un solo debarìm - Rijksuniversiteit Groningen

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un solo debarìm - Rijksuniversiteit Groningen
Rijksuniversiteit Groningen
Facoltà di Lettere
Lingue e culture romanze
Tesi di Laurea
‘UN SOLO DEBARÌM
La divulgazione attuale del giudeo-parlare livornese, il bagitto.
Relatore:
Dr. R. de Jonge
Correlatore:
Dr. Ph.G. Bossier
Candidato:
Cees Wagemans, s1316419
Anno accademico 2008-2009
0
Indice
1. Introduzione
2
2. La calorosa accoglienza degli ebrei a Livorno
e gli anni che seguirono
8
3. Il bagitto tra gli altri dialetti ebraici in Italia
16
4. Struttura ed esecuzione dell’indagine
37
5. Lo stato delle cose in questo momento
41
6. Le minacce alla continuazione del bagitto
60
Conclusioni
69
Bibliografia, ‘Googlegrafia’
72
Supplemento 1: Questionario lessico
Supplemento 2: Chiave questionario lessico
Supplemento 3: Questionario dati personali
Supplemento 4: Etimologia questionario lessico
Supplemento 5: Etimologia parole ottenute
Supplemento 6: Articolo Renzo Ventura ‘Il giorno dello iodio’
1
1. Introduzione
Esistono molte definizioni della lingua. Senza compromettere il valore scientifico e
l’erudizione dei numerosi e autorevoli studiosi che hanno definito ‘la lingua’ in modo diverso,
voglio limitarmi in questo studio alla determinazione che la lingua è una forma di
comportamento acquisito. Questa definizione è troppo ampia ed allo stesso tempo troppo
ristretta: ampia perché tante sono le forme per descrivere un comportamento e non si può
sapere quale sarà ‘la lingua’ che si confà a questo comportamento né quali sono gli elementi
innati o acquisiti; ristretto perché ‘la lingua’ intesa come fenomeno supera gli enunciati
individuali o la stessa condotta. Mi è qui sufficiente invece utilizzare la categoria di ‘forma di
comportamento acquisito’, perché nel presente lavoro voglio occuparmi della divulgazione di
un gergo ebraico che si trova soltanto nella città di Livorno. Si tratta, dunque, di parole,
espressioni e del loro valore affettivo, con le quali un gruppo limitato di persone
comunicarono e comunicano ancora oggi fra di loro per intendersi ‘con un orecchio’ solo e
per escludere dalla comunicazione gli altri:
la funzione dissimulativa e sotterranea, di linguaggio furbesco destinato ad essere impiegato parlando
dei gôjím1 in presenza dei gôjím; o anche per rispondere arditamente, con ingiurie e maledizioni da non
comprendersi, al regime di clausura e di oppressione da essi instaurato. (Levi, 1994)2.
(…)lo spirito fortemente evocativo dell’ambiente, dei costumi giudaici che risultano per lo più da modi
di dire, frasi aderenti a piccole realtà quotidiane in cui l’informatore giustamente riconosce gli
intercalali, le esclamazioni, i motteggi, lo stile sinteticamente allusivo delle propria parlata che s’avvale
dell’elemento ebraico nella creazione di metafore oscure per gli estranei. (Massariello Merzagora,
19773, p. 62).
Il contesto comunicativo e una comunità linguistica sono dunque necessari per mantenere le
parole gergali, le connotazioni del vocabolario gergale, le sfumature ed il calcolo della
situazione in cui si usa il gergo. Quando l’occasione comunicativa in questione non si verifica
(più), le parole corrono il rischio di cadere nell’oblio:
Questo4 gergo è ora quasi scomparso; un paio di generazioni addietro, era ancora ricco di qualche
centinaio di vocaboli e di locuzioni (Levi, 1994, p. 8).
1
Non-ebrei.
Levi, Primo, 1994, Il sistema periodico, Einaudi, Torino, p. 8-9.
3
Massariello Merzagora, Giovanna, 1977, Giudeo-Italiano, Dialetti italiani parlati dagli Ebrei d´Italia, Pacini, Ospedaletto Pisa.
4
. Levi parla del gergo giudeo-piemontese, ma la nozione vale per tutti i gerghi giudei.
2
2
Questo studio vuole dare una risposta alla domanda: che cosa è rimasto del giudeo-parlare
livornese?
Prima di tutto va sottolineato che il giudeo-livornese – il bagitto o bagito, come viene
chiamato – è un linguaggio colloquiale. In forma scritta ci è rimasto poco di esso e le prime
manifestazioni letterarie bagitte avevano oltre tutto un carattere antisemita, come vedremo nel
capitolo 3.
Il nome bagitto o bagito viene dal giudeo-spagnolo bajito, il diminutivo di bajo che significa
basso. La pronuncia di bajo avviene in modo castigliano, cioè come una fricativa
palatoalveolare, la pronuncia che i discendenti dell’espulsione del 1492 hanno portato con sé.
Il raddoppiamento della t successe secondo la pronuncia degli ebrei livornesi.5 Con la parola
bagitto si indica che il linguaggio si incontrava nei ceti più umili della popolazione ebraica
labronica.6
Se l’aforisma ‘a shprakh iz a dialekt mit an armey un flot ‘ (‘una lingua è un dialetto con un
esercito ed una flotta’)7 è vero, non esiste alcun dubbio sul fatto che il bagitto non è una
lingua. Ma anche senza utilizzare un espressione metaforica, a nessuno salterebbe in mente di
considerare il parlare giudaico-livornese una lingua ufficiale. Se non è una lingua, bisogna
quindi denominare il bagitto in modo diverso. La modalità più ovvia sarebbe definirlo un
dialetto, che però presuppone sempre una forma di subordinazione: si parla sempre di un
dialetto di …. In questo modo dobbiamo interpretare il sottotitolo dell’articolo di Massariello
Merzagora, Giudeo-Italiano, Dialetti italiani parlati dagli Ebrei d’Italia.8 In questo caso i
dialetti fanno parte del totale ‘dell’italiano’. Un dialetto dunque viene sempre considerato in
relazione ad una lingua nazionale.9 Ci si può domandare se questo modo di concepire il
dialetto renda giustizia al carattere specifico del giudeo-parlare. In primo luogo il contributo
di altre lingue nazionali, importate dai profughi o dagli invitati dai litorali stranieri (ma più
spesso profughi della seconda o terza generazione10), supera una delimitazione troppo
5
Padre e figlio Bedarida mantengono tutte e due grafie: bagitto accanto a bagito. Bedarida, Guido 1956, Ebrei di Livorno, tradizione e gergo
in 180 sonetti giudaico-livornesi, Felice le Monnier, Firenze p. XVII e Bedarida, Gabriele 2007, ‘Il giudeo-livornese (bagitto)’, in Il GiudeoSpagnolo (Ladino), Cultura e tradizione sefardita tra presente, passato e futuro, Belforte, Livorno, pp. 79-83.
6
Un’altra suggestione dell’etimologia è, che la parola bagitto fosse derivata da vagito, cioè il pianto dei neonati. In realtà questa opzione non
mi sembra molto opportuna, perché sfugge al fatto che il gergo si basa sul principio di non essere capito (da tutti), mentre il pianto di un
neonato ha un messaggio comunicativo molto chiaro. Franceschini, Fabrizio, 2007, ‘Il tema alimentare nella letteratura giudeo-livornese dei
secoli XIX e XX’ in Parole da gustare, Consuetudini alimentari e saperi linguistici (a cura di Marina Castiglione e Giuliano Rizzo), pp.
125-42, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo p. 127, denota in questo contesto l’espressione andalusa ‘cantando basito’,
‘filarsela senza essere notati’, in cui l’aspetto di nascondimento è ovvio.
7
Il detto viene ascritto ad un uditore sconosciuto di un corso di Max Weinreich (1894-1969), ma poi pubblicato dal linguista yiddish. (YIVO
Bletter vol. 25, nr.1 pp. 3-18). Altri padri spirituali potrebbero essere stati Antoine Meillet (1866-1936) o Louis-Hubert Lyautey (18541934): ‘Une langue, c’est un dialecte qui possède une armée, une marine et une aviation.’ Noam Chomsky (1928) poi si è occupato della
divulgazione dell’aforisma.
8
Massariello Merzagora, 1977, op. cit.
9
Cfr. Campagnano, Anna Rosa, 2007, Judeus en Livorno, sua língua, memória e história, Humanitas, São Paolo, p. 109.
10
I quali hanno covato (in questo caso) il ricordo alla Spagna come devono covare – secondo la fede ebraica - il ricordo a Gerusalemme: la
visione del futuro è sempre legato ad un doloroso ricordo al passato.
3
nazionale, cioè troppo circoscritta. In secondo luogo il modo di parlare viene utilizzato dalle
persone (o venne, visto che oggi si parla poco) per non essere comprensibile ai concittadini
(italiani) e dunque si può affermare che con questo vernacolo ci si è voluti esimere da un
sistema di comunicazione generale. Per di più i ‘dialetti giudeo-italiani’ pullulano di parole
ebraiche, il che sottolinea non una subordinazione, ma una differenza rispetto alla lingua
nazionale. Massariello Merzagora parla di dialetti perché crede nel concetto di una coinè
giudaica, cioè nell’esistenza di un fattore connettente tra i diversi modi di parlare giudeo in
Italia. Ma il bagitto, il nostro oggetto di studio, si caratterizza appunto per il fatto di essere
diverso. Ne parleremo nel capitolo 3. Nel caso dell’uso di un ‘linguaggio secreto’, si
preferisce di parlare di un gergo,11 anche se Massariello Merzagora respinge l’idea di un
gergo:
Le vicende delle singole parlate sono strettamente connesse con le vicissitudini delle comunità in cui
sorgono: prima ancora va detto che la composizione demografica e l’apporto storico di particolari
elementi (per esempio di ebrei parlanti il giudeo-spagnolo a Livorno) alla formazione delle varie
comunità, determina per alcuni centri una fisionomia linguistica che lascia più o meno trasparire l’entità
di queste immissioni. (…) Il destino del giudeo-italiano conosce il declino in un momento che è comune
a tutte le comunità, a partire dalla cosiddetta emancipazione, (…) quando i motivi di segregazione e di
frattura col mondo circostante vengono meno, si sgretola la compattezza del mondo culturale in senso
lato, dei valori che le parlate esprimano. La nascita in un ambiente per così dire «segregato» non
giustifica, tuttavia, a nostro avviso, il definire «gergali» tout court tali dialetti, anche se in taluni casi
essi assumono caratteri e funzioni de gergo, nella misura però in cui, in particolari e limitate
circostanze, ciascuno di noi può piegare il proprio strumento linguistico (lingua o dialetto) alle funzione
di gergo, in presenza per esempio di individui cui non si vuol far comprendere quanto si dice.12
Un altro ‘coinè-ista’, Mancini13, sottoscrive questo modo di vedere, ‘appunto la koinè, un
dialetto non artificiale, ma (aderente) alla realtà parlata degli ebrei’.
Per quanto riguarda una forma di esprimersi soltanto per iniziati, gli autori fanno meno
generalizzazioni vedono il bagitto come un gergo. Gergale è senz’altro l’avvertimento:
‘Aina lo zé!14
11
‘O jargão (gergo, CW) (…) é uma límgua resultante de alterações de estrutura, não raro, pela interferência de mas um idioma. É uma
língua convencional, falda por determinadas classes de pessoas que desejam se comunicar entre si e, também, não se deixar compreender por
estranhos. É um código lingüístco usado come defesa, mas é também uma ligação entre pessoas unidas por condições de vida comuns.
Sempre que um grupo de pessoas se incontra reunido por um longo período de tempo, em um ambiente onde se desenvolve uma vida em
comum (escolas, lugares de trabalho, casernas, prisões, guetos, campos de concentração), o uso lingüístico individual assume uma extensão
imprevisível, no grupo, por representar, de maniera eficaz, uma situação da qual todos os componentes participam.’ (Campagnano, op. cit., p.
108-09)
12
Op. cit., pp. 71-72.
13
Mancini, Marco, 1992, ‘Sulla formazione dell’identità linguistica giudeo-romanesca fra tardo Medievo e Rinascimento’ in Roma nel
Rinascimento, Roma nel Rinascimento, Roma, pp. 53-120. (p. 73).
4
Quando il 28 maggio 1943 gli Alleati bombardarono la città di Livorno e anche la sinagoga
venne distrutta insieme al resto del quartiere, gli ebrei cantarono:
Oh iudim
Chiamate i Tarzanim:
Ci sono gli iñgarenim
Che inganeveano
Alle yeshivà.15
Tuttavia si tratta di espressioni orali, che non pretendono di avere qualche valore in più. La
situazione cambiò quando il bagitto venne fissato in lettere scritte verso la metà dell’800.
Malgrado una brutta partenza (si veda il capitolo 3) – ci si può domandare fino a che punto si
tratti di bagitto: le prime opere sono un’imitazione della pronuncia del parlar giudaico
livornese, trascritta da non-ebrei .
Il bagitto ottenne un valore estetico letterario solo quando Guido Bedarida cominciò a
pubblicare negli anni venti del secolo scorso. Bisogna rilevare che i primi componimenti
erano pezzi teatrali, un fatto che facilitò la messa in scena delle persone che parlavano il
bagitto. Anche i sonetti (una forma già colta) sono pezzi teatrali, riproduzioni della vita
quotidiana all’interno del quartiere ebraico, in cui i personaggi vengono rappresentati parlanti
il bagitto.
Progressivamente si nota anche l’aumento della stima per le produzioni sempre più
considerate letterarie. Nel 1957 Guido Bederida sottolinea la diversità tra il bagitto (‘una sorta
di gergo’) ed altre parlate regionali appunto per la mancanza di opere scritte in prosa o in versi
con un valore artistico letterario, laddove definì il bagitto:
gergo e non già dialetto né, tantomeno, lingua, ben lontano, quindi, dall’espressività ed incisività dello
yiddish, che ha raggiunto vera e propria dignità di lingua letteraria.16
Bisogna aggiungere che il paragone sembra un po’ sproporzionato, visto che il campo
linguistico dello yiddish è infinitamente più grande di quello di una città con circa 150.000
residenti tra i quali meno del 1% sa comunicare in bagitto. In questa condizione anche la
14
‘Guarda quel uomo!’ L’espressione si fece nel negozio oppure al banco, quando si vedeva una persona sospetta, cioè un ladro (gannev)
sospetto. La forma femminile zodessa venne anche usato nel ceto medio ed alto per indicare la domestica, un esempio tipico di come si
trattava una cosiddetta subordinata: non aveva un nome.
15
‘O, ebrei, chiamate la polizia: ci sono dei cristiani (non-ebrei) che rubano la scuola ebraica’.
16
Bedarida, Guido, 1957, ‘Il gergo ebraico-livornese’, in Revista di Livorno, nrr. 1-2 (pp. 77-89), citato dal figlio Bedarida, Gabriele, 1992,
‘Tradizioni folcloriche sefardite a Livorno’, in E andammo dove il a cura di Guido Natan Zazzu), Marietti, Genova, pp. 81-102.
5
probabilità di incontrare uno scrittore o poeta di talento e produttivo si riduce. Lo yiddish per
altro non ha niente a che fare con i dialetti giudeo-italiani, ma è una parlata degli ashkenaziti,
dunque degli ebrei dell’Europa del Nord. Tra lo yiddish ed il bagitto esiste soltanto la
somiglianza di qualche parola: condividendo la comune origine ebraica.
Nell’Introduzione’ della sua raccolta di sonetti, il suo capolavoro,17 Guido Bedarida
contribuisce ad una rivalutazione del parlare giudaico livornese, tracciando un aspetto che lo
qualifica come qualcosa di più di un vernacolo disadorno (senza esprimere nessun giudizio di
valore del proprio lavoro):
Una speciale sintassi, almeno ora, non c’è, né credo ci sia mai stata. Esiste invece anche adesso un certo
stile nel linguaggio, stile che trova la sua origine nelle radice del popolo e negli avvenimenti che si
andarono susseguendo, attraverso i secoli. Per concludere, ci si trova fronte ad una parlata, che non è
dialetto né vernacolo e forse nemmeno gergo, ma che è particolare ai soli Ebrei livornesi.18
L’elemento di esclusività del bagitto, solo per iniziati, spinse Modena Mayer nel 1978 a definire il
bagitto un gergo:
Il giudeo-livornese si presenta allo stato attuale soprattutto come un “gergo”, cioè come un linguaggio
usato in una determinata cerchia di persone, o solo per motivi di segretezza nei confronti del mondo
circostante, o anche, e soprattutto, per la sentita esigenza di continuare una tradizione familiare.19
La stessa categoria viene poi adottata da Massariello Merzagora20 nel 1983. Nello stesso anno
Fornaciari21 introduce il concetto di ‘letterario’ riferendosi alle opere scritte in bagitto, ma non
supera ancora il limite di chiamare il giudeo-parlare livornese un vernacolo e gergo. Lo farà
solo nel 200522:
Adesso possiamo addentrarci nella specialità linguistica rappresentata da questo sistema di espressione
del popolo minuto ebraico livornese che definiremo come giudeoparlare: qualcosa di meno di una
lingua, e anche di meno di un vernacolo, però qualcosa di più di un gergo.23
17
Bedarida, Guido 1956, op. cit.
Ibid. p. XVIII.
Modena Mayer, Maria, 1978, ‘Osservazioni sul Tabù’ Linguistico in Giudeo-livornese’ in Scritti in memoria di Umberto Nahon,
Fondazione S. Mayer e R. Cantoni, Gerusalemme, pp. 166-79 (il citato viene da p. 166-67). L’articolo ci fornisce una panoramica delle voce
provenienti dall’ebraico, usate per evitare le parole sconvenienti o indesiderate in iataliano, le cosiddette parole tabù’.
20
Massariello Merzagora, Giovanna, 1983, ‘Elementi lessicali della parlata giudeo-fiorentina’ in: Quaderni dell’Atlante Lessicale Toscano,
I, Olschki, Firenze
21
Fornaciari, Paolo Edoardo, 1983, ‘Aspetti dell’uso del «Bagitto» da parte dei Gentili’ in: Rassegna Mensile di Israel, s.III, XLIX, pp. 43254. Tipografia Veneziano, Roma.
22
Fornaciari, Pardo, 2005, Fate onore al bel Purim, Erasmo, Livorno.
23
Ibid. p. 35.
18
19
6
Qui l’autore attribuisce un valore artistico al modo di esprimersi in locuzioni tramandate tra i
membri del ceto basso della comunità, insomma al bagitto.
Franceschini24 è il più risoluto, considerando già i primi poemetti in bagitto scritti nel primo
Ottocento:
È opportuno impiegare qui il termine dialetto e non quello di gergo, che conviene riservare ad un
particolare codice linguistico (…). Si tratta in ogni caso di attestazioni scritte, e per di più di carattere
letterario.25
Con questa visione Franceschini ha stabilito il modo in cui il bagitto probabilmente sarà
studiato nell’ambito scientifico in futuro, tralasciando il fatto che il bagitto originariamente fu
un giudeo-parlare. Certo è che con la diminuzione della pratica del bagitto, cioè della lingua
parlata, le opere scritte rimangono una fonte sicura per la ricerca.
In questo lavoro userò le parole ‘gergo’ e ‘dialetto’ senza distinguo, perché – benché le voci
presentate agli intervistati provengano da un’opera letteraria (si veda capitolo 4), le risposte
che ho ottenuto provengono dal patrimonio linguistico quotidiano.
Come detto, il mio lavoro tratta della divulgazione attuale del giudeo-parlare livornese, analisi
condotta per mezzo di interviste fatte in loco. La stesura e l’elaborazione dei dati ottenuti si
trovano nei capitoli 4 e 5. Durante il mio soggiorno a Livorno mi sono reso conto delle
ragioni che stanno all’origine del calo dell’uso del bagitto, che ho sintetizzato nel capitolo 6.
Come introduzione alla mia argomentazione ho dedicato, nel capitolo 2, qualche parola alle
circostanze uniche in cui il bagitto si è potuto formare e poi sviluppare, mentre la collocazione
in una prospettiva con gli altri dialetti giudeo-italiani viene descritta nel capitolo 3.
24
Franceschini, Fabrizio, 2005, ‘Giuditta veneziana e bagitta nella Livorno del primo Ottocento’, in Sul filo della scrittura, fonti e temi per la
storia delle donne a Livorno (a cura di Lucia Frattarelli Fischer e Olimpia Vaccai), Pisa University Press, Pisa, pp. 543-79.
25
Ibid. p. 559.
7
2. La calorosa accoglienza degli ebrei a Livorno e gli anni che
seguirono
Per parlare dell’arrivo degli ebrei a Livorno non è necessario andare troppo indietro, al tempo
del patriarca Abramo, che andò verso il Paese che il Signore –come dice il Vangelo - gli
indicò.26 Anche il secondo arrivo nella Terra promessa dopo la fuga dall’Egitto non ci importa
tanto. Basta ricordare il fatto che il viaggio attraverso il deserto avrebbe consegnato agli ebrei
la Torah, la Legge, la dottrina rilevata a Mosè da Dio. La Torah - chiamata anche il
Pentateuco - contiene i primi cinque libri della versione greca della Bibbia e costituisce il
fondamento della fede ebraica. Interessante per questo studio è quanto accade nel 586 avanti
Cristo, quando il primo tempio di Gerusalemme venne distrutto e gli ebrei si dispersero nella
cattività babilonese, la cosiddetta diaspora ebraica. Questa fu la prima fase della diaspora.
Una seconda fase, ancora più drastica, si verificò nel 70 dopo la distruzione del secondo
tempio da parte di Tito, il figlio dell’imperatore romano Vespasiano, e dopo la morte dell’eroe
dei rivoltosi di Massada nel 7327. Da allora in poi la storia degli ebrei diviene ‘la storia di un
popolo disperso sotto altri popoli’.
L’ebreo è considerato morto dai vivi, straniero dai cittadini, vagabondo dagli stanziali. Mendicante dai
ricchi, ricco sfruttatore dai poveri, apolide dai patrioti e odiato antagonista da tutti. (Wilhelm Marr28).
I profughi ebrei si stanziarono in Italia, in Francia, in Spagna, nel levante, nel nord e nel
centro dell’Europa e nei paesi arabi dell’Africa nord-occidentale, il Magreb. Sulle coste della
penisola Iberica troviamo gli ebrei già dopo la distruzione del primo tempio: ebrei celtiberi,
cioè che appartenevano a un’antica popolazione della Spagna. La popolazione ebraica fu
chiamata qui sefardim, perché il nome della Spagna in ebraico è Sefarad o Sefarod.29
Successivamente il concetto di sefardim venne usato per definire tutti gli ebrei che si
stabilirono nei paesi intorno al bacino del Mediterraneo. La lingua che i primi sefardim
paravano era il latino, in seguito il neolatino catalano o aragonese, la lingua della potenza
dominante del momento. Gli ebrei dell’interno della Spagna parlavano ovviamente il
castigliano. Per le cerimonie religiose ci si avvaleva naturalmente dall’ebraico, ma pian piano
26
La Bibbia di Gerusalemme 1995, Edizione Devoniane, Bologna, p. 55.
Josephus 1980 : The Jewish War, (traduzione e edizione di G.A.Williamson), Penguin Books, Hammondsworth, Middelsex , p.385 e segg.
Autoemancipazione 1882, citato in Yehoshua, Abraham B., 2004, Antisemitismo e sionismo, Una discussione, Einaudi, Torino, p. 31. Marr
era il giornalista che ha coniato il termine «antisemitismo».
29
Gli ebrei dell’Europa del Nord sono gli ashkenazim, Ashkenaz è il nome della Germania in ebraico medievale.
27
28
8
– grazie al fatto che l’uomo comune non sapeva l’ebraico – i rabbini tradussero la Torah in
un calco dell’ebraico, ovvero il ladino, una forma del castigliano che si parlava alla fine del
quattrocento e – anche se sempre meno - che si continua ad usare anche oggi. Il ladino, al
contrario dello yiddish, utilizza poche parole ebraiche e ne rimane anche poca letteratura.
Dal 711 in poi i Mori conquistarono l’Andalusia. La presenza degli arabi ebbe una grande
influenza sul linguaggio degli ebrei del sud della penisola, essendo l’arabo una lingua
economicamente interessante, gli ebrei assorbirono molte parole nel loro vernacolo. Si chiama
giudio o giudezmo, una lingua prevalentemente parlata. Durante quasi sette secoli le tre
religioni universali poterono esistere in una coesistenza più o meno pacifica, perché il potere
musulmano consentiva l’esistenza di altre religioni (nel caso specifico la fede cristiana e
l’ebraismo) quando era soddisfatto il dhimmi, una tassa speciale. Nel Duecento però, un
gruppo di fanatici, proveniente dalle montagne berbere del Marocco, cominciarono a
convertire con violenza cristiani ed ebrei.30 Mosè Maimonide, il famoso filosofo che stava a
Cordoba fu costretto a fuggire in Marocco e poi al Cairo, dopo aver abbracciato – solo in
apparenza - l’Islam. La repressione e l’intolleranza nel dominio della religione fecero così il
proprio ingresso nella penisola Iberica. I mozarabi, cioè i cristiani di Spagna che conservarono
la loro religione durante la dominazione araba, seguirono l’esempio degli invasori: nel 1391
furono assassinati tutti gli ebrei di Siviglia e Cordoba su incitamento dell’arcidiacono
Ferdinand Martinez. I cristiani poi ci presero gusto a prescrivere come si doveva credere in
Dio, sotto pena di essere sterminati.
Nel 1492 La Spagna fu liberata dai musulmani. In questo periodo la popolazione totale della
Spagna contava circa 7.000.000 persone, fra le quali 400.000 ebrei. I reyes catolicos, Isabella
di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, rafforzarono il potere dell’Inquisizione31 e il 31 marzo
1492 firmarono il decreto di espulsione degli ebrei di Spagna che si doveva attuare prima del
31 luglio dello stesso anno, nel caso in cui gli ebrei non si fossero converti al cristianesimo.
Non si sa quanti ebrei abbiano scelto il battesimo (le cifre più basse parlano di cinquantamila
persone) con l’obiettivo di mantenere case e beni in possesso, oppure il martirio (ventimila).
La maggior parte preferì andarsene in Portogallo (centomila) (la soluzione più semplice, ma
ad un prezzo alto per una residenza temporanea), oppure nell’Africa settentrionale
30
Una spiegazione del differente atteggiamento di musulmani e cristiani rispetto agli ebrei la fornisce Fornaciari, Pardo 2005, Fate onore al
bel Purim. Il bagitto, vernacolo degli ebrei livornesi, Erasmo, Livorno, pag. 10 e segg. Qui non conviene esporre in modo approfondito i
fondamenti dell’antisemitismo.
31
Ufficialmente l’Inquisitio haereticae pravitatis (il tribunale per gli eretici) o Sant’Uffizio esisteva già, ma Ferdinando e Isabella, con il
consenso dal Papa Sixto IV il 1 novembre 1478, l’hanno organizzato di nuovo non soltanto per forzare gli ebrei ed i mori per estorcere una
lealtà incondizionata alla fede cattolica (perché tanti erano in gran segreto rimasti fedeli alla religione degli antenati) ed anche in una regione
più ampia, ma soprattutto per minare il potere dei nobili ed il clero e per estendere l’autorità sovrana. Così l’Inquisizione divenne
un’istituzione reale.
9
(cinquantamila). Molti andarono in Italia o in Turchia, dove furono ben visti dal sultano
Selim, che accoglieva volentieri commercianti abili, medici eccellenti ed artigianti esperti.
Circa 160.000 ebrei sefarditi lasciarono la Spagna. In tal modo dalla fine del Quattrocento si
divulgò nel mondo il castigliano. Il capo dell’Inquisizione romana, il cardinale Carafa,
chiamato al papato nel 1555 sotto il nome di Paolo IV, divulgò la bolla Cum nimis absurdum,
dove scrisse contro alla possibilità per gli ebrei di poter abitare dappertutto nella Città Eterna
ed in cui espresse l’opinione che gli ebrei avrebbero dovuto vivere in un quartiere malsano
circondato da mura. Ecco come nacque il secondo ghetto italiano32. Per gli ebrei la
permanenza in Italia (e altrove) non fu per niente piacevole.
