Danno da contatto sociale – responsabilità medica – soggettività del

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Danno da contatto sociale – responsabilità medica – soggettività del
 Danno da contatto sociale – responsabilità medica – soggettività del concepito – omessa diagnosi Il contatto sociale qualificato si pone nel nostro ordinamento come momento fattuale, prima ancora che giuridico, in grado di instaurare una relazione contrattuale fra soggetti a prescindere dalla sussistenza di un contratto in senso stretto. Con il termine “contatto sociale” ci si vuole riferire, più in generale, alle ipotesi di rapporto contrattuale di fatto, ossia a quelle ipotesi in cui un rapporto nasce sul piano sociale e nella sua fase fisiologica e funzionale rimane sul piano del fatto e in questo dovrebbe esaurirsi, ma che, a fronte di una patologia nel rapporto, viene portato a conoscenza dell’interprete che, dovendolo tradurre sul piano del diritto, lo qualifica come rapporto di natura contrattuale. In questi casi, appunto, si parla di rapporti contrattuali di fatto, ossia di rapporti contrattuali senza che, però, vi sia un contratto in senso proprio, come ad esempio nel rapporto che si instaura tra paziente e medico che opera presso una struttura ospedaliera (pubblica o privata), con la quale ultima soltanto il paziente ha stipulato un contratto di spedalità. Al riguardo, la giurisprudenza è orientata a favore dell’applicabilità ai danni sofferti da una delle parti del modello della responsabilità contrattuale, ritenendo che tra le stesse sorga comunque un rapporto obbligatorio da “contatto sociale”. La S.C. ha, infatti, precisato che il “contatto” che si crea nel momento in cui un soggetto (il medico) esegue una prestazione (la prestazione sanitaria) cui, a rigore, non è contrattualmente tenuto nei confronti del beneficiario (il paziente) fa sorgere, in capo al primo ed a favore del secondo, veri e propri obblighi giuridici di comportamento (obblighi di protezione), di contenuto del tutto analogo rispetto a quelli che sarebbero sorti se fra le parti fosse intercorso un contratto: il “contatto sociale” fa sorgere vere e proprie obbligazioni contrattuali in assenza di contratto (Cass. 26 aprile 2010, n. 9906; Cass. 30 settembre 2009, n. 20954). 1) Nozione di contatto sociale La teoria della responsabilità da contatto nasce in ambito civilistico come risposta all’esigenza di inquadramento sistematico relativa a fattispecie di danno difficilmente collocabili, data la loro natura “ibrida” a metà strada “tra contratto e torto” (Castronovo) Matrice ideale del contatto sociale qualificato è la teoria civilistica della responsabilità per inadempimento senza obblighi di prestazione, che abbraccia casi per la classificazione dei quali non appare del tutto adeguata né la figura dell’illecito extracontrattuale, né quella dell’illecito contrattuale: la prima fa infatti riferimento a una generica “responsabilità del passante” che non è adattabile alle ipotesi considerate, mentre la seconda presuppone la sussistenza di un’obbligazione contrattuale, che invece non è dato rinvenire. Né la violazione del principio del neminem laedere, né l’inadempimento della prestazione contrattuale – poiché, appunto, non esistente – originano quindi l’obbligazione risarcitoria. In questo senso, la fonte è individuabile nella lesione di autonomi obblighi di protezione, rilevanti anche a livello normativo in quanto tipizzati dal nostro Legislatore in una serie di norme codicistiche (ad esempio l’art. 2087 C.C. che prevede un obbligo in capo all’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie a tutelare “l’integrità fisica e la personalità morale”dei lavoratori, nel compimento della prestazione lavorativa). L’espressione “contatto sociale qualificato” fa riferimento a un rapporto socialmente tipico – poiché qualificato dall’ordinamento giuridico – in cui, a prescindere da un precedente vincolo pattizio in senso stretto, il danneggiante è legato al danneggiato da una relazione di fatto. Ne discendono per il primo un dovere di protezione di specifici beni giuridici e, per il secondo, di conseguenza, un obiettivo affidamento nella professionalità dell’altro soggetto, proprio in ragione del fatto che si tratti di un rapporto qualificato. I casi per i quali la Giurisprudenza ha coniato la figura della responsabilità de qua mostrano chiaramente il tipo di rapporto “fattuale” cui ci si riferisce: si pensi al “contatto” tra medico e paziente, o alla responsabilità individuata in capo all’insegnante per lesioni autoinflitte dall’alunno, che delineano appunto una relazione sicuramente non contrattuale, ma neppure fra “soggetti qualunque”, sciolti da qualsiasi legame. 