Il diritto all`oblio - ISCOM - Istituto Superiore delle Comunicazioni e

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Il diritto all`oblio - ISCOM - Istituto Superiore delle Comunicazioni e
La Comunicazione N.R.&N.
Fabio Di Resta
Avvocato Membro del
Consiglio direttivo
Master di II livello
Università Roma Tre/Dip.
Giurisprudenza LL.M. ISO 27001 Security Lead
Auditor - Data Protection
and I.P. Law Specialist Studio legale Di Resta
Il diritto all’oblio: dalla tutela nei
confronti dell’editore alla
deindicizzazione delle parole chiave
nei risultati dei motori di ricerca.
The right to be forgotten (RTBF): the legal protection towards to
publishers of the original content and the delising in the results
of the original content and the delisting in the results of search
engines.
Sommario: La società moderna è una società digitale e
interconnessa nella quale le informazioni sul nostro conto possono
essere raccolte e associate da diverse fonti di informazioni, si aprono
così problematiche spinose del controllo dei nostri dati, ne sono
esempio tangibile i casi a tutti noti legati ai Big Data, a tal riguardo si
citano i sistemi, come per esempio il programma di sorveglianza
elettronica Prism sviluppato negli USA per ragioni di pubblica sicurezza,
i quali se venissero utilizzati in modo distorto potrebbero diventare
mezzi di raccolta massima ed indiscriminata contro i cittadini stessi.
In tale contesto, si afferma con maggior forza l’esigenza di tutela
dell’identità personale di ciascuno, soprattutto nell’ambiente di Internet
che si caratterizza per la sua dimensione universale, identità che deve
essere controllata e gestita al fine di evitare che la stessa venga
dispersa.
In particolare, nell’ambiente di Internet una notizia negativa sulla
nostra reputazione può danneggiare gravemente chiunque
pregiudicando irreparabilmente il suo futuro, dal professionista,
all’imprenditore, ad uno studente, ecc.
Il diritto all’oblio, nell’accezione in senso stretto, è un aspetto del
diritto alla protezione dei dati personali (diritto fondamentale della
persona) che consente di evitare che informazioni negative sul nostro
conto ci inseguano per sempre consentendo all’interessato di rivolgersi
ai motori di ricerca per la rimozioni dei link associati ai risultati
contenenti i dati personali dello stesso.
Abstract: Our modern, digital and interconnected society is going
through a period whereby more personal data about our day-to-day life
information is being collected, linked and processed within various
sources through out the world within and out of the Internet.
In particular, in the Internet many thorny points on controlling our
personal data is raised, recent episodes relating to Big Data and the
electronic surveillance program (PRISM) developed by US Government,
for the purpose of public security, show the real risks for our personal
data and the possible consequences on personal identity of each citizen.
This context states an estreme need to controll one's online identity
where personal data is to serve il for not to be lost.
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Almost every waking moment of our lives is recorded online, and it
can be potentially shared or made public, and it can negatively
influence on everyone's future.
In Europe the right to be forgotten, in restrictive sense, is an aspect
of our right to data protection, a fundamental right which allows to
avoid that negative news on our social identity will persue us forever,
guaranteeing to data subjects to ask search engines to remove links to
the results with personal data about them.
Come è noto, il diritto alla riservatezza inteso come interesse alla
non intrusione nella propria sfera privata ha trovato una prima
compiuta elaborazione nello scritto pubblicato a quattro mani tra
l’avvocato S.D.Warren eL.D. Brandais anch’egli avvocato, che
successivamente divenne giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti,
l’articolo titolava The Right to Privacy, pubblicato nel 15 dicembre 1890
sulla Harvard Law Review.
Fu la prima vera riflessione sulla tutela della riservatezza come
diritto inviolabile, nel quale si denunciava il conflitto tra diritto
all’informazione e diritto dalla riservatezza, la vicenda riguardava
appunto la vita coniugale dell’allora noto avvocato di Boston,S.D.
Warren, finito su tutti di giornali per una relazione extraconiugale.
L’articolo sollevava una questione giuridica ancora fortemente
attuale, se da una parte la pubblicazione di informazioni per scopi
giornalistici si ricollega ai diritti fondamentali di informare i cittadini
dall’altra occorre che non vengano lesi altri diritti perché questo può
determinare una evidente sproporzione nella sfera personale di
ciascuno.
Dal 1890 sono trascorsi oltre centoventi anni, sicuramente la
cultura giuridica si è adattata ai radicali cambiamenti della società,
invero, nel corso di più di un secolo i nuovi principi giuridici e istituti
giuridici sembrano più essersi integrati con i precedenti nella continua
ricerca di una tutela effettiva, dal canto suo il progresso tecnologico ha
comportato un completo stravolgimento della società trasformandola
in una società dell’informazione.
In questa prospettiva di evoluzione storica del diritto alla
riservatezza con specifico riferimento all’informatica giuridica, in
ambito giuridico si è passati dal concetto di habeas corpus,insieme di
garanzie giurisdizionali affermatesi originariamente negli ordinamenti
di common law tramite la Dichiarazione dei diritti del 1215 (la Magna
Carta), cui si è accostato molti secoli dopo il concetto di tutela del
corpo informatico ossia le garanzie dell’habeas data da intendersi
usando le parole del giurista Eduardo Rozo Acuña come un “diritto
autonomo e fondamentale, che permette a ogni persona di conoscere,
aggiornare e rettificare le proprie informazioni raccolte nelle banche
dati e archivi degli enti pubblici e privati, in difesa dei diritti
fondamentali all’intimità - privacy”.
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and the delisting in the results of search engines.
Da una società di fine ottocento in cui l’informazione era basata
sul passa parola e sulla stampa cartacea, siamo arrivati alla società
dell’informazione, un mondo digitale ed interconnesso, nel quale lo
sviluppo dell’ Internet delle Cose (IoT) è già una realtà, nei prossimi
anni sarà esponenziale, frigoriferi intelligenti, macchine che
comunicano informazioni tramite satellite in caso di incidente oppure
tecnologie che consentono di aprire la porta dell’autovettura tramite
smartphone.
In questo contesto, se da una parte vi sono le major di Internet
(spesso anche indicati con l’acronimo GAFA, Google, Apple, Facebook
and Amazon) che dominano il mondo digitale, come anche le più
importanti enciclopedie online, tra cui Wikipedia, dall’altra vi è chi
pensa che i diritti fondamentali debbano prevalere sul progresso
tecnologico, senza tuttavia che l’applicazione di tali diritti si tramuti in
forme di censure oppure che impedisca il progresso sociale stesso.