Anche in Portogallo il piacere della permanenza fu di breve durata. La sfera d’influenza
spagnola si fece infatti valere anche qui: il matrimonio tra il nuovo re Emanuel I (che ascese
al trono nel 1495) e la figlia di Ferdinando ed Isabella fu disciplinato con un accordo in cui
era scritto il provvedimento di battezzare gli ebrei che avevano rifiutato di convertirsi al
cristianesimo in Spagna. Nel dicembre 1496 ci fu la cosiddetta ‘cacciata’ degli ebrei: persone
radunate a Lisbona per imbarcarsi furono fatte entrare forzatamente nelle chiese, dove acqua
santa fu gettata sopra di loro33. Con questo battesimo forzato si crearono i cristãos novos34
oppure, rimasti cripto-ebrei, i marranos, cioè i maiali (un nome non molto kasher per le
persone in questione). Qui gli ebrei non potevano professare la loro religione ed erano
costretti a vivere nella paura di essere condannati al rogo dai tribunali dell’Inquisizione come
fedeli del giudaismo. Solo dopo il 1629 fu permesso loro di lasciare il Paese per stanziarsi
altrove. Così nacquero comunità di ebrei a Costantinopoli, a Smirne, a Salonicco e ad
Adrianopoli nel Levante, nel Ponente ad Amburgo, ad Amsterdam (dopo una tappa ad
Anversa)35, Londra, Bordeaux e Bayonne come comunità sefardite, non integrate con gli ebrei
già presenti nelle città o con gli altri cittadini, ma di uno statuto speciale, in forme di diritto
nazionale differenziate. I sefardim emigrati cercarono rifugio in Italia soprattutto a Venezia,
ad Ancona ed a Ferrara. I sefardim non erano i soli ebrei, altri che avevano seguito un’altra
traccia della diaspora si erano già stabiliti in tante città italiane: gli ashkenazim. Fra di loro
non si svilupparono legami stretti.
32
A Costantinopoli il primo ghetto del mondo fu fondato tre secoli prima: La Pera, un quartiere-reclusorio. Il nome ‘ghetto’ invece è di
origine italiana e viene dal ‘getto’ di metallo fuso, una fonderia a Venezia (gheto), luogo che fu destinato a rinchiudere gli ebrei durante la
notte, oppure dalla gettata (‘getto’ diviene ‘ghetto’) di un molo a Genova, dove gli ebrei vennero tenuti in quarantena prima di essere
riscattati o venduti un’altra volta come schiavi. (cfr. Fornaciari 2005, p. 20). Il primo ghetto in Italia è stato quello veneziano (1516).
33
Galasso, Cristina, 2002, Alle origini di una comunità, Ebree ed ebrei a Livorno nel Seicento, Olschki, Firenze, p. 115 osserva furbamente
che qui non si tratta di una conversione per, ma di una conversione da.
34
I loro discendenti furono discriminati lo stesso, non avendo la limpieza del sangre.
35
La grande sinagoga dei sefardim – la Snoge (dal port: esnoga) fu solennemente inaugurata nel 1675. La comunità portoghese-israelita ha
meticolosamente evitato di usare l’aggettivo spagnola, avendo fatto l’inaugurazione solo poco dopo la Guerra degli Ottant’anni (con la
Spagna) che finì nel 1648. Ma i sefardim erano naturalmente d’origine spagnola. Anche a Livorno si parla di una comunità ebraica di lingua
portoghese. Ne parleremo nel capitolo 3.
10
Nel 1590 Livorno – oppure Leghorn in inglese - non era una città, ma piuttosto un villaggio di
pescatori fortificato. Un centro commerciale vicino si trovava nella città di Pisa, dove già nel
1547 si erano stabiliti cristiani nuovi portoghesi su richiesta di Cosimo I de’Medici, il
granduca di Toscana. Il nobile volle legare a sé i ‘marrani’ per la loro capacità di mercanti
esperti con un buon senso della finanza e con buone relazioni internazionali.36 Il porto di Pisa
si interrò, ed il terzo granduca di Toscana, Ferdinando I, fu costretto a trovare un luogo
alternativo per mettere al sicuro il commercio marittimo e per invitare le persone adatte per la
costruzione di un nuovo porto per favorire le attività legate allo futuro sviluppo. Anche se il
granduca aveva rispettato il desiderio papale – è del 1569 la concessione di Papa Pio V del
conferimento del titolo di granduca – di stabilire un ghetto a Firenze (1570), a Pitigliano
(1571) ed a Siena (1573), ed aveva promesso di rispettare le misure antiebraiche, come il
Vaticano aveva prescritto, Ferdinando I, il 30 giugno 1591, promulgò le Lettere Patenti
passate alla storia come la Livornina, emanata il 10 giugno 1593:
A tutti voi Mercantili qualsivoglia nazione Levantini, Ponentini, Spagnuoli, Portoghesi, Greci,
Tedeschi ed Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani ed altri, salute.
Significhiamo per queste nostre Lettere Patenti, qualmente essendo Noi mossi da degni rispetti, e
massime dal desiderio che è in Noi per benefizio pubblico d’accrescere nell’occasione l’animo ai
forestieri di venire a frequentare i loro traffiche e mercanzie nella nostra diletta città di Pisa e Porto e
Scalo di Livorno con stare o abitare colle vostre famiglie o senza esse, sperando si abbia a risultare utile
a tutta Italia, nostri sudditi, e massime a poveri.
Però per le sopraddette e altre cause e ragioni, ci siamo mossi a darvi e concedervi, siccome Noi in
virtù delle presenti vi diamo e concediamo le grazie, privilegi, prerogative, immunità ed esenzioni
infrascritte. (Ascoli, 188637).
Seguirono a questo scritto, punto per punto i privilegi concessi da Ferdinando, di cui riporto
solo uno per esteso e gli altri riassunti:
•
Vogliamo ancora che per detto tempo (cioè ‘per un tempo durante di anni venticinque’38) non si possa
esercitare alcuna inquisizione, visita, denunzia, e accusa contro di voi e vostre famiglie ancorché per il
passato siano vissute fuori del dominio nostro in abito come cristiano o avutone nome, potrete vivere,
abitare e conservare in detta nostra città di Pisa e Livorno, e trafficare negli altri luoghi del dominio
nostro liberamente, e usare in esse tutte le vostre cerimonie precetti, riti, ordini e costumi di legge
36
Il casato de’Medici no era l’unico che sfruttava le capacità dei mercanti ebrei portoghesi: gli Estensi l’invitarono i marrani a Ferrara, il
governo oligarchico di Venezia per lo sviluppo del commercio con il Levante, i papi Paolo III e Giulio II a favore del porto d’Ancona.
37
Ascoli, Rafaello, 1886, Gli Ebrei venuti a Livorno, Costa, Livorno.
38
Automaticamente rinnovabili per altri venticinque anni.
11
ebraica, o altre secondo il costume e piacimento vostro, purché ciascuno di voi ne faccia denuncia
all’infrascritto giudice da noi da deputarsi39.
•
diritti dell’uomo nella misura in cui li godevano i mercanti cristiani di Firenze e Pisa;
•
libertà di movimento entro i confini dello stato e fuori;
•
libertà di vestirsi come volevano, senza il segno giallo;
•
autorizzazione a portare armi difensive;
•
autorizzazione ad acquistare beni immobili;
•
autorizzazione a tenere carrozze e cavalli;
•
autorizzazione ad abitare ed aprire botteghe in qualunque parte della città;
•
autorizzazione a tenere in casa balie, serve e servi cristiani;
•
ammissione agli studi universitari e alla dignità della laurea40;
•
ammissione per esercitare la medicina, curando anche malati cristiani;
•
ammissione a praticare qualsiasi mestiere;
•
assenso del possesso di libri di ogni sorta e in qualunque lingua, compresi libri ebraici,
quindi anche il Talmud;
•
autorizzazione a lasciare i beni in eredità a chiunque;
•
autorizzazione di un Tribunale costituito da cinque Massari - capi eletti dalla comunità
- per giudicare le controversie fra ebrei e i loro delitti secondo il diritto ebraico e le cui
sentenze dovevano essere seguite dal Bargello, braccio esecutivo dello Stato.41
Anche delle limitazioni furono imposte agli ebrei privilegiati, malgrado il fatto che ogni
limitazione fosse un oltraggio alla dignità umana, queste non sono da paragonare alle
conquiste ottenute in questo momento:
•
divieto di fare opere di proselitismo;
•
divieto di avere rapporti sessuali con non ebrei;
•
divieto di praticare l’usura;
•
divieto di occuparsi di stracceria.
Il primo divieto proviene da un cervello cristiano, perché la cultura ebraica non si manifesta
da qualsiasi zelo di conversione. I due ultimi divieti derivano da un pregiudizio: in situazioni
39
Ascoli, 1886, op. cit. p. VIII. L’inquisizione romano non ha sempre funzionato come prescrissero i Privilegi (la versione del 1593 delle
Lettere patenti). Il problema era che bisognava dichiarasi ebreo all’arrivo nella città e non tutti erano in grado di confermarlo, perché
venivano dal Portogallo e lì non potevano essere ebrei! Ci sono stati un certo numero di processi contro portoghesi tornati all’ebraismo a
Livorno e Pisa, accusati di apostasia. In quei casi la comunità ebraica chiedeva l’intervento del granduca, perché i termini della Livornina
fossero rispettati. Significativo in questo campo è il fatto che gli ebrei provenienti dal Portogallo dovevano essere necessariamente cattolici,
mentre nel resto d’Europa la parola ebreo era diventata un sinonimo di portoghese.
40
Un cancelliere dell’università, l’arcivescovo di Pisa, rifiutò di permettere la dignità della laurea agli ebrei, mentre la facoltà di medicina era
affollata dai figli del popolo ebreo.
41
Per farsi un’idea di cosa significa di essere discriminati basta sostituire le parole ‘diritto, libertà, autorizzazione, ammissione ed assenso’
con un divieto.
12
limitate bisogna ricorrere ad attività sopraccitate, ma non si tratta di un’occupazione
tipicamente ebraica. In questo senso si volle combattere l’antisemitismo con un’implicazione
dell’antisemitismo, comportandosi da antisemiti.
L’invito di Ferdinando fu accettato volentieri non soltanto dagli ebrei originariamente
provenienti dalla Spagna e dal Portogallo, ma anche dai francesi, dagli olandesi e dai tedeschi,
dagli inglesi, dai greci e dalla gente dell’Armenia. Ogni gruppo venne a costituire una
minoranza nel grande insieme che fu chiamato una ‘Nazione’42. La Nazione ebraica rimase in
uno stato di grazia: gli ebrei potevano abitare dappertutto, non ci fu mai un ghetto a Livorno,
benché tanti ebrei preferirono stare insieme intorno alle strade dietro il Duomo, comunemente
chiamate ‘Quattro Canti degli Ebrei’. Un’attività importante, subito dopo l’insediamento a
Livorno, fu l’industria del vetro, della seta, della lana e del battiloro. Gli ebrei furono attivi
nel mercato livornese degli schiavi che servivano come rematori per le galere, oppure per le
famiglie ricche, sia ebree che cristiane, che tenevano schiavi, detti ‘fiscalini’, anche per il
riscatto degli schiavi ebrei. Altre attività furono costituite dall’appalto del tabacco per tutto il
territorio toscano, dell’acquavite e della carta, oppure la finanza. Ma soprattutto il porto
aperto sul Mediterraneo, con importanti legami con il Magreb, con la Sublima Porta (il
governo del sultano turco di Costantinopoli) e con tutti i paesi d’Europa, contribuì alla
prosperità della nuova città. Livorno era ben conosciuta come città scalo.
L’incremento demografico di Livorno aumentò costantemente: nel 1590 si contavano 530
abitanti43, appartenenti ai ceti più umili (artigiani, nel piccolo commercio, nell’edilizia e
operai portuali), ma non ebrei. Nel 1601 c’erano 134 ebrei (marrani e levantini); nel 1622
erano 711 su una popolazione di circa 11.000 abitanti; nel 1645 erano 1260 su 12.000
(dunque l’incremento era soltanto degli ebrei) e nel 1693 il totale della popolazione era di
12.300, fra i quali 2397 ebrei (quasi il 20%44). Secondo il censimento del 1784 gli ebrei erano
4302, ovvero il 10% della popolazione.
Gli ebrei erano dunque privilegiati a Livorno: potevano tornare alla fede degli antenati senza
il rischio di finire sul rogo45. Avevano la possibilità di abitare come gli pareva,46 ed avevano
ottenuto il permesso di organizzare la propria vita secondo il rito e la cultura come era loro
prescritto dalla legge e dalla tradizione ebraica. La giurisprudenza venne assegnata ad un ente
42
Ogni Nazione aveva a propria disposizione una chiesa ed un cimitero. La Nazione ebraica ha (avuto) tre cimiteri a Livorno. A Pisa il
cimitero ebraico era situato fuori dalla mura, in un angolo preso dal Campo Santo.
43
Per questo e gli altri dati demografici cfr. Fornaciari, 2005, op. cit. p. 30 e segg. e Puntoni, Gabriella 2006: La comunità ebraica di
Livorno e la città, Percorsi culture e identità in un gioco di specchi attraverso quattro secoli di storia, Belforte & C., Livorno, p. 11 e segg.
44
Bedarida 1992, op. cit. p. 87, invece sostiene che gli ebrei non abbiano mai superato il 10% della popolazione
45
Il battesimo per la Chiesa cattolica è un’adesione incondizionata e irreversibile; il ritorno alla fede degli avi (in questo caso degli ebrei)
significava essere bruciato vivi sul rogo. Se il peccatore si converta all’ultimo momento, veniva graziato: prima strangolato e poi bruciato.
(Fornaciari 2005, op. cit. p. 28)
46
Per esempio nella stessa casa con i cristiani, purché si servissero di scale diverse
13
formato dalla sfera propria, un Consiglio di cinque massari, i Seniores do Maamed o
Parnassim. Dopo il 1667 il Consiglio fu affiancato da un Collegio deliberante di Dodici
Deputati, un numero che aumentò fino a sessanta membri, composto da tutti i capi famiglia di
commercianti benestanti – spesso si trattava di un impiego onorifico ed ereditario47 formando così un governo oligarchico. I Massari giudicavano solo gli affari tra gli ebrei,
quando si trattava di una controparte cristiana o di un reato, la causa veniva esposta ad una
corte d’appello dello Stato. Normalmente si trattava dei conflitti di natura commerciale
oppure del sistema complicato dei matrimoni, le doti, il permesso dei rabbini48, il permesso di
un divorzio e gli obblighi legati a questo, il levirato, cioè l’usanza di sposare la vedova del
fratello, e – non ultimo - le eredità. La cura sociale fu tutelata dai Massari. Esisteva quindi
un’istituzione per aiutare i poveri e i pellegrini, per assistere con cibo e cure mediche i
bisognosi ed una fondazione per provvedere al seppellimento dei morti. C’era una ‘Cassa per
il riscatto degli schiavi (ebraici)’. Una creazione speciale era il Mohar Ha-betulot/Hebrà para
Cazar Orfas e Donzelas (in italiano ‘Confraternita per maritare orfane e donzelle’) per
fornire una dote alle fanciulle povere così da dar loro la possibilità concreta di sposarsi.
Un potere molto influente era quello del diritto di ballottazione, cioè quel diritto che
consentiva di misurare quanto e se le persone erano adeguate per essere inserite nella
comunità. In questo modo tanti ashkenazim rimasero persone di seconda categoria nella città
labronica49. La ballottazione serví per conservare il carattere spagnolo della maggioranza dei
soci della Nazione ebraica. La sentenza poteva essere tassativa. Si poteva fare un appello
presso un collegio giudicante interno oppure ricorso al granduca. La pena massima era la
scomunica50 o l’esilio.
La storia di successo degli ebrei livornesi è all’inizio soprattutto la storia dei marrani
portoghesi. Furono loro a fondare nel 1664 una scuola, un’istituzione scolastica della
Nazione, il Talmud Torà, con l’obbligo per tutti i giovani di frequentarla, essendo la scuola
‘uno dei principali fondamenti della nostra conservazione’. Non c’erano maschi analfabeti
ebrei nati a Livorno. Nel 1728 si dette inizio alla scuola con l’insegnamento regolare della
lingua volgare, cioè dello spagnolo o del portoghese. Queste due lingue rimasero dominanti
nella comunità fino al 1787, quando il granduca ordinò che gli atti e le sentenze del Tribunale
47
Qui si trova la genesi dell`esistenza di due ceti nella Nazione: un ceto medio ed un ceto basso, perché non soltanto gli ashkenazim furono
esclusi, ma anche i piccoli commercianti, dipendenti ed indigenti.
48
Qui si rivela l’influsso dei massari, il cui ambiente era sempre sefardita. I sefarditi, che volevano salvaguardare l´unità e l’identità sefardita
della comunità non videro di buon occhio i matrimoni tra sefardim e ashkenazim.
49
Questo può spiegare perché soprattutto uomini di origine italiano-ashkenazita hanno abbandonato la fede ebraica per quella cattolica (nel
periodo tra il 1614 ed il 1730 si tratta di 46 uomini ashkenaziti e 20 donne, mentre i sefardim segnano 19 uomini ed 8 donne).
50
I sefarditi livornesi non sono stati unici in rigidità in materia di conversazione della propria identità. Ad Amsterdam i sefarditi
scomunicarono il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677) perché pur essendo un sefardito aveva comprato la carne (kasher, questa
sicuramente) da un macellaio ashkenazito.
14
dei Massari, che fino al quel momento erano scritti in portoghese – la lingua della
giurisprudenza per i marrani – dovevano essere scritti ‘da qui in avanti (…) in idioma
italiano’51. Un altro cambiamento – non per la lingua, ma per lo stato sociale – venne con
l’occupazione dei francesi, comandati dal Bonaparte. Non tutti gli ebrei erano entusiasti delle
idee libertarie francesi, ma tutto sommato, i rapporti tra la comunità ebraica e gli occupanti
furono soddisfacenti. Soltanto l’istituzione del matrimonio civile – un affare che toccava
l’amministrazione comunale – causò una diminuzione della nuzialità. Il diritto di organizzare
la propria vita – ma sempre prescritto da un ceto culturalmente alto – fu sempre più limitato.
Dopo la partenza dei francesi ed il restauro del potere di Ferdinando di Lorena (la famiglia
che si fece carico della potestà dei Medici nel 1737), tutti i diritti e gli antichi privilegi furono
ripristinati per la comunità. Solo la giurisprudenza rimase nelle mani del governo, che dovette
constatare le troppe lamentele che c’erano state nel passato.
L’esistenza della Nazione ebrea come un corpus separatum finì con la fondazione del Regno
d’Italia nel 1861. Non valsero più i diritti esclusivi per il gruppo privilegiato52. Tutti gli
italiani, infatti, ebbero un’unica legislazione. Anche per le lingue spagnola e portoghese fino a
quel momento ancora parlate nella comunità, il Risorgimento causò un indebolimento
assoluto: in quel momento non conveniva più utilizzare una lingua straniera, e infatti si
comunicava in italiano53. Quello che rimase però fu il bagitto, già adoperato nel ceto basso,
dai piccoli commercianti ed operai.
E così finì anche il periodo in cui gli ebrei di Livorno godettero di una vita relativamente
tranquilla, anzi, un po’ più da privilegiati che nelle altre Nazioni. Ciò non vuole dire che gli
ebrei non si siano dovuti confrontare con manifestazioni d’antisemitismo che si verificarono
dappertutto nel mondo di allora e continuano a verificarsi ancora oggi. Ci sono stati cinque
casi di antisemitismo: il primo nel 1751 e l’ultimo nel 1799, anche se la gravità e la
pesantezza di questi non si può paragonare con ciò che accadde al tempo dell’occupazione
tedesca. Di questo ne scrivo nel capitolo 6.
51
Cfr. Toaff, Renzo, 1992, ‘La nazione ebrea di Livorno’ in Itinerari di vita, Graphis Arte, Livorno, p. 23.
Un’apoftegma disse che era meno pericoloso toccare il granduca che toccare gli ebrei.
Per quanto si parlava l’italiano, perché il 90% della popolazione parlava in un dialetto. L’italiano era riservato all’alta società. Mazzini,
Cavour ed il Re Vittorio Emanuele II, normalmente parlavano in francese e l’ultimo quando comunicava con i suoi soldati si serviva dal
dialetto piemontese.
52
53
15
3. Il bagitto tra gli altri dialetti ebraici in Italia
Il bagitto non è l’unico gergo ebraico esistente in Italia. Molto prima dello stabilirsi dei
rifugiati sefarditi nella città labronica, la Penisola conosceva già tanti nuclei di ebrei.
Nonostante il fatto che il giudeo-parlare livornese si distingua notevolmente da tutti gli altri
dialetti ebraici italiani e che non sia possibile tracciarne uno sviluppo uniforme tra i diversi
dialetti distinti54, voglio accennare brevemente allo sfondo sul quale il bagitto, alla fine, ha
trovato il suo posto. Naturalmente non è il caso di affrontare qui tutte le particolarità di ogni
dialetto, né di trattare le differenze qualitative, in quanto il mio lavoro si è limitato ad un
calcolo quantitativo.
I dialetti giudeo-italiani hanno in comune l’uso dell’ebraico per la celebrazione della liturgia,
e qualche volta presentano una importazione ed esportazione lessicale dovuta alla mobilità dei
rabbini e di altre persone da una comunità all’altra. Nessuna di queste parlate ha lasciato le
sue tracce nel campo letterario nazionale, e quando parliamo di un’opera letteraria, bisogna
considerarla come un prodotto d’importanza locale, da capire soltanto nella cerchia degli
iniziati.
In pratica i vari parlari giudeo-italiani, una volta fissati a una certa città (o rione) non sono stati lo
specchio di una civiltà completamente articolata, ma soltanto la faccia familiare e tradizionale d’una
vita orientata per il resto sui dialetti italiani circostanti, sui rapporti economici e culturali con i goìm e
non è nemmeno sussistita una fitta circolazione tra i centri ebraici tale da ricostruire su vasta scala ciò
che non poteva svilupparsi su scala locale. (Segre 195555, p. 506).
Il periodo più importante, più vivace, per i dialetti ebraici, si incontra tra l`800 ed il`900.
Tutte le parlate ghettaiole persero importanza ed influenza a partire dall’emancipazione, cioè
dal momento in cui i ghetti furono sciolti e tutti gli italiani entrarono a far parte del corpus
della nazione: «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», come ha
predicato Manzoni.56 Una condizione per mantenere il dialetto giudaico57 si perse in quella
maniera.
In ordine cronologico vengono menzionate alcune parlate.
54
Qualche tentativo è stato fatto, p.e. da Max Berenblut, 1949, A Comparative Study of Judeo-Italian Translatons of Isaiah. Si veda anche la
recensione di B. Terracini, Recensione a M. Berenblut , in Romance Philology, X, 1956-57. pp. 243-58.
Segre, Cesare, 1955, ‘Benvenuto Tertacini, linguista e le parlate giudeo-italiane’ in Rassegna mensile d’Israel, 1955, pp. 499-506
56
Alessando Manzoni Marzo 1821, citato da Fornaciari 1983 op. cit. p. 435.
57
Paul Wexler, ‘Jewish Interlinguistics: Facts and Conceptual Framework’, in Language, 57 (1981) pp. 99-149. (La citazione è presa da
Mancini 1992, p. 64): ‘three reasons have commonly be proposed for the development of a Jewish language: (a) segregation: Jews are
allegedly unable to acuire the norms of the co-territoral non-Jewish dialects because of the limited exposure to non-Jewish society (…); (b)
religious separatism: Judaism encourages opening of Jewish speech toward Hebrew-Aramic enrichment (…); (c) migrations: persecution and
expulsions increase the likehood that Jews will be more broadly exposed to heterogeneous dialects and foreign languages than the relatively
more sedentari non-Jewish populations.’
55
16
La comunità più antica si trovava a Roma, esuli della seconda onda della diaspora (nel`70)
durante il periodo dell’Impero, in permanenza continua ma in circostanze variabili. Il rapporto
con la Chiesa cattolica, dal 380 religione di Stato, si è sempre manifestato in modo ambiguo,
rispondendo all’atteggiamento che in quel momento il Papa assumeva: una volta gli ebrei
vennero visti come gli assassini del Redentore Gesù Cristo e dovettero subire delle
persecuzioni e delle angherie; un’altra, il pontefice si mostrò interessato alle qualità
intellettuali e commerciali degli ebrei - tanti medici d’origine giudaica hanno lavorato alla
corte papale. Il periodo più favorevole per gli ebrei fu quello del Rinascimento. Un
peggioramento brusco si ebbe con la Controriforma (il Concilio di Trento, dal 1545 al 1563),
periodo in cui fu fondato il ghetto (1555). Gli ebrei furono costretti di portare un segno di
riconoscimento e a sopportare delle vessazioni severe. La permanenza nel quartiere separato e
recintato sulla riva del Tevere durerà – con un’interruzione dal 1798 fino al 1814 durante la
dominazione francese – fino al 1870, anno in cui un regio decreto vieterà ogni
discriminazione religiosa. Nonostante le avversità subite, la popolazione ebraica di Roma
crebbe durante i 315 anni di reclusione: da 1750 a 5000 persone. La permanenza nel ghetto
significò un cambiamento nel carattere delle attività quotidiane: la sartoria ed il commercio
dei vestiti usati erano i lavori per la maggior parte degli abitanti della zona recintata. Oggi ci
sono più di 15.000 persone di origine ebraica nella Città Eterna, dove si trovano anche dieci
sinagoghe.
La permanenza in un ghetto, con le relative scarse possibilità di comunicare con il mondo
esterno, ebbe un effetto considerevole per il consolidamento di un linguaggio dei residenti.
Mentre lo sviluppo linguistico dei cittadini romani seguì il suo corso naturale, cioè subì
l’influsso della cultura toscana (e così si formò il dialetto romanesco), gli ebrei conservarono
il carattere antico, anche se con qualche influenza del modo di parlare dei nuovi arrivati dalla
Spagna (1492), dalla Sicilia e dal Napoletano (e così ebbe origine il giudeo-romanesco):
il dialetto giudeo-romanesco non (è) altro in sostanza che l’antico dialetto romanesco conservatosi, con
poche modificazioni, entro la cerchia del quartiere giudaico (Del Monte 1976, citato da Massarillo
Merzagora 197758)
Nel complesso il quadro storico che è possibile ricostruire sulla base dei testi giudeo-romaneschi
postcinquecenteschi è quello di una varietà formalmente ben distinta dal romanesco di ‘seconda fase’,
tendenzialmente conservativa, la cui struttura risulta molto simile a quella del romanesco ‘basso’ dei
58
Massariello Merzagora, 1977, op cit. p. 64.
17
primi del Cinquecento, una struttura lontana da quell’adeguamento alla norma toscana che avrebbe
condotta il romanesco ‘medio’ cristiano a evolversi nel dialetto attuale. (Mancini 199259).
Gli stessi fatti storici (Controriforma) che hanno dato luogo al ghetto e alle sue costrizioni, causano
anche notevoli difficoltà sia al contatto con l’italiano, sia allo studio della lingua ebraica che,
continuamente presente nella vita religiosa, è però sempre meno conosciuta e capita. Tutto ciò favorisce
(…) «il ripiegamento su se stesse» delle parlate, in cui gli elementi essenziali diventano il dialetto del
luogo, che a volte tende verso un italiano le cui regole sono orecchiate ma non note (di qui i frequenti
ipercorrettismi e, ad esempio, i metaplasmi) e la «lingua sacra». (Modena Mayer 199760).
