Platone Socrate e la vita interiore Alcibiade primo - “Il prendersi

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Platone Socrate e la vita interiore Alcibiade primo - “Il prendersi
Platone
Socrate e la vita interiore
Alcibiade primo - “Il prendersi cura di sé”
Simposio - “L’effetto Socrate”
Guida alla lettura
M. Trombino – “La sessualità nell'antica Grecia”
ALCIBIADE PRIMO: IL PRENDERSI CURA DI SÉ
ALC. Allora caro Socrate, a cosa debbo impegnarmi? Sai insegnarmi? Perché ho capito
che le tue parole sono vere più di tutte.
SOCR. Sì, lo posso. Ma consigliamoci insieme sul modo con il quale possiamo divenire il
più possibile migliori. Perché, vedi, io certamente non dico che la necessità di venire
educati riguarda solo te e non me; no, anzi non c'è nessuna differenza fra me e te… dico il
vero quando dico che abbiamo bisogno di impegnarci, tutti gli uomini ne hanno bisogno,
ma noi due molto di più.
ALC. Quanto a me non hai torto. SOCR. Neppure quanto a me, penso. ALC. Che
dunque dovremo fare? SOCR. Non dobbiamo cedere, ne infiacchirci, caro amico.
ALC. No, certo! Non s'addice a noi!
SOCR. Senza dubbio, però bisogna che insieme esaminiamo la questione. Dimmi,
abbiamo detto di voler diventare migliori quanto più è possibile, non è vero ?
ALC. O per gli dei, Socrate, neppure io so quel che dico e rischio d'essere da lungo tempo
in una condizione vergognosissima senza accorgermene.
SOCR. Via, fatti coraggio! Perché se ti fossi accorto di questa condizione all'età di
cinquanta anni, ti sarebbe stato difficile cominciare a prenderti cura di te stesso. Ma ora
hai l'età giusta nella quale ci si deve rendere coscienti di quella.
ALC. E cosa bisogna fare, caro Socrate, quando uno se n'è accorto ?
SOCR. Rispondere alle mie domande, caro Alcibiade. Ciò facendo e con l'aiuto del dio,
se vorremo fare affidamento sulla mia voce profetica, tu ed io pure verremo in condizione
migliore. ALC. Così sarà se basta ch'io risponda.
SOCR. Bene. Ecco: cosa significa prendersi cura di sé ? Perché c'è da temere che spesso
ci illudiamo di prenderci cura mentre, per quanto lo si creda, non ne facciamo proprio
niente. E quand'è che un uomo ci si mette ? È quando uno si prende cura delle sue cose,
che egli ha cura di se stesso?
ALC. Mi sembra di sì.
SOCR. Vediamo! Quand'è che un uomo si da pensiero dei suoi piedi ? Forse quando si da
pensiero di ciò che attiene ai suoi piedi? ALC. Non capisco.
SOCR. Prendi un anello: potresti dire che si adatta ad un'altra parte del corpo umano che
non sia il dito?
ALC. No, davvero.
SOCR. Così anche la calzatura appartiene al
piede nello stesso modo? ALC. Sì.
SOCR. E vesti e coperte appartengono analogamente all'intero corpo ? ALC. Sì.
SOCR. Ora, è quando ci diamo pensiero per le scarpe che ci prendiamo cura dei nostri
piedi?
ALC. Non capisco bene, Socrate. SOCR. Ma come, Alcibiade ? Ha per te un qualche
senso “prendersi cura” in modo giusto di una qualunque cosa?
ALC. Per me sì. SOCR. Ed è quando si fa una cosa migliore che tu la chiami una giusta
cura ? ALC. Sì.
SOCR. Quale arte migliora la fattura delle scarpe ? ALC. Quella del calzolaio. SOCR.
Così è per mezzo di codesta arte che ci prendiamo cura delle scarpe ? ALC. Si.
SOCR. E con essa anche del piede ? O per mezzo di quella con la quale curiamo il
miglioramento dei piedi ? ALC. Con quest'ultima.
SOCR. E questo miglioramento dei piedi non lo curiamo con l'arte con cui miglioriamo
l'intero corpo ?
ALC. Mi par di sì. SOCR. E non è la ginnastica
ALC. Sicuro. SOCR. Con la ginnastica dunque ci prendiamo cura dei piedi ma con la
calzatureria di ciò che appartiene ai piedi.
ALC. Certo.
SOCR. Insomma con la ginnastica ci prendiamo cura delle mani, ma con l'oreficeria dei
ninnoli che appartengono alle mani ? ALC. Sì.
SOCR. Sempre con la ginnastica ci prendiamo cura del corpo, ma con la tessitura e le
altre arti ci prendiamo cura delle cose che attengono al corpo ? ALC. Assolutamente!
SOCR, Ma allora l'arte con la quale ci prendiamo cura di un oggetto qualunque è diversa
da quella con cui ci prendiamo cura delle cose che appartengono a quell'oggetto. ALC.
Evidentemente.
SOCR. Non è dunque quando ci si prende cura delle proprie cose, che si è solleciti di se
stessi.
ALC. Proprio no. SOCR. Perché, a quanto risulta, non è la stessa arte con cui
ci si prende cura di sé e delle proprie cose. ALC. No, certo!
SOCR. Dì su, allora: con quale arte potremo prenderci cura di noi stessi ? ALC. Non lo
so. SOCR. Ora, fino qui, almeno, siamo d'accordo, che non è quella con la quale
potremo rendere migliore qualsiasi oggetto che ci appartenga, ma quella che renda tali noi
stessi. ALC. Verissimo.
SOCR. Ora, avremmo mai conosciuto qual è l'arte che migliora la qualità delle calzature,
se non conoscessimo la scarpa ? ALC. Impossibile.
SOCR. E neppure, perciò, quale è l'arte che migliora la fattura degli anelli se non
conoscessimo l'anello. ALC. Vero.
SOCR. Facciamo un altro passo. Potremmo forse conoscere qual è l'arte che migliora
l'uomo stesso se non sapessimo chi siamo noi stessi? ALC. Impossibile.
SOCR. E può mai darsi che sia una bazzecola conoscere se stessi e che fosse uno sciocco
chi iscrisse quelle parole nel tempio o è invece una cosa difficile, e non da tutti?1
ALC. Talvolta, Socrate, mi è sembrato cosa da tutti, talvolta invece compito
estremamente difficile.