Evidentemente, la soluzione tra opposte prospettiva non può
essere trovata con le ideologie, ma identificando valori, principi e diritti
su cui si fonda la società nella dimensione di internet cercando di
trovare caso per caso una soluzione proporzionata e bilanciata.
Dopo queste brevi premesse generali, occorre addentrarsi nelle
recenti questioni giuridiche relative alla cronaca giudiziaria in relazione
alla protezione dei dati personali.
In primo luogo, tralasciando per il momento l’aspetto relativo
all’eventuale falsità della notizia, l’indagine dovrebbe essere volta a
verificare se la notizia contenuta sul sito del mass media o testata
giornalistica sia obsoleta, ossia non abbia seguito lo sviluppo della
vicenda giudiziaria, il cittadino coinvolto nella vicenda potrebbe
rivolgersi al quotidiano chiedendo l’aggiornamento dei dati poiché la
notizia così come è riportata attualmente non è più esatta, corretta,
ovvero non rispetta i criteri di essenzialità.
In altri termini, sebbene la notizia che riportava la vicenda del
professionista costituisse originariamente un trattamento lecito dei
dati personali, allo stato potrebbe costituire un illecito trattamento dei
dati perché la notizia non è più aggiornata.
Oltre a questo il professionista potrebbe chiedere che la notizia
venisse spostata nell’archivio storico online del quotidiano in modo che
l’informazione fosse meno accessibile da parte di terzi attraverso una
deindicizzazione della stessa.
Questo diritto viene conferito al cittadino come interessato,
Codice della Privacy (C.d.P.), art. 11 lett. c, laddove prescrive che i dati
personali oggetto di trattamento debbono essere “ c) esatti e, se
necessario, aggiornati”.
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Tuttavia, mentre l’aggiornamento specifico e la spostamento
della notizia nell’archivio storico non presenta problemi tecnici di
particolari complessità, una volta risolta la questione giuridica di
bilanciamento dei diritti coinvolti, qualche criticità, tanto giuridica
quanto tecnica, potrebbe presentarsi in ordine alla richiesta di
deindicizzazione rivolta all’Editore.
Infatti, se da una parte il cittadino si ritiene leso sostenendo che
chiunque ricerchi la notizia come parola chiave il proprio nome e
cognome, trovi tra i risultati associati alla notizia i propria dati
personali; dall’altra, lo stesso richiedente la deindicizzazione (c.d.
delisting), tramite robots.txt della notizia, potrebbe trovarsi di fronte ai
limiti tecnologici dell’operazione; se è, infatti, vero che da alcuni anni i
maggiori quotidiani hanno oramai provveduto a digitalizzate gli archivi
cartacei, è anche vero che le piattaforme web implementate dai
quotidiani sono sicuramente dei siti dinamici che utilizzano banche dati
più o meno complesse e strutturate.
In tali casi, deindicizzare la singola pagina web può presentare
notevoli complessità tecniche e nella maggior parte dei casi potrebbe
essere difficile se non addirittura impossibile arrivare a risultati utili alla
tutela dell’interessato per il tramite del solo sito sorgente (Editore).
In tal senso, vi è anche il pronunciamento del Garante privacy
dell’11 dicembre 2008, laddove si asseriva che: ‘alla luce dell’attuale
meccanismo di funzionamento dei motori di ricerca standard,
intendendo con ciò quelli di maggiore diffusione, la raccolta di
informazioni sulla pagine disponibili nel world wide web (fase di
“grabbing”) è influenzabile dal solo amministratore di un sito web
sorgente per il tramite della compilazione del file robots.txt, previsto
dal “Robots Exclusion Protocol”, o tramite l’uso dei “Robots Meta Tag
secondo convenzioni concordate nella comunità di internet (avendo
presente comunque come tali accorgimenti non siano immediatamente
efficaci rispetto ai contenuti già indicizzati da parte motori di ricerca
internet, la cui rimozione potrà avvenire secondo le modalità da
ciascuno di questi previste)”.
In un provvedimento precedente il Garante aveva anche asserito
che: “in realtà la rettifica o cancellazione effettuati dal gestore del sito
non sono sufficienti a tutelare l’interessato: infatti in diversi casi le
copie cache dei siti e le relativa sintesi (gli abstract che compaiono
nelle pagine dei risultati della ricerca) non vengono aggiornate o
rettificate dal motore di ricerca, anche se sui siti sorgenti la rettifica o la
cancellazione è avvenuta da tempo […] le copie di cache generate da
Google per l’indicizzazione di determinate pagine web continuavano a
contenere la notizia dell’arresto di una professionista nell’ambito di
una nota vicenda giudiziaria senza menzionare la successiva
assoluzione […] il motore di ricerca continua a trattare autonomamente
dati consentendone la permanenza in rete anche se non più presenti
nei siti che li contenevano originariamente” (Provv. Garante privacy, 18
gennaio 2006, commento estratto dal volume PRIVACY E
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GIORNALISMO, Mauro Paissan, Editore - Garante per la protezione dei
dati personali, pagg. 39 e 40).
Il problema sopra illustrato – piuttosto ricorrente in realtà - mostra da
una parte che il semplice aggiornamento e/o rettifica della notizia sul
sito sorgente può non sempre essere una sufficiente soluzione in
termini di efficace tutela del diritto alla protezione dei dati personali,
dall’altra la questione è ancora più complicata quando si pone un
problema di giurisdizione come nel caso di Google, nel quale essendo i
server e le attività di gestione delle attività dei motori di ricerca svolte
negli Stati Uniti,la applicazione a Google Italy della giurisdizione italiana
ed europea presenta ostacoli ritenuti a lungo insormontabili (tema che
sarà trattato nel prosieguo).
In tale contesto, il recente protocollo di verifica adottato dal
Garante privacy rappresenta in tal senso un passo avanti verso la
soluzione di questi problemi (Provv. Garante privacy del 22 gennaio
2015), il protocollo prevede aggiornamenti trimestrali sullo stato di
avanzamento dei lavori e la possibilità di effettuare presso la sede
americana di Google verifiche di conformità alla disciplina italiana delle
misure in via di implementazione: informative, consenso,
conservazione dei dati, rimozione delle informazioni dai risultati di
ricerca da parte degli utenti.