La lingua sacra non comprende soltanto l’ebraico per i servigi nella sinagoga e per le
preghiere, ma anche l’armaico, con il quale il Talmud è scritto per buona parte. Gli influssi
della lingua sacra si possono osservare in tutti i dialetti ebraici in Italia. Per questa ragione
qualcuno preferisce parlare di una koinè meridionale.61 In ogni caso va sottolineato che il
ghetto ha causato il fatto che il giudeo-italiano mostra ‘una fase più antica dello sviluppo della
lingua entro la quale la parlata si andava formando e viveva’.62 Non solo a Roma, ma in tutte
le città dove c’erano i ghetti e dove venivano parlati i dialetti ebraici.
Il giudeo-romanesco mostra un movimento contrario alla normalità, mentre le diverse parlate
giudeo-italiane mettono una desinenza italiana ad una parola ebraica. A Roma si usano parole
di origine romanesca o italiana con desinenze ebraiche: callaccia diviene challasciude (ebr. f.
plurale è –uth), mattita diviene mattitodde, schifata si trasforma in schiftitodde.63
Un documento del 1088 riferisce della presenza di un gruppo di ebrei a Ferrara,
probabilmente provenienti da Roma e dall’Italia centro settentrionale. Nonostante le misure
promulgate dall’Inquisizione, la vita per questi ebrei non fu pessima grazie alla protezione dei
duchi D’Este. Infatti, il duca Ercole I (1433 – 1505) invitò tanti ebrei cacciati dalla Spagna nel
1492 per la loro capacità nel commercio e nella medicina. La comunità ebraica fu completata
poi con l’arrivo dei profughi dalla Boemia grazie al permesso di Ercole II (1508 – 1559). A
Ferrara erano dunque presenti tre gruppi ebrei distinti: ‘italiani’, sefarditi ed ashkenaziti.
59
Mancini, 1992, op. cit. p. 61.
Modena Mayer, Maria 1997: ‘Le parlate giudeo-italiane’ in: Gli Ebrei in Italia, v.2 Storia d’Italia, Annali II, Einaudi, Torino, pp. 9391043, p. 943.
61
Cfr. Massariello Merzagora, 1977, op. cit. p. 9: La presenza cospicua di elementi da Roma nel formarsi anche di comunità nel Nord,
avrebbe contribuito alla diffusione della coinè giudaica a fondo romanesco net territori toscani, gallo-italici e veneziani formando la base
delle parlate giudaiche delle singole comunità, modificandosi poi più o meno rapidamente sotto l’influsso dei dialetti locali. Mancini 1992,
op. cit. p. 71 e Modena Mayer 1997, op. cit. p. 946.
62
Fortis, Umberto 2006: La parlata degli ebrei di Venezia e le parlate giudeo-italiane, Giuntina, Firenze. p. 63.
63
Cfr. Massariello Merzagora, 1977, op. cit. p. 70.
60
18
La situazione per i giudei peggiorò sensibilmente a partire dal 1598 in poi, con la devoluzione
dello Stato Estense alla Chiesa. Il ghetto fu decreto nel 1624 ed aperto nel 1627 e gli ebrei
furono costretti a portare il segno di riconoscimento. Ferrara non era l’unico posto
dell’Emilia-Romagna dove il pugno di ferro del Vaticano si faceva sentire, in quel periodo si
assistette ad un andirivieni di rifugiati tra Ferrara, Bologna, Modena e posti più modesti come
Lugo. La permanenza nel ghetto ferrarese, con una breve sospensione durante l’occupazione
dei francesi, durò fino al 1860. Nell’800 la comunità contava circa 2000 membri. Nel 1931,
822 membri; nel 194364, 183 ebrei su 400 furono deportati, fra questi solo cinque persone
riuscirono a tornare. Oggi la comunità conta solo 70 membri.
Nell’interbellum si nota già una differenza non presente un secolo fa nel registro linguistico:
la classe media parlava l’italiano, il ceto più umile s’avvicinava al dialetto ferrarese. La
parlata del ghetto si poteva distinguere da una particolare intonazione, qualche volta rotta e
febbrile, qualche volta stracciata, e dall’uso di parole ebraiche.
Quantunque religiosissimo e praticante (…), pure, in casa non parlava mai di religione, né della propria
né dell’altrui. Si limitava a esprimersi nel particolare dialetto, simile a quello ferrarese, ma pieno di
parole ebraiche, d’uso normale dalle parti di via Mazzini: ed era tutto. Fatto si è che in bocca sua
nemmeno le parole ebraiche avevano niente di misterioso, di strano (Bassani, 198065).
Il giudeo-ferrarese dunque è la combinazione di parole ebraiche, più o meno italianizzate, e di
elementi del dialetto locale, come ad esempio nell’assimilazione consonantica (vener <
vendere, grana < grande, kanela < candela).
Il potere degli Este si estese anche a Modena già popolata nel 1393 da un nucleo di famiglie
d’ebrei che possedevano un ‘banco’. Il clima di tolleranza attirò altri ebrei dalla Romagna e
dal Veneto e dopo l’espulsione dalla Spagna e dal Portogallo anche i profughi sefarditi si
stabilirono nella città. Dopo il 1598, quando Ferrara venne messa sotto l’autorità papale,
anche i Ferraresi cercarono rifugio a Modena. Il ghetto fu stabilito nel 1638. In seguito la
laboriosità degli ebrei fu rafforzata dai nuovi arrivati dalla Germania e dall’Olanda. Il
contesto ebraico era dunque composto da elementi ‘italiani’, ‘sefarditi’ e ‘ashkenaziti’. Lo
svolgimento storico a Modena era come tutte le altre comunità settentrionali. Attualmente la
comunità conta circa 70 membri. Al contrario di altre città non esiste un’evidente divisione a
Modena tra i due ceti nel parlare il giudeo-modenese. La differenza principale tra il giudeomodenese e l’italiano ed il gergo modenese sembrerebbe essere un’opposizione fonetica. Per
64
65
Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p. 41.
Bassani, Giorgio, 1980, Dentro le mura, Mondatori, Milano, p. 81.
19
il resto è impossibile indicare un dialetto giudeo-modenese strettamente definito, visto il
movimento dinamico tra Modena e le altre città durante gli ultimi quattro secoli. La situazione
linguistica non poteva essere di conseguenza per niente stabile.
La presenza ebraica a Venezia risale già al medioevo: i censimenti del 1152 e del 1190
testimoniano l’esistenza dell’isola della Giudecca, dove i primi ebrei si erano stanziati.
Quest’isola non funzionò come un ghetto, perché il ghetto – il primo in Italia - si fondò solo
nel 1516 sull’isola di Cannaregio. L’economia dinamica della Serenissima aveva attirato a sé
tanti commercianti ebraici dall’Oriente, dai paesi d’Oltralpe (Germania e Polonia in
particolare) e dall’Italia meridionale e da Roma. Così si formarono tre gruppi distinti,
rispettivamente i ‘levantini’, i ‘todeschi’ oppure gli ‘askenazati’ e gli ‘italiani’66. Ogni gruppo
aveva il suo rito diverso e conseguentemente la propria sinagoga . Gli ‘italiani’ si sono uniti
alla lunga ai ‘todeschi’, che furono in maggioranza dei poveri profughi. Già nel XIV secolo
gli ebrei furono costretti a portare un contrassegno: un cerchio giallo ed un capello giallo, il
colore per il cappello fu in seguito sostituito dal colore rosso. Dopo l’espulsione dalla Spagna
(1492) e dal Portogallo (1497) si aggiunsero i cosiddetti ‘ponentini’ o ‘sefarditi’. Così
rimasero tre ‘nazioni’ dell’università degli ebrei, ben distinti anche nelle parlate. Da qui la
formazione di un gergo uniforme, il giudeo-veneziano, si concretizzò solo lentamente. I
componenti che l’hanno costituito sono le voci ebraiche, le nozioni dialettali locali, l’italiano,
il giudeo-italiano (o la koinè giudaica, come si vuole), lo spagnolo e lo yiddish. Il risultato
rivela anche una certa integrazione tra il linguaggio degli ebrei con quello dei cristiani
veneziani. La popolazione ‘ghettaiola’ ammontò a circa 5.000 persone.
Il ghetto fu abolito dal 1797 al 1814, anno in cui gli austriaci, ripresi i propri diritti sulla
Serenissima, ritolsero i diritti agli ebrei . Questo periodo di disuguaglianza finì nel 1866 dopo
‘la guerra di sette settimane’, quando Venezia entrò nel Regno d’Italia.
La shoah colpì anche la comunità ebraica veneziana: 200 ebrei veneziani – di una totalità di
8.000 ebrei italiani –furono deportati nei campi tedeschi. La comunità conta oggi circa 500
membri, sparsi tra Venezia e Mestre.
Il giudeo-veneziano non è mai stato un dialetto solo per gli iniziati, né un linguaggio secreto.
Un’analisi linguistica del ‘«linguazzo» misto di elementi dialettali locali e di termini ebraici’,
fatta da Massariello Mezzagora67, rivela un certo livello di integrazione tra la parlata degli
ebrei e quella dei cristiani, con i quali l’elemento importante dell’esistenza di un gergo, cioè il
66
67
Cfr. Fortis, 2006, op. cit., p. 69.
Cfr. Massariello Mezzagora, 1977, op. cit., p. 34.
20
non farsi capire dagli estranei, viene meno. Si può dunque concludere che ‘la parlata giudeoveneziana non abbia mai avuto un suo distinto sistema fonetico, morfologico e sintattico
capace di resistere all’influsso del dialetto dominante.’68 Quello che consideriamo come la
parlata giudeo-veneziana è soprattutto un complesso di espressioni, locuzioni, proverbi e modi
di dire di origine ebraica.69 In buona sostanza utilizzo una definizione che vale per quasi tutte
le parlate giudaico-italiane.
I primi ebrei rintracciati a Trieste risalgono al 1492. Qui poterono vivere in un clima di
tolleranza moderata – nonostante il ghetto (dal 1696 al 1784) -, dunque con le condizioni
sufficienti per lo sviluppo di un dialetto giudeo-triestino. Il gergo non si manifesta qui
diversamente da quello di Venezia, con aspetti antichi e con forme particolari che vengono
dall’Istria. Nel 1939 il totale degli ebrei raggiungeva quasi le 7.000 persone, non tutti di
nazionalità italiana. Oggi la comunità conta 700 membri.
A Mantova si trovano le prime tracce di un insediamento ebraico fin dall’inizio del`400.
Sotto il ducato di Gonzaga (1530–1708) la comunità ebraica crebbe molto – e arrivando a
contare più di 3000 persone, il 7 % dell’intera popolazione - , nonostante qualche moto
antiebraico, come uccisioni e confische dei beni. Il ghetto fu installato nel 1612, ma anche una
calamità come l’epidemia di peste dal 1620 al 1630 significò un attacco al benessere degli
ebrei: pur non avendo subito perdite nella propria sfera, vennero accusati di essere gli untori.
Il massimo della persecuzione in quel periodo fu il sacco delle truppe tedesche negli anni
1629-30 e il bando dalla città. In seguito ritornarono. Nel 1708 la casata d’Asburgo d’Austria
assunse la dominazione di Mantova. In quel periodo esistevano tre sinagoghe per il rito
tedesco e due per il rito italiano. Il ghetto fu abolito nel 1797 quando i francesi ebbero la
possibilità di mettere in pratica le loro idee di libertà, uguaglianza e fratellanza.
Gli ebrei di Mantova furono attivi nella guerra risorgimentale e conseguentemente scapparono
dalla città. Gran parte di loro si stabilì a Milano, la città che fino all’inizio dell’Ottocento non
aveva mai avuto un nucleo di ebrei, dato che durante i ducati dei Visconti e poi degli Sforza
non venne loro permesso di fermarsi per più di tre giorni consecutivi.70 Il primo nucleo di
ebrei a Milano fu dunque un gruppo proveniente da Mantova come ‘sezione’ di quella città.
Per la parlata degli israeliti milanesi bisogna dunque osservare il giudeo-mantovano. Milano,
infatti, non ha mai avuto un ghetto e quindi neanche una prima condizione per dar vita ad un
68
Fortis 2006, op. cit., p. 74.
Ibid. p.74.
70
Per questo motivo si trova fino all’800 nei paesi intorno a Milano l’alloggio di tante famiglie di commercianti ebraici, che potevano tornare
ogni sera a casa dopo il loro lavoro nella città.
69
21
dialetto o gergo che nel contesto ebraico nasce da questo vincolo sociale imposto. Nel 1866 la
comunità ebraica di Milano diventa più grande di quella di Mantova di cui faceva parte
ottenendo l’autonomia. Le leggi razziali e le persecuzioni dai nazisti non passarono senza
implicazioni per le due comunità: le deportazioni nei campi di sterminio diminuirono il
numero dei residenti ebraici, dei quali molti fuggirono in Svizzera, in Palestina e negli Stati
Uniti71. Oggi la comunità di Mantova conta 79 membri e quella di Milano 7.500.
Per quanto riguarda il giudeo-mantovano si nota la mancanza di parole originalmente
provenienti dalla Spagna o dal Portogallo. Le differenze tra il giudeo-mantovano e il
mantovano constano soprattutto di una differenza fonologica: o e u di contro a ö e ü, (cor,fiol,
dur e cör, fiöl, dür)72; una differenza nella coniugazione dei verbi73 e la conservazione delle
protoniche. Ci sono inoltre influenze del dialetto toscano e romano.
La storia della presenza degli ebrei a Firenze non risale ad un passato molto lontano. Esiste un
invito del 1437 di Cosimo il Vecchio de’Medici a stabilirsi nella città per aprire banchi di
pegno. Il carattere dei loro affari ed il successo riscosso nel benessere materiale evocò subito
sentimenti d’antisemitismo nella popolazione locale dato che ai cristiani non era permesso di
trarre beneficio dal prestito del denaro. Firenze, la culla del Rinascimento e dell’Umanesimo,
approfittò intanto in modo considerevole, sia commercialmente che culturalmente, della
presenza degli ebrei durante un interno secolo. Le cose si aggravarono nel 1571, quando il
ghetto fu installato e i giudei furono costretti a portare un segno di riconoscimento, entrambi
provvedimenti emanati da Cosimo I come un gesto favorevole al Papa Pio V, che gli aveva
concesso il titolo di Granduca. Il cancello principale del ghetto portava lo stemma mediceo e
la scritta:
Cosimo dei Medici, Granduca di Toscana, e suo Figlio il Serenissimo Principe Francesco, animato
verso tutti da grandissima pietà, vollero che gli ebrei fossero racchiusi in questo luogo, separati dai
cristiani ma non espulsi, affinché potessero, per mezzo dell'esempio dei buoni, sottoporre le durissime
cervici al leggerissimo giogo di Cristo, Anno 1571.
La scritta è a maggior ragione particolare, perché sta in stridente contrasto con il trattamento
dello stesso duca verso gli ebrei a Livorno. Le poche libertà rimaste furono ritirate da Cosimo
71
Scapparono 5.000 delle 12.000 persone che in quel momento erano presenti a Milano, 896 è il numero delle persone che furono deportate.
Cfr.Massariello Mezagora, 1977, op. cit., p. 26.
73
L’esempio del verbo ‘piangere’ che riporta Massareillo Merzagora ,1977, op. cit., p. 28 è troppo bello per non citare qui: (gm): mi piánši, ti
piánšet, lu piánša, nu pianšém, vu pianší, lor piánšen di contro a (m) mi a pianši, ti at pianši, lu al pianś, lé al pianš, nüaltar a pianšéma,
vüalter a pianši, lor i pianši, lor le pianš. La somiglianza della coniugazione del giudeo-mantovano con la coniugazione del verbo modale
tedesco (willen, können, ecc.) è notevole e indicherebbe il contributo ashkenazito.
72
22
III, ‘uno dei regnanti più bigotti dell’Europa di allora’,74 che pure ampliò il ghetto (1704).
Solo quando la famiglia Lorena successe alla famiglia de’Medici la situazione migliorò. Dal
1755 in poi il ghetto continuava ad esistere, ma le sue porte rimanevano aperte durante la
notte e dal 1779 gli ebrei poterono acquistare le loro case, cosa che era stata impossibile per
secoli. L’arrivo dei francesi significò la prima ripresa di parità di diritti per gli ebrei che anche
con il ritorno dei Lorena non videro revocare loro tutte le libertà acquisite fino a quel
momento. Nel 1848 i cancelli del ghetto furono demoliti definitivamente. Il ghetto fu
evacuato nel 1885. Firenze è stata a lungo il centro della cultura ebraica in Italia, un ruolo che
oggi spetta a Roma. Nel 1931 c’erano 2730 membri della comunità fiorentina75, oggi – a
causa delle persecuzioni naziste e al normale iter demografico – il numero dei membri consta
di circa 1.000 unità.
Il giudaico-fiorentino è soprattutto – come per quasi tutti dialetti attribuiti agli ebrei in Italia un dialetto parlato e ascritto agli strati socialmente inferiori76 e può essere caratterizzato da
vocaboli ricavati da termini ebraici e dalle forme dialettali di Firenze e della Toscana (i
meriodionalismi). Nella pronuncia si incontra la gorgia, un fenomeno molto comune nel
fiorentino. A parte l’assenza in gran parte di parole d’origine sefardita, il dialetto giudaicofiorentino assimila in modo considerevole il dialetto giudeo-livornese. Come prova di questo
fatto ho aggiunto a questo lavoro un articolo di Renzo Ventura77 dalla rivista Firenze Ebraica
Anno 21 – n. 2-3, Marzo/Giugno 2008 –Shevat/Sivan 5768, come Supplemento 6. Gli ebrei
livornesi che ho incontrato l’hanno letto con riconoscimento e con piacere.
Nel 1394 la Francia espulse gli ebrei dal suo territorio, gran parte di loro si stabilirono nel
piemontese a Savigliano. Nel 1424 furono ammessi a Torino per aprire i banchi di prestito e
nel 1430 il duca sabaudo Amadeo VIII formalizzò la permanenza degli ebrei a Torino con Gli
Statuta Sabaudiae, in cui prescrisse una rigida separazione tra i cristiani e gli ebrei, i quali
furono costretti a portare un segno di riconoscimento giallo. La comunità ebraica crebbe con
l’arrivo dei profughi dalla Spagna dopo il 1492. Anche gli ebrei provenienti dalla Germania
cercarono rifugio a Torino, cosicché la comunità era composta da ashkenaziti e sefarditi,
alcuni in buone condizioni economiche, altri nell’indigenza. Con la Controriforma il clima di
74
http://www.firenzebraica.net/firenzebraica/italiano/dettagli.
Cfr. Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p. 50.
76
Esiste una fonte scritta: la commedia ‘La Gnora Luna, scene di vita ebraica fiorentina’, scritta da Benè Kedem (Umberto Cassuto) nel
1931-32, ma in dialetto giudaico-fiorentino del 1850. Il linguaggio era già – secondo l’autore nella premessa - morto, ma la commedia venne
apprezzata moltissimo dalla gente di piccola e media borghese all’epoca (Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p. 53). Da questi dati si può
concludere che il dialetto in questione venne in disuso dopo l’abolizione del ghetto e – ovviamente – che lo status sociale del popolo ebraico
migliorò, probabilmente anche grazie al primo fatto. Nella commedia si fa sentire la canzone della Gnora Luna, che si è creata fuori dal
ghetto, anzi, che ha un carattere antiebraico.
77
Ventura, Renzo 2008: ‘Il giorno dello iodio’ in: Firenze Ebraica Anno 21- n. 2-3, Comunità ebraica di Firenze, Firenze, pp. 52-4.
75
23
vita per tutti i membri della comunità peggiorò. Anche a Torino fu istituito un ghetto, anche
se un secolo dopo rispetto ad altre città: nel 1682. Nonostante questo la situazione per gli
ebrei non era drammatica in confronto a quella delle altre città italiane. L’occupazione
francese nel 1798 significò l’inizio della liberazione degli ebrei da una vita troppo ristretta.
Dopo un breve intervallo di ritorno – ma traumatico lo stesso - nel ghetto (dal 1814 fino al
1848)78 gli ideali del Risorgimento, i diritti di uguaglianza, valsero per qualsiasi persona
indipendentemente dalla fede o dalla razza. (Statuto Albertino). Tanti ebrei torinesi
parteciparono attivamente al Risorgimento. Camillo Benso Conte di Cavour ad esempio era
affezionato ai figli del popolo vecchio. La liberazione dalle limitazioni sociali significò allo
stesso tempo una distanza dalla tradizione della fede e dei riti.
Nel censimento del 1931 c’erano 4040 ebrei a Torino79. Ora la comunità conta circa 1.000
membri.
Come già menzionato il contesto linguistico della popolazione ebraica a Torino è in gran parte
francese e iberico e ciò è causa della creazione di un dialetto specifico. Questo significa che il
dialetto si manifesta con termini ebraici e con adattamenti all’italiano e ai dialetti locali.
Poiché Torino è stata il punto d’arrivo di tanti stanziamenti precedenti nella regione, non si
può distinguere un dialetto ben preciso di una città sola. In questo caso non si parla di un
‘giudeo-torinese’, ma di un ‘giudeo-piemontese’80, che non era parlato da un gruppo
socialmente minacciato – e che usava il gergo per motivi di autodifesa - , ma da tutta la
popolazione ebraica senza distinguo sociale. Il gergo potrebbe essere definito come un
impasto di parole piemontesi, monferrine, italiane e ebraiche. Qualche esempio del giudeopiemontese si presenta nella formazione del femminile da parole maschili ebraiche con il
suffisso ‘-eussa’ (che viene dal dialetto piemontese) {meleh>melahheussa (re>regina)} o ‘-tà’
(che viene dall’aramaico, ma che esiste anche nell’italiano) [mamzer>mamzertà {un uomo
abietto>una donna ignobile (originariamente ebraico mamzer: figlio proveniente da un rapporto
illecito)}] o ‘-à’ (secondo la forma italiana) {iaf>iafà (bello>bella)}, {tov>tovà (buono>buona)}. Il
verbo formato da una voce ebraica ottiene nell’infinito il torinese ‘é’: {hharé (perdere)}.81
78
L’anno non è molto univoco, cfr.:
‘Ricordo i frammenti uditi dalla storia delle famiglie da cui la mia è nata. L’oscuro destino entro cui si sono sempre dibattute. Da
appena due generazioni i Sonnino e i Dilani hanno potuto essere liberati dall’umiliazione del ghetto di Roma entro cui i padri dei
padri erano nati e cresciuti. Le mura del ghetto caddero nel 1870 e da quell’anno i miei avi furono liberi. Ma portavano in sé il
ricordo di ciò che avevano subito, delle notti d’angoscia in cui gruppi di fanatici penetravano nel ghetto per rapire i loro figli e
consacrarli col battesimo a un’altra religione, delle sofferenze della segregazione, dell’abiezione verso cui erano sospinti’.
(Sonnino, Piera, 2006, Questo è stato, Una famiglia italiana nei lager, Saggiatore, Milano, p. 72).
79
Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p.13.
80
Molti dati li dobbiamo a Roberto Bachi che nel ‘Saggio sul gergo di origine ebraica in uso presso gli ebrei torinesi verso la fine del sec.
XIX’, in Rassegna mensile d’Israel 1929, pp. 21-35 ha raccolto tante voci, proverbi e detti della parlata giudeo-piemontese dalla fine del
‘800, e a B. Terracini, che ha pubblicato due testi del secolo XIX in ‘L’emancipazione degli ebrei piemontesi’ in Rassegna mensile d’Israel
1949, pp. 62-77.
81
Gli esempi vengono da Massariello Merzagora, 1977, op. cit., pp. 15-6.
24
In generale il dialetto giudeo-piemontese è difficile da distinguere nettamente, perché la diversità dei
dialetti che l’hanno influenzato non ci dà una forma con una struttura fono-morfologica univoca. Per
quel che riguarda l’elemento ebraico si può concludere che non si tratta soltanto di un gergo utilizzato
per escludere un mondo più o meno ostile, ma piuttosto per creare «frasi ricche di quel contenuto
affettivo che volentieri si esprime nell’immediatezza di una tradizione essenzialmente famigliare»82.
In un schema:
inizio
Roma
abolizione
ghetto
ghetto
1555
1870
ebraico
ashkenazito
X
-
spagnolo portoghese
83
dialetto
84
X
-
85
romanesco
napoletano
siciliano
Ferrara
1627
1860
X
X
X
Modena
1638
1860
X
X
X
Venezia
1516
1866
X
X
X
Trieste
1696
1784
X
X
X
86
-
ferrarese
-
modenese
-
veneziano
-
variante
veneziano
Mantova 1612
1797
X
-
X
-
mantovano
Firenze
1571
1885
X
-
X
-
toscano
Torino
1682
1848
X
-
X
-
piemontese
Figura 1: I dialetti ebraici in Italia minus il bagitto.
La figura mostra che i dialetti hanno un grande conformità per quanto riguarda la presenza di
parole ebraiche, ma anche di parole spagnole. La differenza fra questi si rivela nell’elemento
del dialetto locale, ma anche lo scambio fra di loro ha lasciato ha le sue tracce. L’esistenza di
un ghetto viene visto come una condizione per lo sviluppo e la conservazione del dialetto
ebraico. Siccome ci sono delle divergenze di durevolezza tra i ghetti reciproci sarebbe
interessante sapere se queste divergenze abbiano causato anche una differenza nellea
conservazione del dialetto in questione. La letteratura specialistica non fornisce una risposta
definitiva in merito.
82
Terracini, ‘Due composizioni in versi giudeo-piemontesi del secolo XIX’ in Rassegna mensile d’Israel 1937, pp. 179-80, citato da
Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p.24 (da cui la citazione).
83
Ashkenazito qui è inteso non è come una indicazione geografica, ma linguistico: lo yiddish o ‘todesco’ (Venezia).
84
Molte volte la differenza tra le parole spagnole e le parole portoghesi è difficile da distinguere, quello che conta è il luogo di provenienza
dei parlanti.
85
Anche visto come koinè.
86
‘Ponenti’e ‘levantini’: la lingua in tutti e due i casi è lo spagnolo, ma fra di loro c’è una differenza in tempo. I ‘levantini’sono arrivati
prima e con una deviazione, una permanenza temporanea nell’Europa dell’est e nel Medio Oriente.
25
La storia del bagitto, il dialetto che gli ebrei hanno parlato e parlano ancora oggi nella città
labronica, è ben diversa agli altri dialetti ebraici in Italia. L’arrivo dei profughi dalla Spagna
nel 1492 e poco dopo nel 1496 dal Portogallo dette impulso all’uso dello spagnolo nei dialetti
ebraici già esistenti. Quando una seconda onda di esiliati provenienti dal Portogallo, dal 1537
in poi dopo l’introduzione dell’Inquisizione, sommerse l’Italia, gli ebrei cercarono i loro
correligionari arrivati anteriormente. Questi si erano assimilati con gli ebrei già esistenti e
caratterizzati dal loro contributo linguistico spagnolo. Così i cristãos novos trovarono un
clima già stabilito con un linguaggio già consolidato. Non fu difficile per i nuovi arrivati
imparare il dialetto e cancellare il portoghese, perché le due lingue assomigliavano parecchio
ed anche la loro origine spagnola era in comune. Il portoghese non ebbe alcuna influenza nei
dialetti ebraici italiani. C’era lo spagnolo, ma uno spagnolo del tempo dell’espulsione, dunque
già al tempo un po’ obsoleto87.
Diversa era la situazione a Livorno, dove non si trovava un nucleo spagnolo già esistente. I
‘marani’ poterono creare la loro comunità senza alcuna zavorra rispetto al passato. Anche nel
linguaggio erano lasciati liberi, ottenendo ‘un’autonomia linguistica’88. Così si sviluppò in un
primo momento una situazione di bilinguismo: lo spagnolo89 accanto al portoghese90 senza
prevalenza dell’uno o dell’altro, ma ognuno riservato a settori diversi della vita sociale. Il
portoghese divenne la lingua della giurisprudenza, perché parlato dalla maggioranza della
popolazione. Così tutte le leggi, gli atti ufficiali e i regolamenti – fino al 1787, quando
l’italiano prescritto dal Granduca divenne obbligatorio –venivano scritti in portoghese. Lo
spagnolo invece, era diventato la lingua della vita culturale, della letteratura sacra91 e profana.