SOCR. Beh! Alcibiade, può essere facile o no, ma per noi il problema si pone così: se
conosceremo noi stessi, conosceremo forse la cura che dobbiamo prenderci di noi, se no,
non la conosceremo mai. ALC. È così.
SOCR. Di' dunque: in qual modo si potrebbe scoprire in che consiste il " se stesso " ?
Perché di conseguenza potremmo forse scoprire cosa siamo noi, ma rimanendo all'oscuro
della prima cosa sicuramente sarà impossibile scoprire la seconda. ALC. Hai ragione.
SOCR. Alt! Per Giove. Con chi parli adesso ? Con me ? ALC. Sì.
SOCR. Così anch'io con te ?
ALC. Si. SOCR. Allora è Socrate quello che parla?
ALC. Esatto. SOCR. E Alcibiade è quello che ascolta ?
ALC. Si.
SOCR. E Socrate non si serve di parole per parlare ? ALC. Certo!
SOCR. Il parlare e il servirsi della parole è per te la stessa cosa ? ALC. Si capisce.
SOCR. Ma chi si serve d'una cosa e la cosa di cui ci si serve sono differenti ?
ALC. Come dici ?
SOCR. Per esempio, il calzolaio taglia certo con il trincetto, con la lesina ed altri arnesi.
ALC. Sì.
SOCR. Dunque altro è colui che taglia ed usa quegli strumenti, ed
altro è ciò di cui egli si serve per tagliare. ALC. Senza dubbio.
SOCR. Nello stesso modo lo strumento che usa il suonatore di cetra per suonare sarà altra
cosa dal suonatore stesso.
ALC. Sì.
SOCR. Ecco: questo è ciò che ti chiedevo prima: se chi usa uno strumento e lo strumento
ti sembrano sempre diversi.
ALC. Mi sembra di sì.
1
Socrate si riferisci all’affermazione “Conosci te stesso” scritta sul tempio di Delfi.
SOCR. E che diremo del calzolaio ? Che taglia solo con arnesi o anche con le mani?
ALC. Anche con le mani.
SOCR. Perché si serve anche di queste ? ALC. Sì, SOCR.
E non si serve anche degli occhi quando taglia il cuoio ? ALC. Sì.
SOCR. Siamo d'accordo che chi usa uno strumento è altra cosa dallo strumento ? ALC.
Sì. SOCR. Allora il calzolaio e il suonatore sono altra cosa dalle mani e dagli occhi con
cui essi lavorano ? ALC. Evidentemente.
SOCR. E finalmente l'uomo non si serve di tutto il corpo ? ALC. Sì.
SOCR. S'era detto che chi si serve di uno strumento e lo strumento sono diversi ? ALC.
Sì.
SOCR. Allora l'uomo è altra cosa del suo corpo ? ALC. Credo. SOCR. Cos'è dunque
l'uomo ? ALC. Non lo so. SOCR. Però tu sai almeno che è qualcosa che si serve del
corpo. ALC. Sì.
SOCR. Che altro mai si serve di questo se non l'anima? ALC. Niente altro.
SOCR. E non è comandando che se ne serve ?
ALC. Sì. SOCR. Qui c'è una cosa da
cui nessuno può dissentire. ALC. Quale ? SOCR. Che l'uomo sia una almeno delle tre
cose. ALC. Quali?
SOCR. O anima, o corpo o ambedue insieme, come un tutto
unico. ALC. Senza dubbio.
SOCR. Ma non ci siamo già trovati d'accordo che l'uomo è proprio ciò che comanda il
corpo?
ALC. D'accordo. SOCR. Forse può il corpo stesso comandare se stesso ?
ALC. In nessun modo.
SOCR. Perché già abbiamo detto che lui stesso è governato.
ALC. Si.
SOCR. Non potrebbe proprio essere ciò che cerchiamo. ALC. No, non
sembra. SOCR. O è quel tutto unito che governa il corpo, ed è proprio questo l'uomo ?
ALC. Forse è così.
SOCR. Ma è la cosa più impossibile del mondo! Se una delle due parti, infatti, non
partecipa al governo non c'è alcun modo che comandino le due parti insieme. ALC.
Giusto.
SOCR. E poiché né il corpo, né il corpo e l'anima insieme sono l'uomo, rimane da
concludere, penso, che l'uomo o non sia nulla o, se è qualcosa, non sia altro che anima.
ALC. Appunto.
SOCR. C'è bisogno di dimostrartelo ancor più chiaramente che l'anima è l'uomo? ALC.
No, per Giove! Mi sembra dimostrato abbastanza.
SOCR. Quindi, va benissimo ritenere che quando io e te ci intratteniamo, servendoci di
parole, è l'anima, che comunica con l'anima ? ALC. Perfettamente.
SOCR. Bene, ciò è proprio quello che dicevamo poco fa, che Socrate conversa con
Alcibiade servendosi di parole, ma non indirizzate, come appare, al suo volto, bensì ad
Alcibiade stesso. E questo è l'anima. ALC. Lo credo anch'io.
SOCR. Quindi colui che ammonisce di conoscere se stesso, ci ordina di conoscere la
nostra anima. ALC. Così pare.
SOCR. E quindi colui che conosce un po' di ciò che appartiene al corpo ha conoscenza di
ciò che appartiene a se stesso, ma non conoscenza di se stesso.
ALC. È così.
SOCR. Quindi nessun medico e nessun maestro di ginnastica in quanto tali conoscono se
stessi.
ALC. Par di no.
SOCR. E ci passa un bel po' che i contadini e tutti quelli che praticano un mestiere
conoscano se stessi. Se dunque la saggezza consiste nel conoscere se stessi nessuno di
costoro è saggio per quanto sta all'arte sua.
ALC. No, non mi sembra. SOCR. Per
questo, ecco, tali arti passano per assai vili, come cognizioni indegne di un uomo nobile.
ALC. Sicuro.
SOCR. Così, ancora una volta, chi si prende cura del proprio corpo cura ciò che
appartiene a se stesso, ma non cura se stesso.
ALC. Quasi inevitabilmente.