I quesiti e le problematiche sopra illustrati sono stati affrontati in
numerose pronunce della giurisprudenza di merito, nella prassi
decisoria del Garante privacy nonché della Cassazione e della Corte di
Giustizia. Nel prosieguo andremo ad analizzare queste pronunce.
Quando rivolgersi all’editore e cosa chiedere
In giurisprudenza non è rinvenibile un vero è proprio landmark
case in materia di diritto all’oblio almeno fino al 2012, mentre il
Garante privacy aveva già riconosciuto almeno dal 2004-2005 una
forma di diritto all’oblio in ambito di cronaca giudiziaria.
A tal riguardo, il provvedimento del Garante del 7 luglio 2005
riguardava la trasmissione “Un giorno in Pretura” programma della RAI
S.p.a., la trasmissione televisiva riproponeva a distanza di sedici anni le
immagini riprese durante il dibattimento processuale di una persona,
estranea alla vicenda, allora legata sentimentalmente con uno degli
imputati, la stessa manifestava chiaramente solidarietà con
quest’ultimo.
Tuttavia, riteneva l’Autorità le reazioni emotive dell’interessata
erano stato riprese senza alcuna cautela
volta ad evitarne
l’identificazione e non rispettando il requisito di essenzialità
dell’informazione. Pertanto, “la tutela invocata dalla segnalante trova
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giusto fondamento anche nel diritto della segnalante di non essere più
ricordata pubblicamente, anche a distanza di molti anni (c.d. diritto
all’oblio; art. 11, comma 1, lett. e del Codice).
La riproposizione […] ha leso il diritto dell’interessata di veder
rispettata la propria rinnovata dimensione sociale e affettiva, così come
si è venuta definendo successivamente alla vicenda stessa, anche in
relazione al proprio diritto all’identità personale e al diritto alla
protezione dei dati personali”.
A questo punto appare opportuno, per ordine di importanza,
iniziare ad analizzare la pronuncia della Cassazione del 2012, atteso il
suo valore di landmark case.
Si trattava di un articolo pubblicato sul Corriere della Sera,
l’interessato aveva chiesto inizialmente al Garante per la protezione dei
dati personali il “blocco dei dati personali che lo riguardavano
contenuti nell’articolo “Arrestato per corruzione…” pubblicato sul
quotidiano il giorno 22 aprile 1993, l’Autorità aveva respinto il ricorso.
Quindi, lo stesso impugnava il provvedimento di rigetto del Garante
Privacy innanzi al Tribunale di Milano, tuttavia, il Tribunale confermava
quanto asserito dal Garante respingendo l’opposizione volta alla
rimozione dei dati giudiziari.
Così come previsto dall’art. 152 del C.d.P., attesa la non
appellabilità delle sentenze del Tribunale, l’interessato proponeva
ricorso in Cassazione. Il ricorso conteneva un unico complesso motivo
nel quale si richiamava alla violazione degli artt. 2, 7, 11, 99, 102, 150
del C.d.P., nonché agli artt.3, 5, 7 del codice deontologico e buona
condotta per i trattamenti di dati per scopi storici.
Gli argomenti dell’organo giudicante respingono alcune richieste
della ricorrente e sono così succintamente riassunti: “l’articolo di cui si
tratta non può essere tecnicamente inteso come una nuova
pubblicazione”, la “ricerca effettuata attraverso i comuni motori di
ricerca – non direttamente legata all’articolo del Corriere della Sera –
dà, in realtà, contezza degli esiti processualmente favorevoli” e
“l’inserimento di una sorta di sequel nell’articolo contenuto in archivio
[…] farebbe venir meno il valore di documento del testo stesso,
vanificandone così la funzione storico-documentaristica”.
Gli argomenti posti dal ricorrente avverso la pronuncia del
Tribunale più nello specifico così possono riassumersi:
- richiesta di “spostamento dell’articolo pubblicato molti anni
prima in un area di un sito web non indicizzabile dai motori di
ricerca”;
- L’articolo “non reca, in sé, la notizia distinta successiva – che
l’inchiesta giudiziaria che aveva condotto all’arresto del ricorrente
si sia poi conclusa con il proscioglimento del medesimo, sicché,
ancora il […] è soggetto allo stigma derivante dalla continua
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riproposizione di una notizia che, al momento della sua
pubblicazione era senz’altro vera ed attuale, ma che oggi, a
distanza di così grande lasso di tempo ed in ragione delle
sopravvenute vicende favorevoli, getta un intollerabile alone di
discredito sulla persona del ricorrente, vittima di un vera e propria
gogna mediatica”.
La vicenda sottoposta alla Corte riproponeva ancora una volta la
spinosa questione del bilanciamento, da una parte il diritto di
informare, la libertà di espressione e l’interesse della collettività ad
accedere ad informazioni e dell’altra parte il diritto, non più solo diritto
alla riservatezza inteso come right to be alone, ma al trattamento
dinamico dei dati, dalla raccolta alla gestione alla prima diffusione
(prima pubblicazione) financo alla ulteriore diffusione (si trattava di
una circolazione dei dati tramite internet e quindi potenzialmente
accessibile da tutto il mondo).
Come è noto, l’art. 11 del C.d.P. definisce i criteri con il quali il
trattamento dei dati personali può essere definito corretto (p.e. è stato
acquisito il consenso informato) e/o lecito (p.e. violazione di altre
disposizione del C.d.P. come ad esempio violazione del principio di
finalità e/o proporzionalità del trattamento).
Invero, la liceità del trattamento merita un breve approfondimento
perché è un principio fondamentale nella decisione che occupa.
L’organo giudicante asserisce che la liceità trova fondamento nella
finalità del trattamento e ne costituisce un limite intrinseco allo stesso,
nello specifico, la finalità perseguita nella prima pubblicazione da parte
del quotidiano è diversa da una riproposizione dello stesso articolo.
Infatti, come già accennato sopra la pubblicazione originaria può
avere il carattere di attualità (trattamento dati originario), ma il
trascorre del tempo può comportare che la notizia divenga obsoleta
perché non più di interesse per il pubblico, l’ulteriore ripubblicazione a
distanza di tempo di una notizia dimentica può quindi danneggiare
l’identità personale e professionale di un individuo e può pertanto
considerarsi illecita.
