezzati sono stati quasi tutti realizzati
dal XII al XX secolo e provengono soprattutto dall’alta valle, in particolare dal
territorio dei Comuni di Pontechianale, Bellino, Casteldelfino e da una parte di
quello di Sampeyre. È in questo modo che “lo «stile Val Varaita» diventa un logo,
un marchio d’origine, esteso a tutti i mobili tradizionali delle alte valli” 217.
Dematteis, inoltre, fa notare il rilancio della produzione mobiliera di tipo
tradizionale che si è avuta tra gli anni Sessanta e Ottanta. “Un’operazione
condotta all’inizio con grande sensibilità e rispetto, che ben presto, sulla spinta di
una domanda sempre crescente e sempre meno culturalmente motivata,
degenererà in una produzione di largo consumo ad opera di disinvolti imitatori” 218.
213
Paseri E., “A misura d’uomo”, in AA. VV., I mobili tradizionali della val Varaita. Guida ragionata
e catalogo fotografico, Fusta, Saluzzo, 2006, pp. 115-117.
214
Ibidem.
215
Dematteis P., (op. cit.), pp. 18.
216
Ibidem.
217
Ibidem pp. 20.
218
Ivi.
100
La realtà lavorativa nell’ambito della lavorazione del legno però è molto articolata:
non si può negare l’esistenza di una rete di piccole imprese, di falegnami capaci
che propongono nel presente la loro arte attingendo allo stile e alle modalità
costruttive del passato, senza tuttavia imitarle banalmente. All’interno di un
contesto economico difficile come quello della val Varaita, questi artigiani
sembrano invece aver trovato una collocazione proficua.
Il Museo del Mobile è quindi un’istituzione privata, totalmente gestita e
amministrata da Enrica, Celeste e Paolo con l’ausilio delle sole loro risorse.
L’apertura di tale realtà è stata possibile grazie anche al contributo “Valades”,
erogato dall’allora Comunità Montana Valle Varaita, che ha finanziato al 50% la
ristrutturazione del tetto dello stabile. Il museo, che dopo la sua istituzione non si è
più avvalso di alcun tipo di sovvenzione, è situato nei locali di un antico fienile, i
quali sono stati totalmente ristrutturati secondo i canoni architettonici locali. La
struttura, di proprietà di Paolo e Celeste, è piuttosto piccola ma estremamente
piacevole: il pavimento, così come il soppalco e la scala per raggiungerlo, sono
totalmente in legno; i muri mostrano le pietre utilizzate per costruirli; le semplici
teche espositive, realizzate da Celeste, sono cubi in vetro poggiati sopra i mobili in
mostra o su strutture lignee appositamente create. L’effetto complessivo è di
accogliente linearità.
Gli oggetti presenti nel Museo del Mobile possono essere divisi in due sezioni: la
collezione fissa e le esposizioni temporanee. Queste variano ogni estate e trattano
argomenti diversi, la cui sola costante è quella di essere legati al territorio. La
prima mostra realizzata ha esposto maschere lignee utilizzate in contesti
carnevaleschi e provenienti soprattutto dal territorio del comune di Bellino.
Nell’inverno 2005-2006 il museo ha eccezionalmente tenuto aperto con una
collezione di mobili antichi, tipici del luogo, particolarmente interessanti per le
decorazioni intagliate sulle superfici. L’estate dello stesso anno Celeste ha
realizzato una mostra con la sua collezione privata di organetti, mentre l’anno
dopo l’esposizione temporanea ha fornito uno spaccato dell’emigrazione dai
territori dell’alta valle Varaita a partire dai primi del Novecento. Molto interessante,
poi, è stata la tematica trattata nelle estati del 2008 e del 2009, quando il museo
ha proposto una serie di foto e di oggetti provenienti da borgata Chiesa, la
frazione di Pontechianale sommersa dalla diga costruita dall’Enel.
101
La collezione stabile presenta al piano terra del museo un ricco cassone nuziale,
interamente decorato, proveniente dall’alta Valle, probabilmente da Caldane.
Questo genere di mobili, così finemente intarsiati, erano solitamente dei doni fatti
da un ragazzo alla sua promessa sposa. Come per i fuselli del tombolo, la finezza
della decorazione era un modo per valutare le abilità tecniche dei giovani, sulle
quali eventualmente basare la propria scelta matrimoniale. Sempre al piano terra
del museo, è possibile osservare una credenza, un armadio e delle sedie, tutti
realizzati in pino cembro. Le sedie
presenti sono molto particolari perché
decorate
con
le
iniziali
sia
del
capofamiglia cui erano state offerte, sia
dell’artigiano che le aveva prodotte.
Al piano superiore del museo è possibile
osservare un cassettone in pino cembro,
all’interno del quale veniva riposto l’abito
tradizionalmente
usato
sul
territorio.
Quest’oggetto, realizzato da un signore di
Pontechianale, presenta un particolare
intarsio in noce, pianta non utilizzata in
loco, a forma di cuore e di fiore. Accanto
a
questo
cassettone
è
possibile
osservare un altro armadio in
pino
Interno del Museo del Mobile. Foto
dell’autrice.
cembro intarsiato, così come un tombolo
fornito di ben 39 fuselli finemente decorati. Sempre nel piano soppalcato del
museo, Celeste ha esposto la riproduzione, da lui stesso realizzata, della cassetta
di un venditore ambulante di bottoni, manufatto che solitamente era portato a
spalle.
Gli oggetti in mostra, che non sono né schedati né inventariati, si presentano in
buono stato di conservazione. Il restauro dei mobili è stato curato da Celeste,
ebanista di professione nonché proprietario di parte dei manufatti presenti nel
museo. La stragrande maggioranza di questi ultimi, tuttavia, risulta essere in
prestito temporaneo. «Nel momento in cui si mette in piedi una mostra si decide
quale sarà il tema dell’anno successivo e da lì si parte e si va a raccogliere proprio
in giro per le case». Gli allestimenti sono quindi realizzati grazie alla
102
collaborazione della gente di vallata che, secondo la sensibilità dei curatori del
museo, risulta essere interessata a quegli aspetti della cultura locale percepiti
come tradizionali. Enrica e Celeste sottolineavano come si fosse creato un
rapporto particolare con coloro che hanno prestato gli oggetti. Dopo l’iniziale
reticenza, è prevalso un meccanismo che Enrica sostiene essere volto alla
valorizzazione dei manufatti stessi. Oggetti vissuti, oggetti della quotidianità,
magari presenti da generazioni in casa, ai quali non si dava, per questo,
particolare rilevanza, hanno acquisito una valenza differente dopo essere stati
esposti nel museo. Avere fatto parte di un allestimento museale, in altre parole, ha
aumentato l’importanza di tali beni agli occhi dei proprietari. Questo in un contesto
di più generale interesse per quella che viene definita e pensata come “tradizione”.
Secondo Enrica, sul territorio si è recentemente generata una voglia di tornare alle
proprie radici, di scoprire il proprio passato familiare. Tale processo ha interessato
aspetti culturali diversi, non solo i saperi connessi alla quotidianità, ma anche la
ritualità, le feste, la musica, come ricorda Celeste. Un fenomeno di difficile
interpretazione, secondo i curatori del museo, una cui possibile spiegazione è
forse riscontrabile nell’«opposizione alla globalizzazione». È opinione di Enrica
che quando «tutti possono avere tutto […], le cose che sono davvero uniche
cominciano ad avere un valore diverso, a maggior ragione se è un qualcosa che
delinea una storia tua, personale». E tale storia personale, nella sensibilità dei
curatori, emerge con forza maggiore in un territorio come quello della valle che
visivamente ha conservato numerosi aspetti del proprio passato. «Penso che nei
posti dove si legge di più la storia, forse la vai a cercare di più».
L’interesse per quegli aspetti della cultura percepiti come tradizionali influisce sul
numero di visitatori del Museo del Mobile. Non è possibile indicare l’entità precisa
di quest’ultimi perché i curatori non ne tengono un elenco aggiornato e il numero
dei biglietti emessi è solo indicativo dal momento che alcune persone, come ad
esempio gli amici o coloro che prestano gli oggetti, entrano gratuitamente.
L’affluenza poi varia molto a seconda della mostra proposta: quest’anno i visitatori
sono stati all’incirca 300, quasi la metà di quelli registrati in occasione
dell’esposizione incentrata su borgata Chiesa. Altalenante è anche l’afflusso
giornaliero, un fenomeno sottolineato da Celeste il quale sostiene che «qui tante
volte entrano venti persone al giorno, tante volte una». I curatori si mostrano
contenti dei visitatori che attraggono non tanto in termini di quantità, quanto
103
piuttosto, se così si può dire, di qualità. Enrica e Celeste hanno riscontrato la
presenza di un’utenza fissa, interessata ogni anno all’esposizione proposta. «Sta
diventando bello perché in linea di massima le persone che entrano, entrano
perché sono interessate e quello è l’obbiettivo». La passione espressa nel museo
si è estesa a quella parte dei visitatori che ogni estate ritornano incuriositi dal
nuovo progetto, «una bellissima soddisfazione» secondo Celeste. Visto l’afflusso
turistico estivo che caratterizza Pontechianale, è innegabile che gran parte
dell’utenza dell’istituzione museale non sia del posto. Tuttavia, tra gli “affezionati”, i
valligiani sono numerosi, a mio avviso complice non solo l’interesse per le
tematiche affrontate, ma anche l’amicizia che li lega a Celeste ed Enrica,
conosciuti parimenti per la musica.
Il Museo del Mobile ha curato la pubblicazione del catalogo della prima mostra
realizzata. “Maschere rituali in legno dell’arco alpino occidentale”, edito con il
patrocinio della Comunità Montana Valle Varaita e del Comune di Pontechianale,
si apre con una presentazione di Almerino de Angelis ed è stato curato da Paolo
Infossi. Quest’ultimo è l’autore anche de “La vallata sommersa. Testimonianze ed
immagini della frazione Chiesa di Pontechianale”, pubblicazione edita sempre dal
museo. L’impossibilità di realizzare altri volumi è indicata dai curatori nell’assoluta
mancanza di fondi destinati a strutture private. «Noi siamo sempre in perdita.