SOCR. Chi poi si prende cura dei denari non s'adopera intorno a se stesso, né a ciò che
attiene a se stesso, ma a cose ancor più remote da quelle che attengono a se stesso.
ALC. Lo credo anch'io. SOCR. L'affarista quindi non fa dunque più i suoi interessi!
ALC. Giusto!
SOCR. E se qualcuno è innamorato del corpo di Alcibiade vuol dire che non è
innamorato di Alcibiade, ma di qualcosa che appartiene ad Alcibiade. ALC. E’ vero.
SOCR. Ma chi è innamorato della tua anima, t'ama. ALC. È così per forza da quello che
s'è detto.
SOCR. Colui poi che ama il tuo corpo, quando questo cessa il suo fiorire, si ritirerà e se
ne andrà ?
ALC. Evidentemente. SOCR. Ma chi invece ama la tua anima non se ne
andrà fin tanto ch'essa si muova per la via del meglio ? ALC. È naturale.
SOCR. Ebbene io sono colui che non si ritira da te, ma ti rimango vicino anche allo
sfiorire del corpo, quando gli altri si sono dileguati. ALC. E fai proprio bene, caro
Socrate! E non andartene!
SOCR. Però cerca d'essere il più bello possibile. ALC. Si, cercherò.
SOCR. Così dunque è la tua situazione: Alcibiade, il figlio di Clinia, non ha avuto, e non
ha, a quanto pare, alcun amante tranne uno solo, e questi degno d'essere amato, Socrate, il
figlio di Sofronisco e di Fenarete. ALC. È vero.
SOCR. Non mi dicevi che io ti ho anticipato di poco venendoti a parlare, perché
altrimenti tu saresti venuto per primo, desideroso di sapere com'è che io solo non mi
allontano da te? ALC. Sì.
SOCR. Questa ne è la ragione, che io solo ero innamorato di te, mentre gli altri lo erano
di ciò che ti appartiene…
ALC. … Socrate, ma prova a spiegarmi in qual modo, secondo te, possiamo prenderci
cura di noi due.
SOCR. Bene! Abbiamo fatto un passo in avanti perché ormai ci troviamo perfettamente
d'accordo su ciò che siamo, e noi temevamo solo di sbagliarci in questo e di prenderci
cura, senza accorgercene, di qualcosa d'altro che noi stessi. ALC. È così.
SOCR. Di seguito ci siamo trovati d'accordo che dobbiamo prenderci cura dell'anima, e
rivolgere ad essa la nostra attenzione. ALC. È chiaro.
SOCR. E che va lasciata agli altri la sollecitudine per il corpo ed il denaro. ALC. Certo.
SOCR. In qual modo potremmo conoscere il più chiaramente possibile la nostra anima?
Giacché, con questa conoscenza, potremo evidentemente conoscere noi stessi. Per gli dei!
Comprendiamo bene quel giusto consiglio dell'iscrizione delfica ricordata ora ?
ALC. Con quale intenzione lo dici, o Socrate ? SOCR. Ti dirò cosa sospetto che questa
iscrizione ci voglia realmente consigliare. Perché si dà il caso che ad intenderla non vi
siano molti esempi di confronto, tranne quello solo della vista.
ALC. Cosa vuoi dire
con questo?
SOCR. Rifletti anche tu. Se l'iscrizione consigliasse l'occhio, come consiglia l'uomo,
dicendo: " guarda te stesso ", in che modo e cosa penseremmo che voglia consigliare?
Non forse a guardare verso qualcosa guardando la quale l'occhio fosse in, grado di vedere
se stesso? ALC. Certo.
SOCR. Ecco: indaghiamo quale oggetto v'è che a guardarlo possiamo vedere lui e noi
stessi.
ALC. È chiaro, Socrate, gli specchi e oggetti simili.
SOCR. Esatto. Non c'è forse anche nell'occhio con il quale vediamo qualcosa dello stesso
genere ? ALC. Certo.
SOCR. Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto
nell'occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è
quasi un'immagine di colui che la guarda?. ALC. È vero.
SOCR. Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell'occhio,
con la quale anche vede, vedrà se stesso. ALC. Evidentemente.
SOCR. Ma se l'occhio guarda un'altra parte del corpo umano o degli oggetti, ad eccezione
di quella che ha simile natura, non vedrà se stesso.
ALC. È vero.
SOCR. Se allora un occhio vuol vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella
parte di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista?
ALC. SÌ.
SOCR. Ora, caro Alcibiade, anche l'anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare
un'anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell'anima la sapienza, e
fissare altro a cui questa parte sia simile?. ALC. Credo di sì, Socrate.
SOCR, Possiamo noi indicare nell'anima una parte più divina di quella ove risiedono la
conoscenza e il pensiero ? ALC. Non possiamo
SOCR. Quindi senza conoscere noi stessi e senza essere saggi non saremmo in grado di
sapere ciò che è male e ciò che è bene per noi.
ALC. Come sarebbe mai possibile, Socrate ?
SOCR. Perché anche a te forse pare impossibile che senza conoscere Alcibiade si conosca
se ciò che appartiene ad Alcibiade sia in effetti di Alcibiade.
ALC. Impossibile, per Giove.
SOCR. E come potremmo sapere che le cose nostre sono nostre se non conosciamo noi
stessi? ALC. Già, come? SOCR. E se non conosciamo le nostre cose, neppure quelle
che appartengono ad esse? ALC. Pare di no.
SOCR. Non eravamo dunque del tutto scorretti poco fa, quando ci siamo trovati d'accordo
che vi sono persone che, senza conoscere se stesse, conoscono tuttavia le cose che loro
appartengono e che altri conoscono ciò che appartiene alle loro cose. Perché pare che sia
compito di un'arte unica e sola discernere queste tre cose: se stessi, le proprie cose e ciò
che a queste cose appartiene.
ALC. Probabilmente.
SOCR. E uno che non conosca le cose proprie analogamente non conoscerà quelle degli
altri. ALC. Non può essere diversamente.
SOCR. Ma se non conosce le cose proprie od altrui non conoscerà neppure quelle
attinenti allo stato. ALC. Per forza. SOCR. Costui quindi non potrebbe essere un
uomo di stato. ALC. Certamente no. SOCR. E neppure un amministratore d'una casa.
ALC. Certamente no.