Un altro passaggio della sentenza appare cruciale, anche i dati
pubblici o pubblicati sono oggetto di tutela, afferma la Cassazione che
“il diritto all’oblio salvaguardia in realtà la proiezione sociale
dell’identità personale, l’esigenza del soggetto di essere tutelato dalla
divulgazione di informazioni (potenzialmente) lesive in ragione della
perdita (stante il lasso di tempo intercorso dall’accadimento del fatto
che costituisce l’oggetto) di attualità delle stesse sicché il relativo
trattamento viene a risultare non più giustificato ed anzi suscettibile di
ostacolare il soggetto nell’esplicazione e nel godimento della propria
personalità.” Il Supremo Collegio prosegue richiamando altra pronuncia
secondo la quale “ il diritto al rispetto della propria identità personale e
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morale, a non vedere cioè travisato alterato il proprio patrimonio
intellettuale […] (la n.d.r.) propria immagine nel momento storico
attuale”.
Sempre analizzando il profilo della liceità del trattamento
successivo alla prima pubblicazione l’organo giudicante richiama un
principio, ai fini della valutazione della ripubblicazione della notizia,
secondo il quale è importante tenere in conto che i dati personali
provenienti da fonti pienamente conoscibili (p.e. elenchi telefonici)
come anche i dati pubblici (p.e. dati reddituali detenuti dall’Agenzia
delle Entrate), entrambi non sono liberamente utilizzabili, ed i secondi
possono comunque essere sottoposti ad un regime giuridico di
pubblicità che ne limiti l’utilizzo.
In particolare, i primi sono anche reperibili online, si pensi ad
esempio alle e mail, agli indirizzi, ai numeri di telefono, non per questo
sono dati personali liberamente utilizzabili da chiunque e per
qualunque scopo ed anzi sono soggetti in termini generali alla
protezione dati personali.
Nel ricercare un giusto bilanciamento di interessi la Corte
asserisce quindi che se da una parte occorre tutelare l’identità
personale anche nelle fasi successive alla prima pubblicazione
dell’articolo ai fini di tutela della proiezione sociale della stessa
identità, dall’altra vi è pur sempre l’interesse del pubblico ad accedere
alla notizia e quindi ad una permanenza della stessa nella memoria
storica presente su Internet.
Pertanto, asserisce la stessa proprio sulla base dell’esigenza di
garantire una liceità del trattamento successivo alla prima
pubblicazione che il quotidiano Corriere della Sera (R.C.S. Quotidiani
S.p.A.) non è sufficiente che si sposti nell’archivio storico la notizia, è
invece necessario che adotti un sistema di segnalazione dello sviluppo
della stessa (p.e. banner all’interno dell’articolo) il quale garantisca una
contestualizzazione e l’aggiornamento della stessa.
Infine, vi da rilevare che, correttamente, la Corte non sembra
aver accolto altre richieste del ricorrente volte invece a chiedere anche
la deindicizzazione dall’archivio online, trovando invero questa
richiesta di difficile realizzabilità tecnica. Come si avrà modo di
illustrare più avanti la deindicizzazione avrebbe dovuto essere rivolta al
motore di ricerca, sebbene i limiti giurisdizionali all’epoca ancora
sussistenti non avrebbero forse consentito di coinvolgere
processualmente lo stesso.
Altra pronuncia che si inserisce parzialmente nel solco delineato
da questo significativo arresto è l’ordinanza del Tribunale di Firenze del
29 marzo 2014, la questione attinente alla cronaca giudiziaria, si
contrapponevano anche qui il diritto all’autodeterminazione
informativa, nell’accezione di diritto alla tutela dell’identità personale e
quindi alla veridicità delle informazioni contenute nell’archivio storico
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online, per contro vi era lo scopo storico-documentaristico, il diritto di
informare e di essere informati.
L’organo giudicante asserisce che: “il presente giudizio infatti non
tocca in alcun modo il contenuto degli archivi storici del quotidiano che
rimarrebbero pertanto disponibili a chiunque voglia prenderne visione
[…] la deindicizzazione dei due articoli risulta, pertanto, misura
adeguata e sufficiente a contemperare l’esigenza di mantenimento
della memoria storica della cronaca giudiziaria (continuando i due
articoli ad essere reperibili nell’archivio storico del quotidiano) ma
anche a garantire, al contempo, in via immediata la tutela
dell’immagine telematica dal punto di vista professionale e lavorativo
dell’odierno ricorrente […]
Nel caso di specie l’avvenuta rettifica nel corpo dell’articolo di cui
alla URL […] pur ristabilendo la verità storica, non tutela certamente in
modo sufficiente l’interesse cui è diretto il presente ricorso, che
consiste, principalmente, nel disincentivare l’associazione del nome del
ricorrente alle parole “arresti domiciliari” ogni qualvolta lo si digiti sul
motore di ricerca Google”.
Pertanto, da una parte il pronunciamento del Tribunale
fiorentino è pienamente conforme all’arresto giurisprudenziale della
Suprema Corte del 2012, ma lo stesso va oltre asserendo che
l’esattezza dell’informazione non è sufficiente: occorre che la notizia
venga deindicizzata dal sito sorgente.
D’altro canto, il Tribunale fiorentino si era già pronunciato su una
questione analoga l’anno precedente, Ord. Trib. di Firenze del 13
febbraio 2013, asserendo su ricorso per provvedimento d’urgenza ex
art. 700 c.p.c. che: “non spetta ai motori di ricerca provvedere
all’aggiornamento e alla contestualizzazione delle informazioni
immesse, ma ai siti sorgente e quindi alle testate giornalistiche […] è
chiaro perciò che il fumus boni iuris del diritti all’identità personale del
ricorrente deriva dalla indicizzazione da parte dei motori di ricerca del
suo nome e cognome e dall’associazione dello stesso alla qualità di
indagato e arresto non più attuali e veritiere […] Ciò posto la
permanenza di tali informazioni non può che arrecare un pregiudizio
grave e irreparabile al ricorrente”.
Anche Il Tribunale di Milano nella ordinanza del 26 aprile 2013, n.
5820, prende le mosse proprio dal landmark case del 2012, il ricorrente
lamentava la natura diffamatoria e la illiceità dell’articolo “l’usuraio del
casinò ha evaso 84 miliardi”, notizia pubblicata su Repubblica il 29
settembre 1985 e riportata nell’archivio online di Repubblica (il Gruppo
editoriale l’Espresso S.p.A.).
Lo stesso asseriva, in particolare, la mancanza di veridicità
dell’articolo, sia in ordine al reato contestato, sia all’esistenza di
mandati di cattura ovvero la presunta latitanza, sia l’importo
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contestato e ne chiedeva comunque la rimozione dell’articolo
dall’archivio online o in subordine “impedire al motore di ricerca
l’accesso al predetto link”.