Probabilmente lo spagnolo ottenne tale applicazione grazie al fatto che nelle altre città
italiane, dove già era presente una produzione letteraria ebraica, ci si servì dallo spagnolo, in
questa maniera lo spagnolo aveva già acquisto prestigio come lingua adatta a questa forma di
cultura92. Nella cerchia familiare si parlava naturalmente la lingua originaria: lo spagnolo per
gli ebrei che si erano stanziati nella città dopo una permanenza nel Levante – i primi esili
87
Per essere più preciso: il castigliano della fine del Quattrocento, cfr. Fornaciari, 2005, op. cit., p. 19.
Ugualmente a Amsterdam. Cfr. Tafani, 1959, p. 66.
89
Cfr. nota 51. Incluso il ladino, un particolare giudeo-spagnolo funzionante come lingua-calco con aspetti sintattico-testuali di tipo semitico.
Cfr. Franceschini, 2007, op. cit., p. 127. Girò anche una parlata, usata nei porti mediterranei, una ‘lingua degli scali del Levante’ o una
‘lingua franca’, con una grammatica rudimentale ed un lessico magro, una lingua pedgin che ha assorbito parole di provenienza eterogenea,
‘con i verbi all’infinitivo e vocaboli storpiati secondo la pronunzia degli orientali’. (Bedarida, 1992, op. cit., p. 87) Nella letteratura bagitta si
trova qualche esempio di questa ‘lingua franca’, per esempio da Rafaello Ascoli 1886, op. cit. e da Guido Bedarida 1928: ‘Cantiga a la
moscia’ in Un intermezzo di canzoni antiche da recitarsi quand’è Purim (citato in Bedarida 1992, op. cit., p. 87-9), ma sono dei giacimenti
rari.
90
O il giudeo-portoghese.
91
Non soltanto nella letteratura, anche le iscrizioni sulle lapidi nel cimitero ebraico di Livorno sono – ad eccezione di tre sulle 339 casi –
scritte in spagnolo. Il cimitero è appunto un luogo sacro. Una spiegazione in più potrebbe essere il fatto che più volte sulla lapide è aggiunto
qualche verso di una poesia o qualche brano di prosa letteraria, dunque per rimanere in tono ci vuole lo spagnolo, la lingua impiegata per le
lettere.
92
Per stanziare questo fatto: non si trova nessuna pubblicazione letteraria in lingua portoghese stampata a Livorno. I tipografici livornesi del
resto non erano d’origine portoghese.
88
26
dall’espulsione del 1492 -, il portoghese per il gruppo che era arrivato direttamente dal
Portogallo. Nella sinagoga la liturgia si svolgeva in ebraico, come si faceva nelle altre città, e
si cantavano le canzoni e i cantari in ebraico, castigliano, portoghese e ladino. All’inizio non
c’era un dialetto giudeo-livornese.
Una seconda differenza con la situazione nazionale si manifesta nel fatto che non c’è mai
stato un ghetto a Livorno, con cui un argomento di Wexler93 venne annullato per sviluppare
un linguaggio per iniziati. Non si tratta qui di un Sprachinsel94, e così la toscanizzazione ha
potuto compiersi senza ostacoli esterni. La gestazione del bagitto potrebbe aver avuto luogo
nel secolo XVIII. L’arrivo di tanti correligionari nordafricani e levantini ridusse l’egemonia
della componente sefardita e il portoghese perse l’influenza come la lingua della
giurisprudenza. Il giudeo-parlare livornese cominciò dunque – una terza differenza – nella
maggioranza dei casi un secolo più tardi rispetto agli altri dialetti ebraici, come rivela la figura
1. Il risultato finale è un dialetto composto dallo spagnolo, dal portoghese95, dall’ebraico,
dall’aramaico e dall’italiano, elementi che si sono influenzati l’un l’altro, una forma ibrida
con ‘elementi fonetici, lessicali, fraseologici e, in misura minore, morfologici e sintattici’96 di
origini diversa. La prima recessione del bagitto comincia con il Risorgimento, questo lo
approfondirò nel capitolo 6.
Alcune caratteristiche del bagitto – a parte la presenza di parole italianizzate che vengono
dall’ebraico97 e dalle lingue iberiche98 - sono:
-
l’intonazione: una caratteristica che l’ebreo distingue da altre parlate sta
nell’inflessione nasalizzata e cantilenata, che a Livorno ancora si rafforza con un
rallentamento nel modo di parlare tipicamente toscano che pone enfasi sulle
consonanti, e gli conferisce una cadenza specifica (che non vige sempre nel bagitto: le
interconsonanti si raddoppiano nel toscano, nel bagitto il fenomeno non si manifesta in
93
Cfr. nota 57.
Cfr. Mancini 1992, op. cit., p. 62.
95
‘La sovrabbondanza infatti di elementi iberici (anche voci ebr. e aramaiche giungono al bagito spagnolizzate) rappresenta infatti la
caratteristica del giudeo-livornese che acquista una certa consistenza verso il sec. XVIII.
Alla formazione di tale parlata concorsero l’eredità di vocaboli spagnoli e portoghesi di cui sopra, i termini ebraici nella veste data dai
‘marrani’, naturalmente il livornese e infine per alcuni aspetti il pisano. (A parte le connessioni interne tra i due dialetti e la dipendenza
originaria del livornese dal pisano, resta la realtà storica che i primi membri della comunità di Livorno provenivano da Pisa)’. (Massariello
Merzagora 1983, op. cit., p. 78).
96
Tavani, Giuseppe 1959: ‘Appunti sel giudeo-portoghese di Livorno’in; Annali dell’Istituto Universitario Orientale, sezione Romanza, v. 1,
fasc. 2, IUO, Napoli, pp. 61-100, la citazione p. 69.
97
Non soltanto e sempre con un suffiso, cfr. smazàl<ebr. mazzal: fortuna, che viene negato dal prefisso (della negazione) s-.
98
Qualche volta c’è la combinazione di ebreo e di spagnolo, p.e. dall’ebr. gannow, giudeo-spagnolo gannaw (ladro) si costruisce un verbo in
modo spagnolo con il suffisso –ear: ganavear (rubare) che poi viene italianizzato con il suffisso -e: ganaveare (rubare).
94
27
maniera tale: ad esempio ‘e nnon a mme’ versus ‘e non a me’.99 L’accento ha mostrato
di essere un carattere distintivo traditore durante la seconda guerra mondiale.
-
il modo di esprimersi: un elemento distintivo si verifica nel ‘parlare per immagini e
allusioni, per allegorie e antifrasi’100. Sono gli aspetti folcloristici, evocati dalla
‘vivacità ebraica, combinata con l’arguzia toscana e la causticità livornese’101. Un
classico esempio in questo campo è l’imprecazione:
che ti venga una maccà
da qui fino a Ḥanukkà,
e da Ḥanukkà a Purim
che ti vengano i ḥolaím 102.
Sapienza di vita che viene registrata nei proverbi e aneddoti che fanno parte della
coscienza collettiva della popolazione ebraica:
chi di ña’rel si fida, chazir mangia 103
chi di meglio non ha, con la su’ negra moglie scioḥei 104
rimanere come il chazan d’Olanda 105
Il dialetto livornese è caratterizzato peraltro spesso da detti che esprimono il contrario.
L’origine di questa forma di linguaggio metaforico è difficile da recuperare, ma non si
esclude un contributo proveniente dalla parte della comunità ebraica.106.
99
L’esempio viene da Fornaciari, 2005, op. cit., p. 38.
Ibid., p. 41.
101
Bedarida 1992,op. cit., p. 96.
102
Maccà <ebr. makko: ferita, flagello, colpo; Ḥanukkà<ebr. chanuko: inaugurazione (del Tempio), una festa di otto giorni nel mese
dicembre; Purim<ebr. Purim pl. di pur: festa nel 14° giorno del mese ader , quando si ricorda la liberazione degli ebrei in Persia ad opera di
Ester (la mascherata) . La festa viene celebrata come un carnevale ebraico nel periodo marzo-aprile. Ḥolaím<ebr. cholé: malato,
(begoulesj<yiddish: affetto ad una malattia venerea). L’imprecazione potrebbe essere sufficiente con i due primi versi, gli altri due versi
potrebbero servire come un rafforzamento del precedente, almeno per allungare il periodo di malessere. Io ho sentito gli ultimi due versi solo
come una risposta dalla persona a cui i primi versi erano stati rivolti.
103
Chi si fida di un goi, mangia alla fine carne di maiale, dunque molto tarèf (impuro)
104
Scioḥeare<ebr.: dormire. Il proverbio mostra una somiglianza allo spagnolo «Quien mas non puede con su mujer se acuesta». Scioḥei è –
grammaticalmente giusto - la declinazione terza persona singolare congiuntivo presente, per la rima si vede anche l’indicativo scioḥea.
105
Rimanere da solo all’improvviso, basito.
106
‘Nessun dubbio che il modo di esprimersi di un semita trovi origine, come fu detto, nella sua mentalità: quella di un veggente che afferma
di essersi avvicinato alla Divinità, o di essere stato da Questa avvicinato – e deve, perché gli altri lo credano, affermarlo recisamente.
Linguaggio quindi il suo vivace, netto, preciso, anche se ciò che si afferma, talora non è esatto; ampio pure per le cose più grette; linguaggio
colorito, come le sue vesti, o drogato come i suoi cibi. E nel caso del parlar giudaico-livornese, caratteristiche, diciamo così, lo stile biblico
mescolato all’ampollosità spagnolo e alle giocondità toscana; anzi, starei per dire ebraico e spagnolo «salati» dal toscano (Pisani e Livornesi
non la credono ai Fiorentini in arguzia e per prontezza e acutezza di risposte); e certe rigidezza primitive smussate dall’umanità degli ultimi
ospitanti, i Toscani. Ma l’uso (e l’abuso) dell’immagine, del proverbio, del detto sentenzioso, è sempre Oriente; è la parabola che costituisce
esempio e insegnamento ai viventi, e ricordo della saggezza avita.’ (Bedarida 1956, op. cit., p. XIX).
100
28
-
alcuni elementi fonetici: il bagitto ha semplificato la diversità degli articoli
determinativi. Ne esistono solo tre tipi: maschile singolare lo, femminile singolare la e
per i due generi il plurale li. Conseguentemente i sostantivi e gli aggettivi femminili al
plurale hanno la desinenza maschile –i.
Nei pronomi personali mi/ti/ci/vi il –i cambia in –e: me/te/ce/ve, come la proposizione
di che diviene de e la particella si che si presenta come se.107
La perdita della doppia consonantie balare <ballare, polo<pollo, fẹro<ferro,
stọfa<stoffa, ma qualche volta invece accade anche il contrario: il raddoppiamento di
una consonante: robba<roba.
Il cambiamento della laterale alveolare l nella liquida vibrante r (tra l’altro molto
comune nel linguaggio toscano): che cardo!, quarcuno, i sordi non bastano mai!,
l’aglio non fu mai dorce.
Quando la laterale alveolare l si avvera doppia, la pronuncia è palatale λ:
capegli<capelli.
La fricativa dentale intervocale sorda s è diventata sonora ∫: ca∫a<casa108, l’affricata
palatale sorde c avanti a e e i diveniva sonora g: bagio<bacio, l’occlusiva bilabiale p
viene realizzata aspirata come la fricativa labiodentale sorda f: fetto<petto,
foeta<poeta.
La fricativa labiodentale sonora v cambia in una occlusiva labiale sonora b109: bia<via,
benire<venire, caballo<cavallo,
«Chi è lei? disse Oloferne. Io son bagitta – l’altra risponde, e serba a tuoi boleri.»110
Quanto al vocalismo si può constatare una certa monottongazione di uo in u:
vol<vuole, tono<tuono, pol<può, l’uso di e tonica: semo<siamo, sete<siete accanto
una dittongazione vienuto<venuto ed il cambiamento di o in u: nun<non,
Uluferne<Oloferne, murione<morione.111
Inutile dire che si tratta qui soprattutto di una parlata, dunque ogni osservazione deve essere
considerata più o meno relativa, rispetto alla pronuncia che dipendeva della classe sociale e
dell’epoca in cui il bagitto veniva a costituirsi. Anche nel bagitto si osserva l’avanzamento del
107
Anche nell’esclamazione ‘Sèèè’, nel significato di ‘Macché!’, molto usata a Livorno, la –i (sì!) è stata cambiata in –è per esprimere,
attraverso il tono di incredulità, una negazione.
108
Ora è comune in italiano, in toscano la s è rimasta sorda.
109
Il fenomeno si vede anche nel casigliano.
110
Anonimo. La betulla liberata, in dialetto ebraico con una protesta in gergo veneziano, Bastia, 1932, Massariello Merzagora, 1977, op.
cit., p. 55 n. 128 (da cui la citazione).
111
Cfr. Franceschini, 2005, op. cit., p. 559.
29
tempo, il parlar giudaico-livornese si modernizzò, cioè italianizzò sempre di più. La grafia si
manifesta solo approssimativamente.112
Non si può concludere questo capitolo senza dedicare qualche parola alle espressioni scritte,
ad esempio la scrittura letteraria del bagitto. Ad onor del vero bisogna notare che la
produzione letteraria in bagitto, al contrario di quella in yiddish, è rimasta – da un punto di
vista quantitativo – povera, e questo vale non soltanto per il bagitto, ma anche per tutti i
dialetti ebraici in Italia. Le prime opere in bagitto sono state scritte da non-ebrei e sono
parodistiche nell’uso dei fenomeni fonetici tipici per la popolazione ebraica livornese. La
prima opera è un poemetto in sestine Le bravure dei Veneziani ossia la riaprizione di
Sant’Anna, attribuita a Natale Falcini (oppure Falce Sirone o Cinifal l’Egiziano) (17591835)113 e ci narra la rivalsa dei cristiani del quartiere Venezia (nuova) sugli ebrei, per la
ruberia presunta degli arredi della chiesa di S. Anna. L’opera – uscita verso la fine del secolo
non è per niente più di un’imitazione della parlata in vernacolo, ma è comunque antisemitica.
Falcini è l’autore della composizione in livornese ‘veneziano’ La Molte d’Uluferne ossia la
Britulica Liberata (Genova (ma Livorno), 1805), famosissima, molte volte ristampata, ma
anche questo poemetto non è più che una simulazione della pronuncia della popolazione
ebraica. L’elemento bagitto invece viene fornito abbondantemente da Luigi Duclou (anonimo
sul frontespizio) nel poemetto La Betulla liberata in dialetto ebraico (Bastia, 1832)114.
Troviamo qui dei termini ebraici, spagnoli e lo scambio di v in b, di p in f. Il racconto biblico
viene riprodotto cronologicamente con qualche puntata contemporanea senza nessuna
intenzione parodistica.
Caricaturale invece è l’opera del garibaldino Giovanni Guarducci (1814-1896), ‘che, all’uso
del bagito, sia pure annacquato, unisce una feroce satira degli ebrei livornesi, dei loro costumi
e di quella che egli considera la loro mentalità, facendo, come ogni buon antisemita, di ogni
erba un fascio’.115 Al posto della voce ‘antisemita’, Fornaciari116 usa la parola ‘antiebraico’,
un atteggiamento caratteristico di Guarducci che si manifestò come un ‘antitutto’
112
Beccani, Angelo, 1942: ‘Saggio storico-linguistico sugli ebrei a Livorno’ in: Bollettino Storico Livornese, Anno V, nr.4, Stabilmente
Poligrafico Toscano, Livorno, pp. 3-11 si mostra invece più convinto: ‘per quanto un popolo si sovrapponga ad un altro ed imprima su questo
il suggello della propria lingua e della proprio civiltà, tuttavia non riuscirà mai a cancellare alcune caratteristiche fonetiche, perché queste
sono fisse nella glottide e stanno a dimostrare attraverso i secoli, anche nella fase attuale di un dialetto, il persistere d i una tradizione e di una
razza. Per questo appunto noi teniamo per certo che dove la «A’» dei latini si è ridotta ad «e» là stavano anticamente i Celti, dove la «-L-»
intervocalica si è rotacizzata là stavano i Liguri; dove il «-K-» intervocalico si è aspirato o addirittura dileguato là stavano gli Etruschi, dove
infine i nessi consonantici «-N D-» ed «M B-» si sono assimilati rispettivamente in «-n n-» ed «-m m-», dove «B» è passato a «v» là stavano
Umbri, Osci, Sabelli; e così via,’(p. 3-4).
113
Sirone, Falce Betulla liberata in dialetto livornese: http://dante.di.unipi.it/ricerca/html/betulia_livornese.html
114
(Duclou, Luigi) La betulla liberata in dialetto ebraico con una protesta in gergo veneziano:
http://dante.di.unipi.it/ricerca/html/betulia_ebraico.html
115
Bedarida, 1992, op. cit., p. 89.
116
Fornacciari, Paolo Edoardo 1984: ‘I rapporti di Guerrazzi con gli Ebrei e l’ebraismo’in: Rassegna Mensile di Israel, s.L, pp.785-802
Tipografia Venezia, Roma, p. 786.
30
(anticlericale, antifemminista, antiplebeo, antiborghese, antisocialista e poi antiebraico). Per
quello che riguarda le sue concezioni degli ebrei nella sua città, la sua più grande obiezione
tratta la posizione privilegiata che venne concessa ai Massari della Nazione Ebrea
dall’autorità granducale, la quale evocava risentimenti tra le classi più umili dei non-ebrei.
Essendo un uomo politico Guarducci volle denunciare la condizione legislativa particolare
nelle sue poesie e nelle sue opere Pensieri e mosse di un eroe della Nazione e Leon Cesana o
un passo abanti della Nazione, Statuti del Teatro Rossini. Secondo Guarducci non è corretto
fare distinzione tra la gente della nuova Unità d’Italia ed esprime ciò con un esempio tanto
plastico quanto volgare:
Di ripetere , o gioja! mi sia concesso
Cosa che detta fù già tempo fa.
Cioè che Ebreo e Cristiano fa lo stesso;
Siam tutti eguali, tutti Baccalà117;
Un inciampo ci resta, un solo incaglio
D’avere al coso quel futtuto taglio.
Cosa Seria per Dio! ma penseremo
A far in isoletta una seduta,
Ove con ghigna seria sosterremo
E con maschia eloquenza, e vivo e acuta
Cosa tal da convincere col fatto
Che il pinco è meglio lasciarlo intatto.118
Il parlar bagitto appartiene all’inopportuna modalità di distinguersi degli ebrei e per questo –
secondo Guarducci - deve essere ridicolizzato119. Così Guarducci evocò un mondo decorato
da ebrei livornesi della metà dell’800, che fa tenerezza e dolore al tempo stesso.
Il primo autore ebraico che pubblicò un libretto, anche se solo in venti esemplari120, è Rafaello
Ascoli. Il suo Gli ebrei venuti a Livorno (1885) contiene un numero abbondante di proverbi in
bagitto accanto ad una descrizione della vita nella comunità e delle persone che hanno potuto
vivere la propria vita in questa città così loro favorevole. Il volume ci offre una panoramica
117
Nomignolo.
Giovanni Guarducci ‘Leon Cesana o un passo abanti della Nazione’ (in: Raccolta 1889), citato da Fornaciari, 1983, op. cit., p. 442-44.
119
Una cosa ambigua: il bagitto è il gergo per il ceto basso, per cui Guarducci volle prendere le difese contro i ceti più elevati che non erano
molto contenti con il giudeo-livornese e che approfittarono della loro posizione eccezionale. Per fare combutta con il ceto alto, tramite
l’accentuazione della presunta ridicolezza del bagitto, Guarducci provò a sradicare questo gruppo, per farlo distanziare della totalità del
gruppo ebraico e – conseguentemente dai privilegi acquisiti. Guarducci si mostra qui una gattamorta per il ceto alto e nello stesso tempo un
disertore della buona causa.
120
Sembrava che il poemetto fosse perduto, ma Fornaciari ha potuto avere fra le mani un esemplare grazie all’aiuto di uno suoi allievi, e poi
generosamente l’ha prestato a tutti gli interessati in questo campo.
118
31
delle famiglie ebraiche che si sono stanziate a Livorno, in due ‘parti’: ‘Gli Spagnuoli’ e ‘Gli
Altri’:
Quell’io che della Spagna gli esiliati
Miseri Israeliti già cantai,
In morte di un di lor fra i più stimati,
Oggi mi accingo a far splendere i rai
Degli altri ebrei che vennero a Livorno
Fin da quand’era quattro case e un forno.
Poiché la tolleranza consacrata
Dalle leggi dei Medici in Toscana,
Ovunque fu saputo e promulgata,
Ogni ebreo maltrattato, a render vana
La persecuzion, lascio il suo nido
E approda all’ospitale nostro lido. (Ascoli 1886121).
Come si vede, il testo non è scritto in bagitto, solo in nota le spiegazioni sull’origine dei detti
lo sono, ma – come osserva Fornaciari – Ascoli ‘pensa in bagitto, cioè in modo ellittico,
allusivo, allegorico.’122
Il contributo più importante al bagitto viene da Guido Bedarida (1900–1962). Bedarida aveva
quindici anni quando si trasferì da Ancona a Livorno, dove cominciò ad interessarsi – accanto
allo studio di giurisprudenza all’università di Pisa – alla parlata locale, ‘è stato l’autore ebreo
che meglio ha compreso l’importanza del lascito che andava smarrendosi’123, e ‘si mise
d’impegno a cercare di salvarne la memoria.’124 Bedarida ha raccolto delle espressioni e delle
parole (‘delle sbagittate’) che poi ha fissato in scenette giudaico- livornesi (p.e. Un intermezzo
di canzoni antiche, Vigilia di Sabato (1934), Il siclo d’argento (1935). Dopo un periodo di
latitanza prima in Francia (1938-1943) e poi di clandestinità nella Maremma spesso con lo
pseudonimo Eliezer ben David scrive Alla “banca di Memo” e Il lascito del sor Barocas
(1950).125 Il suo capolavoro – il volume che è alla base di questa indagine – si presenta negli
Ebrei di Livorno – 180 sonetti giudaico-livornesi (1956). La raccolta abbraccia il periodo
dello stanziamento degli ebrei a Livorno fino alla partenza di alcuni di loro per il nuovo stato
di Israele nel 1948. Trascrivo due sonetti: il primo e uno degli ultimi, non soltanto perché ci
danno un’idea del rispettivo tempo, ma anche per mostrare come Bedarida ci abbia fornito di
un eccellente compendio di note.
121
Ascoli, 1886, op. cit., p. 59.
Fornaciari, 2005, op. cit., p. 109.
Ibid., p. 44-5.
124
Bedarida, 2005, op. cit., p. 82. Si può anche concludere che Bedarida abbia favorito la sopravvivenza del bagitto in una fase già critica.
125
Appunto: figlio di Davide Fortunata Ottolenghi. In quel periodo un ebreo ereditò il nome della mamma.
122
123
32
1 – CONTRASTO DI UN FRATE INQUISITORE
E DI UN «MARRANO» LIVORNESE¹
(Secolo XVI)
Frate
E sie’ venuto di Lisbona?… Porto?
Lopes
Vossa Excellencia não ha de saber nada
Frate
Se ti rimando in quella tu’ contrada…?
Lopes
Negro de min! então sou homen morto!
Frate
Confessione perfetta….
Senti qua:
Dove anderai? Gesù per tutto regna….
Lopes
Sabía disso quand’era Lopes Penha;
Chamo-me hoje Binjamin Jehudà.
Frate
Siei carne o pesce?
Lopes
Sim, Vossa Excellencia,
Vim em Liorne p’ra sahir do covo:
Aqui esnoga, casa e independencia….
Serei Toscano ou serei Portuguéz?
Judeo de judiaria ou Cristão novo?
Quem sabe? agora basta Livornéz.
¹ Lopes Penha, fuggito dal Portogallo, ha cercato ospitale rifugio – al tempo della promulgazione della famosa Costituzione Livornina (1593)
- in Livorno. L’autorità ecclesiastica indaga sul suo conto, poiché egli si era già convertito al Cattolicesimo in Portogallo, e lo minaccia. Ecco
la traduzione di quanto dice Lopes nella sua lingua natìa: «Vostra Eccellenza non ha da saper nulla. – Povero me! allora sono un uomo
morto! – Lo sapevo quand’ero Lopes Pegna [cioè, quando ero un Cristiano, in Portogallo], oggi mi chiamo Binjamin Jehudà [perché son
tornato al Giudaismo]. – Sì, Vostra Eccellenza. Venni a Livorno per scappare dal pollaio: qui ci sono sinagoga, casa e libertà…. Sarò
Toscano o sarò Portoghese? Ebrei di Ghetto o “Cristiano Nuovo”? [Ebreo di recente convertitosi al Cattolicesimo]. Chi lo sa? ora è
sufficiente esser Livornese».126
149. – L’EX – DEPORTATA
Vai, co’ la razza e’ ci hanno sistemato:
126
Bedarida, 1956, op. cit., p. 2.
33
Noo, la mi’ roba, noo per e quadroni!
Morti, mesciummadìm, ¹ Tempio spianato….²
Quanti siemo rimasti? dé! poìni.³
Chi li sente, ci ha ‘orpa l’Alleato4
- Bono, vorrè’ acceàre, Mussolini! O vènghino da me, che ci ho lassàto
Ad Ausvìzze er mi’ babbo e du’ ‘ugìni!
…. Chìtler vivo?! vedrà, ci si ritrova
Co’ la razza! chi sa cosa si ‘óva,5
Cassine d’oro6 ‘ndove si ritrova!
….Nun istò zitta, no, ch’io son tornata
Scarza ‘gnuda e – m’ha visto? – tattuata….7
Maledetto lui e quanti ne rifiata!8
¹ Ebr. : «rinnegati». Al singolare: mesciummàd, dall’ebr. hishshammèd, «essere cancellato», «essere escluso» e shammèd, «convertire». È
usato anche in jiddish (gergo degli Ebrei tedeschi e polacchi). (cioè mesjommet, CW).
² Il grandioso Tempio di Livorno – tra i più belli del mondo – andato distrutto durante la seconda guerra mondiale.
³ Uso livornese: «pocchini».
4
La Germania
5
Si (c)ova. Gergo giudaico-livornese: «sta preparando».
6
Gergo giudaico-livornese: augurio scherzoso, quando si ritiene più vantaggiosa sia a chi si augura, sia al suo prossimo, la morte invece che
la continuazione della vita.
7
Tattuata. I Tedeschi tatuavano un numero di matricola sul braccio degli Ebrei internati nei campi di concentramento, tra i quali tristemente
famoso il campo di Auschwitz.
8
Uso livornese: «quanti come lui»127.
Oltre alla sua attività letteraria, Bedarida redasse anche il periodico ‘La Rassegna Mensile
d’Israele’, dal 1924 fino al 1938, quando dovette rifugiarsi all’estero per le leggi razziali.
Solo pochi versi di Cesarino Rossi (1903-1963) sono stati tramandati, poesie isolate per
l’occasione: il compleanno di un’amica, o una situazione ilare come un matrimonio, Le nozze
(1929), visto dagli occhi di due pettegole della comunità:
(…)
Arivedelli, arivedelli!…Hai visto?
lo sposo m’è sembrato un po’ negretto;
sano sarà, e poi, meglio che misto….
Ho preso tre biscotti e un amaretto.
Cosa un’ha messo in quel sacchetto nero
la Levi! Io, cosa voi?…Senza pezzòla.
127
Ibid. p. 163.
34
Oh! sor Argia, che belle nozze è vero?
O’,migliorate de la su’ figliola…..
128
O ancora il commento degli astanti su un neonato al raduno de La MILA’ (la circoncisione)
(24 dicembre 1938)129, sempre con mitezza e bonomia:
(…)
-Gnamo, fammi vedere questa creatura:
Di qui in su, tutto su’ madre: un vede?