SOCR. E neppure saprà quel che fa. ALC. D'accordo. SOCR. E chi non sa, non
sbaglierà? ALC. Certo. SOCR. Sbagliando non si troverà male tanto in pubblico che in
privato ? ALC. Senza dubbio.
SOCR. E chi vive male non è infelice? ALC. Sì, molto.
da Platone "Alcibiade primo" in "Opere complete", vol. 4, Laterza, 1977.
SIMPOSIO - “L’EFFETTO SOCRATE”
Il brano che segue è tratto dal Simposio di Platone. Protagonista è il giovane Alcibiade,
il quale giunge, incoronato di viole e di foglie d'edera, ebbro e in compagnia di una
flautista, a una festa in onore di Agatone, recente vincitore delle gare tragiche. Al
simposio partecipano anche Socrate, Aristofane, Aristodemo, il medico Eurissimaco,
Fedro e Pausania, tutti noti personaggi dell'Atene del tempo. I convitati, a turno,
pronunciano con un discorso l'elogio del dio Amore. Anche Alcibiade accetta le regole
del convito, ma invece che tessere le lodi di Eros pronuncia l'elogio di Socrate.
Questo elogio di Socrate, o amici, mi proverò a farlo cosi, per immagini 2. Lui crederà
che lo faccia per dire cose più ridicole, ma l'immagine sarà per cogliere il vero, non per
far ridere. Io dico cioè che costui è somigliantissimo a quei sileni 3 esposti nelle
botteghe degli scultori, che gli artisti figurano con zampogne e flauti, i quali, se li apri
in due, mostrano dentro simulacri degli dei. E dico ancora che lui assomiglia al satiro
Marsia4 e che almeno nell'aspetto tu sia uguale a costoro, o Socrate, nemmeno tu
potresti negarlo; e come somigli loro in tutto il resto, ascolta. Sei insolente, no? Se non
consenti produrrò dei testimoni. E non flautista? Sì, molto più meraviglioso di Marsia.
Costui almeno incantava gli uomini per mezzo dei suoi strumenti, con la potenza che
gli usciva di bocca, e ancora fa così chi esegue le sue melodie. [...]
Ma tu sei diverso da lui solo in questo, che ottieni lo stesso effetto senza strumenti e
con le nude parole. Noi, certo, quando ascoltiamo qualcun altro parlare, anche un
bravo oratore, su altri argomenti, non ce ne importa nulla, per dirlo chiaro, di nessuno;
ma quando si ascolta te o qualcun altro riporti, anche se è uno sciocco qualunque, i tuoi
discorsi e li ascolti una donna, o un uomo, o un ragazzo, ne rimaniamo sbigottiti ed
invasati. Io, sinceramente, o amici, se non fosse che potreste credermi ubriaco del
tutto, vi direi giurando quali profonde emozioni ho provato ai discorsi di quest'uomo e
provo tuttora. Perché quando lo ascolto, molto di più che ai coribanti5 il cuore mi salta
dentro e mi prendono le lacrime per effetto delle sue parole e vedo che anche
moltissimi altri provano la stessa emozione…
Perché lui mi piega a confessare che, mentre difetto di mille cose, di me stesso non mi
curo, ma m'occupo degli affari di Atene. E solo di fronte a quest'uomo io ho provato,
cosa che nessuno sospetterebbe in me, la vergogna di fronte a qualcuno. Ma io di lui
solo provo vergogna, perché riconosco in me stesso che non sono capace di
controbattere che ciò che lui pretende non si debba fare: ma, appena mi allontano da
lui, sono vinto dall'ambizione di onori pubblici. Lo tradisco come schiavo fuggitivo e
lo abbandono, e quando lo vedo, mi assale la vergogna per le cose che mi ha fatto
2
Parlare per immagini e per similitudini, nel linguaggio retorico del tempo, era sinonimo di parlare per
scherzo e con intento derisorio. Questo spiega anche il seguito: dell'affermazione di Alcibiade. Egli era un
personaggio molto noto nel circolo aristocratici ateniesi. Figlio di Clinia e parente di Crizia, all'epoca in
cui é ambientato il dialogo (all'incirca il 416 a.C.) è già un uomo maturo, al culmine del successo politico,
e ormai da molti anni lontano da Socrate, di cui era stato allievo.
3
Sulla somiglianza dell'aspetto di Socrate con. quello dei sileni ironizzava Socrate stesso. I sileni erano
spesso confusi con i satiri, anche se diversa era la raffigurazione: i secondi, giovani e simili a un capro; i
primi più anziani. A essi la cultura del tempo riconosceva una grande attività erotica.
4
Leggendaria figura di sileno (Dante, Paradiso. 1.20 sgg.). inventore del flauto, gareggiò, secondo il mito,
con Apollo citaredo, il quale, irritato per non aver potuto prevalere su di lui lo scortico vivo. II paragone
tra Socrate e Marsia ha questo significato: come la musica del sileno conduce le anime al delirio a causa
del potere divino che é in essa, allo stesso modo incantavano le parole di Socrate.
5
I "coribanti" erano i devoti al culto orgiastico di Cibele, la dea frigia della natura. I rituali coribantici
erano nell'antichità sovente impiegati a scopo terapeutico.
riconoscere. E spesso sarei felice se non fosse più tra i vivi! Ma so bene che se ciò
avvenisse, ne sarei più angosciato, così che non so proprio cosa farne di quest'uomo6.
Proprio dalle melodie del flauto di questo satiro qui, io e molti altri abbiamo provato
questi effetti. Ma ascoltate ancora come è simile a coloro ai quali l'ho confrontato e il
meraviglioso potere che possiede. Perché, sappiatelo bene, nessuno di voi lo conosce7.
Ma io ve lo scoprirò giacché mi ci son messo.