Quest’anno è andata bene, siamo andati in pari».
Le difficoltà di gestione sono sopperite dalla grande passione che Enrica e Celeste
sentono per la loro creazione, un interesse rinnovato ogni anno grazie anche alla
realizzazione di mostre diverse. Questi progetti nascono dal desiderio dei curatori
di documentarsi, estate dopo estate, su tematiche nuove. Nell’allestimento delle
esposizioni temporanee, Enrica e Celeste vedono un’occasione, anche personale,
per accrescere la conoscenza del patrimonio culturale locale. Il museo si presenta
in modo diverso ogni anno, differenziandosi in questo modo, secondo la sensibilità
dei gestori, dalle altre realtà etnografiche presenti sul territorio. Nonostante
condividano con esse l’intento di «far conoscere, mantenere, conservare e
preservare», Celeste ed Enrica ritengono che la loro struttura sia maggiormente
orientata alla sensibilizzazione. Tale caratteristica si esplica proprio nell’affrontare
con cadenza periodica tematiche diverse ma contemporaneamente legate al
territorio. Si tratta di una strategia tramite la quale viene rinnovato l’interesse dei
visitatori e la loro disponibilità ad apprendere.
104
4.3 IL MUSEO DEL COSTUME E DELL’ARTIGIANATO TESSILE
Il Museo del Costume e dell’Artigianato tessile sorge nel cuore di Chianale, in
un’antica Missione Cappuccina219. La struttura, segnalata con un grosso pannello
alle porte del paese, è facilmente raggiungibile seguendo la stradina principale
che si snoda tra le case in muratura, così belle e suggestive. Anche l’edificio che
ospita il museo è di indiscutibile fascino: arroccata in posizione dominante, la
missione assume il suo profilo attuale a metà del Settecento. Gran parte
dell’edificio, tuttavia, così come l’inizio in loco delle attività dei cappuccini, sono
antecedenti: i frati si radicano sul territorio già nel 1659 al fine di combattere il
culto riformato. La missione chiude i battenti nel 1794 per timore di un’invasione
da parte delle truppe francesi rivoluzionarie, attacco che avvenne nello stesso
anno e che causò un durissimo saccheggio di Pontechianale e delle sue borgate.
Dopo qualche decennio di totale abbandono, intorno al 1820 l’edificio torna ad
essere casa parrocchiale e tale rimarrà fino al secondo dopoguerra. A partire dal
1960 la missione perde nuovamente qualsiasi tipo di funzionalità, lo stato di
incuria in cui era precipitata fu interrotto solo dalla ristrutturazione volta a
trasformarla in sede del Museo del Costume.
Quest’ultimo fu inaugurato il 13 settembre del 2008, un’occasione particolare nella
quale la struttura rimase aperta tre giorni. Dal 2009, invece, il museo è aperto in
maniera costante nei mesi di luglio e agosto, l’ultimo fine settimana di giugno e il
primo di settembre, sempre in orario pomeridiano. La visita, che costa 2,50 euro,
normalmente non è guidata ma il personale all’interno è sempre disponibile per
eventuali precisazioni.
La prima volta che ho visitato il museo sono stata piacevolmente accolta da
Sergio, Silvana e Olimpia Ottonelli, i promotori e gestori della struttura. Sergio
Ottonelli, in particolare, era una persona di grande erudizione conosciuta sul
territorio anche per le sue pubblicazioni sulla storia e la cultura della val Varaita.
L’intero gruppo familiare è attivo nella promozione e valorizzazione del tessuto
culturale locale da più di vent’anni. In passato gli Ottonelli facevano parte di un
gruppo, il Comitato per S. Lorenzo, costituitosi per organizzare la festa patronale
estiva di Chianale. Quest’ultima, come riportato da Silvana, non era un semplice
momento di convivialità, ma dava spazio a manifestazioni culturali di più ampio
219
Le informazioni presenti in questo paragrafo sono tratte da una serie di interviste realizzate a
Olimpia, Silvana e Sergio Ottonelli, in data 30/07/2010, 23/11/2010 e 2/02/2011.
105
respiro. A San Lorenzo, il comitato organizzatore di cui gli Ottonelli erano membri
curava la realizzazione di mostre fotografiche con tematiche incentrate sul
territorio, spesso realizzate grazie all’ausilio di immagini prestate da persone del
paese. Numerose, poi, le pubblicazioni edite dall’associazione, tra cui “Ben minjà
ben begü. Alimentazione e cucina tradizionale a Chianale” e due ricerche sul
costume femminile dell’alta valle Varaita, datate 1982 e 1995. Il Comitato per San
Lorenzo, più in generale, era interessato alla valorizzazione della cultura locale,
passione espressa anche nell’organizzazione del ballo della festa patronale. In
quest’occasione, in modo pionieristico rispetto al resto della valle, venivano invitati
a suonare gruppi di musica occitana.
Anche quando la costituzione del museo era ancora un’idea astratta,
l’associazione acquistava già materiale facente parte del costume tradizionale.
Con questo termine normalmente si indica il vestito utilizzato dalle donne della
Castellata, sul territorio di Bellino, Casteldelfino e Pontechianale, che, più di quello
maschile, si distingueva per la sua peculiarità.
Diverso da quello portato nei territori attigui, l’abito femminile era caratterizzato da
una serie precisa e particolare di indumenti e da un modo specifico di indossare il
grembiule. La chamizo, quasi sempre di tela di canapa, è una camicia con
maniche lunghe che copriva il corpo fino a metà polpaccio. Normalmente non
aveva decorazioni, salvo le iniziali ricamate con un filo rosso e un colletto di
tessuto più fine, a volte di merletto lavorato al tombolo. Quando il colletto non era
presente, si rimediava indossandone uno cucito su una pettorina aperta sui lati.
Sopra la chamizo le donne vestivano lu gunelot, una sottana di lana e canapa,
senza maniche, con scollo “a V”. Questa, in genere chiara, era foderata in basso
con una fascia colorata seguita da una fettuccia. Similmente, anche la scollatura
veniva bordata con un tessuto a colori vivaci, qualche volta delimitato da ricami.
Scura era invece la chamizòlo, il pesante abito di panno normalmente esposto alla
vista. A tronco di cono, esso si distingue per i tre particolari costoloni posteriori e
per i nastri che coprivano l’attaccatura delle maniche. Sopra la chamizòlo veniva
indossato lu muchèt, uno scialle quadrato piegato in modo da formare un triangolo
sulla schiena. L’allacciatura anteriore di tale fazzoletto era coperta dalla pettorina
che si accompagnava al grembiule. Quest’ultimo, lu fuydil, era annodato sotto le
ascelle, appena sopra la curva del seno. Molto particolare è poi la cuffia della
Castellata, sostituita però in tempi recenti con un fazzoletto. Il copricapo si
106
compone di una calotta in organza o in tela fine, di una parte posteriore fittamente
pieghettata e di un tesa che incornicia il viso, lavorata con il tombolo per i giorni
festivi. Completa l’abito tradizionale lu kulét, una monile da allacciare dietro il collo
realizzato con una fettuccia ricoperta da perline di vetro. Da questo primo
elemento si diparte un nastro cui sono fissati in alto un cuore e in basso una
croce, normalmente dorate. Il vestito, così sommariamente descritto, fu indossato
dalle donne della Castellata grosso modo dal Settecento fino agli anni Cinquanta
del secolo scorso. Il passare del tempo ha apportato delle modifiche all’abito,
come già si è detto in relazione alla cuffia. Il vestito utilizzato nella quotidianità,
inoltre, era diverso da quello indossato in occasioni festive, più sfarzoso e
realizzato con materiali pregiati. I termini usati nella descrizione sono quelli diffusi
sul territorio di Chianale, negli altri comuni interessati le singole parti del vestito
potevano avere denominazioni diverse220.
Le fonti iconografiche, non solo la ritrattistica ma anche le fotografie d’epoca,
forniscono
una
documentazione
sul
sistema
vestimentario
che
appare
caratterizzata in termini di genere. L’abbigliamento degli uomini, già a partire dal
secondo Settecento, riflette l’adeguamento alla moda borghese e cittadina,
raccontando così gli effetti della mobilità, della connessione tra montagna e
pianura, dell’emigrazione stagionale, temporanea e maschile. Gli abiti femminili,
per contro, sono quelli tradizionalmente tramandati e rivelano le tipologie locali, le
differenze di vallata o di villaggio, la tenace resistenza dei capi, dei modelli e dei
colori settecenteschi221.
L’esodo stagionale degli uomini ha avuto delle ripercussioni non solo sulle
modalità di abbigliarsi, ma anche sul ruolo della donna all’interno del contesto
sociale. Nelle realtà spopolate per alcuni mesi all’anno dalla controparte maschile,
avveniva una sorta di “femminilizzazione” della vita economica, sociale e
lavorativa. Soprattutto nei territori in cui la migrazione aveva luogo durante
l’estate, le donne si facevano carico sia dei lavori agricoli, sia di quelli relativi
all’alpeggio. A causa di tale fenomeno, la laboriosità femminile è divenuta una
specie di topos della letteratura alpina scientifica e di viaggio. Tuttavia, nonostante
la gravosità del carico di lavoro lasciato dagli emigranti sulle spalle delle donne, i
220
AA. VV., “Froli e sanchet. Il costume femminile in alta valle Varaita”, edizioni del Comitato per S.
Lorenzo (Chianale), Torino, 1995.
221
Gri G.P., “Tessere tela, tessere simboli. Antropologia e storia dell’abbigliamento in area alpina”,
Forum, Udine, 2000.
