William Shakespeare, unico e inimitabile
Transcript
William Shakespeare, unico e inimitabile
William Shakespeare, unico e inimitabile di Mario Forella William Shakespeare viene considerato oggi come il massimo poeta inglese. Egli nacque il 23 aprile 1564 a Startfordon-Avon e ivi morì il 23 aprile 1616, esattamente 52 anni dopo. Sua madre discendeva da un’antica famiglia di possidenti del contado e suo padre, originariamente coltivatore, apparteneva alla corporazione dei pellai e guantai. Egli aveva goduto di una certa prosperità, fino ad essere eletto balivo (sindaco) di Stratford. Però, durante la fanciullezza di William, subì rovesci in seguito a liti giudiziarie e ad un temperamento troppo ottimista. William, terzogenito di otto figli, studiò all’ottima Grammar School e da alcuni si ritiene che, per un trimestre o due, frequentasse l’Università di Oxford. A 18 anni si sposò con Anne Hathaway, figlia di coltivatori, di otto anni più anziana di lui. Nei successivi tre anni ebbe tre figli, il che lo costrinse, per ovvie ragioni, a por fine ad ogni regolarità di studi. Le notizie che si hanno di lui sino al 1592 sono incerte e frammentarie: si dice che facesse il maestro di scuola e a questa notizia oggi si tende a dar credito. Lo ritroviamo quindi a Londra nel 1592, dove godeva già di una posizione notevole come attore e drammaturgo, grazie anche all’amicizia con il giovane conte di Southampton. La prima data cui si possa comunque far risalire l’attività drammatica di Shakespeare è il 1591, anno in cui scrisse la seconda e la terza parte dell’Enrico VI, in collaborazione con il contemporaneo Cristopher Marlowe (sino allora aveva scritto due poemi narrativi e gran parte dei Sonetti). Shakespeare drammaturgo ci ha lasciato 37 drammi che, dalla critica ufficiale, vengono classificati come segue: Drammi storici inglesi: il già citato Enrico VI (II e III parte), Riccardo III , sempre in collaborazione con Marlowe (1593), Enrico VIII (1612), Re Giovanni (1597), Riccardo II (1596), Enrico IV (I e II parte, 1598), Enrico V (1599). Drammi dell’antichità: Tito Andronico (anch’esso suo solo in parte, 1594), Giulio Cesare (1600), Troilo e Cressida (1602), Antonio e Cleopatra (1607), Coriolano (1608), Timone d’Atene (1608), Pericle (1609). Drammi cosiddetti “umani”: Romeo e Giulietta (1595), Amleto (1601), Otello (1605), Macbeth (1605), Re Lear (1605). Commedie: La commedia degli equivoci (1593), La bisbetica domata (1594), Pene d’amore perdute (1595), Sogno d’una notte di mezza estate (1596), I due gentiluomini di Verona (1595), Il mercante di Venezia (1597), Molto rumore per nulla (1599), Le allegre comari di Windsor (1601), Cimbellino (1610), Come più vi piace (1600), La dodicesima notte (1612), Tutto è bene quel che finisce bene (1604), Misura per misura (1605), Il racconto d’inverno (1611), La tempesta (1612). Naturalmente, tale classificazione è da considerarsi puramente convenzionale e mnemonica. Ma l’arte di Shakespeare, al di là delle divisioni, è solo una: quella di autore che, pur non avendo inventato nulla in quanto molti dei suoi drammi sono rifacimenti d’opere precedenti ed essendo egli ancorato, nella tecnica e nello stile, al teatro elisabettiano, ha avuto il pregio di trasformare, con il suo indiscutibile genio, di potenziare, trasfigurare, rendere incandescente, con sovrumana energia, tutto ciò che, sino allora, era apparso sulle scene di tutto il mondo. Ciò nonostante i suoi detrattori, che hanno costruito attorno a lui un castello di critiche negative e di dicerie, arrivando persino a dire che Shakespeare era un ignorante attore, mero prestanome di altri autori estremamente colti, facendo i nomi di Bacone, del conte di Oxford e di qualche altro ancor più problematico candidato. Basti pensare ai grandi drammi del poeta dove, alla moda del tempo, tutta iperbole e gonfiezza, viene sostituito un eloquio tutta energia e vigore, palpito e fremito. Così è in Giulio Cesare, in Otello , in Macbeth, così è in Amleto, di cui non può non essere ricordato il monologo che lo ha reso universalmente noto anche ai profani di teatro e in cui si ripropongono, per il protagonista, gli eterni problemi della vita e della morte, domandandosi dove sia la verità: se nella fede in una giustizia oltremondana, o nella certezza data agli umani, quella della loro vita di quaggiù. Rimane da citare ancora almeno Re Lear, fra tutti i grandi drammi, il più vasto, turbinoso e sublime. Essere o non essere: il problema è questo. Cos’è più nobile: sopportare nell’animo i pesi e i dardi dell’oltraggiosa fortuna; oppure prender l’armi contro la piena degli affanni e, contrastandoli, porre ad essi un fine? Morire; dormire; nient’altro: e, con un tal sonno, mettere un termine al duolo dell’animo, e alle mille sofferenze naturali, retaggio della carne. Non sarebbe un epilogo da desiderare devotamente? Morire; dormire; - dormire: forse, sognare? – ah, ecco il punto. A questo riflettiamo: a quali sogni possano sopravvenire, quando ci siamo disfatti di questa turbinosa vita mortale. È questo il timore che dà alla sventura sì lunga durata. Perché: chi mai sopporterebbe le ingiurie e le menzogne dei tempi, l’ingiustizia degli oppressori, gli oltraggi dei superbi, le angosce dell’amore spregiato, le lentezze della giustizia, l’insolenza del potere, gli scherni che la paziente virtù riceve dagl’iniqui, quando da se stesso potrebbe procurarsi la quiete, con una semplice lama? Chi vorrebbe sopportar tante scosse, gemendo e sudando, sotto i pesi della travagliata vita, se il timore di qualcosa dopo la morte, là nel paese sconosciuto da cui nessun viaggiatore è tornato, non annegasse la volontà, e non ci inducesse a sopportare i mali noti, piuttosto che muovere ad altri ignoti? Così la coscienza ci rende vili; così l’ardore della risoluzione è fatto scolorire dal pallido dubbio. W. Shakespeare, Amleto Ma già nel giovanile Romeo e Giulietta, tragedia dell’amore contrastato dalle fazioni, pur affollato da un viavai di figure sovente convenzionali e indefinite, tra cui spiccano però personaggi dai vivissimi caratteri, quali la Nutrice e Mercuzio, emerge la suprema poesia delle scene d’amore, incomparabile rispetto al teatro d’amore di tutto il mondo. Basti pensare alla stupenda scena della separazione, dopo che i due amanti hanno trascorso la loro notte d’amore, o la straziante vitalità della morte dei due, che avviene in grottesche quanto tragiche circostanze, in cui ha il suo ruolo un fato beffardo e spietato. E se i dati sulla vita di Shakespeare sono aridi e non gettano luce su una personalità così immensa come quella del drammaturgo, restano le sue opere a parlarci di lui, stupende e ineguagliabili, nelle quali, rivisitandole, si scorgono sempre nuovi afflati e pensate del grande creatore, prediletto dal fato e dalle Muse.