La bocca è d’Angiolino addirittura!
Ben messo in corno: al ñain chi è ch’un ci crede?
130
Nel 1990 uscì una raccolta di poesie di Meir Migdali (Mario Della Torre), intitolata Trenta
sonetti giudaico-livornesi, (1990) a Natania (Israele). Nell’introduzione l’autore scrive:
Ho lasciato Livorno da 44 anni e ancora non mi è riuscito di liberarmi dalla nostalgia per la mia città
natale e per la mia Keillá.131 (…) Come ogni toscano che si rispetti, ho sempre amato il sonetto, e
durante la mia vita ne ho scritto delle centinaia, in ogni sorta di occasioni e su ogni sorta di argomenti.
Fra questi ho scelto quelli che hanno attinenza con la Keillá e la sua vita: vecchie storielle, modi di dire
caratteristici, proverbi, macchiette, personaggi patetici o grotteschi, il tutto in quella atmosfera
particolare che si accentrava su due poli: l’edificio delle Scuole elementari israelitiche, che era anche
sede famoso ‘Collegio Rabbinico’, e nelle cui sale si svolgeva tutta l’attività culturale della Comunità a
partire dal 1925: festicciole in occasione delle ricorrenze ebraiche, commedie in gergo giudaicolivornese, svene di argomento biblico ecc. L’altro polo era il Tempio, il grandioso e imponente edificio
che era davvero il più grande e il più bello dei Tempi italiani, e naturale centro e punto d’incontro per
tutti gli appartenenti alla Keillá. (Migali, 1990132).
Il frammento è importante, perché ci dipinge l’ambiente in cui il bagitto prosperò, il tempo in
cui Guido Bedarida e Cesarino Rossi erano prolifici e la minaccia di un guerra era ancora
inconcepibile. Non solo la guerra costituisce una minaccia per il clima sociale, ma anche altri
aspetti che nascono dall’interno:
20 – I “CAVALLI”
Dopo l’Etiopia e dopo le sanzioni¹
cominciò il manzerud² contro i sionisti.
Salataron fuori allora i “bandieristi”³
128
Edizione familiare, ma anche in Fornaciari, 2005, op. cit., p.132.
si nota che in questo situazione – 1938 – la gente agì ancora abbastanza ingenuamente: le leggi razziale erano già promulgate nell’estate
dello stesso anno. La circoncisione fece parte della prova di essere un ebreo, il metodo di scoperta usato dai tedeschi.
130
Ibid., Fornaciari, 2005, op. cit., p. 135.
131
La comunità ebraica.
132
Migdali, Meir (Mario della Torra) 1990: Trenta sonetti giudaico-livornese, Edizione dell’autore, Natania, p. 2-3.
129
35
(negri4 ebrei ma ferventi fascionisti)
e disser: “Dentro o fuori: non c’è Cristi!”
Quell’anno stesso vinser le elezioni
in Maˆamad5. Tutto andò a rotoloni,
dagli sciandati6 ai matrimoni misti.
Disse un vecchio, parlando degli inetti
capi della Keillá7: “Questa carretta
‘un si move: i cavalli ‘un tiran niente …”
E da quel giorno stesso furon detti
“Cavalli” quei iudim che avevan fretta
di assimilarsi, e un pahad8 indecente.
¹ In seguito all’aggressione dell’Italia contro l’Etiopia (1935) la Società delle Nazione (oggi le Nazioni Unite) decretò sanzioni economiche
contro l’Italia.
² Da ebr. mamzer, bastardo. Lett. malvagità (nel gergo) e poi in generale antisemitismo.
³ Ebrei che anteponevano il fascismo all’ebraismo, così chiamati dal loro giornale “La nostra bandiera”.
4
Ancora un significato della famosa parola “negro”. Bisogna fare un esempio: un negro ebreo è un ebreo che riesce in tutto nella vita ma che
trascura la tradizione e le mizvot (precetti). Un ebreo negro è un ebreo ottimo dal punto di vista religioso, ma nella vita pratica non è buona a
nulla.
5
Ebr. lett. classe sociale. Poi i dirigenti della Comunità, e infine, la sede del consiglio della Comunità, gli uffici dell’amministrazione.
6
Da ebr. Mesciumad, convertito. Rad. Sciamed=distruggere, sterminare’
7
Ebr. Comunità.
8
Ebr. paura.133
La paḥad di cui si parla nel sonetto di Migdali si verificò successivamente. Ora la comunità
conta circa 700 membri.
133
Migali, 1990, op. cit., p. 28.
36
4. Struttura ed esecuzione dell’indagine
Come già menzionato nell’introduzione, questa tesi ha per oggetto la descrizione della
divulgazione del giudeo-parlare livornese – il bagitto – nella popolazione ebrea e non ebrea
della città labronica. Per poter conoscere quali e quanti parole ‘bagitte’ si utilizzano ancora
oggi, – o meglio detto: quali e quanti termini di quel linguaggio specifico appartengono
ancora oggi al vocabolario attivo e passivo dei livornesi - , è stato necessario fare un’indagine
in loco. Il metodo che ho utilizzato nella mia ricerca di campo si è basato sulla raccolta di
interviste elaborate su uno schema uniforme di domande, standardizzato, che mi ha permesso
di confrontare i dati ottenuti.
A partire dal libro Ebrei di Livorno (1962) di Guido Bedarida ho scelto le prime
centocinquanta parole indicate dall’autore come ger., cioè del gergo giudaico-livornese. Su
queste parole ho conservato con tre persone, due membri della comunità ebraica livornese e
con uno studente che in quel momento stava scrivendo la sua tesi di laurea proprio sulla
formazione del bagitto134. Grazie a quelle conversazioni ho potuto identificare le parole
bagitte che si usano ancora ed eliminare quelle cadute troppo in disuso ed i termini italiani
puri. Infine ho potuto annotare qualche vocabolo emerse nelle nostre chiacchierate. Con
questi risultati ho composto una lista definitiva con cinquanta parole o espressioni
sistemandole in due colonne: una colonna con i termini, l’altra vuota con lo spazio sufficiente
per poter scrivere il significato (Supplemento 1). Alla fine della lista ho lasciato ulteriore
spazio per inserire cinque (o più) parole che – secondo gli intervistati – dovevano esserci, in
quanto parte del linguaggio quotidiano e troppo importanti per essere omesse. In seguito ho
composto un’altra lista un’altra volta con le parole ed i relativi significati secondo Bedarida.
Quest’ultimo schema ho utilizzato come una chiave per confrontare le risposte fornite dai
miei interlocutori (Supplemento 2). Per ottenere qualche informazione sugli intervistati ho
composto una carte con domande relative ai dati personali. Mi avevano avvertito di tentare di
essere discreto con quelle domande, dato che per tanti ebrei il passato è ancora un nervo
aperto. Nonostante ciò ho perseverato con la mia curiosità per capire le connessioni tra i
contesti in cui si parla il bagitto e le situazioni personali. Una delle considerazioni di partenza
è stata che dagli anni Trenta del secolo scorso in poi il bagitto fu praticato sempre di meno.
Sarebbe stato interessante sapere se gli avi degli intervistati fossero utenti attivi del vernacolo
134
Una coincidenza inaspettata. Dal 2006 in poi Fabrizio Franceschini, professore all’università di Pisa, presta attenzione alla storia della
lingua con particolare riferimento alle varietà giudaico-italiane. Uno dei suoi studenti, Alessandro Orfano, livornese ma non ebreo– e prima
neanche consapevole dell’esistenza di un gergo ebraico nella sua città natale – ha deciso di approfondire questo argomento per la sua tesi di
laurea ponendo l’accento sullo sviluppo della pronuncia, una specializzazione totalmente inadeguata per un orecchio straniero come il mio, e
registrando dalla viva le conversazioni con alcuni ebrei livornesi anziani in un archivio sonoro.
37
cittadino. Per evitare difficoltà non ho mai passato la lista all’intervistato, ma ho sempre
scritto le risposte da me (Supplemento 3).
Armato con queste tre liste e con tre indirizzi di persone alle quale potevo rivolgermi, ho
cominciato la vera e propria ricerca di campo. Avevo la speranza di ottenere dai primi
intervistati gli indirizzi di altre persone da intervistare (così come insegna il metodo della
palla di neve), ed effettivamente i risultati hanno superato le mie aspettative, riuscendo ad
ottenere i dati di 96 persone. Questo metodo ha mostrato un pericolo, dato che gentile persone
cercavano di contattare altre persone che sapevano avere una buona padronanza del bagitto. Il
sistema non è stato per niente random. La disponibilità delle persone a cooperare alla mia
indagine è stata grande. Il numero dei non ebrei è rimasto limitato, perché un numero più alto
non avrebbe cambiato i risultati. I non ebrei sono stati incontri fortuiti, al contrario degli ebrei
che sono sempre stati raccomandati da qualcuno precedentemente intervistato. A questo punto
si è palesata una bipartizione rigida all’interno della comunità ebraica livornese: una divisione
tra un ceto di commercianti ed operai ed un ceto medio. (In tal senso non c’è da stupirsi tanto,
visto che il bagitto era già definito per la classe bassa come dice la parola stessa). Tutti e due i
ceti si sono serviti del bagitto, anche se che il ceto basso in generale mi ha dato un miglior
risultato alla lista delle parole. Tutte le interviste nel ceto basso si sono svolte in luoghi
pubblici, ovvero nei negozi, oppure intorno ai banchi del mercato di Via Buontalenti. Per
intervistare le persone dell’altro ceto ho dovuto prendere degli appuntamenti per visitarle a
casa. In tre casi l’incontro si è svolto nell’ufficio della Sinagoga.
Una categoria speciale si è rivelata il gruppo ‘uniti agli ebrei’. Ho voluto distinguere questo
gruppo perché non sono ebrei, ma sono più o meno condizionati dai contatti frequenti con
ebrei, attraversio legami matrimoniali, o da un’esistenza vicino agli ebrei come colleghi o
commesse. In tre casi è trattato di un’amicizia giovanile, come per Pardo Fornaciari che per
esempio è uno dei ricercatori sul bagitto che deve il suo interesse per il giudeo-parlare
livornese all’amicizia che ha legato con uno dei figli di Guido Bedarida, conosciuto sui banchi
di scuola. Tutti e tre ‘estranei’ (nel senso che non hanno la stessa convinzione religiosa) fanno
vedere un risultato notevole nella conoscenza delle parole bagitte in confronto agli altri del
segmento. Una panoramica dell’identità degli intervistati si rivela nella figura 2.
38
senza legami
18%
ebrei
34%
uniti agli ebrei
16%
ebree
32%
Figura 2: Identità degli intervistati.
Uno dei problemi che si è verificato subito nella pratica dell’intervistare è stato quello della
rappresentazione grafica delle parole nella lista 1 e della loro pronuncia. Non c’era l’ h, il
simbolo dello spirante uvulare [χ]. C’era h.135 Anche se ci fosse stata l’ h, sarebbe stato una
meraviglia se gli intervistati avessero saputo come pronunciare correttamente. Si tratta di una
annotazione abbastanza arbitraria per non iniziati. Per questo è stato necessario far capire
quello che si intendeva esprimere nella grafia. Il ruolo dell’intervistatore si è rivelato così più
attivo del previsto. Lo stesso problema si è verificato con il segno ‘, da pronunziarsi con un
suono nasale. Si tratta di un suono tipicamente livornese che più o meno si avvicina al
fricativo palatale [ɲ]. Il caso si manifesta per esempio nella parola (2): ‘Ainare (guardare) e
intervocalico nella parola (17): Ma`oi (denari). Soprattutto la pronuncia dell’ultima parola ha
causato tanti problemi: tutti sapevano il concetto ‘denari’, ma la diversità della pronuncia in
bagitto era grande. La grafia non era per niente conforme all’idea per dare voce alla parola
perfettamente. Solo alla fine dell’indagine ho seguito l’articolazione ebraica [mɑnχòi]136, che
poi è rimasta chiara e senza malintesi. In alcuni casi si vede l’articolazione scritta come [ñ], e
anzi nella scuola ebraica è stato insegnato proprio così, ma Bedarida non l’ha mai usato.
Dopo la ripassata della chiave, i.e. la lista con le traduzioni, agli intervistati è rimasto in
generale un clima di buoni sentimenti, bei ricordi e, il riconoscimento di un passato piacevole.
Questo fortunatamente, perché, per usare un’eufemismo, il passato non è stato sempre senza
135
Nel supplemento 1 ho cancellato quella omissione grafica, perché ora l’ ḥ, l’ho trovato. Dunque le parole (5), (9), (10), (12), (15), (18),
(19), (25), (28), (33), (36), (37), (41), (44) e (47) hanno l’annotazione conforma il fonte, i sonetti di Bedarida (1962).
136
La parola ebraica è ma’oth. Nel bagitto si vede anche manoi, maòth e mañod.
39
nuvole. Tante volte ho sentito dire: “mia nonna diceva sempre …”. Stranamente si menziona
spesso una seconda generazione, e più raramente i propri genitori.
Durante l’indagine è stato chiaro che una gran parte della conoscenza delle parole dipendeva
dalla conoscenza dell’ebraico. Nella scuola elementare ebraica si è prestata molta attenzione
alla lingua dei padri, per prepararsi al bar mitswah per i ragazzi ed al bat mitswah per le
ragazze. La scuola non esiste più ed ora si è perso più o meno automaticamente la possibilità
di venire a conoscenza dell’ebraico e dunque anche di un aspetto importante del bagitto. È
stato necessario chiedere agli intervistati se il riconoscimento delle parole bagitte fosse
dovuto alle lezioni d’ebraico fatte a scuola. Anche all’inizio di questo mio studio ho provato
un certo pessimismo e un senso di rassegnazione riguardo alla sopravvivenza del bagitto,
soprattutto nel ceto medio. Per trovare una conferma di quell’impressione ho voluto porre una
domanda esplicita. Dato che una lingua si tiene viva parlandolo, ho voluto sapere se i genitori
intervistati parlassero ai figli nel dialetto che hanno imparato dai loro avi. Le ultime tre
domande del questionario per i dati personali sono state aggiunte dopo le prime interviste che
ho fatto. In quello stadio della ricerca era ancora possibile ricostruire le risposte alle domande
non fatte nei questionari già ritirati. E per inciso ho potuto in seguito avere la conferma di
quello che mi immaginavo.
La lista delle parole da me redatta non ha generato sensazioni di disagio, salvo una
eccezione.137 Al contrario, dopo aver sottolineato l’anonimità dell’indagine ho sempre sentito
dire: “Nessun problema”. Per fortuna, non hanno potuto distruggere l’orgogliosa
autocoscienza del popolo ebraico livornese.
Ho elaborato le domande ottenute dagli intervistati in codici che si trovano con il cifrario su
un CDRom.
137
In questo caso però la persona in questione ha reagito dopo in modo molto discreto: “Non è che non mi fidi di Lei, ma non so cosa
capiterà coi dati che ha raccolto.” E questa frase non fu detta in pubblico.
40
5. Lo stato delle cose in questo momento
La spina dorsale di questa mia indagine è costituita da un questionario con cinquanta parole
bagitte insieme alla richiesta di fornire una traduzione in italiano. I risultati si trovano nella
figura 3:
Il gannàv
`Ainare
Sciuriato
Un zé
La haccaranza
Che garòn
Una roschetta
Un ciocchettone
Fare il hìghedo
Inhemerato
Negro
Far bahézzi
Essere alle bone mosse
Gadollo
S'è lehtito
La negrigura
Ma'oi
Ahlare
Hagadearsi, hagahearsi
Che mazzolata!
Un garè
Scapacitare
La zodessa
Bobo
Andare a harafòth
Il pipilotto
Il tafùsse
Intrahanarsi
In bon'ora
Il sor Davàr
I tipitì
L'ho vista bigia
Inhatignarsi
Daberare
Sceraloso
Baheare
Roheare
Ganaveare
Scioté
Non posso tragarlo
Hastrapugliare
Sfongato
La spetezza
Hanino, hanoso
Una persiana
Néncico
Higadearsi
Sciagattare
Sbasire
Scioheare
-100
-80
-60
giusto
-40
quasi giusto
-20
0
sbagliato
20
senza risposta
40
60
80
100
alternativo
Figura 3: La frequenza delle parole.
Dalla grafica si può costatare che cinque parole hanno ottenuto un risultato alto: (7) una
roschetta (85%), (20) che mazzolata! (78%), (24) bobo (78%), (39) scioté (75%) e (48)
41
sciaguattare (85%).138 Questo significa che anche qualche persona non ebrea conosce quei
vocaboli. Solo bobo e scioté non riscuotono suasivamente: per la prima voce il 65% dei non
ebrei non hanno risposto; per l’altra voce la percentuale era dell’82%. Le parole roschetta139
e bobo provengono originalmente dallo spagnolo (rosquetes, rosquillas, bobos) e si usano
soltanto nel giudeo-parlare livornese e non nella koinè giudaica italiana. Mazzolata è una
parola conosciuta in generale, e significa un colpo dato con un martellino o in senso figurativo
un duro colpo economico. Nell’espressione che mazzolata usata nel bagitto esprime un colpo
decisivo. Non è stato difficile dedurre questo ampliamento testuale. Scioté viene dall’ebreo
scioteùd (pazzia) e šoteh (pazzo). Non ho trovato una spiegazione per la divulgazione di
questa voce. Sciaguattare ha un’etimologia bellissima: la voce viene da sciaḥat (ebraico), vale
a dire scannare, che poi diviene il romanzo medievale sagatari, cioè macellare gli animali
secondo il rito ebraico, con un taglio nella gola per far uscire il sangue. La voce poi è stata
italianizzata con una desinenza verbale. Si tratta inoltre di una parola che non è
esclusivamente riservata a Livorno, in altri luoghi ne esistono infatti varianti dialettali.
Un risultato alto, in senso negativo, l’hanno ottenuto le seguenti voci o espressioni: (6) che
garòn (83%), (10) inḥemerato (92%), (19) ḥagadearsi, ḥagaḥearsi (75%), (22) scapacitare
(81%), (25) andare a ḥarafòth (90%), (31) i tipitì (95%), (33) inḥatignarsi (76%), (35)
sceraloso (80%), (40) non posso tragarlo (77%), (42) sfongato (86%), (44) ḥanino, ḥanoso
(80%), (46) nèncico (94%) e (49) sbasire (85%). Questo significa che più di un quarto delle
voci selezionate per l’indagine godono di poca notorietà, pur non essendo parole che
indichino cose estranee al mondo, in quanto fanno parte di un linguaggio quotidiano. La
scarsità della conoscenza di queste parole non è da attribuire alla loro etimologia, perché non
risulta in stridente contrasto con l’etimologia della lista completa. 140 (figura 4). Il
138
Per il significato delle parole o espressioni basta fare riferimento al supplemento 2: la chiave: la lista con le traduzioni.
Ciambelline crocanti, che sono una specialità degli ebrei livornesi, ma poi anche apprezzate dai goìm. Le ciambelle si trovano ora in
tutt’Italia, ma a Livorno si chiamano appunto le roschette.
140
Per le voci poco conosciute le percentuali sono: ebraico, 46%, spagnolo/portoghese, 23%, aramaico, 8% e più o meno italiano, 23%.
139
42
supplemento 4 fornisce la giustificazione dell’etimologia.
incerto
14%
aramaico
4%
portoghese/spagnolo
10%
ebraico
50%
spagnolo
22%
Figura 4: Etimologia delle parole.
.
Il resto delle voci si incontrano in un gruppo di mezzo tra queste due estremità. Una persiana
(45) ha tre significati: 1. un’imposta esterna delle finestre formata da stecche orizzontale e da
un telaio scorrevole incernierato lateralmente, 2. (bagitto) una fetta di pan di Spagna glassata
che si mangia a Pesach e 3. un liquore tipicamente livornese, come il ponce livornese,
contenente alcool e crema di menta che viene bevuto nella mattinata. L’accezione 1 è
raramente conosciuta; ho voluto misurare l’accezione del significato 2, ma il senso 3 è stato
rammentato nel 51% dei casi. Il significato alternativo non ha permesso di pensare ad altre
soluzioni. Il risultato negativo per il significato 2 non è da attribuire totalmente ad una
mancanza di vocabolario o di essere iniziati.141
La voce negro (11) merita di essere esaminata più attentamente. La parola viene dallo
spagnolo e dal portoghese e significa: nero, scuro, tetro. Originariamente non aveva niente a
che fare con una persona appartenente a una delle etnie provenienti dell’Africa, caratterizzate
dalle pigmentazione scura della pelle, infatti queste persone all’epoca semplicemente non
erano conosciute. La parola è stata portata dai sefarditi in Italia. Il significato ha subito diversi
cambiamenti, ma sempre in senso dispregiativo. A Livorno ha avuto l’accezione di brutto o –
dipendentemente dal contesto in cui troviamo la parola – qualificazioni del genere.142
Un’imprecazione di autocommiserazione, tipicamente livornese, dunque bagitta è negro di
141
142
L’onestà prescrive di menzionare che anche dopo aver letto la chiave delle parole, soltanto poche persone hanno avuto un déjà vu.
Per esempio: malato, antipatico, di poco valore, inetto.
43
me, che significa povero me!143 È una voce esclusiva degli ebrei, solo un non ebreo ha dato la
risposta giusta, ma l’alternativa – una significato più moderno – era ovvia. Un proverbio
ebraico-livornese ha conservato il significato brutto dalla voce negro: ‘Chi di meglio non ha,
con la su’ negra moglie sciochei’.144
La voce un garè (21) – a parte la difficoltà di un’annotazione varia145 – ha fruttato più di una
volta la traduzione cattolico. La non circoncisione non è un privilegio per i cristiani, ma
nell’ambito dei giudei livornesi ho pensato di approvare anche quella soluzione.
Una volta la voce roḥeare (37) ha causato il contrario dell’effetto che voleva dare. Nella
parlata giudaico-livornese si provava ad usare termini ebraici per evitare di utilizzare le parole
che rappresentano un ‘tabù sociale’ o ‘tabù di decenza’.146 Roḥeare – un’onomatopea efficace
– è una derivata dall’ebraico roḥa ‘peto’, dunque il verbo significa ‘scoreggiare’. Per una
donna non ebrea l’espressione è stata causa di imbarazzo e di non saper cosa dire. In altri casi
ci sono state espressioni alternative: ‘far aria’, ‘metabolismo’ e ‘bisbigliare dal sedere’.
Dalla figura 4 si può dedurre che l’influsso del portoghese è rimasto limitato. Come già
menzionato nel capitolo 3, il portoghese si manifesta quasi esclusivamente negli atti ufficiali
della ‘Nazione Ebrea’, ed è rimasto soprattutto nel linguaggio giuridico nella comunità
ebraica livornese.
Esiste la concezione che la conoscenza del bagitto diminuisca sempre di più nel tempo. I fatti
non contraddicono quest’idea. La figura 5 mostra la percentuale della cognizione delle voci
bagitte dei non ebrei. Sebbene i numeri siano rimasti limitati, la tendenza si rivela in modo
lampante. Il calo dal 32,3% al 19,8%, cioè 41,9% del totale, è da spiegare con il periodo della
35
32,2
30
25
20
21
19,8
51-60
61-70
15
15
10
9
7
5
0
<30
31-40
41-50
>70
Figura 5: Conoscenza delle parole in tassi % dei non ebrei per fascia d’età.
143
E – con qualche empatia – negro di te!
Cfr. nota 104.
145
Si vede spesso anche (ebr) ‘arel: un non circonciso, dunque non ebreo. Questa diversità della grafia è sempre stata una fonte di malintesi.
146
Cfr. Maria Modena Mayer, 1978, op. cit., p. 172.
144
44
guerra, l’emanazione delle leggi razziali e la fuga di tanti concittadini ebrei. Questa
involuzione non si ristabilirà più nel tempo. Un altro calo, uguale a quello che vediamo nel
gruppo degli ebrei, si verifica con la popolazione tra i 41 e 50 anni. È possibile che esista una
connessione tra questi due fatti. La lieve ripresa nella generazione dai 31 ai 40 anni, si
potrebbe ascrivere ad una normalizzazione dei rapporti tra le due comunità. Se è vero che la
generazione più giovane (dai 21 ai 30 anni) – ma bisogna considerare questa nozione cum
grano salis, perché si tratta soltanto di una persona su tutto il campione, e poi una con legami
con la popolazione ebrea –conosce soltanto il 7% delle voci della nostra lista, significa che la
regressione della conoscenza del bagitto è del 78% in confronto alla generazione dei maggiori
di settant’anni: un calo rilevante.
Il confronto tra le generazioni ebree rischia di attribuire troppo valore alle cifre assolute,
perché le vecchie generazioni non sempre hanno provato simpatia per il parlar giudaicolivornese. Nonostante questa restrizione esistono delle tendenze notevoli da dedurre dalla
figura 6.
60
53,6
50
42
41,6
31-40
41-50
45,3
43,4
71-80
>81
40,6
40
30
28
27,5
<20
21-30
20
10
0
51-60
61-70
Figura 6: Conoscenza delle parole in tassi % degli ebrei per fascia d’età.
Nel calcolo nel programma SPSS (Statistic Package for the Social Sciences)147 che mostra una
connessione tra le variabili, troviamo la conferma della conclusione (figura 7):
147
Il programma conferma la correlazione tra due variabili e non si basa su nessuna coincidenza. Quanto ridotto il valore Sig, tanto solida è la
correlazione.
45
Età
Tutti
Ebrei
Non ebrei
(N=96)
(N=56)
(N=31)
Senza risposta
- .37**
- .13
- .35
Corretto
.32**
.02
.34
All’incirca
.23*
.14
.35
Sbagliato
.26*
.29*
.03
- .05
.09
alternativo
- .08
** Il rapporto è significante al livello 0.01(bilaterale)
* Il rapporto è significante al livello 0.05 (bilaterale)
Figura 7: La conoscenza delle parole in connessione con l’età.
La categoria ‘senza risposta’ mostra una connessione negativa, che sta a significare che
quanto più in là con l’età si trova una persona, tanto più ha dato una risposta (il che non vuole
dire che la risposta sia stata corretta). Questo risultato viene letto soprattutto tra i non ebrei.
Esiste invece una connessione positiva tra le risposte corrette e l’età: la curva sale, il che
significa che col progredire degli anni aumenta il numero delle risposte corrette. I più giovani
non hanno voluto dare una risposta, quando la parole non era rimasta sconosciuta. Un’altra
cosa rimarchevole è il fatto che gli ebrei più anziani hanno dato una risposta sbagliata in
confronto alle generazioni più giovani. Tutti i risultati per i non ebrei sembrano essere
rilevanti, ma questo concetto potrebbe essere un po’ alterato dal numero limitato degli
intervistati.
Il problema di una schematizzazione come nella figura 6, è che questa sempre ci riporta ad
una media. La pratica mostra qualcosa di diverso: tra l’8% ed l’84%, già nello stesso
raggruppamento di persone, in questo caso la fascia dei 31-40 anni.
Un colonna spicca considerevolmente, quella della fascia dei 51-60 anni. Queste sono le
persone nate tra 1948 e 1957148, la prima generazione dopo la guerra. In quel periodo si
verificò poco a poco un ripristino della vita culturale della comunità ebraica. La sinagoga era
distrutta, i legami mutui si erano incrinati dopo un distacco forzato e l’ambiente sociale, –
costituito dai concittadini livornesi non ebrei, – era, se non ostile, comunque inaffidabile. In
una situazione del genere è comprensibile che il cerchio si chiuda, che si ricerchi quello che
unisce e non divide. Una coesione interna viene espressa anche in un linguaggio comune che
esclude il maligno mondo esterno. Così cresce una generazione che in quel momento ottiene
un risultato alto nella familiarità delle parole bagitte. Nel 1956 Guido Bedarida pubblica i suoi
148
Il calcolo vale anche per gli esempi seguenti: dalla nascita fino ai dodici anni (l’età critica) che considero il periodo più sensibile per
l’apprendimento della lingua.