107
lavori svolti da quest’ultime erano caratterizzati da uno scarso valore economico e
da una bassa considerazione sociale, aspetti per i quali le Alpi non differivano
dalle altre società rurali italiane. Elementi importanti di distinzione si hanno,
invece, per quanto riguarda gli ambiti decisionali di cui godeva la controparte
femminile in assenza di padri, mariti e fratelli. Sulle montagne piemontesi, gli atti
notarili del Settecento e dell’Ottocento documentano la diffusa pratica di delegare
alle donne di famiglia la gestione tanto dei patrimoni fondiari, quanto dei proventi
finanziari della migrazione. Tale ricorso alle autorità amministrative e giudiziarie
implicava per le madri e le mogli la necessità di acquisire una certa dimestichezza
con la scrittura ed il calcolo matematico. Si tratta di una tendenza dimostrata
anche dall’analisi della distribuzione e dello sviluppo dell’alfabetismo femminile, in
rapida crescita sulle montagne a partire dai primi dell’Ottocento.
La maggiore autonomia di cui godevano le donne a causa della migrazione dei
loro padri e mariti non era relativa solo alla gestione della casa, della terra e del
denaro familiare, ma investiva anche altri ambiti di natura tanto privata quanto
pubblica. L’analisi dei testamenti in alcune comunità montane del versante
francese ha permesso di osservare come le donne avessero diritto alla proprietà
della terra e come tali possedimenti facessero parte della loro dote. I mariti, poi,
non potevano sottrarre alle loro mogli né la terra né i beni componenti la dote
stessa. Nelle realtà alpine caratterizzate da una forte emigrazione maschile pare,
inoltre, che ci fosse una minore insistenza sui valori della verginità, della
sottomissione, dell’onore e un giudizio meno rigido sulla maternità delle nubili 222.
Gli inconsueti margini di autonomia delle donne di montagna, non devono indurre
a considerare la condizione femminile paritaria in rapporto a quella maschile. È
necessario, inoltre, sottolineare le profonde disuguaglianze presenti nei paesi e tra
i versanti. Per esempio, è facile immaginare che le donne sposate godessero di
una considerazione differente rispetto a quelle nubili, così come “si può presumere
che la condizione della donna fosse diversa nelle Alpi francesi, dove prevalevano
costumi di divisibilità ereditaria, rispetto alle Alpi austriache dove la proprietà
veniva trasmessa ad un solo erede maschio”223. Tuttavia, le mogli, le sorelle, le
madri che popolavano l’arco alpino occupavano un posto centrale nelle società in
222
Audenino P., Corti P., “Il mondo diviso. Uomini che partono, donne che restano”, in L’Alpe n.4,
giugno 2001.
223
Viazzo P.P., “Alpi: terra di donne?”, in L’Alpe n.4, giugno 2001, pp. 11.
108
cui vivevano ed ebbero la possibilità di sperimentare una forma di gestione della
famiglia, della terra e del denaro del tutto precoce ed estranea al resto della
società preindustriale224.
L’abbigliamento di una comunità è il suo specchio, il suo doppio. Trasmette
informazioni sui valori, sui confini, sulla storia, sulla conformazione interna di una
società. Si tratta di un fenomeno riscontrabile anche nelle Alpi, dove, appunto, le
dissomiglianze di genere relative al modo di abbigliarsi riflettevano i diversi
percorsi di vita di uomini e donne. Queste ultime, in particolare, sembrano essere
legate al costume locale perché meno condizionate da elementi esterni rispetto ai
loro compagni che migravano. È, quindi, dall’abbigliamento femminile che si
distinguono i paesi, le valli, le epoche, è attraverso i vestiti della donne che si
delimitano i confini di una comunità. L’abbigliamento femminile si carica così di
significati profondi: esso diventa una risorsa simbolica che veicola e rivela il senso
di appartenenza al territorio. Il rigido sistema vestimentario tradizionale
contribuisce, pertanto, a creare, tutelare, preservare ed esibire il sentimento di
adesione a una comunità. La ricerca antropologica ha modificato la propria
“cassetta degli attrezzi” in relazione ai significati ed alle funzioni del senso di
appartenenza, inteso non più come un fenomeno di struttura, una realtà oggettiva,
ma come un flusso, una costruzione in continua rielaborazione 225. “I Noinonostante tutti i loro tentativi di reificazione e solidificazione- sono strutture
inevitabilmente aperte, sensibili a ciò che proviene dall’alterità”226. Per costruire le
proprie Forme di Umanità, i soggetti sociali si alimentano delle diversità riscontrate
nel presente di altre società o nel proprio stesso passato 227. Si tratta di un
meccanismo palesato anche dal sistema vestimentario: mentre gli abiti erano
esibiti e sentiti come locali, come caratterizzanti un territorio perché ereditati dagli
antenati, i dettagli, gli ori, i nastri di seta, i bottoni, rimandano a botteghe lontane e
ai collegamenti operati dagli ambulanti 228.
Studi antropologici recenti hanno dimostrato l’esistenza di atteggiamenti femminili
diversi in relazione ai costumi tradizionali: se in certe zone l’aver avuto la forza di
cambiare era mostrata con orgoglio, altrove era il vestito tradizionale a essere
224
Ibidem.
Gri G.P., (op. cit.).
226
Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini A., Costruire il passato. Il dibattito sulle
tradizioni in Africa e in Oceania, Paravia, Torino, 1999, pp. XII.
227
Ivi.
228
Gri G.P., (op. cit.).
225
109
indossato con fierezza. Questo è forse il caso delle donne Ottonelli, una famiglia
che, in generale, mi sembra legata anche affettivamente all’abito tipico dell’alta
valle. Il fatto stesso che il sistema vestimentario fosse stato condiviso dai loro avi,
mi pare abbia orientato l’atteggiamento degli Ottonelli nel presente: come mi ha
confidato Olimpia «Io mi sono sposata in costume, nel vestito da sposa di mia
nonna». Oltre a tale legame di carattere personale, la passione di questa famiglia
per l’abito tradizionale ha altre ragioni. Durante la festa di S. Lorenzo «era
diventata un’abitudine» vestirlo, come mi hanno rivelato Silvana e Olimpia, ma tale
pratica non può essere considerata una manifestazione di tipo folklorico. Chianale
e i suoi abitanti mantengono una relazione particolare con il costume femminile
perché in loco è stato portato quotidianamente da alcune donne fino agli inizi degli
anni Settanta. La piccola borgata al confine con la Francia è stato quindi l’ultimo
paese della valle ad abbandonare tale modalità di abbigliarsi. Questa passione
della famiglia Ottonelli, alimentata in modi diversi, ha quindi dato origine alle
collezioni presenti nel museo, create grazie all’acquisto di capi da privati e
antiquari ma soprattutto all’incanto229.
L’attività di ricerca sull’abbigliamento tradizionale è stata accresciuta negli ultimi
dieci anni quando l’organizzazione della festa di S. Lorenzo è passata alle proloco
e l’obiettivo primo del Comitato è diventato la realizzazione della struttura
museale. Attualmente la collezione è composta da 700 manufatti selezionati e in
buono stato di conservazione, il cui cuore è costituito da abiti femminili. Tutti i beni
sono inseriti in un inventario informatizzato che comprende, per la maggior parte
dei manufatti, anche una fotografia. Silvana difende inoltre l’importanza di un altro
inventario, in formato cartaceo, un vero e proprio quaderno all’interno del quale
vengono annotati gli acquisti, il loro prezzo e la data, le donazioni e il nome di chi
le ha offerte.
L’inventario, così come tutti gli altri aspetti gestionali e organizzativi del museo,
sono curati dalla famiglia Ottonelli, mentre con il resto del Comitato di S. Lorenzo
si realizzano solo sporadiche collaborazioni.
Anche l’allestimento è stato interamente progettato, e in parte realizzato, dagli
Ottonelli. Silvana e Olimpia mi hanno raccontato dell’entusiasmo maturato per
229
Espressione utilizzata per indicare le aste che solitamente seguono le messe proferite in
occasioni particolari. Il ricavato degli acquisti così realizzati viene devoluto alle piccole chiese o
cappelle.
110
l’attività di disposizione degli oggetti e di creazione delle vetrine. «È stata una cosa
molto artigianale e molto appassionante. Ci ha appassionato anche proprio
l’esecuzione materiale. Veder nascere da pezzi di stoffa messi così e vederli
prendere vita… è stata una cosa magnifica». L’esito del lavoro di allestimento ha
interessato una sala articolata su due piani. Quello inferiore si apre con due
strutture autoportanti finalizzate all’esposizione di fotografie. Su una, in particolare,
sono presentate le tavole fotografiche realizzate dal parroco don Luigi Gianotti
all’inizio del Novecento. Si tratta di un fondo molto importante perché il Padre era
l’unico fotografo residente in Chianale ed ha così avuto modo di raccogliere
numerose testimonianze di vita locale. La seconda struttura autoportante espone
fotografie di diversa provenienza attestanti l’infanzia vissuta tra il 1850 e la fine del
secondo conflitto mondiale.
Proprio di fronte all’ingresso della sala una pedana ospita alcuni manichini in legno
ognuno dei quali presenta un capo facente parte dell’abito tradizionale femminile.