Voi vedete che Socrate è sempre in amore con le belle persone 8, gli è sempre intorno e
ne è tutto turbato, poi ignora tutto e non sa nulla... almeno all'apparenza. E non è da
sileno questo? Ma è tutto lui! Perché questa è la sua veste di fuori, come nel sileno
scolpito; ma, apritelo dentro, e immaginate mai miei cari bevitori 9 di quanta
temperanza è pieno? Sappiate che se uno è bello, a lui non importa niente, ma lo
sdegna quanto nessuno crederebbe, né gli importa se è ricco o possiede qualunque altra
fortuna di quelle strabenedette dalla gente. Lui ritiene che tutti questi possessi non
valgono nulla e che noi siamo nulla: ve lo dico io e passa il suo tempo a far l'ingenuo e
a prendersi gioco della gente: ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno ha
mai visto i simulacri che ha dentro! Ma io una volta li vidi e li sentii cosi divini e
preziosi e così stupendi e meravigliosi che non mi rimase se non fare all'istante ciò che
Socrate voleva. Ora, poiché credevo che egli prendesse sul serio la mia bellezza,
pensai ch'ero ben fortunato ed avevo una straordinaria occasione, perché potevo,
compiacendo Socrate, ascoltare tutto quanto lui sapeva. Perché della mia bellezza ero
incredibilmente superbo. Pensato tutto questo, mentre prima solevo starmi con lui
insieme a un servo e mai solo, da allora, congedato il servo, rimanevo solo con lui.
Bisogna naturalmente che vi dica tutta la verità: state attenti e se mento, Socrate,
sbugiardami10. Lo incontravo, o amici, solo a solo e pensavo che presto mi avrebbe
fatto quei discorsi che un amante fa al suo amore quando si trovino soli, e ne ero pieno
di gioia. Ma di tutto ciò non avveniva nulla: discorreva con me secondo il solito, e
trascorsa insieme la giornata, mi piantava e partiva. Allora lo invitai a far ginnastica
insieme ed io mi esercitavo con lui sperando che lì avrei concluso qualcosa. Ebbene
egli faceva gli esercizi con me, e spesso la lotta, senza alcuno presente, e che debbo
dire? non ne veniva fuori nulla. Ed ecco che lo invito a cena proprio come un amante
che tende la trappola al suo amore. Ma neppure in questo mi dette retta alla svelta,
tuttavia col tempo si lasciò persuadere. Quando venne la prima volta, appena finito di
cenare voleva andarsene, e per allora, vergognandomi, lo lasciai partire. Ma di nuovo
ripetei la trappola, e dopo ch'ebbe cenato m'intrattenni a parlare con lui fino a notte
inoltrata e, quando volle andarsene, lo convinsi a rimanere col pretesto che era tardi.
Riposava dunque sul letto vicino al mio, lì dove aveva cenato: nella stanza non
dormiva nessuno, solo noi ...
6
Nel momento in cui pronuncia il suo "elogio", Alcibiade è ormai da molto tempo lontano da Socrate e i
convitati ignorano la relazione personale che era esistita tra i due. Sarà Alcibiade stesso, di qui in poi, a
renderla esplicita. II suo atteggiamento nei confronti dell'antico maestro e tuttavia duplice: nelle sue
parole egli mescola la lode e il biasimo, senza riuscire a nascondere un certo risentimento.
7
Alcibiade ritiene di conoscere Socrate meglio di chiunque altro. Socrate si era interessalo
dell'educazione del giovane Alcibiade, verso cui era attratto per il desiderio che questi dimostrava di
"acquisire qualcosa di più grande". Socrate aveva cercato quindi di educarlo alla conoscenza di sé. Al
tempo del Simposio, Alcibiade non ha più ormai alcun rapporto con Socrate; la vicinanza del filosofo e il
ricordo della sua frequentazione lo turbano tuttavia ancora. Si può dire che in Alcibiade convivano, in
modo contraddittorio, due tensioni opposte: l'amore per la ricerca, che egli collega alla figura di Socrate,
e la sete di onori e riconoscimenti pubblici. L'incapacità di accogliere le parole di Socrate si deve quindi
alla sua incostanza e alla sua ambizione, che lo conducono a desiderare la gloria e a praticare un
atteggiamento di prepotenza e di prevaricazione. Dal suo “elogio” traspare tuttavia come il suo giovanile
entusiasmo per la filosofia non sia sopito de tutto.
8
Ha inizio qui il racconto dell'innamoramento di Alcibiade.
9
Tutto il discorso di Alcibiade è pervaso di un'atmosfera dionisiaca: l'ebbrezza, come egli stesso
ammette, é la causa principale della sua sincerità.
10
Il lettore non deve dimenticare che Socrate sta ascoltando il racconto di Alcibiade.
Quando dunque, o amici, si spense il lume e i servi furono usciti, mi parve che non
fosse il caso di fare il sottile con lui, ma di dirgli liberamente quello che pensavo. Così
lo scossi e dissi: «Socrate, dormi?» «No» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Che cosa
mai?» disse. «Ho pensato - risposi - che tu sei l'unico amante degno che io abbia e
vedo che esiti a dichiararti. Ora, io la sento così: ritengo che sarebbe del tutto stupido
se non ti compiacessi anche in questo come in tutto quello di cui tu avessi bisogno, dei
miei beni e dei miei amici. Per me nulla è più importante che divenire quanto è
possibile migliore, e io credo che per questo nessuna mi può essere di più valido aiuto
che te. E certo di fronte alla gente che sa mi vergognerei di non concedermi a un uomo
come te, molto di più che di fronte al volgo ignorante, se ti compiacessi». Egli mi stava
a sentire e poi, con quella solita aria innocente ed ironica, tutta sua: «Mio caro
Alcibiade - disse - rischi di non essere affatto sciocco se per caso son vere le cose che
dici di me e se c'è dio sa quale potere in me che ti potrebbe rendere migliore. Ecco tu
vedresti in me una irresistibile bellezza del tutto incomparabile pure alla grazia delle
tue forme: se avendola scoperta cerchi di appropriartene barattando bellezza con
bellezza, miri a guadagnarci non poco alle mie spalle! Via, in cambio di una bellezza
apparente tenti di guadagnarci una bellezza vera e calcoli, alla lettera, di scambiare
"oro con rame". Ma, o beato, guarda meglio, che io non sia nulla e tu non te ne
accorgi! Certo la vista della mente comincia a vedere più acutamente quando quella
degli occhi tende a declinare: e tu ci sei ancora lontano»11. ...