46
Ebrei di Livorno,149 che – come un’aggiunta di un’opera letteraria – ci fornisce l’andamento
dello sviluppo cronologico del giudeo-parlare livornese. Si deve sottolineare il valore di
questo libro, che dimostra come il bagitto fosse un mezzo di comunicazione letteraria e non
soltanto un gergo (per cui qualcuno pensa di torcerci il naso). L’accettazione del linguaggio
comune fu un bene per ristabilire un’autocoscienza ammaccata.
La generazione precedente ha subito negli anni della giovinezza l’incubo della persecuzione,
la latitanza, ed è stata carente di casa e famiglia. In qualche caso in famiglia si è tentato di
cancellare tutte le tracce di uno sfondo ebraico: non soltanto il nome veniva cambiato (cosa
può essere più crudele di togliere la propria identità?), ma anche il modo di parlare – il
linguaggio, e pure la cantilena nasale tipica del bagitto – fu stroncata sul nascere. A volte i
figli venivano costretti a partecipare al culto cattolico. Così un’intera generazione si perdette.
Almeno in questo senso vorrei interpretare la percentuale già molto bassa per i sessantenni.
Dopo la guerra ci fu la fase di ricostruzione. La scuola ebraica fu riaperta. La sinagoga fu
riedificata. Pian piano la vita quotidiana riprese il suo andamento normale. Anche il livello
dell’uso del bagitto tornò allo standard di prima. Nel 1983 la scuola ebraica venne chiusa per
mancanza di allievi e così un nucleo di attività, occasioni per riunirsi, venne a scadere. Per
l’utilizzo del giudaico-livornese questo evento ebbe un effetto notevole, che si svela nella
colonna dei trentenni: una ricaduta del 15% (e – fondandosi dalla situazione anteriore, un
regresso del 35%).
Un argomento che viene spesso riportato è che i matrimoni misti hanno causato il declino del
bagitto. Dalla componente del gruppo degli intervistati che si qualifica come ebreo (64) si
evince che 19 persone (il 40%) provengono da un matrimonio misto. In questo gruppo 15
persone (il 79%) hanno di nuovo sposato un non ebreo. Ho considerato la competenza delle
voci delle persone che sono nate a partire dal 1940 in poi in uno schema (figura 8):
persone nate
provenienti da
provenienti da un
dal 1940 in poi un matrimonio matrimonio misto
non misto
entrate in un
Il partner
matrimonio
non ebreo
misto
numero di
parole in
24,2
18,8
20,6
13,1
media
(48%)
(38%)
(41%)
(26%)
Figura 8: La conoscenza delle parole sotto l’influsso del legame matrimoniale.
149
Bedarida, 1956, op. cit.
47
Il timore risulta giustificato: di per sé contrarre il matrimonio con una persona non ebrea
implica una perdita dell’uso delle parole bagitte. Un aspetto curioso si manifesta nel fatto che
i figli di un matrimonio del genere si considerano come ebrei puri, anche quando il contributo
della discendenza ebraica si rivela attraverso il padre, e dunque, secondo la legge ortodossa,
non vale più. Ne dedichiamo qualche parola nel capitolo seguente.
Un’altra causa del declino si trova già nel periodo del Fascismo. Abbiamo già accennato al
fatto che la comunità ebraica era divisa in due ceti. Il ceto medio non si è mostrato un
difensore fervente dell’uso del bagitto. Infatti, la conoscenza delle parole in media per il ceto
basso è del 24,8%, mentre per il ceto medio del 21,7%, per i figli di un matrimonio non misto
e per i figli di un matrimonio misto rispettivamente il 22,8% ed il 15,4%. Nella figura 9 si
vede la differenza tra il ceto basso ed il ceto medio divisa in fasce di età.
35
30
25
20
15
10
5
0
<20
21-30
misto medio
31-40
41-50
misto basso
51-60
non misto medio
61-70
71-80
>81
non misto basso
Figura 9: La differenza tra ceto basso e ceto medio nella conoscenza delle voci150.
È da costatare che lo sviluppo della conoscenza delle voci nel ceto basso mostra una dinamica
più bizzarra in confronto al ceto medio. In tutti e due gruppi di matrimoni il ceto basso
presenta un risultato più alto. La costanza nel rispondere nel gruppo del ceto medio dei
matrimoni ‘puri’ per le tre generazioni più giovani è notevole, tra venti e cinquant’anni, 19
voci, in tutta la linea c’è poco declino (tra 22 e 18,4 parole in media). Il ceto medio nella
categoria matrimoni misti mostra il livello più basso dei quattro gruppi distinti, ma il numero
di coloro che hanno risposto è talmente limitato per considerare questo fatto come
rappresentativo. Un altra considerazione potrebbe essere che questo fatto mostra che i
matrimoni misti non si verificarono con frequenza nel ceto medio fino agli anni Sessanta.
150
L’istogramma va letto da destra a sinistra per seguire meglio l’andamento dello sviluppo della conoscenza delle voci, una direzione adatta
per studiare un vernacolo ebraico.
48
L’uso del bagitto non sembra differente rispetto al genere: cioè non esistono parole
tipicamente utilizzate dalle donne o dagli gli uomini, come rivela figura 10, il calcolo nel
programma SPSS.
Sesso (0=maschile)
Tutti
Ebrei
Non ebrei
(N=96)
(N=56)
(N=31)
- .10
- .16
- .09
Corretto
.10
.16
.11
All’incirca
.03
- .01
.08
Sbagliato
.07
.07
.01
alternativo
- .15
- .00
- .50**
Senza risposta
** Il rapporto è significante al livello 0,01 (bilaterale)
Figura 10: La conoscenza delle parole in connessione con il sesso.
Come rivela la figura 10, non esiste una correlazione tra sesso degli intervistati e l’esattezza
delle risposte che questi hanno dato alla lista delle parole. La correlazione negativa tra il sesso
e la risposta ‘alternativo’ ( - ,50) significa che le donne non ebree raggiungono un risultato
negativo nel dare un significato alternativo, oppure che gli uomini sono più audaci
nell’indovinare il significato di una parola sconosciuta.
Anche guardando le risposte alle domande aperte non sembra esista una grande diversità tra i
due generi.
La lista con le parole ‘che non possono mancare in un’indagine sul bagitto’, e per la quale era
riservato un po’ di spazio alla fine del questionario, è stata aggiunta come supplemento 5.
Giacché le parole sono quelle espresse spontaneamente dalle persone intervistate, sarebbe
interessante controllare se le voci ottenute convalidano la constatazione di Bedarida151 e cioè
che lo spagnolo e l’ebraismo abbiano formato il linguaggio quotidiano degli ebrei livornesi.
151
Bedarida, 1956, op. cit., p.XIII
49
incerto
1%
italiano
3%
aramaico/greco
4%
spagnolo/portoghese
14%
ebraico
78%
Figura 11: Etimologia delle parole ottenute durante l’indagine
Come la figura 11 mostra, la quota delle voci ebraiche è cresciuta di numero in modo
notevole: il 78% contro il 50% della lista che ha costituito la base dell’indagine, mentre è
rimasta una parola sola che rinvia ad un’origine portoghese (‘ñamoratello’), insieme ad una
diminuzione delle voci spagnole (il 14% contro il 32%). Guido Bedarida, che è stato la fonte
primaria per la scelta delle parole della nostra lista, ha provato a ricostruire un mondo del
passato con le voci ed espressioni dall’epoca. Al contrario, in questo studio, le parole che ho
ottenuto durante l’indagine sono più attuali, nella misura in cui si può considerare un
linguaggio che viene già visto un po’ obsoleto come ‘attuale’. L’alta percentuale delle parole
ebraiche è da spiegare con il fatto che le lezioni dell’ebraismo si sono manifestate fino a poco
fa e le associazioni con le voci già conosciute rafforzano la memoria e l’uso delle parole nel
linguaggio quotidiano. Per le parole iberiche suppongo che inizialmente siano state utilizzate
frequentemente, almeno fino all’epoca della Restaurazione, e che in seguito si siano stabilite
nel bagitto per conservare il modo di esprimersi furbesco e pittoresco, tipico per gli ebrei
labronici. Successivamente diminuendo il linguaggio specifico, soltanto le parole con un
suono distinto di riconoscimento si manifesteranno più resistenti.
Solo l’ 8% degli intervistati non ha mai sentito parlare dell’esistenza del bagitto, un vernacolo
che alcuni concittadini usano. Il 16% non ha mai sentito il linguaggio parlato. Quattro non
ebrei senza legami hanno sentito il bagitto parlato152, due ebrei hanno risposto di essere a
conoscenza dell’esistenza del bagitto, ma di non averlo mai sentito. Una di queste è una
studentessa, che ha ottenuto un risultato di 19 parole conosciute, e che nonostante il fatto che
152
Per due persone un po’ comprensibile, dato che erano coinquilini di Alessandro Orfano, lo studente che ha fatto tante registrazioni del
bagitto.
50
nessuno avesse mai parlato il bagitto con lei, ha imparato le parole dai libri. La studentessa ha
dunque avuto una conoscenza del bagitto come se questo fosse una lingua morta o artificiale.
Un’altra persona, nata nel 1961, nipote di Cesarino Rossi, un autore notevole del bagitto, (ma
morto nel 1963), ha una conoscenza di 14,5 parole bagitte, mentre suo fratello, nato nel 1965,
dichiara di aver sentito il bagitto e non supera le cinque parole. Le persone hanno qualche
volta un universo mentale diverso. Una giovane ha sentito parlare il bagitto nella famiglia del
fidanzato, ma non sapeva che si trattasse di una lingua speciale. Adesso i suoni hanno per lei
un’identità precisa.
Le percentuali si manifestano in modo diverso nelle risposte alla domanda sull’aver o meno
visto il bagitto scritto: il 54% dice di si; il 46% lo nega. Queste cifre valgono per il file totale,
ma quando tralasciamo i non ebrei senza legami, la percentuale delle persone che hanno visto
il bagitto scritto è del 61%. Se osserviamo più attentamente gli ebrei, il risultato è del 64%
contro il 36%. Gli intervistati che hanno entrambi i genitori ebrei mostrano una percentuale
del 78%. Per i figli di un matrimonio misto vale la percentuale del 32% contro il 68% che dice
di non aver mai visto il vernacolo stampato. Sembra che i matrimoni misti significhino di
fatto una perdita, se non tanto nel parlare, quanto piuttosto nell’aspetto più materialista di una
lingua: lo scritto. Sia nel ceto basso che nel ceto medio una maggioranza mostra di non aver
mai visto il bagitto scritto. I risultati sono rappresentati nella figura 12:
con
ceto basso
ceto medio
ceto basso ceto medio
legami
matrimoni
matrimoni
matrimoni
matrimoni
non misti
non misti
misti
misti
si
9 (56%)
12 (67%)
23 (85%)
3 (25%)
3 (43%)
no
7 (44%)
6 (33%)
4 (15%)
9 (75%)
4 (57%)
Figura 12: Le risposte alla domanda 80: “Ha mai visto il bagitto scritto?”.
Il ceto basso di entrambi i gruppi distinti mostra un’arretratezza in materia di letteralità del
bagitto. Non c’è molto da meravigliarsi, il possesso dei libri viene visto come un prodotto di
agiatezza. Per di più bisogna realizzare che il bagitto in fondo è una lingua parlata, lo
indichiamo infatti come il giudeo-parlare livornese o il parlar giudaico (corsivi miei, CW).
51
Quando osserviamo la capacità di esprimersi nel bagitto scritto153, per tutte le categorie vale
che la maggioranza si considera incapace di scrivere nel bagitto (figura 13). Ed anche qui i
con legami ceto basso
ceto medio
ceto basso
ceto medio
matrimoni
matrimoni
matrimoni
matrimoni
non misti
non misti
misti
misti
si
2 (13%)
8 (44%)
9 (33%)
2 (17%)
1 (14%)
no
14 (88%)
10 (56%)
18 (67%)
10 (83%)
6 (86%)
Figura 13: Le risposte alla domanda 81: “Sa scrivere il bagitto?”.
matrimoni misti hanno un punteggio più basso rispetto ai matrimoni contratti tra due ebrei. Ci
sono due figure ‘con legami’ che sanno scrivere il bagitto. Una è la moglie di un
commerciante, che si è mostrata ‘più rabbinica che il rabbino’154 – in senso positivo - , dato
che pur non avendo in gioventù mai imparato il bagitto o l’ebraico nel test sulla conoscenza
delle voci ha ottenuto un risultato del 78%. L’altro è uno studioso che ha già pubblicato sul
bagitto.155
In totale soltanto il 24% degli intervistati sa scrivere il bagitto, per gli ebrei il tasso è del 31%.
Quando confrontiamo questi tassi con i risultati sulla capacità di parlare il bagitto, è evidente
che nessuno dei non ebrei senza legami ha competenza in alcuna parola bagitta, ma il 19%
sostiene di capire qualche parola. Il 19% dei non ebrei con legami con ebrei dice di essere
capace di parlare senza difficoltà, il 63% conosce e sa utilizzare qualche parola ed il 19% ha
risposto negativamente. Sulla comprensione del bagitto questo gruppo risponde per 31% di si,
il 50% che comprende qualche parola ed il 19% nessuna. La maggioranza dei non ebrei con
legami non ha ragioni di sentirsi escluso totalmente nell’ambiente che si serve del parlar
giudaico livornese. Gli ebrei provenienti da un matrimonio misto indicano il regresso nella
conservazione del vernacolo: soltanto il 21% sostiene di parlare il bagitto differentemente
dagli ebrei di un matrimonio non misto che raggiungono il 49%. Ma anche questi ultimi
hanno le proprie riserve sulla capacità di parlare senza limiti: il 44% parla soltanto qualche
parola, mentre il 7% non usa parole bagitte. Per le discendenze da un matrimonio misto i
153
È da notare che ovviamente esiste una differenza tra bagitto parlato e bagitto scritto. Sottolinea il fatto che l’aggiunta scritto indica
un’altra cosa che la denotazione spoglia del vernacolo. Con una lingua, p.e. l’italiano o l’olandese non è necessario spiegare sempre così
nello specifico. Bedarida aggira il problema per scrivere: 180 sonetti Giudaico-livornesi. (Bedarida, 1956, op.cit.)
154
Una traduzione pericolosa di un’espressione francese, perché in questo caso il rabbino non sa assolutamente niente del bagitto e si
giustifica di non intendersene perché è rabbino. La donna in questione non si è mai convertita alla religione ebraica.
155
Benché l’indagine fosse anonima, non si scampa al fatto che qualcuno ha lasciato chiaramente il suo biglietto di visita.
52
risultati sono il 74% ed il 5%. Il capire segue la tendenza tra i due gruppi distinti: il 62% degli
intervistati da un matrimonio ‘puro’ capisce il giudaico livornese, il 33% solo qualche parole.
Due intervistati (il 4%) sono dell’idea di non conoscere il bagitto per niente. I figli di un
matrimonio misto capiscono per il 21% le voci bagitte. Il 79% indica di comprendere solo
qualche parola. Confrontiamo lo scrivere, il parlare ed il capire tra i gruppi distinti nella figura
14. Quello che è notevole è il fatto che le percentuali per scrivere e per capire risultano
100
90
80
70
60
no
50
qualche parola
40
si
30
20
10
Scrivere
Parlare
con
legami
matrimoni
misti
matrimoni
non misti
non ebrei
con
legami
matrimoni
misti
matrimoni
non misti
non ebrei
con
legami
matrimoni
misti
matrimoni
non misti
non ebrei
0
Capire
Figura 14: La percentuale di capacità di scrivere, parlare e capire il bagitto per
gruppi distinti.
uguali per i matrimoni non misti, mentre la percentuale per il parlare non arriva al loro stesso
livello. Probabilmente il bagitto è già diventato una lingua fossilizzata, un oggetto per lo
studio, invece che un mezzo di comunicazione tra le persone sulla strada. Questo dato mostra
che il bagitto si sta perdendo: la capacità c’è ancora, ma manca la pratica. Un cattivo segno,
dal punto di vista linguistico156. Un’altra cosa che colpisce è il fatto che nel parlare i non
ebrei, anche se in un modo o nell’altro sono legati al giudaismo, e gli ebrei provenienti da un
matrimonio misto, raggiungono un risulto quasi uguale. Sembra che si tratti qui di una forma
di assimilazione, di equiparazione. I non ebrei con legami capiscono il bagitto meglio dei figli
di un matrimonio misto. Questa cifra potrebbe essere spiegata perché tra i non ebrei si
rivelano anche i partner matrimoniali degli ebrei. I figli di un’unione del genere mostrano una
comprensione meno alta. I non ebrei senza legami almeno capiscono qualche parola bagitta.
156
Si tratta di un modo di dire e non di una notizia scientifica: ogni cambiamento in una lingua è un processo naturale, dunque anche la
perdita va vista come un dato naturale.
53
Ovviamente non trattandosi di un linguaggio segreto e assoluto, in un ambiente linguistico è
difficile escludere la gente, visto che la caratteristica di una lingua è di essere comunicativa.
La trasmissione di una lingua avviene normalmente per sentito dire. Una lingua si manifesta
con degli atti linguistici (o degli enunciati). È necessario per lo meno un ambiente adatto per
premere il grilletto linguistico. Di solito questo avviene in seno alla propria famiglia, ma
anche altri contesti possono servire per l’apprendimento della lingua. Per il bagitto non ha
funzionato diversamente. Solo il 18% delle persone interrogate ha risposto che nessuno ha
mai parlato il bagitto con loro, una percentuale che corrisponde al numero dei non ebrei. Il
71% ha sentito il bagitto parlato rivolto a loro più o meno regolarmente ed il 9% solo
raramente. I mittenti erano per il 6% solo i genitori, per il 15% i parenti, per il 14% i genitori
ed i parenti, per il 6% i colleghi, per l’ 11% gli amici, per solo l’1% un vicino, per il 4% un
conoscente e per il 35% un po’ tutte queste categorie. Per l’ 8% non sono stati i genitori che
hanno parlato il bagitto agli intervistati, ma il resto. Il vincolo del sangue è stato per il 35%
l’unica fonte per imparare il linguaggio, ma la famiglia ha anche partecipato nel 35% di quel
po’ di tutto. Nel 70% dei casi, la base dell’apprendimento del bagitto avviene all’interno dei
legami parentali.
Abbiamo chiesto agli intervistati nei confronti di chi si sentivano debitori rispetto all’aver
imparato il giudeo-livornese. È risultato per il 28 % che la famiglia è stata la maestra più
importante; la combinazione di famiglia e genitori ha contribuito per il 21%, ed i genitori da
soli per il 16%. In totale, dunque, il 65% dell’ambiente formativo viene costituito dalla
parentela. Gli amici hanno partecipato all’apprendimento per il 14%, i colleghi ed i vicini per
il 11%. Tuttavia non è sempre possibile suddividere il mondo sociale in modo categorico e in
registri differenti: il 10% è infatti consapevole di aver imparato il linguaggio un po’
dappertutto. Ma un ambiente ebraico – non c’è da stupirsi - si configura come molto
favorevole per imparare il bagitto.
Soltanto il 67% ha dichiarato di avere la capacità di esprimersi in bagitto. Il luogo dove si usa
questo giudeo-parlare livornese è rappresentato nella figura 12. Naturalmente i luoghi si
sovrappongono, quando si parla il bagitto nella famiglia, è ovvio che si parla il bagitto anche
con gli amici della scuola ebraica. Una persona ha voluto appuntare esplicitamente che il
piazzale della scuola è stato il luogo per eccellenza per comunicare nel suo dialetto locale.
Dalla figura 15 si può dedurre che la cerchia familiare rimane il luogo principale per praticare
il bagitto, e che i registri del lavoro e degli amici non si equiparano. Solo una persona ha
dichiarato di non parlare il bagitto, nonostante avesse una conoscenza alta (il 40%) e la sua
54
27%
48%
23%
2%
con gli amici
sul lavoro
in nessuno luogo
in famiglia
Figura 15: Il luogo dove gli intervistati usano il bagitto.
età (26 anni). Si è laureato all’università e poi è tornato al grembo della commercia. Potrebbe
essere stato un modo per distinguersi. Quando osserviamo più attentamente tra quelli che
hanno risposto - prescindendo dalle osservazioni sui non ebrei con legami, ma non sposati con
gli ebrei, che sono quasi tutti commercianti di un banco e usano soltanto il registro del
mercato – si nota che la famiglia è la categoria più importante per quasi tutti i parlanti bagitto,
ad eccezione del ceto medio delle persone provenienti da un matrimonio misto (figura 16). Il
ceto basso di questa categoria parla il bagitto in ugual misura sia sul lavoro, che con gli amici
e in famiglia157. Il fatto che il ceto medio non usa volentieri il bagitto lo abbiamo già potuto
constatare quando mettemmo lo scrivere sul tappeto. Vuoi per gli ebrei nati da un
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
ebreo
in famiglia
sposato
con un
goi
ceto
basso
ceto
medio
tutti
sposato
con un
goi
ceto
basso
ceto
medio
tutti
0
figlio di un matrimonio misto
con gli amici
sul lavoro
goi
sposato
ebraico
non si parla
Figura 16: Il luogo dove si parla il bagitto per categoria.
157
Ovviamente le componenti si sovrappongono. Qui si manifesta senz’altro il miracolo aritmetico poiché il totale risulta più che la somma
delle parti per quel che riguarda l’uso del bagitto.
55
matrimonio non misto, vuoi per gli ebrei discendenti da un matrimonio misto, si stima che la
percentuale ‘non si parla’ si riscontri più alta in confronto con le altre categorie dei gruppi
rispettivi (il 32% ed il 43%). Nel ceto medio del primo gruppo la percentuale ‘sul lavoro’ è
notevolmente esigua (il 6%), il che significa che il ceto medio raggiunge un altro segmento
del mercato e che il ceto basso si limita – per quanto le nostre indagini ci permettono di
concludere – al mercato dei banchi e dei negozi intorno. Tutti gli ebrei del ceto basso parlano
entro certi limiti il bagitto. Gli ebrei sposati con un partner non ebreo parlano il bagitto in
famiglia frequentemente (il 62%), il che vuole dire che il bagitto viene visto da loro come un
mezzo di comunicazione nella vita privata. I non ebrei sposati con un partner ebraico
rispondono di farlo per il 43%, ed i discendenti di un matrimonio misto del ceto medio che
hanno risposto di non parlare il bagitto per niente, arrivano ad una percentuale del 53%. Un
figlio di un legame del genere parla il bagitto in media per il 35% in famiglia. Una persona
non ebrea che si è legata in matrimonio con un figlio di un matrimonio misto fa notare di
avere meno amici per parlare il giudeo-livornese poiché con il suo partner ed anche sul lavoro
ci sono poche occasioni per parlare il bagitto. Non c’è da stupirsi troppo, perché questa
persona viene da un altro contesto.
All’enunciato ‘Ho parlato il bagitto ai miei figli’ il 31% non ha potuto rispondere perché gli
intervistati o non erano capaci loro stessi di parlare il dialetto in esame o non avevano ancora
avuto prole. Dalle persone senza legami con la popolazione ebraica nessuno ha usato parole
bagitte con i figli e anche la gente con legami, ma senza essere sposata con un ebreo, si è
astenuta dal vernacolo ebraico livornese, ad eccezione di due uomini che riportano di aver
detto qualche parola bagitta ai figli. Nel gruppo di ceto medio dei matrimoni misti nessuno ha
mai parlato il bagitto ai figli, mentre il ceto basso è stato il più leale con il suo linguaggio nei
riguardi dei figli: il 60% ha parlato il bagitto, il 30% ha usato qualche parola e soltanto il 10%
non ha mai parlato una parola bagitta ai figli. Anche nella categoria degli ebrei praticanti la
dottrina religiosa, il ceto basso si è mostrato più fedele al suo linguaggio popolare: solo il 6%
non ho usato il bagitto con i figli, mentre il 44% solo qualche parola ed il 50% senza
restrizioni. Per il ceto medio valgono le percentuali del 41% (nessuna parola), del 32%
(qualche parola) e del 27% (un’affermazione franca) all’assunto: ‘ho parlato il bagitto ai miei
figli’. Nei matrimoni misti attualmente il 43% parla il bagitto con i figli, il 33% qualche
parola, ed il 23% non usa neanche una parola bagitta con i figli. Queste ultime percentuali
sono rappresentate nella figura 17, ma con qualche reticenza perché i numeri assoluti sono
limitati e le conclusioni sono di conseguenza poco rappresentative. Tuttavia si conferma
56
quello che abbiamo già constatato dai risultati del parlare bagitto in generale, e cioè che gli
ebrei conservano meglio il bagitto nel parlare in confronto ai discendenti di un matrimonio
misto ed anche ai non ebrei con legami158. Il parlare ai figli mostra già un degrado, che si
ebreo
ebreo
ebreo sposato matrimonio matrimonio non ebreo
ceto
ceto
con non ebreo
medio
basso
si
27
50
qualche
32
41
misto
misto ceto
sposato
ceto medio
basso
con ebreo
30
-
60
43
44
33
-
30
33
6
23
100
29
23
parola
no
Figura 17: ‘Ho parlato il bagitto ai miei figli’ in percentuale.
vede più chiaramente quando guardiamo alle categorie non suddivise. Per gli ebrei risulta: si
= il 37%, qualche parola = il 37% e no = 26%; per i matrimoni misti: si = il 50%, qualche
parola = il 25% e no = il 25%. Queste cifre valgono per tutti colori che hanno risposto, ma
siccome si disponeva di un file abbastanza vecchio ho estratto tutti gli intervistati nati dopo
1940, la generazione che ha potuto riprendere la vita normale dopo le crudeltà
dell’occupazione dei nazisti e le azioni preparatorie dei fascisti: questa gente è infatti potuta
andare alla scuola ebraica, ha potuto parlare francamente, senza avere paura di essere
smascherata e considerata come gente ‘indegna’. Ma il danno era già stato provocato e al
tempo stesso si nota un proseguimento di una tendenza già in atto. Per questi casi le
percentuali sono: si = il 30%, qualche parola = il 55% e no = il 15%. Il fenomeno è indicativo
di ciò che sta succedendo e si manifesta nell’alta percentuale della categoria ‘qualche parola’.
Si può interpretare che il bagitto non sia più un mezzo di comunicazione intero per tutti, ma
un’aggiunta ad un’altra lingua e serva per esprimere un affetto che mette l’accento sul
rapporto particolare dei due partecipanti del processo comunicativo.
Al tempo stesso il bagitto non serve più come un linguaggio segreto, un linguaggio comune,
come ha funzionato nel passato, perché le circostanze in cui ci si servì del parlar giudaico-
158
Le risposte alla domanda ‘Sa parlare il bagitto?’sono (in percentuale):
ebrei matr. misti ‘ legamisti’
si
49
21
19
qualche parole 44
74
63
no
7
5
19
57
livornese sono cambiate. Il mercato su suolo pubblico non è più l’area bagitta grazie al fatto
che l’egemonia ebraica non esiste più. Il banco del vicino non necessariamente è occupato da
un correligionario e così la lingua parlata si è indebolita. Il sentimento di fratellanza è rimasto
vivo, visto il fatto che il 61% degli intervistati ha risposto di parlare il bagitto soltanto quando
sa che l’interlocutore lo comprende, il 30% non tiene conto di questo fatto, ed il 9% lo uso
con il buon intenditore e con l’ignorante ugualmente. Il 77% parla il bagitto per non farsi
capire da un estraneo mentre il 17% non lo usa come un codice segreto. La conferma di
questo impiego del linguaggio è sempre accompagnato da un gran sorriso che interpreto come
se ci fosse ancora un sentimento favorevole nei confronti della sopravvivenza del gergo
vernacolare ebraico livornese. In generale non si nasconde di far parte della stessa comunità
linguistica, solo il 17% dice di aver fatto finta di non capire il bagitto, il resto rivela di
appartenere alla cerchia degli iniziati.