In mezzo ad essi un altro manichino totalmente abbigliato documenta il risultato
finale della vestizione. Alle spalle della struttura, dal sottoscala che troneggia al
centro dell’ambiente sono state ricavate alcune vetrine che espongono i vestiti da
sposa più preziosi. Le teche
presenti sul muro perimetrale
contengono
Sampeyre
o
sottane
di
dell’alta
valle
Varaita, cuffie da bambino con
il pizzo in crine di cavallo e
alcuni
preziosi.
monili
discretamente
Importante
per
dimensioni e forma è la vetrina
La vetrina che segue la curva absidale all’interno del
Museo del Costume.
che segue la curva absidale
ricalcandone la linea. Al suo
interno è possibile osservare una serie interessante di cuffie da donna utilizzate
quotidianamente o nei giorni festivi, fazzoletti da spalla o da testa provenienti da
Sampeyre o dai comuni della Castellata ed infine pettorine di diverso tessuto che
venivano cucite o attaccate al grembiule. Altri tre espositori in legno sono poi
situati lungo il percorso di visita al fine di mostrare, rispettivamente, una serie
111
cospicua di nastri, alcuni indumenti da bambino e gli oggetti necessari per la
lavorazione al tombolo. Tanto la parte inferiore di queste teche, realizzata in legno
locale, quanto tutte le vetrine
del piano superiore sono state create
artigianalmente da Sergio Ottonelli. Come da espresso desiderio dei curatori, le
strutture espositive sono di lineare semplicità al fine di non creare contrasto con la
pregevole architettura degli ambienti. Tra di essi, piccolo ma decisamente
suggestivo, coperto con una volta a ombrello, è il vano dell’antica sacrestia,
accessibile dal piano inferiore. Quest’area vuole essere una sala multimediale
all’interno della quale proiettare foto o video.
Parte dell’esposizione presente nel locale al piano superiore documenta la
produzione e l’uso del drap, un particolare tipo di tessuto ottenuto facendo
infeltrire “a freddo” la lana. Vetrine a parte sono poi dedicate tanto alle sottane in
“mezzalana”, una tela realizzata intrecciando lana e canapa, tanto alle calzature di
panno, utilizzate fino ad anni recenti nella stagione fredda. Al piano superiore sono
poi esposte alcune coperte fyasà, tipiche della locale tessitura e realizzate con
l’ausilio di telai molto grossi e appositamente designati.
L’allestimento del Museo del Costume è stato realizzato dalla famiglia Ottonelli
anche grazie ad alcuni finanziamenti: il primo erogato dall’Interreg IIIA Alcotra
Sittalp (€ 12.500), l’altro stanziato dalla Regione Piemonte grazie alla legge
58/1978 (€ 6.000). La restaurazione della Missione Cappuccina, di proprietà della
parrocchia ma in comodato d’uso al Comitato per S. Lorenzo, ha comportato un
impiego importante di mezzi finanziari ed è stato possibile grazie al progetto
museale presente. Il gruppo di fondi maggiormente consistente, infatti, è stato
erogato dall’Unione Europea sulla base di un’iniziativa che destinava fondi per la
ristrutturazione di edifici sede di musei (circa € 380.000 su progetto Interreg IIIA
Alcotra Sittalp). Il primo contributo (£ 3.000.000), invece, è stato stanziato nel
2001 dalla Cassa di Risparmio di Saluzzo per mettere in sicurezza il tetto in lose
della missione. Successivamente, un più ampio intervento realizzato dalla
Comunità Montana Valle Varaita (circa € 32.000), ha permesso il recupero della
loggia situata a sud dell’edificio, la quale si stava progressivamente staccando dal
corpo principale. I contributi regionali ed europei presentano tutti una quota di
cofinanziamento dall’importo variabile.
È sempre l’Unione Europea che ha aiutato il Museo del Costume a realizzare la
sua prima attività didattica. Nell’ambito del Piano Integrato Transfrontaliero
112
Marittime Mercantour, il museo ha ricevuto un fondo da utilizzare per collaborare
con le scuole. Il finanziamento copriva il viaggio, il pranzo ed il pernottamento
degli studenti, l’entrata al museo, il riscaldamento dello stesso e l’impegno dei
gestori. I progetti proposti sono stati accettati da due classi della scuola
elementare di Piasco e da una dell’Istituto d’Arte Bodoni di Saluzzo. Con i ragazzi
più grandi l’attività si è incentrata sull’arte del ricamo realizzato seguendo le
modalità tradizionalmente presenti sul territorio. «Invece per i bambini delle
elementari […] abbiamo preparato delle sagome in cartoncino che dovevano
vestire
con
tutti
i
capi
d’abbigliamento».
Nonostante
qualche
iniziale
preoccupazione Silvana e Olimpia hanno riscontrato l’esito positivo del progetto
«Avevamo molti timori e invece è andata benissimo. […] È stata una cosa
riuscita».
Durante il suo primo anno di apertura, nel corso dei mesi estivi in cui era
accessibile, il Museo del Costume è stato visitato da circa 3.000 persone. Duemila
settecento, invece, gli ingressi registrati l’estate successiva. Si tratta di cifre
consistenti e accertate dal numero di biglietti emessi, regolarmente segnato su un
quaderno interno. A questi visitatori devono però aggiungersi i residenti in
Chianale o coloro i quali, originari del paese, vi ritornano in vacanza. Queste
persone non pagano il prezzo d’ingresso e, quindi, non è possibile stabilirne
l’entità precisa. Si tratta di un gruppo particolare di visitatori con i quali i gestori
sembrano intrattenere un rapporto speciale «La gente del luogo qui entra, è casa
sua. Vogliamo che sia così. Ci sono delle persone, francesi, figli di immigrati, che
hanno la casa qui, che vengono tutti i giorni. Fanno il loro giro, si siedono un
momento, è una cosa che a loro piace da matti. È una cosa magnifica».
Nonostante il successo ottenuto nei primi due anni di apertura gli Ottonelli
continuano ad avere progetti per potenziare la struttura museale. «Volevamo fare
un dvd di presentazione di attività artigianali legate al museo tipo la fabbricazione
dei bottoni, il telaio, la vestizione di una donna, qualche leggenda che riguarda il
filo, la filatura». È sentita la necessità di aumentare la componente multimediale
per meglio sfruttare il vano dell’antica sacrestia e la postazione computer
recentemente acquistata. Altri progetti riguardano, invece, la gestione e
l’esposizione degli oggetti. Gli Ottonelli pensano tanto alla compilazione di una
schedatura dei manufatti, contenente informazioni maggiormente approfondite
rispetto a quelle presenti nell’inventario, quanto alla realizzazione di una nuova
113
vetrina che esponga materiale prezioso di nuova acquisizione. Sergio, in
particolare, riscontrava come le donazioni fossero aumentate dopo l’apertura del
museo: «è stata un’estate magnifica dal punto di vista delle acquisizioni, un colpo
di fortuna dopo l’altro, abbiamo avuto delle donazioni straordinarie, eccezionali,
cose che non avremmo mai pensato». In particolare, proprio il numero delle
donazioni sembra essersi incrementato a causa della visibilità del Museo:
«abbiamo avuto delle donazioni di grande valore perché cominciano a vedere un
punto di riferimento».
4.4 CONTRO LA COLONIZZAZIONE DELL’IMMAGINARIO
A fini esplicativi, vorrei tentare di pensare ai prodotti e alle manifestazioni della
cultura alpina in termini di beni culturali. Questa espressione è entrata di recente a
fare parte del lessico specialistico e viene usata per indicare i componenti
materiali ed immateriali del patrimonio. Introdotta per la prima volta nel 1954 dalla
Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali in caso di guerra, la
dicitura in questione è stata ripresa in Italia un decennio dopo dalla Commissione
Franceschini. Quest’ultima era stata incaricata di formulare proposte per la
salvaguardia del patrimonio storico e artistico, la cui tutela era diventata un
compito della Repubblica previsto anche dalla Costituzione. Rispetto alla
precedente Legge Bottai (1939), il cambiamento intercorso fu notevole: venne
superata una visione dei beni culturali fondata sul concetto del bello, del raro, del
prezioso, per considerarli invece “testimoni di civiltà”. Non soltanto “monumenti”
quindi, ma anche “documenti” in grado di rappresentare i valori di una cultura
indipendentemente dal loro carattere estetico 230.
Secondo Daniele Jalla è possibile riconoscere tre tipologie di beni culturali in area
alpina: i beni tradizionali, le cui caratteristiche non sono fondamentalmente
cambiate da quelle che possedevano in passato; i beni innovati, che hanno invece
subito un processo di mutamento; infine i beni contemporanei, la cui introduzione
è recente e risponde alle esigenze della contemporaneità. Per quanto riguarda i
beni tradizionali, con tale denominazione non vengono indicati quei prodotti o
quelle manifestazioni culturali del tutto esenti da modifiche, in quanto,
230
Jalla D., “La tradizione siamo noi”, in L’Alpe n.9, dicembre 2003.
114
semplicemente, ciò non è possibile. “I centri, le regioni ed i territori precisamente
delimitati non esistono prima dei contatti”231. Con la denominazione in questione,
invece, vengono indicati quei beni la cui qualità e specificità si fonda su un insieme
di ingredienti solo marginalmente modificati dal mutato contesto sociale ed
economico.
Affinché un bene culturale sia identificato come tale è necessario che la sua
qualità e il suo valore siano socialmente riconosciuti. Tale considerazione è figlia
dell’idea di cultura propria di una società e del tempo in cui si muove; si tratta, in
altri termini, di un valore storicamente determinato. Quando un bene è considerato
culturale, esso viene sottoposto a una speciale protezione fisica e giuridica che
varia in relazione al valore assegnato al bene stesso. Quest’ultimo è quindi
sottoposto a un regime di tutela, le cui forme e modalità possono essere
diverse232.
Al fine di tutelare i beni culturali in area alpina è necessario che questa funzione
non si ponga soltanto in termini passivi come “esercizio delle attività dirette ad
individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e
la conservazione”233. Una tutela efficace deve prevedere anche forme di sostegno
e di incentivazione che assicurino vitalità e futuro alle manifestazioni e ai prodotti
culturali presenti sul territorio. È quindi necessario che la tutela si avvicini al
concetto di valorizzazione intesa come “ esercizio delle attività dirette a
promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori
condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso” 234. Per
tutelare-valorizzare il patrimonio culturale alpino è necessario agire anche in
termini economici prendendo in considerazione non soltanto l’offerta ma anche la
domanda. Si tratta di una strategia volta a creare un rapporto nuovo tra collettività
e patrimonio, un rapporto più consapevole del valore della cultura e del suo
impatto sulla vita quotidiana. La sopravvivenza e vitalità del patrimonio culturale
alpino sono legate al fatto di essere o divenire parte di una cultura diffusa e
radicata che risponde ai bisogni, desideri e necessità della contemporaneità 235.