L’organo giudicante nelle conclusioni asseriva in primo luogo la
carenza (assunto invero molto ricorrente almeno fino alla pronuncia
della Corte di Giustizia) di legittimazione passiva di Google Italy S.r.l.,
atteso che la stessa effettuava mera attività pubblicitaria e di
marketing di prodotti editoriali, attività autonome e distinte da quelle
svolte dalla società madre, Google inc., nello specifico autonome e
distinte dalle attività relative alla gestione dell’indicizzazione delle
pagine web impiegate dai motori di ricerca.
Come già accennato, tale tesi costituisce un comune denominatore
nella costante giurisprudenza fino a maggio 2014, secondo la stessa si
deve asserire il difetto di legittimazione passiva nei confronti di Google
Italy in quanto non rientrante nell’art. 5 del C.d.P. e non potendosi
individuare neanche un’attività di mero supporto per la società madre
(Cfr. Tribunale di Roma, 11 luglio 2011; Tribunale di Luca, 20 agosto
2007; Tribunale di Milano, 25 ottobre 2010, successivamente la stessa
è stata riformata totalmente nei due successivi gradi di giudizio).
Le altre conclusioni dell’organo giudicante milanese erano le
seguenti pieno accoglimento della domanda spiegata dall’attore nei
confronti del Gruppo editoriale l’Espresso S.p.A. e per l’effetto si
ordinava la cancellazione dell’articolo in oggetto dall’archivio online
del quotidiano La Repubblica, condannava, inoltre, il quotidiano al
risarcimento dei danni non patrimoniali.
Pertanto, da una parte la pronuncia milanese sembra andare oltre
il landmark case del 2012, asserendo non il mero aggiornamento o
rettifica della notizia, ma la totale rimozione del contenuto della stessa.
Occorre però analizzare il percorso argomentativo del Giudice.
Il tribunale, si giovava di molte delle argomentazioni presenti nella
nota pronuncia del 2012, ma asseriva anche che: “le finalità di archivio
di una notizia così risalente (il 1985, n.d.r.) ben possono essere
assicurate attraverso la conservazione di una copia cartacea (in tal
modo sicuramente sacrificando le possibilità di accesso alla notizia, ma
in favore del superiore interesse all’identità personale, per le
argomentazione sopra esposte) e considerato il fatto che le procedure
di c.d. deindicizzazione poste in essere dalle resistenti sono rimaste
infruttuose (Cfr. documentazione prodotta dalla difesa di parte attrice
unitamente alla comparsa conclusionale), si ritiene che, ai sensi del
citato articolo 7 D.lgs. n. 196 del 2003, possa essere disposta, a cura del
Gruppo Editoriale l’Espresso – cui spetta provvedere, Cfr. Cass.
5525/2012) – la cancellazione dell’articolo […] dall’archivio
telematico[…]”.
Il Giudice milanese ritiene pertanto che sia sufficiente che il
quotidiano conservi la notizia in formato cartaceo, data la notizia di
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trent’anni orsono l’interesse pubblico è da considerarsi recessivo
rispetto alla protezione dell’identità, inoltre, neanche le soluzioni
tecniche approntate dal quotidiano non erano state sufficienti a
deindicizzare la notizia.
La pronuncia in oggetto è stata accolta da alcuni con riserve e
perplessità dovuta al fatto che la conservazione nel solo archivio
cartaceo rappresenta una sanzione molto aspra. Tuttavia, a ben vedere
il giudicante in ordine al contenuto offensivo si è limitato a constatare
la prescrizione relativa alle richieste inerenti la diffamazione, tenuto
conto del fatto che questi fatti riportati nella notizia erano almeno in
parte falsi come l’accusa di usura, l’evasione di somme molto ingenti,
mandati di cattura e latitanza.
A tal proposito si richiama la Cassazione del 2012 la quale asserisce
che la notizia “originariamente completa e vera, diviene non
aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e pertanto
sostanzialmente non vera”, invece nel caso in esame non era il
trascorrere del tempo a rendere la notizia non vera (anche se solo
parzialmente)la notizia era tale ab origine.
Orbene, dalla lettura più approfondita della sentenza emerge che
l’aspra misura adottata dall’organo giudicante appare ben motivata
sotto il profilo del bilanciamento di interessi, in primo luogo la notizia
era stata pubblicata nel 1985 (lasso di tempo sufficiente per soddisfare
l’interesse pubblico ad accedere all’informazione), a distanza di quasi
trent’anni, inoltre, non sussistevano motivi per l’ulteriore
identificabilità della persona in riferimento alle finalità di pubblicazione
(trattamento dati), infine, come sopra accennato non solo la stessa era
in parte falsa ma le misure adottate dall’editore erano state
infruttuose.
Pertanto, la rimozione della notizia dagli archivi online è vista
correttamente dal giudicante come una extrema ratio volta a garantire
un’effettività di tutela del diritto dell’attore non altrimenti tutelabile
nell’ambiente Internet, di qui appunto l’obbligo di conservare in
formato solo cartaceo per adempimento agli scopi storicodocumentaristici.
Alla luce di queste osservazioni appare ora opportuno analizzare la
sentenza che costituisce un landmark case a livello europeo. Si tratta
della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 13
maggio 2014, causa C-131/12. La vicenda come è noto riguardava il sig.
Costeja Gonzales il quale mediante reclamo chiedeva che fosse
ordinato ad un noto quotidiano catalano, La Vanguardia, di rimuovere
oppure modificare alcune pagine web contenenti i suoi dati personali.
Il reclamo, innanzi alla Agencia Espanola de Proteccion de Datos
(AEDP), era rivolto sia contro il quotidiano La Vanguardia sia contro
Google Spain e Google Inc., si fondava in ragione del fatto che quando
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F. Di Resta
veniva effettuata una ricerca da parte di un qualsiasi utente con le
parole chiave “Costeja Gonzales” il motore otteneva come risultati due
link verso due pagine di suddetto quotidiano, rispettivamente del 19
gennaio e del 9 marzo 1998, riportanti la notizia da considerarsi oramai
obsoleta.
Nella notizia si riportava che il sig. Costeja Gonzales, a seguito di
accertamenti, era risultato evasore per crediti previdenziali e che dei
suoi immobili erano stati messi all’asta a seguito di un pignoramento
per la riscossione coatta di detti crediti.