Il linguaggio è visto come una cerchia del genere. Alla tesi che l’uso del bagitto sottolinei un
sentimento di solidarietà, il 78% degli intervistatori dà una risposta affermativa, che considero
importante, perché coloro che non parlano il bagitto giudicano positivamente una materia
sconosciuta. Di una lingua si intendono tutti e per collegare una lingua ed un sentimento di
solidarietà basterebbe leggere il dépliant di un corso d’inserimento. Qui si impone dall’altro
lato la questione se il regresso del bagitto, che si è dimostrato nelle figure precedenti, possa
significare la scomparsa di qualcosa dentro la comunità ebraica.
Nonostante l’indebolimento costante, la maggior parte degli intervistati non crede che il
bagitto possa sparire completamente nei prossimi vent’anni: il 51% pensa al futuro con
ottimismo, mentre il 41% ha perso la speranza con una certa rassegnazione. L’8% non ha
un’idea. I pessimisti (o realisti, come preferiscono considerarsi) si rivelano in tutte le
categorie del campione, ma gli ebrei del ceto medio superanno tutti gli altri (il 52% del
sottotipo) in confronto con il ceto basso (il 39%), i figli di un matrimonio misto (il 14% per il
ceto medio, il 25% per il ceto basso). I non ebrei ma sposati con un ebreo raggiungono il 44%
nel pensare prossima la scomparsa del parlar giudaico-livornese. Non si può tener in vita una
lingua artificialmente, ma un’aspettativa negativa non aiuta la sua conservazione.
Un grande consenso invece esiste nel giudizio del dissolvimento completo del bagitto. Il 98%
di tutti gli intervistati lo considera un peccato ed il 55% vorrebbe imparare il bagitto se ci
fosse la possibilità. Tra le persone che hanno risposto di non voler imparare l’idioma in
questione (il 20%) ci sono nove non ebrei, ed il 2% non lo sa, il che vuole dire che anche i
non ebrei (e senza legami) sono interessati ad un’offerta di lezioni in bagitto. Gli ebrei che
sono rimasti indifferenti alla possibilità d’imparare il bagitto sono già in età più o meno
58
avanzata oppure dell’opinione di essere già competenti. La scuola ebraica non esiste più, le
lezioni di bagitto non ci sono. Ecco la situazione.
59
6. Le minacce alla continuazione del bagitto
Le conclusioni della presente indagine non si limitano a rilevare lo stato delle cose in questo
momento. Il mio lavoro, condotto dal maggio al giugno 2008, non è stato solo una ricerca
sulla conoscenza delle parole bagitte, ma è diventato anche un mezzo per ascoltare tutte le
storie che durante il mio giro a Livorno mi sono state raccontate. In questo modo ho potuto da
una parte scoprire un legame tra gli eventi storici e le altre minacce e dall’altra misurare l’uso
del parlare giudaico-livornese al giorno d’oggi.
Una cosa cero è stata evidente: il bagitto è sotto torchio. Si potrebbe fare spallucce per questo
fatto, condividere il pensiero che si tratta di un processo naturale, o essere dell’idea che un
dialetto in un mondo sempre più globalizzato è oramai passato di moda e pensare che sarebbe
più intelligente affrontare altri problemi più importanti. Al contrario ho sempre incontrato
negli interlocutori espressioni di nostalgia, un sorriso per un bel ricordo, una luce di felicità
negli occhi mentre parlavamo del passato e – su richiesta – il desiderio di preservare quello
che ancora rimane oggi di quel linguaggio degli antenati e della propria giovinezza. Perché il
bagitto è potuto arrivare a scomparire a tal punto? Vediamo cronologicamente le diverse
ragioni che hanno causato la decadenza del vernacolo giudaico livornese.
•
Un primo impulso ad allontanarsi intenzionalmente dalle parlate giudeo-italiane – e
dunque dal bagitto159 – è da datare intorno al 1861, quando il Risorgimento portò alla
proclamazione dell’Unità d’Italia. La nuova forma di governo impedì l’esistenza dei
ghetti (il ghetto di Roma fu chiuso nel 1848) e questo fatto fu per una fetta della
popolazione ebraica un sollievo: ‘basta il ghetto, basta il dialetto che rinvia al ghetto’.
Questo sospiro di sollievo fu tirato perché la reclusione durante secoli aveva
ostacolato un’assimilazione o almeno un’integrazione con il popolo italiano. Si può
obiettare che a Livorno non vi fu un ghetto in senso stretto, quanto piuttosto la
convivenza volontaria in un quartiere fra di loro, tuttavia le restrizioni nel contatto con
i concittadini non ebrei – per esempio il divieto di dividere la porta d’ingresso della
casa o le scale – fu sentito – ed a buon diritto – comunque come una discriminazione.
Fu soprattutto il ceto medio – ne abbiamo trattato nel capitolo 2 – che volle mescolarsi
con la popolazione non ebrea, e che si sentì in primo luogo ‘italiano’ e poi ‘ebreo’. È
stato nello stesso ceto che una certa quantità di persone – approssimativamente –
abbracciò il Fascismo, quando questo movimento ambiva ad un’Italia unita per
159
Il rabbino di Livorno Eliah Benamozegh (1823-1900), una tra le maggiori figure dell’ebraismo italiano dell’Ottocento, ha spronato i suoi
correligionari a partecipare al movimento del Risorgimento, essendo un’occasione d’oro per l’emancipazione degli ebrei italiani.
60
condizionare la propria situazione politica nazionale. Una possibilità scelta per mettere
in pratica la voglia di integrare fino a quando le legge razziali furono emesse. In un
primo momento il movimento ottocentesco nazionalista costituì un primo passo per
distaccarsi dal bagitto. Parlando con i nipoti di quei primi ‘integrazionisti’ ho
constatato che questi conoscono davvero poche parole bagitte.
•
Insieme all’elemento precedente c’era l’esigenza del ceto medio di distinguersi del
ceto basso. I due ceti erano ben divisi. Solo alla scuola ebraica i ragazzi avevano la
possibilità di entrare in contatto fra di loro, ma una volta adulti diventavano tutti
livornesi, anche se comunque di mondi diversi. I ragazzi di origine più socialmente
elevata erano costretti ad arrivare in alto nella scala sociale ed il linguaggio in tal
senso non doveva essere un ostacolo per il raggiungimento di quell’obiettivo. Come
esprime Bedarida nell’Introduzione di Ebrei di Livorno:
Non esiste dunque un linguaggio volgare o fine, ma il parlare della gente volgare, che è quello
che è e non può essere diverso, senza il rischio di cadere nel ridicolo; e il parlar delle persone
colte, le quali, se si esprimono in modo volgare, diventano allora volgari. (Bedarida, 1956, op.
cit., p. XXI).
Per evitare di essere considerati di umili origini era necessario parlare una lingua
appropriata: un altro tentativo di eliminare nel linguaggio personale il dialetto locale.
Inoltre questo doveva essere utile per integrarsi meglio nell’Unità d’Italia. Così
l’italiano funzionò per ribellarsi alla povertà del ceto operaio ebraico e – di
conseguenza – al ceto stesso con suo linguaggio.
•
Nonostante il fatto che gli ebrei avessero trovato un posto più o meno favorevole a
Livorno in confronto a quasi tutto il resto del mondo, il luogo non era (e non è)
completamente al riparo dall’antisemitismo. Abbiamo già ricordato gli scritti di
Giovanni Guarducci e Luigi Duclou che non sono stati molto rispettosi nei confronti
del parlare giudaico-livornese e per gli utenti di quel vernacolo. Anche nel
comportamento dei concittadini ci furono degli scoppi di rabbia verso gli ebrei. Il
quartiere di Venezia Nuova – pieno di giudeofobia – si contraddistinse negativamente
per manifestazioni antiebraiche. Senza entrare troppo nei dettagli160 - si trattò di una
160
Per maggiori particolari cfr. Toaff, 1992, op. cit., p. 25-8
61
manifestazione d’invidia da parte dei non ebrei per la posizione d’eccezione degli
ebrei, appoggiati dalla benevolenza granducale ed in seguito dal benvolere francese –
il tenore di prudenza per la propria vita forzava gli ebrei a non mettersi troppo in
mostra. L’uso di un linguaggio particolare avrebbe potuto essere ingannevole e
conveniva abbandonarlo. Dall’altro lato si comprende perché gli ebrei abbiano voluto
vedere il loro giudeo-parlare livornese come un linguaggio segreto. Non essere capito
vuole dire non essere ‘beccato’. Ma in un ambito del genere bisogna considerarlo
anche come una politica dello struzzo.
•
Già prima del periodo buio della Seconda guerra mondiale si celebravano i matrimoni
misti, un fenomeno che si è continuato a verificare fino ad oggi. Abbiamo già mostrato
come in quasi ogni legame del genere si trovi una perdita dell’uso del bagitto. Nei ceti
medi in cui il marito è ebreo e la moglie una cattolica, si vede con qualche regolarità
che la moglie si converte all’ebraismo (non ho mai visto l’inverso ovvero che il marito
si sia convertito all’ebraismo161), ma questo gesto generoso non compensa la
mancanza di un’educazione imbevuta nel bagitto. Concretamente un matrimonio misto
significa una perdita del 28% nel parlare bagitto, il partner non ebreo parla il 30% in
meno il vernacolo rispetto alla sua metà. Il clima linguistico cambia notevolmente.
Solo questo non basta però per spiegare la decadenza del parlar giudaico-livornese.
Soprattutto non c’è niente da fare contro la tendenza che continua sempre di più a
sposare un non ebreo. Il matrimonio combinato è oramai passato di moda, non soltanto
perché non ci si lascia più imporre un legame così personale, ma per giunta l’offerta
dei pretendenti è diventata magra. Inoltre le proprie passioni fisiche non si lasciano
mai domare.
•
Una minaccia fondamentale – sia per il bagitto sia per le persone che lo parlavano –
sono state le leggi razziali, promulgate all’improvviso nell’estate del 1938. Il governo
fascista aveva dichiarato poco tempo prima che in Italia non esisteva la ‘questione
ebraica’. Per gli ebrei livornesi l’applicazione delle leggi razziali si presentò come un
fulmine a ciel sereno, soprattutto per coloro che avevano sostenuto il fascismo. Da un
‘Libro d’Oro’, un quaderno di 70x50 centimetri e copertina rigida, in cui un autore, un
161
Per la legge ebraica non vale neanche la pena che l’uomo diventi ebreo, perché solo la madre può trasmettere l’identità ebraica ai figli.
Interessante in questi casi è che la conversione della donna avvenne dopo la nascita dei figli. I figli diventeranno ebrei con valore
retroattivo? Oppure erano già ebrei grazie al fatto che la legge fu interpretata a Livorno in modo più tollerante nel passato? E le donne si
convertono perché il regime ebraico è diventato più ortodosso?
62
pater familias ebreo ha voluto esporre gli affari concernenti la famiglia e – come
un’aggiunta - la vita politica italiana, riportiamo poche righe sulla descrizione
dell’accoglienza festosa del Duce a Livorno:
Il giorno 15 luglio 1938 con un comunicato dal titolo: Diversità di razze, apparso sui principali
giornali d’Italia, firmato da un gruppo di studiosi fascisti si inizia il Razzismo in Italia. Avrei
desiderato riportare su questo libro tutte le leggi e disposizioni impartite dal R. Governo e tutto
quanto poteva esserci di interessante riguardo questo movimento, ma troppe pagine sarebbero
state necessarie per adempiere a questo scopo. Perciò piuttosto che fare appena incompleta
preferisco rimandare coloro (ai quali interessano queste notizie) a leggere altrove, essendo il
vero scopo di questo Libro, più che altro, quello di ricordare i più importanti avvenimenti della
mia Famiglia.162
La pagina seguente racconta la dipartita del Papa Pio XI e l’elezione dal successore
Pio XII, un avvenimento davvero importante per una famiglia ebrea! Si aveva – ma in
tutta innocenza – puntato sul cavallo perdente ed ora la situazione era totalmente
cambiata:
Fu nel pomeriggio del 7 luglio (1944) che avemmo l’immensa gioia di veder passare in alto
sulla collina accanto a quella ove eravamo noi, dei soldati in fila indiana, che guardati col
cannocchiali ci pareva che dovessero americani. Immaginarsi la nostra esultanza, era per noi la
liberazione come italiani e come ebrei, pronti anche a morire se la battaglia continuava, ma
almeno non morire di fame e con la gioia di avvicinarsi il trionfo degli alleati, che era il nostro
stesso trionfo! (corsivi miei, CW).163
Nell’ambiente ebraico il fascismo si è diffuso prevalentemente nel ceto medio, ma
certamente non per tutti i membri di questo il fascismo è stato un ideale politico.
Attualmente non si esprime più facilmente quel che si pensa della situazione politica,
ma il ceto medio non si aspetta molto dalla sinistra italiana. Invece si verifica un altro
fenomeno da considerare: il sentimento nazionale viene proiettato sulla seconda patria,
Israele. Ogni voto per l’elezione nazionale ha poco a che fare con la politica italiana
interna, ma tutto come un partito valuta la politica israelita. Un atteggiamento critico
in questo campo viene facilmente visto come un atto d’antisemitismo.
Le leggi razziali erano in ogni caso un intervento quasi chirurgico nell’esistenza della
comunità ebraica, la Nazione Ebrea. In primo luogo hanno causato una concentrazione
162
163
(Daniele) Ugo Castelli – Libro d’Oro. Inedito. Citato con permesso dalla famiglia.
Ibid.
63
del popolo ebraico e in un secondo momento anche una disgregazione. I professori
ebrei delle scuole pubbliche furono buttati in mezzo alla strada e agli allievi fu vietato
l’ingresso alle scuole medie e superiori. Per la scuola elementare non ci furono
problemi, dato che esisteva già la scuola ebraica. Per l’insegnamento nella media
inferiore e superiore non esisteva in quel momento una scuola ebraica, ma per
garantire il progresso dell’educazione si misero insieme gli insegnanti costretti nella
disoccupazione e gli alunni rimasti senza scuola. Ci limitiamo qui a parlare
dell’insegnamento, essendo questo una sorgente d’apprendimento della lingua, ma
anche negli altri settori della vita pubblica gli ebrei furono forzati a cercare sostegno
fra di loro, scacciati dalla società fascista italiana, dove si ricorda ad esempio che
l’ingresso dei luoghi pubblici era “vietato ai cani e agli ebrei”. Grazie all’indifferenza,
più che alla solidarietà dei livornesi, gli ebrei livornesi hanno potuto continuare la
propria vita in città, seppur con grandi problemi pratici. Dopo l’8 settembre del 1943,
quando la caccia agli ebrei cominciò, quelli che non erano ancora catturati furono
costretti a vivere nella clandestinità. Le scuole ebraiche furono chiuse. Con ciò venne
meno la vita comune, il nucleo linguistico del parlar giudaico-livornese e il
condizionamento reciproco. Escludere la possibilità di comunicare nella lingua
comune significava una perdita del vernacolo, perché un linguaggio va mantenuto.
Sentir parlare una lingua offre una modalità di sopravvivenza della stessa.
•
Per i giovani la vita in clandestinità era ancora più disastrosa. Non solo erano costretti
a vivere in circostanze particolari – in tanti casi non si può parlare neanche di una vita
familiare –, ma neanche lo sfondo culturale esisteva più. Qualcuno fu mandato alla
chiesa cattolica e forzato ad imparare tutte le canzoni di una fede che non era la
propria. Ma soprattutto i giovani furono così privati dell’acquisto della loro lingua
autentica, le parole bagitte, le sue sfumature, il parlare per immagini e allusioni, le sue
antifrasi ed allegorie, ma anche la pronuncia e in particolare il famoso parlare con
l’accento cantilenato fu visto come una dimostrazione di essere ebreo e di
conseguenza una minaccia per se stessi in un mondo ostile. Una volta tornato nella
città bombardata e poi liberata e con una sinagoga distrutta qualcuno si è sentito
spaesato. La comunità ebraica non è sempre stata in grado di dare una mano agli
sradicati morali. I risultati di questi presupposti si manifestano anche con la ridotta
consapevolezza delle parole bagitte. E – una conclusione triste – con l’incapacità di
comunicare con proprietà di linguaggio.
64
•
Dopo la guerra si assiste ad una rifioritura del bagitto, ma questo va considerato come
il racimolare i frammenti di una esistenza perduta, la voglia di riprendere la vita
domestica interrotta. La scuola elementare ebraica viene riaperta, i commercianti
riprendono i lori posti ai loro barrocci, si fanno disegni per una nuova sinagoga. È
questo il conflitto interiore nella comunità che da un lato mostra la tendenza a
guardare al passato e dell’altro la voglia di affrontare il futuro. Esiste ad esempio
qualche poesia164 che ha come argomento il passato – gli orrori della guerra - ma il
futuro è centrale, come in tutti i paesi postbellici che si concentravano nella
ricostruzione della città, dell’economia, della vita. In un clima del genere un vernacolo
era troppo incastrante, ci voleva una vista lunga, più internazionale. Per di più il
bagitto ricordava – l’histoire se répète, il periodo ottocentesco - la discriminazione
che condusse alla persecuzione recente. Meglio non parlarne.
•
La nascita dello Stato d’Israele ha avuto come effetto che tanti ebrei sono diventati più
consapevoli del loro essere ebrei. Il legame con le radici ebraiche si è rinnovato per
tanti ebrei in tutto il mondo, Livorno compresa. Tanti hanno voluto partecipare alla
costruzione della Terra promessa, finalmente conquistata dopo tante privazioni, e tanti
sono partiti per unirsi ai pionieri della prima ora. Questo fu il primo esodo volontario
dalla città labronica. E con loro sparì il primo gruppo di parlanti del bagitto.
La ricostruzione dell’esistenza postbellica incluse anche una più facile accessibilità ad
un insegnamento migliore. Così tanti giovani si poterono laureare, ma non trovarono
una sfera di lavoro adeguata. Questo causò un secondo esodo locale: un ceto alto
intellettuale si vide costretto a cercare un lavoro a Roma, a Milano o a Gerusalemme
(per nominare i luoghi più prediletti), perché Livorno non glielo poté offrire. Rimasero
a Livorno i loro genitori e i meno privilegiati nel campo della formazione. La partenza
di un segmento della popolazione in tal senso significò una certa perdita della cultura
ebraica e dunque del bagitto.
•
Un’altra ragione del degrado del bagitto si può trovare nella ridotta quota di
partecipazione nel mercato locale. Fino al 1965 il mercato si trovava in via Cardinale,
contava circa 30 barrocci ed il 90% degli occupanti era ebreo. Per questo motivo il
164
Si veda Bedarida, 1956, op, cit., e anche Rossi, s.a., op. cit. e Migali 1990, op. cit.
65
mercato venne chiamato ‘il mercato degli ebrei’. Nel 1967 un edificio dirimpetto al
Nuovo Mercato delle vettovaglie165 in via Buontalenti – già diventato una rovina dopo
il bombardamento degli alleati nel maggio del 1943 – fu demolito per dare spazio ad
un ingrandimento dello stesso. Così fu creato posto per 102 barrocci. La quota di
mercato per gli ebrei diminuì del 40%. Dopo il 1973 i barrocci furono sostituiti da
banchi, cioè i barrocci mantenevano le ruote, ma i banchi rimanevano a loro posto
giorno e notte e subirono delle estensioni provvisorie che vennero demolite dopo la
chiusura. Nel 1975 la quantità dei commercianti ebrei nel mercato era il 30% del totale
dei 102 banchi. Al 23 giugno 2008 la quantità è diminuita fino al 13% per gli ebrei, ed
al 24% si includono i commercianti legati alle famiglie ebree. I banchi attualmente
vengono venduti soprattutto ai cinesi. L’ambiente linguistico del bagitto si è per lo più
infiacchito. Un linguaggio è come un rapporto, bisogna intrattenerlo.
•
Una minaccia per il gergo vernacolare ebraico livornese si concretizza anche con un
cambiamento della composizione della famiglia. Prima della Seconda guerra mondiale
le famiglie erano composte di tre o quattro generazioni che vivevano insieme in una
casa. Un commento che ho sentito spesso è stato: “Mia nonna mi disse sempre …”.
Questo commento sottolinea che il linguaggio è stato trasmesso da una totalità di
membri di famiglia, cioè che il bagitto fece parte della vita familiare. Dalla risposta
alla mia domanda ‘Da chi ha imparato il bagitto?’ è risultato che l’11% ha imparato il
bagitto dai genitori, mentre il 21% indica i parenti come i maestri. Il 16% denomina la
combinazione di genitori e parenti. Dopo la guerra, soprattutto negli ultimi venti anni,
si nota che le giovani generazioni escono dalla casa della famiglia di origine e vanno a
vivere da soli. I loro figli quindi non vivono insieme con i nonni. Trasmettere una
lingua significa esprimere dei sentimenti in un vernacolo che sta vicino al cuore,
enunciare vezzeggiativi o esternare lezioni della vita, come si fa in una cultura tra i
membri della famiglia. In questo caso la distanza è diventata grande e la possibilità di
comunicare più difficile.
L’indipendenza del domicilio è almeno per quel che ci interessa un inaridimento
dell’ambiente linguistico.
165
Un maestoso edificio, disegnato dall’ingegnere Badaloni, fu inauguratoli lì nel marzo 1894. Danneggiato gravemente durante la guerra ma
ricostruito subito dopo la liberazione, l’edificio aveva posto per 44 botteghe e 252 banchi. I commercianti non erano ebrei, i quali invece si
trovarono fuori, all’aria aperta. Attualmente è entrato nel mercato coperto un primo ebreo che vende scarpe.
66
•
Nel 1956 c’è stata la crisi di Suez e del deserto del Sinai. Tanti ebrei furono buttati
fuori dall’Egitto, da qui una parte considerevole arrivò a Livorno e nel 1967 dopo la
guerra dei Paesi Arabi e l’Israele (‘la Guerra dei Sei Giorni’) un alto numero di ebrei
fu costretto a lasciare la Libia per stabilirsi nella città labronica. Bisogna concludere
che invece di un’emigrazione che si avverava già, anche un’immigrazione di persone
con uno sfondo diverso a medio termine (perché anche loro sono originalmente
rifugiati iberici) ha causato un indebolimento del bagitto.
•
La cessazione della scuola elementare ebraica nel 1983 a causa della mancanza di
persone probabilmente è stata l’attentato più severo all’apprendimento del bagitto. Il
luogo d’incontro della gioventù, sia del ceto basso e del ceto medio, è sempre stato
una terra fertile per imparare una lingua comune e per integrare due popolazioni
diverse. Gli allievi sono stati dispersi in altre scuole della città e soltanto il nome della
strada166 ricorda i tempi in cui lì fu insegnato – oltre alle materie obbligatorie –
l’ebraico e – mai ufficialmente – il bagitto. (L’edificio è stato abbattuto e sostituito da
un palazzo di sei piani, proprietà della comunità, e quasi tutti i montanti nel
pianerottolo portano una mezuzah, l’astuccino al montante).
•
L’atteggiamento dei rabbini locali verso il giudeo-parlare livornese non è sempre stato
molto stimolante. Si può obiettare che non è proprio incarico della direzione spirituale
quello di incoraggiare l’uso di un linguaggio che non ha niente a che fare con i doveri
religiosi, un linguaggio che si usa fuori della sinagoga, un linguaggio che ha a che fare
con il commercio e non con il culto. Ci sono stati dei rabbini dopo la guerra che hanno
avuto simpatia per il registro dei propri correligionari, ma non molti. L’attuale rabbino
non sapeva neanche l’esistenza di un gergo vernacolare ebraico livornese, anche se il
suo studio si trova attiguo alla stanza dell’intenditore del bagitto per antonomasia –
Gabriele Bedarida - nell’ufficio della comunità ebraica. Questa mancanza non è
completamente da imputare al suo disinteresse, perché il rabbino è giovane, è stato
nominato tre anni fa dopo essersi appena laureato ad un seminario rabbinico israeliano
e prima di tutto ha dovuto imparare l’italiano. Il suo dovere poi è stato quello di
reintrodurre la fede ortodossa in un clima che era diventato troppo tollerante. Non con
soddisfazione generale, per il clima tollerante e per la reintroduzione dell’applicazione
166
Via dei Fanciulli – da via Cairoli a via Eugenio Sansoni - fu senza nome fino al 1860, anno in cui venne così denominata. Il nome si
riferisce alla vicina scuola israelita alla quale conduceva questa via. La scuola scomparve verso la fine del secolo. La strada era conosciuta
per via Traverse. (Beppe, Leonardini e Corrado Noverino 1986: Strada Storico di Livorno, Nuova Fortezza, Livorno).
67
della legge ebraica. Soprattutto per i matrimoni misti la nuova – o meglio recuperata interpretazione della legge ha avuto conseguenze sulle modalità di considerare i figli
di famiglia ebrea come ebrei o meno. Per le questioni da risolvere nell’ufficio della
comunità dunque non si utilizza un mezzo di comunicazione del passato, ma ci si
preoccupa come comunicare propriamente con i correligionari. L’esistenza di un gergo
livornese – anche se ebraico – è in confronto ai problemi di razza e di fede, una
questione di interesse secondario167. D’altra parte ci si può domandare se il bagitto non
facesse parte del patrimonio culturale della comunità ebraica e di conseguenza non
fosse in realtà una cosa da tener cara anche da parte dei responsabili della Nazione
Ebrea.
167
Mentre in passato durante le feste di nozze il bagitto fu usato nelle commedie per aumentare la baldoria. Il bagitto servì per sottolineare lo
spirito comunitario
68
Conclusioni
Il bagitto in questo momento ha un posto di rilievo. Da un lato viene visto come il parlar
giudaico livornese, cioè un mezzo di comunicazione soprattutto tra i commercianti del
mercato, dall’altro, grazie alle pubblicazioni di Bedarida, Rossi e Della Torre, è anche
diventato una lingua letteraria. Questo stato di cose rende difficile l’approccio al fenomeno
del bagitto. Tutti credono che se il bagitto sparisse completamente, sarebbe una grande
perdita. Ma a cosa si riferiscono le persone esprimendo questa preoccupazione, alla lingua
popolare o a quella più aulica? Il bagitto si sta perdendo, ma per cambiare la corrente non
esiste una soluzione su misura. Si può semplicemente proporre di ricominciare a parlare il
bagitto, ma per farsi capire ci vuole almeno un interlocutore che s’intenda anche lui del parlar
giudaico-livornese e questo non è ciò che si verifica di solito. Lo stato della popolazione del
mercato è diventato diverso. Come parlata commerciale il bagitto ha poche prospettive. Come
lingua letteraria avrebbe una possibilità, ma negli ultimi tempi non si è presentata ancora una
vena poetica. D’altra parte non è per niente chiaro dove e in quale occasione una letteratura
bagitta potrebbe essere presentata. Anche se a Livorno esiste una casa editrice ebraica,
un’edizione in bagitto non sarebbe redditizia a causa dei pochi potenziali acquirenti, salvo nel
caso in cui si provveda ad un sovvenzionamento generoso.
Nella comunità ebraica c’è sempre stata una divisione tra il ceto basso ed il ceto
medio. Questa dicotomia esiste ancora. Dei tentativi per riunire i due ceti – per esempio con
l’organizzazione della fiera di beneficenza del Women’s International Zionist’s Organization
(WIZO), sono stati fatti, ma il ceto basso, a parte contribuire in modo magnanime alla vendita
delle merce, per il resto non si fa vedere. Il bagitto si trova tra l’incudine ed il martello, perché
se originariamente era la lingua del ceto basso, oggi si manifesta come una lingua scritta
elitaria, specialmente nella forma dei sonetti (come hanno scritto Bedarida e Delle Torre).
Non è opportuno concludere che il bagitto sia stato confiscato dal ceto medio, ma nella forma
scritta –la forma più adeguata per lo studio, non dipendente del luogo e tempo168 - è almeno
molto vicino alle persone colte169.