231
Clifford J., “Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX”, Bollati Boringhieri, Torino,
1999.
232
Jalla D., (op. cit.).
233
Art. 3 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
234
Art. 6 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
235
Jalla D., (op. cit.).
115
A mio avviso, le funzioni di tutela e valorizzazione dei beni DEA delineate dal
Codice dei Beni Culturali sono svolte all’interno di alcuni musei etnografici presenti
nell’arco alpino.
La prima istituzione di questo tipo, nella montagna piemontese, nasce a
Coumboscuro, in Valle Grana, nel 1961. L’opera di Sergio Arneodo rientra in una
corrente di museografia spontanea che si sviluppa nell’Italia del centro-nord negli
anni Sessanta-Settanta del Novecento. Si tratta del periodo del cosiddetto boom
economico, la fase di grande sviluppo delle industrie che attirano manodopera
dalle campagne. Mentre queste rapidamente si spopolano, viene abbandonato e
ripudiato lo stile di vita contadino, considerato foriero di miserie in contrasto con la
dimensione del benessere che l’industrializzazione portava con sé. Sono anni
all’insegna della dimenticanza, è forte il desiderio di “perdere ciò che ci portiamo
dietro”, “l’odore di vacca e di stalla”. In quel periodo mondi sicuramente di
sofferenza, povertà e miseria, ma anche di competenze e di saperi vengono
cancellati, si vogliono dimenticare236. La museografia spontanea nasce come
risposta a tale tendenza all’oblio, come “coscienza del prezzo pagato per il
passaggio ad una vita migliore”237. Creati in stretto rapporto con i rigattieri e le
discariche di colpo piene di oggetti del mondo contadino, i primi musei etnografici
cercano di “trovare l’ordine smarrito delle cose” 238. La raccolta di manufatti diventa
importante per fissare la memoria in un’immagine meno turbinosa del passato e in
situazioni, come quella dell’arco alpino occidentale, caratterizzate da una forte
diaspora, essi contribuiscono a mantenere nel luogo di origine un centro
simbolico.
Alcuni musei della montagna cuneese corrispondono a questo modello di genesi.
Si tratta, a mio avviso, delle istituzioni più antiche presenti sul territorio o di quelle
gestite e create da persone ancorate a una visione nostalgica del passato. Come
sottolineato in precedenza, numerose pubblicazioni239 mostrano la crescita
esponenziale di musei etnografici in Piemonte e in area montana. Nonostante le
caratteristiche che accomunano queste realtà e che sono chiaramente percepibili
236
Clemente P., “La poubelle agréée : oggetti, memoria e musei del mondo contadino” in Parole
Chiave 9. La memoria e le cose, Donzelli, Roma, 1996.
237
Cirese A. M., “Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine”, Einaudi, Torino, 1977.
238
Clemente P., (op. cit.).
239
Cito due esempi: Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei
in Piemonte e Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009 e Bravo G.L., “Feste, masche,
contadini: racconto storico- etnografico sul basso Piemonte”, Carocci, Roma, 2005.
116
anche dopo una prima visita, altrettante sono le differenze rilevabili. I musei
etnografici presentano delle diversità nel modo in cui sono gestite, studiate,
analizzate le collezioni; nell’allestimento stesso e nel rapporto con le moderne
tecniche espositive; nei programmi rivolti ai visitatori così come nel coinvolgimento
delle comunità locali. La definizione stessa di museo etnografico sembra aver
subito una dilatazione, una contorsione fino a comprendere al suo interno
fenomeni molto diversi accomunati solo da “somiglianze di famiglia” 240.
In tale mosaico di complessità e di varietà mi è parso di cogliere una tendenza
recente ascrivibile ad alcune aree montane di particolare fervore creativo. Tra
queste zone alpine attente al contesto culturale locale mi sentirei di includere
anche la val Varaita. Se spostiamo l’attenzione dalle collezioni ai protagonisti,
dagli oggetti e tecniche espositive a coloro che hanno fondato i musei, emergono
dinamiche interessanti.
I curatori delle realtà etnografiche varaitine fanno parte di categorie professionali
diverse, tra di loro vi sono studenti, insegnanti, artigiani, architetti, commercianti e
anche qualche pensionato. Il lavoro svolto dai miei informatori e le loro esperienze
di vita li ha messi in contatto con le strutture sociali contemporanee, ambiti in cui
essi appaiono attivi e dinamici. I gestori delle realtà etnografiche con le quali sono
entrata in contatto non sono persone chiuse, immerse in un passato rurale. Essi
sembrano interagire in modo particolare con tale dimensione temporale: in valle gli
anni de “Il mondo dei vinti”241 sono lontani, il passato non è più fonte di imbarazzo
o di vergogna, né si guarda ad esso con nostalgia. I musei non nascono più come
contraltare di una generale tendenza all’oblio ma sembrano ancorarsi in un
contesto in cui pare sorpassato il “complesso di subalternità nei confronti della
civiltà urbana” così ben teorizzato da Camanni 242.
Con il passato, infatti, è necessario avere un rapporto organico in quanto al suo
interno si trovano le fonti del sentimento di appartenenza, i fondamenti di ciò che
riteniamo dovere essere. Il passato deve essere individuato, selezionato e
riconfermato, perderlo è un rischio perché mina le basi della rivendicazione
identitaria.
Quest’ultima
tuttavia
può
essere
preclusa
da
un
eccessivo
avvicinamento a tale dimensione temporale, dalla quale è quindi necessario,
240
Wittgenstein L., “Ricerche filosofiche”,Einaudi, Torino, 1983.
Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002.
242
Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
241
117
contemporaneamente, allontanarsi. Il passato, tuttavia, non è una dimensione
oggettivamente data e definita, il colonialismo ha dimostrato come, per quei popoli
che l’hanno subito, si sia creata la necessità non solo di ripristinare un rapporto
con il passato, ma anche di sceglierne uno. Proprio l’esperienza delle devastazioni
coloniali ha dato prova dell’esistenza di una pluralità di passati i quali attendono di
essere rintracciati e immaginati per porsi come ispiratori e fautori del senso di
appartenenza a un contesto culturale e sociale. Tuttavia non esistono dei passati
preconfezionati, al contrario questi sono oggetto non soltanto di scelta, ma anche
di costruzione. Tutte queste caratteristiche, la discontinuità, la molteplicità, la
capacità di essere oggetto di selezione, rappresentazione, costruzione ed anche
di reificazione, spostano l’attenzione dal passato al presente. È a partire da un
presente, da un Noi in un presente che un certo passato prende corpo e si
costruisce una storia. Le due dimensioni così indicate hanno quindi un rapporto
bidirezionale: le caratteristiche, le necessità del presente costruiscono il passato;
quest’ultimo, così delineato, ispira il presente nella sua inevitabile progettualità di
futuro243.
Attraverso le loro esposizioni e attività, a mio modo di vedere, i musei etnografici
varaitini sviluppano un tipo di rapporto organico con il passato. Come è chiaro, i
modelli socio culturali degli avi non vengono più riproposti nel presente, tuttavia da
essi si attinge per agire nella contemporaneità. La rivalutazione di un passato
scelto e selezionato è l’assunto di partenza per vivere nell’oggi, per affermarsi
come presenza culturale. Il rapporto così definito con tale dimensione temporale si
accompagna alla risemantizzazione del contesto culturale in cui sorgono i musei.
Le realtà etnografiche, infatti, si fanno portatrici di un processo di individuazione e
definizione dei beni DEA presenti sul territorio, in un’ottica di tutela e
valorizzazione del patrimonio culturale così delineato.
Attraverso i processi di rivalutazione del passato e di ridefinizione della
dimensione culturale locale, i musei di valle e i loro curatori si fanno portatori di
una nuova visione della Forma di Umanità244 abitante lo spazio alpino. Questo
243
Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito
sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino, 1999.
244
Espressione utilizzata dal Professor Remotti in Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini
A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino,
1999.
118
fenomeno, al quale mi piace pensare in termini di antropopoiesi 245, è anche una
scelta ideologica che, a mio avviso si articola in due componenti. In val Varaita,
come è chiaro, non è presente una totale adesione né ai modelli considerati
tradizionali, derivati dal passato, né a quelli urbani. Secondo Valentina Porcallana
è possibile parlare di colonizzazione dello spazio alpino da parte della città. Le
popolazioni di montagna subirono la presenza massiccia di un altro gruppo
umano, sperimentarono l’imposizione di una diversa dimensione della temporalità
e della spazialità, cui fece da contraltare la frantumazione culturale, la perdita del
senso di sé e del proprio ruolo sociale246. Un fenomeno analogo è stato riscontrato
anche da Camanni. Il complesso di subalternità nei confronti della civiltà urbana
teorizzato
dall’autore
presuppone
una
“colonizzazione
dell’immaginario” 247
finalizzata a uniformare il contesto culturale ed economico alpino a modelli
cittadini. Attualmente però sul territorio mi è parso di cogliere se non un rifiuto
dello stile di vita e dei modelli di consumo urbani, sicuramente la necessità di
adattarli al territorio. A più voci, inoltre, viene criticata quella modernità paventata
dai modelli urbani, la quale non si è dimostrata foriera del benessere che pareva
promettere. La modernità, per essere tale, prende le distanze da qualsiasi tipo di
cultura e tradizione. Essa ha la pretesa di essere non una Forma di Umanità tra le
tante, ma l’unica possibile e corretta. Tale concezione si radica nell’idea propria
della modernità di basarsi sulla conoscenza della natura, una conoscenza che le
245
Secondo Francesco Remotti, l’essere umano modella costantemente società e cultura perché
tramite tale fenomeno egli plasma se stesso ed ottiene il completamento di cui ha bisogno. In
antropologia culturale, Clifford Geerz riprende il tema dell’uomo come animale “difettoso”,
“incompiuto”, incapace di sopravvivere facendo affidamento sulle sole caratteristiche biologiche. La
cultura interviene a colmare le lacune intrinseche la specie umana e diviene quindi strumento
necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Come sostiene Herder, l’apparato culturale è una
seconda genesi dell’uomo che dura tutta la vita. La cultura ha quindi un compito antropogenetico
irrinunciabile ma anche continuo, incessante ed inevitabilmente arbitrario e contingente. La
prospettiva antropogenetica, tuttavia, rifiuta qualsiasi forma di determinismo culturale perché non
reifica società e cultura. Queste non sono entità indipendenti rispetto alle persone, al contrario
esse sono delle creazioni dell’uomo, attraverso le quali egli plasma se stesso. L’antropogenesi
assume quindi le caratteristiche anche di antropopoiesi.