Io naturalmente dopo quello che avevo udito e quello che avevo detto, lanciando per
così dire i miei strali, credevo che egli fosse ferito. Mi rizzai e senza lasciargli dire più
nulla lo ricopersi con il mantello che avevo (poiché era inverno), e sdraiatomi sotto
questo suo solito gabbano, gettai le braccia attorno a quest'uomo veramente demoniaco
e straordinario e giacqui con lui l'intera notte. E neppure adesso puoi dire, Socrate, che
mento. Malgrado tutti questi miei sforzi, costui di tanto mi superò, sdegnò e derise la
mia bellezza, e la offese... eppure credevo che valesse qualcosa, o giudici (che voi siate
giudici della superbia di Socrate), ebbene, sappiatelo, lo giuro per gli dei e per le dee,
dormii con Socrate e mi levai né più né meno che se avessi dormito col padre o con un
fratello maggiore. [...]
Tutti questi fatti mi erano già accaduti, quando in seguito fummo insieme soldati al
campo di Potidea12, dove avevamo il rancio in comune. Per cominciare, nelle fatiche
non solo era superiore a me, ma a tutti quanti. Ma nelle baldorie, invece, lui solo
sapeva godere fino in fondo e a bere, - non che lo volesse, ma quando lo si forzava vinceva tutti; ma ciò che più meraviglia è che Socrate nessuno uomo mai l'ha visto
ubriaco. E di ciò, credo, presto se ne avrà la prova13. Quanto a sopportare l'inverno
(perché là erano tremendi) faceva miracoli e, fra gli altri, una volta che c'era un gelo da
inorridire e tutti stavano rintanati dentro o se uno usciva si avvolgeva in una incredibile
quantità di panni, si calzava e si fasciava i piedi con feltri e pellicce, lui, con un tempo
simile, se ne usciva con questa gabbanina che ha sempre, e scalzo camminava sul
ghiaccio, più tranquillo che gli altri tutti iscarponati. E i soldati lo sbirciavano
credendo che li volesse mortificare14.
E questo basti per tale argomento. «Ma che compì e sostenne il forte eroe»15
una volta, laggiù al campo, merita ascoltarlo. Tutto assorto in qualche idea s'era
piantato ritto lì, fino dall'alba, meditando; e poiché non ne veniva a capo,
11
Ritorna qui il noto motivo socratico del "sapere di non sapere". Socrate "é nulla" e Alcibiade non se ne
accorge. Innamorato com'é solo con gli "occhi"; e non con quello sguardo interiore, che proviene
dall'anima, solo grazie al quale un uomo può conoscere se stesso e migliorarsi.
12
Le qualità socratiche sono esaltate da Alcibiade con il ricordo di alcuni episodi della compagna militare
di Potidea
13
Si allude qui al finale del dialogo, in cui Platone racconterà di come "si fu costretti a bere molto vino".
14
La temperanza di Socrate si rivela nella sua capacità di sopportare fatiche e avversità, nella
compostezza nel momento del pericolo, nella padronanza di se stesso. Proprio per questi atteggiamenti,
tuttavia, egli riusciva a volte irritante e "strano" a chi lo frequentava.
15
Alcibiade cita l'Odissea
continuava, ritto in piedi, la sua ricerca. E già era mezzogiorno e alcuni uomini se
n'erano accorti e meravigliati dicevano l'un l'altro: «Socrate se ne sta lì impalato
dall'alba in un qualche pensiero». Alla fine, alcuni Ioni, scesa la sera, dopo aver cenato
- poiché allora era estate - portarono fuori i giacigli e si misero a riposare all'aperto e
nello stesso tempo a controllare se stesse piantato là tutta la notte. Ed egli vi stette
finché fu l'alba e si levò il sole. Allora si mosse e se ne andò dopo aver fatto la sua
preghiera al sole. [...]
In molte altre cose e meravigliose si potrebbe lodare Socrate, ma di altre sue qualità si
potrebbero dire le stesse cose anche dì un altro, invece che egli non somigli ad alcuno
fra tutti gli uomini antichi e moderni questa è la maggior meraviglia. Ma un uomo
come questo qui, con le singolarità sue e dei suoi discorsi, non lo si troverebbe che gli
somigli neppur di lontano, a cercarlo fra gli uomini d'oggi né fra quelli di ieri; a meno
che non lo si paragoni, non a uomini, ma a quelli che dicevo, ai sileni e ai satiri, lui e i
suoi discorsi. Perché c'è ancora questo, che ho tralasciato all'inizio: i suoi discorsi sono
quasi identici ai sileni che si aprono in due.
Chi dunque si mette a sentire i discorsi di Socrate, sulle prime li troverebbe del tutto
ridicoli, tali sono le parole e le espressioni di cui s'avvolgono di fuori, qualcosa come
la pelle d'un satiro insolente: parla di asini bastati, di certi fabbri, ciabattini e
conciapelli e con le stesse voci pare sempre che ripeta le stesse cose. Cosicché ogni
inesperto o sciocco potrebbe riderci sopra a questi discorsi. Ma chi li veda aperti e vi
penetri dentro, troverà innanzitutto che essi soli, fra tutti i discorsi, hanno una mente, e
poi che sono i più divini e pieni di ogni immagine di virtù e tendono a ciò che v'è di
più grande, anzi a tutto quanto bisogna mirare per chi vuole diventare un uomo nobile
e eccellente.
da Platone "Simposio", Opere complete, Laterza, vol. III
GUIDA ALLA LETTURA
Il Socrate che Alcibiade descrive nel suo elogio appare figura strana e inquietante; il
suo ritratto è quello di un uomo brutto, che si presenta in pubblico scalzo, coperto solo
da un rozzo mantello. Alcibiade insiste sull'eccentricità della personalità di Socrate.
Solitamente - egli dice - gli individui corrispondono sempre a dei tipi ideali, a delle
classi in cui tutti gli uomini possono essere fatti rientrare. Ebbene, Socrate non
appartiene a nessun tipo, non assomiglia a nessuno. Egli é sconcertante, non
classificabile, strano.