Durante l’indagine ho riscontrato che persone appartenenti al ceto basso alzavano sempre lo
sguardo verso persone del ceto medio, come se questi fossero più competenti per dare un
giudizio finale sul bagitto. In parte si capisce, perché il figlio di Guido Bedarida, Gabriele
Bedarida, appartenente al ceto medio ed ancora oggi energico ed attivo nella comunità, viene
168
Lo studio di Alessandro Orfano costituisce un’eccezione: egli si è limitato a fare delle registrazioni e così i suoi intervistati si sono
incontrati soprattutto nel ceto basso.
169
Per quanto si può sostenere che la guerra e la clandestinità abbiano guastato l’educazione di una generazione intera.
69
considerato come l’autorità per eccellenza nella competenza del bagitto: ha pubblicato
articoli, ha tenuto conferenze ed è la persona più accessibile a tutti coloro che vogliono
immergersi nel bagitto. In questo ruolo l’ho trovato molto disponibile ed un portavoce
dignitoso ed esperto. Solo che, purtroppo, ha già ‘dato l’ordine di comporre un requiem’ per il
bagitto, non dichiarandosi molto ottimista per la possibilità di sopravvivenza del gergo
vernacolare ebraico livornese. Soprattutto i matrimoni misti hanno - secondo lui ‘indubbiamente’ peggiorato la divulgazione del bagitto. Con un atteggiamento del genere non
ci si può aspettare un contributo attivo alla salvezza del parlar giudaico-livornese. Non è mia
intenzione criticarlo – al contrario, lo stimo moltissimo - penso solo che l’angelo custode dà
prova di una forma di rassegnazione e che questa non costituisca un incentivo per iniziative
nel dominio del giudeo livornese. Al ceto basso, che usa ancora sufficientemente il gergo
vernacolare, manca la capacità di esprimersi in forme complicate (per esempio il sonetto),
mentre il ceto medio ha una padronanza insufficiente del bagitto e si accontenta di un
consumo passivo.
Abbiamo accennato a tredici cause possibili per spiegare la decadenza del bagitto, una più
forte dell’altra. È un dato acquisito dunque che il bagitto si sta perdendo, ma non è possibile
calcolare con una certezza matematica quando il giudeo-parlare livornese non esisterà più.
L’esistenza di una lingua non è un problema di aritmetica. Per gli studiosi rimarranno i testi
scritti da esaminare, anche ‘una lingua morta’ può dar vita ad una ricerca per andare avanti.
Nel linguaggio quotidiano dei livornesi qualche parola bagitta si è già consolidata, e – anche
senza la conoscenza dell’etimologia – fa parte della cultura locale.
Realmente non credo che la situazione sia così drammatica. Un segno che dà speranza è il
fatto che non meno del 55% degli intervistati vorrebbe imparare il bagitto se ci fosse la
possibilità. La soluzione è ovvia: ci sono ancora delle persone che hanno conoscenza e
capacità per insegnare il giudeo livornese. Ma la conoscenza delle parole bagitte non implica
un clima linguistico dinamico: è infatti necessario usare le parole per comunicare. Per questo
ci vuole un’ambientazione. Per tutte e due le condizioni, le lezioni e l’ambientazione, si resta
a Livorno dipendenti dalla comunità ebraica, sia in senso materiale (per l’aula,
l’organizzazione, il materiale didattico) sia nel dare l’occasione, (come per esempio, una
serata dedicata ai sonetti di Guido Bedarida, uno sketch durante la festa di un matrimonio
come ai vecchi tempi, un concorso di poesie, una gara di vendita tra commercianti, un ordine
70
per mettere in musica una poesia170, una rubrica per lettere alla redazione nel periodico per
registrare le parole ancora conosciute, oppure contributi in forma di articoli171, o la
pubblicazione di un libro di testo, di un vocabolario). Per questo ci vuole la cooperazione di
tutti coloro che in un modo o in un altro si sentono coinvolti nella comunità e nella vita del
bagitto (ma hanno già dimostrato di essere interessati) oltre ad un atteggiamento favorevole
dal canto del rabbinato. Per mettere insieme tutti gli interessati ci vuole più di una dottrina
sola.
Un altro aspetto importante, che fonda speranza, è che attualmente esiste una tendenza
mondiale alla rivalutazione dei dialetti, forse scaturita da una forma di nostalgia e di interesse
per il linguaggio degli antenati. Non credo che tale interesse si limiterà ai dettagli locali, ma
credo che la rivalutazione potrà valere per tutti i dialetti giudeo-italiani. Probabilmente gli
studiosi cercheranno un fattore congiungente e le parole, usate un po’ dappertutto, avranno
qualche probabilità di tornare nel linguaggio quotidiano, o, almeno, nei testi letterari. Questo
implica naturalmente la possibilità di fruire di testi letterari moderni, che incontreranno il
gusto di una certa quantità di lettori. A mio avviso si cercherà il massimo comune
denominatore tra tutti i differenti dialetti e saranno soprattutto le parole con radici ebraiche, ed
in misura minore spagnole e portoghesi, che costituiscono i tratti caratteristici della lingua
sefardita, che verranno rimesse in circolazione. Per il bagitto significherà senz’altro una
perdita, ma dall’altra parte ci sarà la possibilità per alcune parole bagitte di ottenere una
divulgazione più ampia.
Ho dato al resoconto di questo mio lavoro il titolo ’ Un solo debarìm’, (Non solo parole),
perché durante i miei itinerari a Livorno non ho trovato solo risposte alle mie domande, che in
principio sono state domande sulla lingua popolare sviluppatasi nella Livorno vecchia, ma
anche dei sentimenti che esse hanno saputo risvegliare: ricordi di un mondo non ancora
perduto, un mondo in cui, a parte di un periodo brutto della persecuzione, si stava bene.
Evidentemente, chi ha parlato con me teneva molto ad un tale mondo.
170
Miriam Meghnagi, una cantante nata a Tripoli da antica famiglia ebraica, ha registrato un album Songs of Exile (1997), nel quale si basa
sui vecchie testi dialettali ebraici, tra cui anche il bagitto.
171
Si veda l’articolo di Renzo Ventura Il giorno dello iodio, nel mensile della comunità ebraica di Firenze, che mostra una somiglianza con il
bagitto (Supplemento 6) e che è piaciuto a tanti livornesi con familiarità con il vernacolo giudeo livornese.
71
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Hammondsworth, Middelsex
Levi, Primo 1994: Il sistema periodico, Einaudi, Torino
Luzzati, Michele 1990: ‘Integrazione a assimilazione nella Livorno ebraica: proposte per una
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identità (a cura di Michele Luzzati), pp. 9-22, Belforte, Livorno
Mancini, Marco 1992: ‘Sulla formazione dell’identità linguistica giudeo-romanesca fra taro
medioevo e Rinascimento’ in: Roma nel Rinascimento, Roma Nel Rinascimento, Roma, pp.
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Marcetti, Giorgio 1996 : Il borzacchini universale, Dizionario ragionato di lingua volgare,
anzi volgarissima, d’uso del popolo alla fine del secondo millennio, Ponte alle Grazie, Milano
Massariello Merzagora, Giovanna 1977: Giudeo/Italiano, Dialetti italiani parlati dagli Ebrei
d´Italia, Pacini, Ospedaletto Pisa
Massariello Merzagora, Giovanna 1983: ‘Elementi lessicali della parlata giudeo-fiorentina’
in: Quaderni dell’Atlante Lessicale Toscano, I, pp. 69-101, Olschki, Fienze
Migdali, Meir (Mario della Torra) 1990: Trenta sonetti giudaico-livornese, Edizione
dell’autore, Natania
Modena Mayer, Maria 1978: ‘Osservazioni sul Tabu’ Linguistico in Giudeo-livornese’ in:
Scritti in memoria di Umberto Nahon, Fondazione S. Mayer e R. Cantoni, Gerusalemme, pp.
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73
Modena Mayer, Maria 1997: ‘Le parlate giudeo-italiane’ in: Gli Ebrei in Italia, v.2 Storia
d’Italia, Annali II, Einaudi, Torino, pp. 939-1043
Modena Mayer, Maria 2007: ‘Il giudeo-italiano: risultati e prospettive della ricerca
sull’espressione linguistica degli ebrei d’Italia’ in: Il Giudeo-Spagnolo (Ladino), Cultura e
tradizione sefardita tra presente, passato e futuro, Belforte, Livorno, pp. 65-78
Ottolenghi, Lea e Emma de Rossi Castelli 2000: Nei tempi oscuri, Due donne ebree tra il
1943 3 il 1945, Belforte, Livorno
Polese, Francesco 1926 : Letteratura vernacola livornese, Bastogi, Livorno
Puntoni, Gabriella 2006: La comunità ebraica di Livorno e la città, Percorsi culture e identità
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Segre, Cesare 1955 : ‘Benvenuto Tertacini, linguista e le parlate giudeo-italiane’ in Rassegna
mensile d’Israel, 1955, pp. 499-506
Sonnino, Piera 2006 : Questo è stato, Una famiglia italiana nei lager, Saggiatore, Milano
Tavani, Giuseppe 1959: ‘Appunti sel giudeo-portoghese di Livorno’in; Annali dell’Istituto
Universitario Orientale, sezione Romanza, v. 1, fasc. 2, IUO, Napoli, pp. 61-100
Toaff, Renzo 1992: ‘La nazione ebrea di Livorno’ in: Itinerari di vita, Graphis Arte, Livorno
Ventura, Renzo 2008: ‘Il giorno dello iodio’ in: Firenze Ebraica Anno 21- n. 2-3, Comunità
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‘Googlegrafia’
Bedarida, Gabriele Gli Ebrei a Livorno: http://www.comunitaebraica.org/historyinfo/storia_com.htm (consultato il 15 settembre 2008)
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http://dante.di.unipi.it/ricerca/html/betulia_ebraico.html (consultato il 3 novembre 2008)
Falcini, Natale Le bravure dei Veneziani ossia La Riaprizione di S. Anna:
http://dante.di.unipi.it/ricerca/html/poemettolivornese.html (consultato il 30 dicembre 2008)
74
Fornaciari, Pardo Gli Ebrei del Principe, La funzione dell’elemento ebraico nel sistema di
potere delle corti padane minori : http://www.artfor.it/Pardo/articolo/Gli 20%ebrei%
(consultato il 5 marzo 2008)
Fornaciari, Pardo Il bagitto, gergo vernacolare ebraico livornese:
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http://www.sephardicstudies.org/quickladino.html (consultato il 18 dicembre 2008)
http://dante.di.unipi.it/ricerca/Interreg.html (consultato il 30 dicembre 2008)
75
Supplemento 1: Questionario lessico
lessico
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
BAGITTO
Il gannàv
‘Ainare
Sciuriato
Un zé
La haccaranza
Che garòn
Una roschetta
Un ciocchettone
Fare il hìghedo
Inhemerato
Negro
Far bahézzi
Essere alle bone mosse
Gadollo
S’è lehtito
La negrigura
Ma’oi
Ahlare
Ḥagadearsi, hagahearsi
Che mazzolata!
Un garè
Scapacitare
La zodessa
Bobo
Andare a harafòth
Il pipilotto
Il tafùsse
Intrahanarsi
traduzione
76
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
In bon’ora
Il sor Davàr
I tipitì
L’ho vista bigia
Inhatignarsi
Daberare
Sceraloso
Baheare
Roheare
Ganaveare
Scioté
Non posso tragarlo
Ḥastrapugliare
Sfongato
La spetezza
Ḥanino, hanoso
Una persiana
Néncico
Ḥigadiarsi
Sciagattare
Sbasire
Scioheare
51
52
53
54
55
77
Supplemento 2: Chiave questionario lessico
lessico
traduzione
BAGITTO
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
Il gannàv
‘Ainare
Sciuriato
Un zé
La ḥaccaranza
Che garòn
Una roschetta
Un ciocchettone
Fare il ḥìghedo
Inḥemerato
Negro
Far baḥézzi
Essere alle bone mosse
Gadollo
S’è leḥtito
La negrigura
Ma’oi
Aḥlare
Ḥagadearsi, ḥagahearsi
Che mazzolata!
Un garè
Scapacitare
La zodessa
Bobo
Andare a ḥarafòth
Il pipilotto
Il tafùsse
Intraḥanarsi
In bon’ora
Il sor Davàr
I tipitì
L’ho vista bigia
Inḥatignarsi
Daberare
Sceraloso
Baḥeare
Roḥeare
Ganaveare
Scioté
Non posso tragarlo
Ḥastrapugliare
Sfongato
Il ladro
Guardare
Ubriaco
Un tale
La stretta amicizia, troppa amicizia
Che voce !/che pettegolo!
Un tarallo
Un forte colpo con la mano
Essere una persona meticolosa e noiosa
Col veleno nel corpo, (scomunicato)
Brutto o di poco valore
Fare a metà
Essere prossimi a far qualcosa
Pingue, pieno
Se n’è andato
L’insipienza
I dinari
Mangiare
Annoiarsi
Che colpo decisivo!
Un goi, un incirconciso
Impazientire
Questa, essa, (colei)
Scemo
Andare al diavolo
Il buffetto
La prigione
Ficcarsi, introdursi, penetrarsi
In pace
Nessuno, niente
Le discussioni familiari
L’ho vista brutta
Prendere una cotta di qualcuno
Parlare
Chi fa troppe storie, troppe scenate
Piangere
Fare aria dal sedere, scoreggiare
Rubare
Scemo
Non posso deglutirlo
Sciuparsi, rovinarsi, far cose poco chiare
Frittata molto alta, ripiena di carne
78
43
44
45
46
47
48
49
50
La spetezza
Ḥanino, ḥanoso
Una persiana
Néncico
Ḥigadiarsi
Sciagattare
Sbasire
Scioḥeare
Femmina pettegola ed irrequieta
Grazioso
Una fetta di pan di Spagna glassata
Ignorante, scemotto
Tormentarsi
Ammazzare di botte
Mandare via, allontanare
dormire
79
Supplemento 3: Questionario dati personali
Dati personali
Anno di nascita:………………
Livornese originario//livornese ‘importato/a’//livornese nativo/a ma ora in un altro posto
Ebreo//ebrea/non-ebreo//non-ebrea //ebreo parziale//ebrea parziale
(Ex-)lavoro ……………………………………………
che studi ha fatto ? ………………………………………………….
Nonno paterno: Livornese//ebreo //ebreo parziale//anno di nascita: ……..
//lavoro: ……………………..
Nonna paterna: Livornese//ebrea //ebrea parziale//anno di nascita: ……..
//lavoro: ……………………..
Nonno materno: Livornese//ebreo //ebreo parziale //anno di nascita: …….
//lavoro: ……………………..
Nonna materna: Livornese//ebrea //ebrea parziale//anno di nascita: ……..
//lavoro: ……………………...
Padre: Livornese//ebreo //ebreo parziale//anno di nascita: ……..
//lavoro: ………………………...
Madre: Livornese//ebrea //ebrea parziale//anno di nascita: …….
//lavoro: ………………………...
Consorte/partner: Livornese//ebreo/a //ebreo/a parziale// anno di nascita: ……
//lavoro:………………………..
Conosce l’esistenza del bagitto?
si/no
Ha mai sentito parlare il bagitto ?
si/no
80
Ha mai visto il bagitto scritto ?
si/no
Sa scrivere il bagitto ?
si/no
Sa parlare il bagitto ?
si/qualche parola/no
Sa capire il bagitto ?
si/qualche parola/no
Qualcuno ha mai parlato il bagitto con Lei ?
si/qualche volta/raramente/non
saprei/mai
Chi era che ha parlato il bagitto con Lei ?
genitore/parente/collega/amico
/conoscente/vicino/…………..
Da chi ha imparato il bagitto ?
genitori/famiglia/colleghi/amici/
vicini/……………………………..
Parla il bagitto in circostanze specifiche ?
nel lavoro/in famiglia/in
compagnia specifica/……………
………………………………….
Parlo soltanto il bagitto quando so che l’interlocutore
comprende il bagitto
si/no/non lo so
Parlo il bagitto per non farmi capire da un estraneo
si/no/qualche volta/non lo so
Ci sono delle circostanze in cui faccio finta di non
capire il bagitto
si/no/non lo so
L’uso del bagitto sottolinea un sentimento di solidarietà
si/no/qualche volta/non lo so
L’uso del bagitto non è conveniente in circostanze
speciali
si/no/non lo so
Sarebbe un peccato se il bagitto sparisse completamente
si/no/non lo so
Vorrei imparare il bagitto se ci fosse la possibilità
si/no/non lo so
Temo che il bagitto sparisse entro vent’anni
si/no/non saprei
Ho parlato il bagitto ai miei figli
si/no/qualche parola/non pertinente
Ho imparato l’ebraico
si/no
81
Supplemento 4: etimologia questionario lessico
lessico
traduzione
1
2
3
BAGITTO
Il gannàv
‘Ainare
Sciuriato
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
Un zé
La haccaranza
Che garòn
Una roschetta
Un ciocchettone
Fare il hìghedo
Inhemerato
Negro
Far bahézzi
Essere alle bone mosse
Gadollo
S’è lehtito
La negrigura
Ma’oi
Ahlare
Ḥagadearsi, hagahearsi
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
Che mazzolata!
Un garè
Scapacitare
La zodessa
Bobo
Andare a harafòth
Il pipilotto
Il tafùsse
Intrahanarsi
In bon’ora
Il sor Davàr
I tipitì
L’ho vista bigia
Inhatignarsi
Daberare
Sceraloso
Baheare
37
38
39
Roheare
Ganaveare
Scioté
ebr. gannàv
ebr. ‘ájin (occhio)
Sciuriare (bere) da ebr. šikkor con suffiso
deverbale italiano
ebr. zé (questo)
sp. jacara
ebr. gar, gargar
sp./port. rosquetes, rosquillas
sp. chocar (colpire, urtare)
sp. higado (fegato, coraggio)
ebr. ḥerem (scomunica)
sp./port. (brutto)
ebr. ba-ḥetzì (metà)
it. part. pass.
ebr. gadol
ebr. alàḥ (andare)
sp./port negrura, negregura
ebr. ma’oth
ebr. aḥal (mangiare)
aram. ḥad-gadià (capretto, ma qui un
riferimento ad una cantilena pasquale
it. da mazza (lat. volg. matĕa(m))
ebr. arèl
ant. it. Scappare, scapeggiare
ebr. zo/zoth (questa) + it. -essa
sp. bobos
ebr. ḥaràv (schernire)
port. piparote sp. papirote
ebr. tafùs
port./sp. entranhar-se/trajnar
sp. enhorrabuena, norabuena
ebr. davàr (cosa, parola)
uso tosano tipizzarsi
sp. (malaventurado)
ebr. ḥet o ḥatàa (peccato) spagnolizzato
ebr. davàr (parola)
ebr. sceraloth (scenate, storie)
aram. beḥajeḥòn, da una preghiera, anche ebr.
baḥo (piangere)
ebr. roḥà (peto)
ebr. gan[n]avím
ebr. scioteùd (pazzia)
82
40
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
Non posso tragarlo
Ḥastrapugliare
Sfongato
La spetezza
Ḥanino, hanoso
Una persiana
Néncico
Ḥigadiarsi
Sciagattare
Sbasire
Scioheare
sp. tragar
lad. (sp.) ḥastro (sudicio)
sp. esponjado
uso livornese: pettegola
ebr. ḥen (grazia)
uso livornese, origine sconosciuta
sp./port. necio
sp. higado
ebr. sciaḥat (scannare)
origine sconosciuta
Ebr. sciaḥav (coricarsi, piacere)
83
Supplemento 5: Etimologia parole ottenute
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
acleggio
‘anì
ammozzi
baḥaiò
bangadesso
berakà cantando (fare - -)
bet-ḥayim (bakhea a -)
bughedo
ca’amessa
cafot (fare a -)
camé
chafasciaoi
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
cirici
debarista
devarim (fare -)
gabatòh
gadolia
(s)ganzuiare, ingazuire
garoḥ
ghezzerà
ghibor
gordo
ḥaḥam
ḥa’amessa
ḥabatà
ḥalona
ḥalto
ḥaltume
29
30
ḥamin
ḥamorearsi
31
32
33
34
35
ḥamor(-m)
ḥamortà
ḥaratà (fare
ḥarbato
ḥarpearsi
36
37
38
39
40
41
ḥavertà
inḥalmare
iudìo
jafè
kabalut
ḥazir
-)
il cibo, dalla radice ebr. ‘okhel’(cibare) con italianizzazione
povero, ebr. ‘anì
pezzetto, etimologia incerta
ebr. baḥalòm nemmeno per sogno
ebr. ba’al- (?) fidanzato
ebr. beraga (zegen) morire
ebr. cimetero (va a piangere al -)
ebr. bochoer sposo
sapientona
ebr. (girare intorno)
saggio
uso livornese (disinvolto, spregiudicato) viene da pisano
Caffaggiaio, magistrato addetto alla repressione dei
comportamenti divergenti
sp. chirigota (scherzo) tanti discorsi
ebr. devarim (parole) parolaio
ebr. devarim fare silenzio (?)
ebr. ḥazir (maiale) porcheria
ebr. gheviraḥ (madre del garoḥ) la madonna
fare l’amore
ebr. ger (straniero) jesu
ebr. sentenza
ebr. forte
sp. gordo grasso
ebr. ḥakham il saggio
ebr. ḥakhmanit (donna furba) la sapientona
ebr. colpo, fregatura
ebr. ḥalon (raam) una donna curiosa
aram. ḥaltà religioso
sp? caldear (dar calor) idolatria (ḥaltare = spingere un
ebreo a convertirsi al cristianesimo)
aram. ḥam (caldo) lo stufato nel camino
ebr. ḥamor (asino) giudeo spagnolo ḥamorear con flessione
del verbo all’italiana ḥamorearsi = guastarsi
ebr. ḥamor asino
ebr. asina a scuola
ebr. pentirsi
ebr. ḥarob (distrutto) pieno di cibo, nauseato
ebr. ḥerpah (vergogna) giudeo spagnole ḥapear con
flessione del verbo all’italiana ḥapearsi
ebr. ḥaver (amico, compagno) la donna di servizio
ebr. ḥalom (sogno) imbrogliare
ebr. yehudi ebreo
ebr. yapeh bella, buona
forse dall’italiano in modo ebraico = cavolate
ebr. maiale, non kasher
84
42
43
44
45
46
47
ḥazzerut
leḥem
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
66
67
68
69
70
71
mamzer
meltare
milà, mamò
ñamoratello
ñavon
ñivri
paḥad
pichegno
reaḥ
rebako
resḥut (fare -)
scarfè
sciocearsi
scioccato
scola
semanim, negri stampita
shamir
shamilà
sghiattare
tartire
tarzanim
teinàḥ
tignù (con il suo - )
72
73
74
75
76
77
78
tou vabou (tubabò)
zipor
zonà
zekenò
zonot
zuba
taḥad
maccà
mamasciù
mammasciud
mamoessa
ebr. ḥazirut porcheria, roba di poco valore
ebr. pane
ebr. piaga (ti venisse una maccà da qui fino a ḥanukà)
ebr. (constanza, consistenza) gioielli (oro)
ebr. l’insieme dei beni
ebr. mammašut (prezzo, valore) con suffisso derivazionale
italiano = la cacca
ebr. bastardo, poi cattivo
greco: melitao pregare cantando
ebr. mamon cazzo, genitale maschile
innamorato senza speranza
ebr. ‘awo(w)n (spreco) il peccato
ebr. ‘ivrì ebraico
ebr. paura
sp. pequeño piccolo
ebr. ruaḥ puzzo
ebr. revaḥ guadagno
ebr. andarsene
ebr. fare l’amore
sp. chocear (coccolare) partecipare con entusiasmo
sp. (?) contento
sp. escuela (scuola) sinagoga
ebr. simanim brutti segni
sp. estampida (fuga scatenanta) camminata lunga e faticosa
ebr. shamir (finocchio) omosessuale
ebr. lesbica
sp. (?) trangugiare
ebr. tachat (sotto)con italianizzazione: defecare
ebr. tafšanim polizia
ebr. te’ena topa, genitale femminile
sp. tiña (malattia contagiosa, p.e. la rogna) con la sua falsa
presenza
ebr. tohu wabohu confusione, caos, operazione di polizia
ebr. zippor (uccello) sesso maschile
ebr. zonot puttane
ebr. zaqen vecchie
ebr. puttane
giudeo-arabo sesso maschile
ebr. taḥat sedere
85
Supplemento 6
86
87
88
Vocabolario aggiunto all’articolo Il giorno dello iodio
Aclare, mangiare
Bàal abbàit, padrone di casa
Bachalon, sogno
Bacheare, piangere
Bachurod, giovanotti
Banavonod, purtroppo
Bechol dor vador,
Berachaim, casa della vita, ma nell’espressione andare al ber hahaim cantando: cimitero (per una morte
desiderata da chi resta)
Berescid, in principio (la prima parola del testo biblico)
Bezzim, vezzi
Buchon, Jean Alexandre, (1791-1849) studioso francese
Caccaranza, stretta amicizia
Capparà, pazienza
Cascerato, kasher, preparato secondo il rito
Cascerud, ibid.
Cavanà, zelo
Cavod, onore (per partecipare al rito nella sinagoga)
Cazzahbaruch, sia forte e benedetto
Chabatà, imbroglio
Chacham, sapiente, rabbino
Chalumòt, sogni, visioni, cose vane
Chanefud, adulazione
Channina, graziosa
Chanukkiot, eleganti
Charàn, località della Mesapotamia, da dove Abramo si mosse per migrare in Palestina, un posto lontano
Charatà, cambiamento d’opinione
Chas vechalìla, Dio previene
Chaver, commesso
Chavertà, donna di servizio
Chazir, maiale
Chazirud, sporcizia
Cheillà, comunità
Chen, garbo, grazia
Chìghedo, scrupoloso, meticoloso
Dabberare, parlare
Devarim, parole
Galud, esilio
Gannaviare, rubare
Ghenizzà, archivo, ripostiglio
Ghezirà, disgrazia
Ghezzera, decreto crudele, disgrazia
Ghibben, gobba
Goim, non ebrei
Impachadito, timoroso
Inchamorrarsi, cambiarsi in peggio
Iafà, bella
In bonora, in pace
Iodío, ebreo
Lechtirsi, andarsene
Maccà, percossa,ferita, punizione, disgrazia
Mammasciùd, consistenza
Mamzer, bastardo, sporcaccione
Manod, soldi
Mattanod, dono
Meghillà, racconto che non finisce mai
Meltare, studiare i testi sacri, pregare in ebraico
89
Mignan, dieci, il numero dei maschi, occorrente per il servizio
Passare da mignan: maturare, aver fatto il barmitzvà
Minhag, usanza, costume, abitudine
Minianisti, anziani indigenti
Mizvà, opera buona
Modim, brano nella preghiera in cui si fa un inchino, qui: l’inchino
Nainaràm, guardone (?)
Nainare, guardare
Narelim, dissennati
Narvid, sera
Nearini, ragazzi
Negro, brutto, povero
Niagghever, compagnia ripudiata (?)
Nolam, mondo
Pachad, timore
Pachadoso, pauroso
Ponel, (probabilmente posel, uomo inabile)
Purim, giorno di festa in cui si ricorda il riscatto ad opera di Ester
Rinnegrire, diventare brutto
Rinzechenito, lesinato
Riscionà, malignità
Rochà, scoreggia
Scefoch, elogio (?)
Scabbad, sabato
Sciacrid, alba, aurora
Scamir, gay
Scialom, pace
Sciccorìm, ubriachi
Scioté, scemo
Sciuriare, bere
Séchel, cervello
Sefer, libro (il Pentateuco)
Shactare, ammazzare secondo il rito
Simchà, gioia
Spantachaiato, stravaccato
Tafus, galera
Talled, manto di lana o seta per gli ebrei durante il servizio religioso
Mettere una donna sotto talled (sotto la chuppà): sposare
Tish’à be-av, giorno di digiuno, beccamorti
Zachen, vecchio
Zarà, angustia, pena
Zazzel, locale, bar
Zechenim, priviligiati
Zedaccà, elemosina
Zod, questo
Zona, puttana
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