Secondo tale prospettiva, l’essere umano è dotato di un certo grado di libertà nel momento in cui
costruisce se stesso. Tale forma di autodeterminazione si traduce anche in una mancanza di
modelli fissi, di forme di umanità cui attingere. Il processo di antropopoiesi è quindi assolutamente
arbitrario ma ammettere questa caratteristica significherebbe indebolirne l’efficacia. Al fine di
evitare tale delegittimazione si dotano i modelli di umanità di indipendenza e autonomia,
rinnegando la libertà di scelta e considerandoli un’imposizione di “altri”, come gli antenati o gli
spiriti.
246
Porcellana V., “Il paese dove le galline beccano le stelle. Riflessioni antropologiche sul mondo
alpino contemporaneo”, in Giordano E., Delfino L., Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità,
Priuli & Verlucca, Torino, 2009.
247
Gruzinski S., “La colonizzazione dell’immaginario. Società indigene e occidentalizzazione nel
Messico spagnolo”, Einaudi, Torino, 1994.
119
permetterebbe di svelare e far conoscere al mondo le strutture naturali
dell’umanità. Espandendosi la modernità ha distrutto le peculiarità locali che
incontrava sul suo cammino senza poter realizzare strategie differenti in quanto la
Forma di Umanità che propone non permette diversità248.
A mio modo di vedere, le politiche di patrimonializzazione condotte dai curatori
dei musei etnografici varaitini si fanno portatrici di questo particolare rapporto sia
con la modernità, sia con quegli aspetti della propria cultura percepiti come
tradizionali. Il contatto con l’alterità, intesa tanto in senso spaziale e sincronico,
tanto in senso temporale e diacronico, fornisce piuttosto una serie di elementi che
vengono reinterpretati, deviati in circoli interpretativi impregnati di località, fino a
considerarli facenti parte del proprio essere Umanità nel presente 249.
I curatori delle realtà etnografiche di valle possono essere descritti come dei
montanari “per scelta”250, mi pare che essi sviluppino “un’alpinità progettata”251,
fatta di amore per il territorio e di attività concrete per rendere dinamico e creativo
il contesto culturale locale. Una parte di queste persone, come Fabrizio Dovo,
Ilaria Peyracchia e il compianto Sergio Ottonelli, similmente ai passeurs culturels
d’oltreoceano descritti da Adriano Favole e Matteo Aria 252, si sono formati in
contesti diversi da quelli di origine. Il loro ritorno sulle montagne si è concretizzato
in un processo di “rivalorizzazione di luoghi, memorie e tradizioni” 253 anche
attraverso saperi imparati in contesti diversi. Alcuni fondatori delle realtà
etnografiche alpine, tra cui mi pare di poter annoverare parte dell’associazione
“Jer à la Vilo”, la famiglia Ottonelli e di nuovo Ilaria Peyracchia, ha invece scelto di
abitare la montagna. Tale decisione non appare sempre indolore perché sono
ancora numerose le difficoltà connesse alla mancanza dei servizi essenziali, agli
spostamenti non agevoli, e alla penuria di lavoro. Queste persone cominciano a
parlare della loro scelta come “eticamente”, “politicamente”, “ecologicamente”
corretta, oppure, più semplicemente ma in modo altrettanto esplicativo, come una
scelta di affezione, nonostante le difficoltà dell’isolamento e della solitudine. Sul
campo parrebbe essere percepibile non più una dinamica di spopolamento, ma di
248
Remotti F., “Prima lezione di antropologia”, Laterza, Bari, 2000.
Remotti F., (op. cit.), 1999.
250
Camanni E., (op. cit.).
251
Espressione ripresa dall’intervento di Giuseppe Dematteis al Primo Forum sul Patrimonio
culturale nell’ambito del Piano Integrato Transfrontaliero PNM/PNAM.
252
Aria M., Favole A., “Passeurs culturels. Patrimonializzazione condivisa, creatività culturale
nell’Oceania francofona”, articolo di prossima pubblicazione.
253
Ibidem.
249
120
sottopopolamento, tale per cui coloro che vivono l’arco alpino non guardano con
nostalgia al passato o con invidia all’area urbana, ma ragionano in termini concreti
per creare le possibilità di continuare a vivere il territorio.
121
CONCLUSIONE
I paragrafi che chiudono i capitoli della tesi trattano di quello che Daniele Jalla
definisce “il sistema di regole proprio di un museo”. Ognuno di essi, quindi,
affronta rispettivamente la sede, le collezioni, il pubblico e i protagonisti delle
realtà etnografiche varaitine. Rispetto ai paragrafi precedenti, che si caratterizzano
per essere incentrati su un museo specifico e sul suo territorio, quelli conclusivi
tentano un’analisi comparativa delle strutture e sviluppano riflessioni di carattere
generale. In conclusione vorrei riprendere quanto detto in queste sezioni per
fornire un quadro d’insieme del mio lavoro.
In relazione alla sede dei musei etnografici varaitini, quasi tutte le realtà con le
quali sono entrata in contatto sono ubicate in edifici di grande pregio
architettonico. Il Museo Storico-Etnografico di Sampeyre si trova in un’antica casa
nobiliare mentre risalgono al Settecento il fienile che ospita il Museo del Mobile,
l’abitazione che accoglie il Museo del Tempo e delle Meridiane, il convento
cappuccino che è sede del Museo del Costume di Chianale. Oltre all’intrinseco
valore storico-artistico di queste strutture, ciò che a mio avviso è veramente
interessante è il fatto che esse siano in montagna. Dare una definizione di tale
territorio è un atto tutt’altro che scontato, nonostante esso si imponga allo sguardo
nella sua materialità tangibile fatta di roccia, neve, boschi, prati, strade e
insediamenti. Nel suo libro “Le Alpi”, Bätzing dimostra chiaramente come sia
possibile dare una definizione diversa dello spazio alpino a seconda del soggetto
interpellato: le scienze naturali, i turisti, gli agricoltori, i geografi, la Convenzione
delle Alpi e l’Unione Europea forniscono tutti una loro interpretazione diversa della
montagna254. La materialità così tangibile delle Alpi, quindi, non rende affatto
univoche le idee che associamo loro.
Quando sono partita per il campo avevo anch’io la mia “idea” di montagna. Quello
che mi aspettavo di trovare era una valle completamente spopolata, con gravi
difficoltà economiche e, di conseguenza, anche priva di creatività culturale.
Questa interpretazione era dettata da una serie di letture come Nuto Revelli 255 e lo
stesso Bätzing. In effetti la val Varaita, come sostengono gli autori ma anche
254
255
Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002.
122
alcune mie persone risorsa, è caratterizzata da una grave decrescita demografica
e da una serie di problematiche nel tessuto economico. La conclusione a cui ero
giunta, ovvero la mancanza di progettualità, di dinamicità in ambito culturale, era,
invece, errata.
Le Alpi cuneesi, salvo qualche eccezione256, non sono state fortemente
condizionate dal decentramento industriale e dal turismo di massa che ha
interessato altri territori montani. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento al
presente, arco temporale preso in considerazione da Bätzing, esse sono state
caratterizzate da una perdita di popolazione dai toni drammatici. I settori
economici tradizionali, infatti, sono andati in crisi e non sono stati efficacemente
sostituiti con attività diverse257. Coloro che abitavano la montagna cuneese hanno
cominciato a cercare fortuna altrove: in Francia, seguendo percorsi già tracciati
dalla migrazione temporanea dei loro avi, o in pianura, dove nella seconda metà
del Novecento fabbriche come la Michelin di Cuneo e la Fiat di Torino, hanno
cominciato ad attirare mano d’opera. La val Varaita rientra in questa casistica: nel
periodo indicato, tutti i Comuni sopra i cinquecento metri hanno subito una
decrescita demografica sconcertante, con valori compresi tra il -91% di Valmala e
Isasca e il -80% di Sampeyre258. Anche in questa porzione di arco alpino, lo
spopolamento e le problematiche nel tessuto economico si manifestavano in
parallelo, influenzandosi a vicenda.
Nonostante lo spopolamento e le difficoltà economiche, la valorizzazione del
patrimonio culturale locale è sempre stata molto attiva. Si tratta di un fenomeno
osservabile, a mio avviso, in un arco di tempo più vicino ai giorni nostri: quello che
va dagli anni Settanta al presente. In questo periodo, in val Varaita, sono state
realizzate numerose pubblicazioni, alcuni filmati, diversi restauri di elementi
architettonici di pregio e di interesse antropologico, sono state proposte feste
nuove e si sono mantenute quelle tradizionali, viene coltivata la musica occitana e
sono editi due periodici che trattano temi strettamente legati al territorio. Gli attori
di queste proposte hanno età differenti e non mancano ragazzi anche molto
giovani. L’arco temporale preso in considerazione, tuttavia, non è stato omogeneo
in quanto a progettualità realizzate. Negli anni Sessanta e Settanta, infatti,
256
Mi riferisco alla valle Vermenagna e a Limone Piemonte, meta sciistica piuttosto nota.