Il paragone a cui Alcibiade ricorre è quello secondo cui Socrate assomiglia a un
"sileno", una sorta di demone, metà animale e metà uomo, dal carattere sfrontato e
buffonesco, che, secondo l'immaginazione popolare e religiosa del tempo, seguiva il
corteo orgiastico di Dioniso. La figura del sileno è tuttavia solo un'apparenza, una
maschera dietro alla quale si nasconde qualcosa di molto diverso. Alcibiade paragona,
infatti, Socrate a quei sileni esposti nelle botteghe degli scultori, i quali servono come
cofanetti in cui mettere le immaginette degli dei. La maschera a cui Socrate ricorre è
quella dell'ironia. Attraverso di essa, fingendo ignoranza, atteggiandosi «a far
l'ingenuo e a prendersi gioco della gente», Socrate si maschera, mostrandosi
esteriormente diverso da quello che è. Chi si limitasse dunque a un ascolto superficiale
dei discorsi di Socrate li troverebbe strani o ridicoli; chi, al contrario, lasciandosi
guidare dalla dialettica socratica, "penetrasse" dentro quei discorsi, troverebbe il
tesoro di virtù e di ammaestramenti che essi contengono.
Alcibiade racconta di essere stato indotto, ascoltando le parole di Socrate, a provar
vergogna delle proprie debolezze e dei propri vizi e di aver compreso per la prima
volta la possibilità di una vita vissuta secondo verità. Alcibiade aveva conosciuto
Socrate da giovinetto: consapevole e superbo della propria bellezza giovanile, aveva
creduto che Socrate se ne potesse innamorare, giacché quest'ultimo amava frequentare
i giovani e sembrava gradire i loro turbamenti nei suoi confronti. Ma a Socrate la
bellezza esteriore non importava in realtà nulla. Fu Alcibiade, al contrario, a
innamorarsi del filosofo, non già tuttavia del suo aspetto esteriore, ma di quella sua
"bellezza interiore", che Alcibiade intuiva essere il segno di una perfezione superiore.
Nel racconto di Alcibiade, Socrate acquista, in questo modo, le mitiche sembianze di
Eros. Strettamente legata all'ironia del dialogo, emerge una "ironia dell'amore", i cui
effetti di rovesciamento e di sconcerto sono analoghi a quelli a cui si perviene con
l'ironia del discorso. Essa consiste nel fingere di essere innamorato, finche colui che è
il destinatario di tale passione apparente, finisce a sua volta per innamorarsi realmente.
Va ricordato che l'amore qui considerato è quell'eros omosessuale, in particolare tra
adulto e fanciullo, la cui funzione educatrice era un elemento tipico delle società
guerriere greco-arcaiche. In questo contesto, l'incontro amoroso diventa dunque
un'occasione in cui, maieuticamente, l'amato aiuta e indirizza l'eros dell'amante verso
l'obiettivo del perfezionamento della sua personalità. Viene a costruirsi un'identità tra
la figura di Eros e quella del filosofo, che ci riporta al motivo del "sileno".
L'insegnamento socratico suscita un rovesciamento di valori che spinge colui che si
avvicina al filosofo a superare le apparenze di una vita sciupata nella banalità e nella
superficialità, e a camminare verso la consapevolezza di sé e verso la virtù. Quando gli
uomini amano Socrate, amano in realtà questa aspirazione. Per questo motivo, la sua
filosofia - quale la tramanda Platone - non può essere intesa come l'elaborazione
astratta di un sistema di pensiero. Essa è piuttosto un continuo esercizio spirituale, che
nasce nel concreto rapporto che si costituisce tra maestro e discepolo.
da Cioffi, Luppi, Vigorelli, Zanette “Corso di Filosofia”, Edizioni Scolastiche Bruno
Mondadori, pag. 266
M. TROMBINO – “LA SESSUALITÀ NELL'ANTICA GRECIA”
La sessualità nell'antica Grecia può essere compresa solo come componente di un
complesso costume sociale, che prevedeva - e ammetteva - pratiche, espressioni e
indirizzi molteplici e diversificati: dall'eros omosessuale maschile, meglio definito
come pederastia, a quello femminile; dall'eros eterosessuale all'interno del matrimonio
a quello collettivo, ad esempio nei simposi e nei riti dionisiaci, all'eros tra il signore e
le etere. Queste ultime, a differenza delle vere e proprie prostitute, vivevano spesso
nella stessa casa del padrone e della sua legittima consorte, si occupavano dei piaceri,
degli svaghi e dei divertimenti dell'uomo; erano anche suonatrici di flauto e danzatrici,
avevano spesso una cultura superiore alla media e, come le geishe giapponesi,
occupavano una posizione sociale piuttosto elevata, o comunque si muovevano in un
ambiente aristocratico e signorile.
In generale possiamo sostenere che per i Greci le diverse espressioni dell'eros erano in
qualche modo codificate, ma godevano tutto sommato di una certa interscambiabilità,
per lo più assente ai giorni nostri. In tal modo, anziché escludersi a vicenda, potevano
spesso convivere l'una con l'altra: l'eros omosessuale femminile e la pederastia, per
esempio, seguivano un percorso pedagogico che portava al matrimonio, suprema
istituzione sociale. Questo conciliare omosessualità ed eterosessualità matrimoniale è
oggi per noi impensabile.
La pratica educativa comune nelle principali città della Grecia - Atene e Sparta prime
fra tutte - prevedeva che i fanciulli, ancora piuttosto giovani, venissero separati dalle
famiglie (si trattava in genere di fanciulli appartenenti a famiglie aristocratiche) e posti
sotto la guida di maestri più anziani: questi dovevano impartire loro un'educazione che
andava dalla pratica del ginnasio (qualcosa di simile alla palestra) all'insegnamento
letterario, matematico, musicale e artistico; a Sparta invece si trattava per lo più di un
addestramento militare. Le fonti letterarie pervenuteci mostrano chiaramente come
venissero intessute relazioni omosessuali tra il maestro e gli allievi.
Laddove queste relazioni vengono istituzionalizzate, quindi ammesse dalla legge, si
stabiliscono limiti morali ed etici ben precisi: "l'amante appare come maestro
dell'amato, garante delle qualità morali e delle cognizioni che l'amato deve acquisire
stando con lui. L'amore di un adulto per un fanciullo è fondato sulla trasmissione del
sapere e della virtù; [...] in questo quadro, la relazione amorosa è vissuta come uno
scambio: la potenza dell'eros che emana dall'amato colpisce l'amante che ne è
stimolato, per sublimazione, sul piano morale. Ricevendo dall'amato l'impulso
amoroso, l'amante realizza il proprio amore trasmettendo le qualità di cui è portatore
[...]. La relazione omosessuale, in tal modo, viene a coincidere con la relazione
pedagogica" (C. Calame, L'amore in Grecia, Laterza, Roma-Bari 1988, p. XIV).