Il reclamo verso il quotidiano La Vanguardia veniva respinto
ritenendo la pubblicazione del quotidiano legalmente giustificata dato
che alla vendita pubblica era stata data ampia pubblicità su ordine del
Ministero del Lavoro e degli Affari sociali.
Il medesimo reclamo veniva invece accolto dalla AEDP contro
Google Spain e Google Inc. Le ragioni dell’accoglimento possono essere
riassunte come segue: Le società spagnola e la società madre
americana operano in stretta collaborazione, “i gestori di motori di
ricerca sono assoggettati alla normativa in materia di protezione dei
dati […] effettuano un trattamento di dati per il quale sono responsabili
e agiscono quali intermediari […] L’AEDP ha ritenuto di essere
autorizzata ad ordinare la rimozione dei dati nonché il divieto di
accesso a taluni dati da parte dei gestori dei motori di ricerca ”.
Alla base di tale pronunciamento vi è il bilanciamento degli
interessi in gioco, nel quale prevale “il diritto fondamentale alla
protezione dei dati personali e alla dignità delle persone in senso
ampio, ciò che includerebbe anche la semplice volontà della persona
interessata che tali non siano conosciuti da terzi”.
La pronuncia dell’AEDP veniva impugnata innanzi all’Audiencia
Nacional, la quale sospendeva procedimento ponendo una questione
pregiudiziale comunitaria innanzi alla Corte di Giustizia.
Si ponevano principalmente tre questioni che possono riassumersi
come segue:
1. La qualificazione come “stabilimento” relativamente a Google
Spain al fine di definire la giurisdizione in base alla normativa
europea e al diritto spagnolo sul caso;
2. Se l’attività posta in essere da Google Search, “consistente nel
localizzare le informazioni pubblicate e messe in rete a terzi,
nell’indicizzarle in maniera automatica, nel memorizzarle
temporaneamente e infine metterle a disposizioni degli utenti
di Internet secondo un determinato ordine di preferenza”
possa qualificarsi come trattamento dei dati personali e se
come tale la società possa essere qualificata come
Responsabile del trattamento ai sensi dell’art. 2 lett. d) della
Direttiva 95/46/Ce.
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La Comunicazione N.R.& N.
Il diritto all’oblio: dalla nei confronti dell’editore alla deindicizzazione delle parole chiave nei risultato dei motori di ricerca.
The right to be forgotten (RTBF): the legal protection towards to publishers of the original content and the delising in the results of the original content
and the delisting in the results of search engines.
3. In riferimento alla portata del diritto di cancellazione e/o
opposizione al trattamento di dati in relazione al diritto
all’oblio, ai sensi degli artt. 12 e 14, se il diritto di cancellazione
e congelamento dei dati implichino o meno che l’interessato
possa rivolgersi ai motori di ricerca “per impedire
l’indicizzazione delle informazioni riguardanti la sua persona
pubblicate su pagine web di terzi, facendo valere la propria
volontà che tali informazioni non siano conosciute dagli utenti
di internet”, qualora tale divulgazione comporti una pregiudizio
ai sui danni o desideri che tali informazioni siano dimenticate.
Per tutte e tre le questioni sopra illustrate la Corte di Giustizia
forniva risposta affermativa, riconosceva per la prima volta nella la
giurisdizione europea e spagnola sui motori di ricerca, che Google
Spain fosse qualificabile come responsabile del trattamento (Titolare
autonomo secondo il diritto italiano).
Infine, con la questione indicata al punto 3 si chiedeva alla Corte se
fosse possibile legittimamente chiedere al motore di ricerca la
rimozione del link alla pagina web del sito sorgente (quotidiano La
Vanguardia), anche nella circostanza che il trattamento operato da
quest’ultimo fosse lecita (Cfr. paragrafo 62). La risposta della Corte è
netta in base alla Direttiva 95/46/Ce il fatto che le informazioni
pubblicate sul sito sorgente siano lecite non incide sugli obblighi dei
motori di ricerca.
Anzi, specifica che il trattamento dell’editore di una pagina web,
consistente nella pubblicazione di informazioni relative ad una persona
fisica, può in ipotesi essere anche effettuato per esclusivi scopi
giornalistici (par. 85) e beneficiare delle deroghe previste dall’art. 9
della Direttiva, mentre tali deroghe non sono applicabili ai motori di
ricerca.
La Corte conclude, infine, che il diritto allo protezione dei dati
personali prevale, nell’ottica di un bilanciamento di diritti, non soltanto
sugli interessi economici dei motori di ricerca ma sull’interesse del
pubblico ad accedere all’informazione in occasione di una ricerca
concernente il nome dell’interessato.
D’altro canto, quest’ultima tesi trova conforto anche se si fosse
ragionato in stretti termini di diritto italiano, l’editore in tal caso
avrebbe potuto infatti sostenere una tesi difensiva ricorrendo all’art.
136 e ss. del Codice della Privacy (d.lgs. 196/2003). Lo stesso prevede
una deroga al consenso al trattamento quando lo stesso è “effettuato
nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo
perseguimento delle relative finalità” o “effettuato dai soggetti iscritti
nell’elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli
26 e 33 della legge 3 febbraio 1963, n. 69”. D’altro canto, il trattamento
potrebbe anche essere “temporaneo finalizzato esclusivamente alla
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F. Di Resta
pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre
manifestazioni di pensiero anche nell’espressione artistica”.
Ovviamente la deroga al consenso, che include anche le garanzie
previste dagli artt. 27 in combinato disposto con l’art. 137 C.d.P. sul
trattamento dei dati giudiziari, potrebbe anche essere opposta
impropriamente perché lo scopo giornalistico potrebbe essere ritenuto
recessivo rispetto al diritto all’oblio ossia il diritto alla protezione dei
dati personali nell’accezione di controllo della propria identità
personale nella sua proiezione sociale. In tale caso una notizia diventa
obsoleta per il trascorrere del tempo perdendo di interesse per la
collettività.
Peraltro, riprendendo le argomentazioni della Corte di Giustizia,
la notizia di un privato cittadino che non ha incarichi pubblici perde di
interesse dopo un certo numero di anni, prevalendo il diritto a che la
notizia venga dimentica, pertanto si può chiedere che non sia più
accessibili con facilità da parte di terzi, tuttavia, quotidiano potrà
ottenere ragionevolmente il risultato di continuare a conservare la
notizia, in forma aggiornata e veritiera, nell’archivio storico online.