Bätzing W., (op. cit.).
258
www.istat.it
257
123
l’attenzione alla lingua e alla cultura occitana era più marcata, come dimostra la
nascita di numerose associazioni, anche a carattere politico, create all’epoca per
tutelare questa particolare specificità culturale della valle. Con il tempo mi pare
che tale interesse sia in parte scemato a favore di altre progettualità come, ad
esempio, la riproposta di alcune feste e la realizzazione di musei etnografici. Si
tratta di realtà che sembrano dialogare in modo privilegiato con l’arco alpino
cuneese se si pensa che sul territorio il 67% dei Comuni sopra i 700 metri di
altitudine possiede un museo di questo tipo. La percentuale sale a quote molto
vicine al 100% intorno ai mille metri sopra il livello del mare.
I primi musei etnografici delle valli cuneesi sono stati istituiti negli anni Settanta del
Novecento. Si tratta di realtà che mi pare possano rientrare in quella corrente di
museografia spontanea che nasce all’incirca nello stesso periodo nell’Italia
centrosettentrionale. All’epoca, lo sviluppo industriale e i posti di lavoro che esso
offriva assorbirono mano d’opera dalle campagne. Il boom economico, la
“modernità”, prometteva il benessere e proponeva uno stile di vita in netto
contrasto con quello contadino. Mentre la campagna si spopolava, mentre si
abbandonava un mondo di sofferenze e miserie, si perdevano anche i saperi e le
competenze che comportava l’abitare in quei territori. Il passato contadino
diventava fonte di vergogna ed era forte il desiderio di dimenticarlo, di cancellarlo.
Gli oggetti che facevano parte di questa realtà venivano gettati via, ed è proprio
dall’immondizia, dai rigattieri che i primi musei etnografici attinsero per formare le
loro collezioni259. Essi nascevano in contrasto con questa tendenza all’oblio, per
costruire la memoria di un mondo che stava scomparendo. La raccolta di oggetti
diventava lo strumento principe per mantenere vivo il ricordo, per raccontare la
storia di un territorio260. Mi pare che i primi musei etnografici di montagna nascano
con delle finalità e in un contesto molto simili. I modelli culturali urbani, con i quali i
montanari entrarono in contatto a seguito della colonizzazione dello spazio alpino
e della migrazione, generarono un sentimento di inadeguatezza e di vergogna per
le proprie origini261. Anche in montagna, quindi, le prime realtà etnografiche
facevano da contraltare al desiderio di dimenticare il passato e anzi sono state
costruite proprio per alimentarne il ricordo.
259
Rappresentativo, in tal senso, è il lavoro svolto da Ettore Guatelli a Ozzano Taro (PR)
Clemente P., “La poubelle agrée: oggetti, memoria e musei del mondo contadino”, in Parole
Chiave n. 9 La memoria e le cose, Donzelli, Roma, 1996.
261
Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
260
124
Tuttavia, solo una parte limitata dei musei etnografici alpini nascono negli anni
Settanta e possono corrispondere al modello di genesi indicato. In val Varaita, ad
esempio, soltanto la realtà sampeyrese affonda le sue radici in quel periodo,
anche se si costituisce concretamente come tale un decennio dopo. Numerosi
studi, infatti, testimoniano la crescita esponenziale di musei etnografici che si è
avuta in Piemonte e nell’arco alpino regionale negli ultimi trent’anni 262. Il caso della
val Varaita testimonia questa tendenza in quanto tre dei suoi cinque musei sono
stati istituiti a partire dal 2000. Le realtà varaitine più recenti si ancorano in un
contesto molto diverso, che guarda con orgoglio alle proprie origini e che tutela e
valorizza in modo consapevole il proprio patrimonio culturale.
Rispetto ai musei etnografici nati negli anni Settanta, quelli più recenti presentano
delle differenze anche nelle modalità con cui si sono formate le collezioni. Ad
eccezione di Sampeyre, infatti, che ha salvato dall’immondizia alcuni dei suoi
oggetti, tutte le altre realtà etnografiche varaitine hanno comprato o preso in
prestito i beni che espongono. Anzi, mi pare di poter affermare che la
maggioranza delle collezioni locali si siano formate proprio grazie alla donazione o
al prestito dei manufatti. Con il passare del tempo e l’aumentare dei musei, il
rapporto privilegiato con i rigattieri è stato sostituito dalla stretta relazione con gli
abitanti del paese. Le scelte espositive locali, in molti casi, sono il frutto di questo
rapporto particolare. I curatori dei musei con i quali sono entrata in contatto, infatti,
hanno più volte sottolineato la volontà di esporre tutto quello che veniva loro
donato. Questa modalità allestitiva è finalizzata a coinvolgere la popolazione
locale e a sviluppare un sentimento di affezione nei confronti della struttura, ma
viene vista anche come una sorta di “ritorno” del contributo dato alla costruzione
della collezione e quindi del museo.
Visitando le realtà etnografiche di valle risulta subito evidente come gli oggetti
siano il fulcro delle esposizioni locali. La mancata attenzione al patrimonio
immateriale può essere spiegata facendo riferimento al rapporto particolare
instaurato con coloro che hanno donato i manufatti ma, a mio avviso, si tratta di un
fenomeno causato anche da altre motivazioni. In alcuni casi, infatti, quando i
curatori dei musei sono anche i fautori della collezione, essi assumono le
262
Cito due esempi: Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei
in Piemonte e Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009 e Bravo G.L., “Feste, masche,
contadini: racconto storico- etnografico sul basso Piemonte”, Carocci, Roma, 2005.
125
caratteristiche proprie del collezionista. Questi vedono negli oggetti “qualcosa di
più e di altro” rispetto ai semplici proprietari, i manufatti sono svuotati delle loro
relazioni funzionali per essere considerati portatori di significati diversi. Questa
sorta di fascinazione che i collezionisti subiscono nei confronti degli oggetti, li
spinge a desiderarli e contemplarli in quanto tali, indipendentemente dal fatto che
essi siano stati ricercati per far parte di un museo 263.
Se i beni materiali godono di così tanta considerazione all’interno delle realtà
etnografiche della val Varaita è anche perché essi fanno parte di una politica della
memoria volta a rivalutare il passato. Gli oggetti sono visti come lo strumento
privilegiato per trasmettere il rinnovato orgoglio con cui si guarda al contesto
culturale degli avi. I manufatti sono dei semiofori, dei portatori di significato264
perché raccontano la storia di un territorio in cui le origini montanare non sono più
fonte di vergogna, in cui il complesso di subalternità nei confronti della società
urbana265 è ormai sorpassato. I beni esposti, a mio avviso, praticano una nostalgia
aperta266 che non guarda con rimpianto ad un passato perduto, ma che da esso
attinge per interpretare il presente e per agire nella contemporaneità. Le realtà
museali, infatti, oltre alle modalità espositive indicate prima, propongono una serie
di attività sul territorio davvero consistenti. La realizzazione di dvd, pubblicazioni,
mostre, conferenze, restauri, solo per citare qualche esempio, non sono eventi
scontati in un contesto caratterizzato da problematiche di tipo demografico ed
economico. La rivalutazione del passato, anche grazie agli oggetti che ne
facevano parte, è l’assunto di partenza per presentare progetti che animano il
tessuto culturale locale. Queste attività fanno dei musei etnografici dei luoghi di
dinamicità e di creatività, dei centri di risorse per il territorio.
L’importanza di veicolare la memoria del paese determina anche il rapporto
instaurato con i visitatori delle realtà etnografiche varaitine. Incrociando le stime
relative al numero di residenti, delle seconde case e dei villeggianti estivi267,
emerge come questi musei siano piuttosto frequentati durante il loro periodo di
apertura. Tuttavia, sarebbe poco corretto non sottolineare come gran parte dei
263
Benjamin W., “Parigi capitale del XIX secolo: i passages di Parigi”, Einaudi, Torino, 1986.
Pomian K., “Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi- Venezia XVI- XVII secolo”, Il Saggiatore,
Milano, 1997.
265
Camanni E., (op. cit.).
266
Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009.
267
Dati desunti grazie alla collaborazione dei Comuni con i quali sono entrata in contatto e dal sito
www.regione.piemonte.it
264
126
visitatori siano i turisti che si recano sul territorio nella bella stagione. Le cifre
molto elevate presenti in qualche caso non possono essere state raggiunte solo
con i residenti o con gli abitanti delle seconde case, anche nel caso in cui
avessero ripetuto l’ingresso. Il numero di abitanti, del resto, è talmente esiguo da
non permettere di tenere aperte le strutture durante l’inverno. Lo sfruttamento
della risorsa turistica, inteso non solo in termini di intrattenimento dei villeggianti,
ma anche come proposta di un turismo lento e attento alle caratteristiche del
territorio, non sembra rientrare nella missione dei musei varaitini. I curatori,
sebbene compiaciuti dall’interesse sollevato in persone che non popolano la valle,
hanno come fine la conservazione della memoria del paese. Essi sembrano quindi
più attenti al riscontro con il contesto locale e con coloro che hanno donato gli
oggetti piuttosto che con i turisti estivi.
Anche dal rapporto con il pubblico emerge, quindi, il legame con il territorio e il
desiderio di rivalutarne e ricordarne il passato. Queste caratteristiche, come già
detto, sono però proiettate nella contemporaneità. Le politiche della memoria
condotte dai musei con i quali sono entrata in contatto si fanno portatrici di un
processo di individuazione dei beni culturali presenti sul territorio. Sono i curatori,
le associazioni che gestiscono le realtà etnografiche, che sottolineano e
rivendicano la rilevanza culturale dei mobili, dei vestiti tradizionali, delle meridiane,
dei piloni votivi. Con le loro attività e le loro scelte espositive, i musei etnografici di
valle
costruiscono
di
fatto
il
patrimonio
locale.