Questo vale anche per Platone.
Lo stesso valore pedagogico era assegnato anche all'omosessualità femminile: il suo
ambito era quello dei gruppi femminili corali o dei circoli privati (il più celebre
dell'antichità è quello della poetessa Saffo nell'isola di Lesbo). Le giovani, attraverso il
canto, la musica e la danza, dovevano acquistare quelle qualità di grazia e bellezza che
la società greca richiedeva alla donna adulta. Anche quello tra la fanciulla e la sua
insegnante corifea (la guida, cioè, del coro) era dunque uno scambio pedagogico.
Nel suo complesso la pratica omosessuale era ammessa e istituzionalizzata solo se
ricopriva un periodo limitato della vita del fanciullo o della fanciulla. A questo
periodo avrebbe dovuto far seguito quello del matrimonio e dunque
dell'eterosessualità. "Paradossalmente, l'educazione femminile alla bellezza tramite la
relazione omoerotica [cioè omosessuale] ha come scopo la preparazione al matrimonio
e ad una delle due funzioni essenziali agli occhi dei Greci: la procreazione.
L'omosessualità nell'adolescenza si limita dunque ad introdurre, con la sua funzione
pedagogica, all'eterosessualità adulta" (C. Calame, cit., p. XVI), sia per il maschio che
per la femmina. Infatti, "per il popolo greco il matrimonio era un'istituzione sacra e la
procreazione costituiva uno degli obblighi più importanti nei riguardi della patria" (H.
Kelsen, L'amore platonico, Il Mulino, Bologna 1985, p. 72). "[...] D'altra parte, in una
società che sia ancora abbastanza solida al proprio interno e non sia sul punto di
sfaldarsi, le cose non possono andare in altro modo. L'impulso primordiale
all'autoconservazione non può non opporsi ad una forma dell'eros [quale quella
omosessuale] che, diffondendosi su vasta scala, impedirebbe la procreazione e
condurrebbe sia all'estinzione del gruppo che della società" (ivi, p. 79). Però "la
presenza di costumi omosessuali e di rapporti amorosi fra uomini giovani e anziani è
dimostrabile solo all'interno dei cosiddetti Stati dorici, ove, del resto, la pederastia era
un fenomeno assai limitato e circoscritto alla sola classe aristocratica" (ivi, p. 71).
Le leggi e le norme morali che regolavano la pratica omosessuale erano dunque
estremamente rigorose e limitative: così come condannavano una relazione pederastica
fondata sul puro piacere e prolungata nel tempo, allo stesso modo non ammettevano
l'unione tra schiavi e uomini liberi, o tra persone della stessa età, e condannavano
severamente la prostituzione, sia femminile che maschile. La prostituzione infatti, in
quanto soddisfacimento puramente carnale degli istinti sessuali, e in quanto rapporto
di carattere venale, era considerata una degenerazione dell'eros. Dunque, quello che
noi chiamiamo amore omosessuale nella Grecia antica era qualcosa di completamente
diverso ed estraneo al concetto odierno di omosessualità, riferito quest'ultimo a una
libera relazione personale e sentimentale tra due adulti, a una scelta non solo sessuale
ma anche di un modo di essere e di amare.
Nel Simposio e nel Fedro, Platone parla della natura dell'amore in generale,
argomentando sulla sua origine, la sua forza, la sua importanza nella vita dell'uomo, e
così via. Ci si accorge però che l'eros platonico è unilateralmente quello omosessuale,
e per di più soltanto maschile; l'amore tra uomo e donna e quello esclusivamente
femminile - in pratica tutti gli ambiti in cui si abbia a che fare col sesso femminile -
vengono sì menzionati nel Simposio, anche se brevemente, ma sono squalificati.
Platone, tessendo l'elogio di un amore che finisce per coincidere con la pederastia, lo
privilegia rispetto a ogni altra espressione dell'eros, lo spiritualizza e gli conferisce un
carattere quasi divino, che eleva l'uomo alla virtù, alla conoscenza e al mondo
meraviglioso delle Idee e della spiritualità pura. Utilizza poi la metafora della
procreazione: distingue tra il partorire secondo il corpo (eterosessualità) e il dare alla
luce secondo l'anima (omosessualità e pederastia), considerando veramente nobilitante
solo quest'ultimo. "In tal modo, con un'audacia senza eguali, Platone sovverte
totalmente il giudizio di valore comunemente espresso nei riguardi dell'omosessualità,
e contrappone all'eros omosessuale un amore eterosessuale ritenuto animalesco. [...]
L'uomo può procreare soltanto con l'amore, e se l'amore fra un uomo e una donna
conduce al concepimento e alla nascita dei figli «corporei», quello fra due uomini si
risolve nel concepimento e nella nascita di una progenie «spirituale», ossia di opere
immortali" (ivi, p. 112).
Uno dei valori fondamentali per la società greca (e in genere per tutte le società
antiche) era proprio quello della procreazione fisica, perché salvaguardava prima di
tutto dall'estinzione della comunità. Platone si pone al polo opposto di questa norma:
capiamo infatti che il suo sentimento omosessuale lo spinge ben oltre una pratica
omosessuale limitata nel tempo e propedeutica al cammino che conduce al
matrimonio, quale era la norma che regolava l'unica forma accettata di eros
omosessuale (la pederastia). L'eros platonico è indirizzato solo ed esclusivamente
verso il sesso maschile, e sembra svalutare l'idea del matrimonio con una donna.
Dequalificando il matrimonio e l'eterosessualità, Platone si pone in una posizione di
devianza e in un certo senso di trasgressione; per questo motivo egli - sostiene Kelsen
- sente il bisogno di giustificare il suo eros di fronte alla società e alla morale comune.
Il suo eros può essere ammesso come lecito e positivo solo se viene a mano a mano
spiritualizzato, se a un certo punto disdegna l'aspetto carnale, in nome di valori
spirituali come la saggezza e la divina verità.
Da M. Trombino, La filosofia greca arcaica e classica, Poseidonia, 1997, pag. 92-93