Sul piano generale occorre, inoltre, porsi un ulteriore quesito che
allo stato rappresenta uno dei punti critici del dibattito istituzionale a
livello europeo in tema di protezione dati, il diritto all’oblio
riconosciuto in via giurisprudenziale deve trovare una puntuale
disciplina normativa?
Il testo della proposta del regolamento europeo sulla protezione
dei dati personali (General Data Protection Regulation-GDPR),
regolamento che dovrebbe essere approvato prevedibilmente entro gli
inizi del 2016, sarà come tale direttamente efficace in tutti Stati
Membri (c.d. diretta applicabilità dei regolamenti dell’UE), licenziato
dal Consiglio dell’Unione Europea lo scorso 19 dicembre 2014, contiene
anche una disposizione sul diritto all’oblio.
Tuttavia, solo in apparenza sembra andare nella direzione della
necessità di riconoscere un nuovo diritto oltre ai diritti dell’interessato
già riconosciuti (art. 7 co. 3 e 4 Codice della Privacy; art. 12 co. 2 e 3
della Direttiva 95/46/Ce), per contro è da ritenersi che la volontà
attuale del legislatore comunitario sia di individuare un’accezione del
più ampio diritto alla cancellazione dei dati, all’integrazione e
all’aggiornamento nonché all’opposizione del trattamento per motivi
legittimi.
Infatti, l’art. 17 è stato rubricato “Right to be forgotten and to
erasure” (spesso nella letteratura in materia si riporta il semplice
acronimo RTBF), invece, esaminando il testo attuale, il diritto all’oblio
compare solo nella rubrica e non viene specificamente disciplinato, le
disposizioni riconoscono al diritto di cancellazione un ambito di
applicazione molto vasto, rimandando al diritto di opposizione al
trattamento per motivi legittimi e al bilanciamento tra i diritto in gioco
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La Comunicazione N.R.& N.
Il diritto all’oblio: dalla nei confronti dell’editore alla deindicizzazione delle parole chiave nei risultato dei motori di ricerca.
The right to be forgotten (RTBF): the legal protection towards to publishers of the original content and the delising in the results of the original content
and the delisting in the results of search engines.
(Art. 19), al principio di finalità e necessità del trattamento dati, alla
revoca del consenso al trattamento dei dati (Articolo 9).
Infine, analizzando i documenti del Dapix Working Group,
Gruppo di Lavoro sullo scambio di informazioni e la protezione dei dati
in seno al Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea, emergono diverse
posizioni degli Stati Membri, in particolare, le delegazioni di Germania,
Danimarca e Spagna ritengono che non sia necessario introdurre
legislativamente un diritto ad hoc andando oltre il diritto di
cancellazione dei dati, ma sia sufficiente disciplinare solo quest’ultimo.
Le delegazioni spagnola e tedesca, insieme ad altre sostengono,
inoltre, che il diritto all’oblio sia un’ accezione del diritto alla
riservatezza e quindi espressione del più ampio diritto alla protezione
dei dati personali che deve essere bilanciato contro diritto alla
memoria storica dei fatti e all’accesso alle fonti di informazione, intesi
questi ultimi come esplicazioni della libertà di espressione.
Quando e come rivolgersi al motore di ricerca
La sentenza sopra analizzata rappresenta come detto un
landmark case per diversi aspetti, infatti, immediatamente dopo la
pubblicazione della sentenza, 13 maggio 2014, il principale motore di
ricerca a livello mondiale ha introdotto in tutta Europa una procedura
di segnalazione per i richiedenti la deindicizzazione delle pagine web.
Come sopra accennato fino ad allora le società come Google Italy
e Google Spain, erano costantemente considerate, come società che
svolgono una semplice attività di vendita di servizi pubblicitari per
conto della Google Ireland Ltd. (Società del gruppo Google che gestisce
la raccolta pubblicitaria sul sito web) e non compiendo pertanto
operazione di trattamento strumentali alle attività di motore di ricerca
non erano soggette alle giurisdizioni europee (Provv. Garante privacy
del 18 gennaio 2006, doc. web n. 1242501)
Successivamente a tale sentenza, Google Inc. ha deciso di
pubblicare in diverse lingue la procedura in base alla quale i cittadini
possono richiedere la deindicizzazione delle parole chiave dai risultanti
dei motori di ricerca. Il richiedente dopo aver compilato la richiesta
telematica deve attendere il riscontro di Google in merito.
Le decisioni di Google in tema di deindicizzazione in Italia
possono essere impugnate innanzi al Garante privacy ed innanzi al
Tribunale, atteso che secondo i più recenti pronunciamenti in materia
Google Italy deve ritenersi un rappresentante stabilito in Italia ai fini
dell’art. 5, co. 2 del d.lgs. 196/2003.
La statistiche ufficiali italiane mostrano che Google finora ha
rigettato circa il 60% delle richieste pervenute secondo criteri e
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F. Di Resta
valutazioni condivise dal nostro Garante per la protezione dei dati
personali (Audizione del Presidente Antonello Soro presso la
Commissione dei Diritti e doveri relativi ad Internet – Camera dei
Deputati, 12 gennaio 2015).
Fino a tutto dicembre 2014, erano alcune decine le richieste di
indicizzazione pervenute al Garante, di queste solo nove pervenute ad
una conclusione del procedimento innanzi al Garante. Di queste nove
pronunce, sette sono di conferma delle decisioni di Google e quindi di
rigetto delle richieste di deindicizzazione (newsletter del Garante del 22
dicembre 2014), mentre le altre due pronunce hanno accolto il ricorso
degli interessati, in un primo caso le informazioni pubblicate erano
eccedenti e riferite a persone estranee alla vicenda giudiziaria,
nell’altro caso la notizia pubblicata era inserita in un contesto idoneo a
ledere la vita privata della persona (Cfr. doc. web nn. 3623877 e
3623978).
Più nel merito, analizzando i succinti provvedimenti del garante
relativi al respingimento delle richieste di indicizzazione, già rifiutate in
sede stragiudiziale da parte di Google Inc., da una parte emerge che le
vicende attinenti alla cronaca giudiziaria sono per lo più ancora
considerate di pubblico interesse, dall’altra viene suggerito al
ricorrente di esercitare i diritti di aggiornamento, rettifica e
integrazione previsti dall’art. 7 C.d.P. qualora ritenga che le notizie
pubblicate dagli editori non siano vere.
Il quadro complessivo relativo alle richieste stragiudiziali rivolte a
Google e a quelle in sede amministrativa innanzi al Garante privacy è
piuttosto netto al momento.