Queste
pratiche
di
patrimonializzazione rappresentano un’ulteriore modalità di azione nel presente
alpino, un altro modo per agire nella contemporaneità.
La selezione e rivendicazione del patrimonio può essere considerata come il
tentativo di dare forma ai gruppi sociali. “Avere” una cultura, possedere e
valorizzare i beni culturali del territorio, contribuisce a reificare la storia e l’identità
di un popolo268. Se esiste un legame tra un soggetto e le cose che possiede
perché queste contribuiscono a definire l’individuo, allora il patrimonio diventa
l’essenza stessa di un Noi, contribuisce a determinare le Forme di Umanità.
Tuttavia, non è sufficiente avere una cultura e una storia, le affermazioni di
268
Maffi I. (a cura di), “Introduzione”, in Antropologia anno 6 n.7, Meltemi, Roma, 2006.
127
proprietà da parte di una collettività devono essere riconosciute da altri 269. Le
strategie atte a definire i beni culturali, quindi, possono avere delle implicazioni di
carattere politico ed essere la posta in gioco in relazioni di potere più o meno
asimmetriche270. La pratica museologica si inscrive in queste dinamiche in quanto
essere rappresentati in un museo, avere la possibilità di mostrare il proprio
patrimonio culturale in una di queste strutture, significa essere riconosciuti come
presenza culturale271.
L’attenzione che gli oggetti godono nelle scelte espositive dei musei etnografici
varaitini, può forse essere pensata come il tentativo di delineare dei beni culturali
che contribuiscano a definire l’essere “montanaro” nel presente. Il patrimonio così
selezionato dà forma ai gruppi sociali locali in un tentativo di resistere alla “crisi
della presenza”272 riscontrabile in valle. Se le realtà etnografiche varaitine possono
essere considerate dei centri di risorse per il territorio, dei luoghi in cui si vive il
presente della montagna, è anche perché, attraverso le loro pratiche di
patrimonializzazione, sono un tentativo di reazione alla marginalità non solo
economica, ma anche culturale che caratterizza questa parte di Alpi piemontesi273.
Se spostiamo l’attenzione dalle collezioni ai protagonisti, dalle modalità con cui
sono esposti gli oggetti a coloro che hanno creato e animano i musei etnografici di
valle, emerge un altro fenomeno interessante. Queste persone fanno parte di
categorie professionali diverse: vi sono insegnanti, impiegati, artigiani, studenti,
commercianti e anche alcuni pensionati. Ciò che accomuna i curatori è l’interesse
per il patrimonio culturale locale e lo sviluppo di progettualità atte a valorizzarlo
anche all’esterno dell’ambito museale. Le associazioni che gestiscono le realtà
etnografiche, infatti, spesso sono attive anche in eventi e manifestazioni che non
riguardano direttamente il museo. Un caso emblematico è quello di Casteldelfino:
il gruppo “Jer à la Vilo” ha realizzato due dvd, altrettante pubblicazioni, un paio di
mostre e alcuni restauri, per citare solo qualche esempio, senza coinvolgere
direttamente la struttura che gestisce. Anche una recente esposizione temporanea
269
Handler R., “Avere una cultura. Nazionalismo e preservazione del patrimoine del Quebec”, in
Stocking jr. G. W. Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Ei Editore, Roma,
2000.
270
Maffi I., (op. cit.).
271
Alpers S., “Il museo come modo di vedere”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in
mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995.
272
De Martino E., “La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi,
Torino, 1977.
273
Camanni E., (op. cit.).
128
è stata allestita altrove: all’interno della chiesa di Sant’Eusebio che era stata
ristrutturata grazie all’interessamento dell’associazione. Il Museo del Mobile di
Pontechianale fornisce un altro esempio interessante del coinvolgimento dei
gestori in attività culturali che esulano da quelle realizzate con la realtà
etnografica. Celeste Ruà ed Enrica Paseri, infatti, animano le feste locali
proponendo brani di musica popolare che lui suona e lei canta.
La volontà di partecipare a eventi culturali differenti è un fenomeno molto
interessante. Le attività realizzate dai musei e, in parallelo, quelle portate avanti in
occasioni diverse dai loro gestori, fanno pensare a una montagna creativa, che
cerca di vivere la contemporaneità senza farsi vincere dalle difficoltà che essa
porta con sé. I musei etnografici varaitini possono essere considerati dei centri di
risorse per il territorio anche a causa della dinamicità delle persone che li
gestiscono. Queste ultime, a mio avviso, si fanno portatrici di una diversa visione
del Noi abitante lo spazio alpino.
Il delinearsi di una nuova Forma di Umanità, un fenomeno al quale mi piace
pensare in termini di antropopoiesi, si manifesta attraverso l’opera di queste
persone sul territorio. I musei etnografici varaitini, come già detto, attraverso le
loro scelte allestitive e le loro progettualità, definiscono il patrimonio culturale
locale. Questo processo di patrimonializzazione mi sembra che emerga anche
dalle attività realizzate in altri contesti dai loro curatori. L’identificazione del
patrimonio locale può essere pensata come un tentativo di costruzione del proprio
universo culturale e sociale. La scelta di animare il territorio con mostre,
conferenze, pubblicazioni, dvd, restauri ma anche con la musica e le feste, tutte
attività nelle quali i musei o i loro gestori sono coinvolti a vario titolo, è dettata e
risponde ad esigenze locali. Le attività realizzate non sono state proposte nel
tentativo di incrementare l’appeal turistico dell’area e anche laddove questa
dimensione sia presa in considerazione e apprezzata, essa non nega il carattere
principale di queste manifestazioni: incrementare la vivibilità locale, lottare contro
la “crisi della presenza”274.
La creazione della dimensione culturale implica un processo di allontanamento e
contemporaneamente di avvicinamento al passato. Questo deve essere
selezionato e riconfermato perché attraverso di esso si gettano le basi per la
274
De Martino E., “La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi,
Torino, 1977.
129
rivendicazione identitaria e si formula il senso di appartenenza a un luogo e a una
cultura. Tuttavia il passato non è una dimensione oggettivamente data, al contrario
esso è discontinuo, molteplice, può essere oggetto di selezione, rappresentazione,
costruzione e reificazione. Si tratta di una serie di caratteristiche che spostano
l’attenzione alla dimensione contemporanea: è a partire da un Noi in un presente
che un passato si delinea come tale. Se le necessità del presente costruiscono il
passato, quest’ultimo, così creato, ispira il presente nella sua progettualità di
futuro275. Tale particolare rapporto con questa dimensione temporale è visibile non
solo, come detto precedentemente, nella gestione delle collezioni museali, ma
anche nelle attività svolte parallelamente dai gestori delle realtà etnografiche. I
musei varaitini guardano con orgoglio al proprio passato, in esso vi trovano i
fondamenti delle loro particolarità culturali, ma questa riflessione non conduce al
rimpianto di una dimensione perduta, è piuttosto la base per agire nel presente.
La rivalutazione di un passato scelto, selezionato e delineato per ispirare il
presente, a mio avviso, è l’assunto di partenza anche per criticare la “modernità”.
La costruzione di una Forma di Umanità è un processo ideologico che si articola in
due componenti. In val Varaita mi è parso di cogliere la necessità di adattare al
territorio i modelli culturali urbani importati a seguito di quella che Valentina
Porcellana definisce la colonizzazione dello spazio alpino 276. Anche la modernità
da essi paventata, che distrugge le peculiarità locali e prende le distanze da
qualsiasi tipo di cultura e tradizione277, è bersaglio di critiche. Tuttavia, se non è
presente una totale adesione ai modelli culturali urbani, si può cogliere un
allontanamento anche dalla tradizione e dal passato. L’Alterità, intesa sia in senso
spaziale e sincronico, sia in senso temporale e diacronico278, fornisce piuttosto
una serie di elementi che vengono fatti propri, adattati e risemantizzati per agire
nel presente.
I musei etnografici della val Varaita sono, quindi, un racconto 279. Narrano la storia
di un territorio che nonostante lo spopolamento, la speculazione edilizia e le colate
275
Remotti F., “Prefazione” in Bellagamba A., Paini A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito
sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino, 1999.
276
Porcellana V., “Il paese dove le galline beccano le stelle. Riflessioni antropologiche sul mondo
alpino contemporaneo”, in Giordano E., Delfino D., Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità,
Priuli & Verlucca, Torino, 2009.
277
Remotti F., “Prima lezione di antropologia”, Laterza, Bari, 2000.
278
Remotti F., (op. cit.), 1999.
279
Riflessione desunta dalla mostra “Quante storie. Il museo è un racconto”, ospitata nel centro di
documentazione Valle Stura a Sambuco.
130
di cemento, la marginalizzazione economica e culturale, lotta per affermarsi
nell’oggi, per essere riconosciuto come una delle tante forme di contemporaneità. I
musei etnografici appaiono come uno dei luoghi in cui contrastare la crisi della
presenza, in cui ricostruire il tessuto culturale locale. Il racconto fatto dai musei è
in movimento, non si lascia rinchiudere all’interno degli edifici, delle sale
espositive, delle teche. La narrazione si espande per descrivere la capacità di un
popolo di rigenerarsi e ricostruirsi anche a partire dalle connessioni con l’esterno. I
musei etnografici sono dei centri di risorse e di creatività perché riflettono sulla
spiccata capacità delle culture umane di “riarticolare post modernità e
tradizione”280, di costruire Forme di Umanità. Essi presentano la valle non come
un “grumo di identità”, ma come una “sintesi creativa” 281, in perenne divenire, una
riformulazione permanente282 che, nonostante le difficoltà, guarda al futuro.
280
Favole A., “Oceania. Isole di creatività culturale”, Laterza, Roma- Bari, 2010, pp. 101.
Ibidem pp. 34.
282
Tjibaou J.M., “La presence kanak”, Odile Jacob, Parigi, 1996.
281
131
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