L’accoglimento di una richiesta di deindicizzazione deve essere ben
motivato per superare il test del bilanciamento tra lo specifico contesto
in cui si applica il diritto alla protezione dei dati personale (rectius
diritto all’oblio) e i diritti con esso confliggenti (diritto di cronaca,
diritto di essere informati e pubblico interesse all’accesso), indicando le
URL per le quali si chiede al motore di ricerca di rimuovere i link.
A tal riguardo corre l’obbligo di richiamare la recente
pubblicazione delle Linee guida di Google del 6 febbraio 2015, su
indicazione dell’Advisory Council nominato da Google (“The Advisory
Council to Google on the Right To Be Forgotten”),nella quale si
esplicitano i criteri in base al quali Google opererà suddetto
bilanciamento di interessi.
E’, infine, il caso di notare come le linee guida di Google non siano
allineate per diversi aspetti con il Parere del Gruppo europeo dei
Garanti (Article 29 Working Party) pubblicato il 26 novembre 2014
(Giudelines on the Implementation of the court of Justice on the
European Union Judgement on “Google Spain And Inc V. Agencia
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Il diritto all’oblio: dalla nei confronti dell’editore alla deindicizzazione delle parole chiave nei risultato dei motori di ricerca.
The right to be forgotten (RTBF): the legal protection towards to publishers of the original content and the delising in the results of the original content
and the delisting in the results of search engines.
Espanola de Proteccion de Datos (AEDP) and Mario Costeja Gonzalez”
C-131/12).
L’accostamento tra i due documenti è invero improprio, le linee
guida sono da intendersi come una procedura aziendale implementata
da una multinazionale leader mondiale nel settore, mentre l’Opinion
del Gruppo di lavoro art. 29 è invece un documento istituzionale
europeo.
La differenza tra i predetti documenti è di tutta evidenza, il
documento del Gruppo europeo dei Garanti essendo un documento
istituzionale da ritenersi un riferimento sia per il contenzioso
amministrativo (ricorsi al Garante per la protezione dei dati personali)
che per quello giudiziario e non ultimo anche per tutti i cittadini e le
altre istituzioni.
In ogni caso, è bene ribadire che le linee guida di Google saranno
un documento utile per fornire indicazioni in ordine ai criteri di
bilanciamenti degli interessi in gioco per chi vuole proporre una
richiesta di indicizzazione, trattandosi allo stato attuale di una scelta
obbligata, successivamente si sceglierà la sede - tra quelle consentite
dell’ordinamento - più opportuna per tutelare il diritto fondamentale
quale quello alla protezione dei dati personali.
________________________________________________________________________________
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Bianchi, D. Difendersi da internet, Guida al Diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2014.
Di Resta, F. Il diritto all'oblio: un'evoluzione del diritto di aggiornamento e
all'esattezza delle notizie sul proprio conto o un nuovo diritto? Pubblicato su Diritto
24 del Sole 24 ore (ultima visita 25 giugno 2015)
http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/avvocatoAffari/mercatiImpresa/201502-26/il-diritto-oblio-evoluzione-diritto-aggiornamento-e-esattezza-notiziaproprio-conto-o-nuovo-diritto-110423.php
Di Resta, F., Dal Rfid all’IoT: le criticità del quadro normativo, pubblicato sul sito
web (ultima visita 25 giugno 2015):
http://channels.theinnovationgroup.it/iot/tag/fabio-di-resta/
Di Resta, F., Protezione dei dati personali - Privacy e Sicurezza (Prefazione a cura di
Giuseppe Chiaravalloti), Giapplichelli editore, Torino, 2008, pagg. da 51 a 61.
Paissan, M., Privacy e Giornalismo, Garante per la Protezione dei dati personali,
ed. febbraio 2008.
Warren, S.D. e Brandais, L.D., The Right to Privacy, pubblicato il 15 dicembre 1890,
Harvard Law Review.
DOCUMENTI DI RIFERIMENTO
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− Lettera inviata dal Presidente del Garante privacy a Google Inc., 22 marzo 2006,
doc. web. 13339146.
− Parere del Gruppo europeo dei Garanti (Article 29 Working Party – WP 225)
pubblicato il 26 novembre 2014 (Giudelines on the Implementation of the Court of
Justice on the European Union Judgement on “Google Spain And Inc V. Agencia
Espanola de Proteccion de Datos (AEDP) and Mario Costeja Gonzalez” C-131/12)
− Bozza del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali, versione testo
del Consiglio dell’Unione Europea, 19 dicembre 2014
− Newsletter del Garante per la protezione dei dati personali, 22 dicembre 2014.
− Audizione del Presidente Antonello Soro presso la Commissione dei Diritti e doveri
relativi ad Internet – Camera dei Deputati, 12 gennaio 2015
− Linee guida, The Advisory Council to Google on the Right to be Forgotten,
pubblicate il 6 febbraio 2015
− Relazione annuale del Garante per la protezione dei dati personali, 2014
(pubblicata a giugno 2015), pagg. 142 e ss.
GIURISPRUDENZA DI RIFERIMENTO
− Provvedimento del Garante privacy del 10 novembre 2004, doc. web. 1116068
− Provvedimento del Garante privacy del 7 luglio 2005, doc. web. 1148642
− Provvedimento del Garante privacy del 18 gennaio 2006, doc. web. 1242501
− Tribunale di Luca, 20 agosto 2007
− Tribunale di Milano, sez. penale, n. 1972/2010 (Sentenza di condanna,
successivamente riformata con assoluzione degli imputati in appello e in
cassazione)
− Tribunale di Milano, 25 ottobre 2010
− Tribunale di Roma, 11 luglio 2011
− Tribunale di Milano, Ordinanza del 24 marzo 2011 – 1 aprile 2011
− Cassazione, 5 aprile 2012, n. 5225
− Tribunale di Pinarolo, Ordinanza 2 maggio 2012
− Tribunale di Firenze, Ordinanza 25 maggio 2012
− Tribunale di Firenze, 13 febbraio 2013
− Tribunale di Milano, Ordinanza 26 aprile 2013
− Tribunale di Firenze, 29 marzo 2014
− Corte di Giustizia, 13 maggio 2014, Causa C- 131/12
− Provvedimento Garante privacy del 6 novembre 2014, doc. web. 3623877
− Provvedimento Garante privacy del 11 dicembre 2014, doc. web 3623978
− Provvedimento Garante privacy del 18 dicembre 2014, doc. web. 3736353
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