2) Contatto sociale e suoi riferimenti normativi Quanto ai riferimenti normativi in materia, ormai pacificamente Dottrina e Giurisprudenza sono concordi nell’affermare che l’art. 1173 C.C., pur non indicando una nozione dai confini tanto sfumati come quella di contatto sociale, non esaurisca nella propria elencazione le possibili fonti di obbligazione. Con l’espressione “da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità con l’ordinamento giuridico” viene infatti delineato un sistema aperto, che si caratterizza per l’atipicità delle fonti, tra le quali ben potrebbe annoverarsi il contatto sociale. In definitiva, come dimostra la Giurisprudenza civilistica che ha originato questo peculiare tipo di responsabilità, un rapporto contrattuale può costituirsi fra due soggetti anche in assenza di loro valide manifestazioni di volontà. Dal contatto sociale qualificato derivano quindi obblighi di tutela di determinati interessi, sorti in itinere o esposti a pericolo in ragione dello stesso contatto, tali da giustificare l’affidamento della controparte. Responsabilità medica, contatto sociale e danno non patrimoniale da contratto di Francesca Romana Fantetti a) Equiparazione della struttura sanitaria privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile Riguardo la responsabilità civile della struttura sanitaria nei confronti del paziente, è irrilevante si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto, a livello normativo, sono sostanzialmente equivalenti gli obblighi dei due tipi di struttura verso il fruitore dei servizi, ciò anche in virtù del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria. b) Inquadramento della responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale L'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto atipico a prestazioni corrispettive tra questi e la casa di cura od ente ospedaliero con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo, insorgono a carico della casa di cura, accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di ogni attrezzatura necessaria, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. c) Responsabilità contrattuale della casa di cura nei confronti del paziente Ai sensi dell'art. 1218 c.c. la responsabilità della casa di cura nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire sia all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a carico dell'ente che, ex art. 1228 c.c., all'inadempimento della prestazione medico professionale svolta direttamente dal sanitario quale suo ausiliario necessario, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale. d) Il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione al diritto alla salute Nella decisione de qua il giudice mette in luce che è compito del giudicante accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio a prescindere dal nome attribuitogli – danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale –, individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione. Egli deve procedere ad una adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico valutando, nella loro effettiva consistenza, le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Tratto da: La Responsabilità Civile n. 8-­‐9/2009 N. 8-­‐9/2009 Con riferimento al concepito, la giurisprudenza riconosce ormai pacificamente il diritto al risarcimento del danno alla salute e all’integrità fisica eventualmente cagionatogli (ad esempio dalla condotta imperita del medico) prima o durante il parto (Cass. 11 maggio 2009, n. 10741 e, prima ancora, Cass. 9 maggio 2000, n. 5881); così come anche il diritto al risarcimento del danno sofferto a seguito dell’uccisione del padre ad opera di un terzo (per incidente stradale) quando ancora la gestazione era in corso (Cass. 3 maggio 2011, n. 9700; in senso contrario parrebbe Cass. 21 gennaio 2011, n. 1410), fermo restando il principio dettato al II comma dell’art. 1 c.c., ossia fermo restando che i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita: potranno essere fatti valere solo se e quando avvenga la nascita, altrimenti dovranno considerarsi come mai entrati nella sua sfera giuridica. Alla luce di ciò, si discute se debba ritenersi che il concepito abbia una propria capacità giuridica, sia pure parziale e condizionata (capacità giuridica prenatale) o, comunque, una sua autonoma soggettività giuridica: Cass. 11 maggio 2009, n. 10741: Il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall’ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all’onore, all’identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l’avverarsi della “condicio iuris” della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. Ne consegue che la persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi (nella specie teratogeni), alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò; in senso “elusivo”, Cass. 3 maggio 2011, n. 9700: la corte, superando agilmente qualsiasi impasse in merito alla configurabilità o meno della soggettività giuridica in capo al concepito (quaestio iuris sollevata dai ricorrenti), precisa, appunto, come non si ponga invero alcun problema relativo alla soggettività giuridica di quest’ultimo, non essendo necessario configurarla per affermare il diritto del nato al risarcimento e non potendo, d'altro canto, quella soggettività evincersi dal fatto che il feto è fatto oggetto di protezione da parte dell'ordinamento. Il diritto di credito è, infatti, vantato dal figlio in quanto nata orfano del padre, come tale destinato a vivere senza la figura paterna). Attività medico-­‐chirurgica – natura dell’obbligazione Cass. 26 gennaio 2010, n. 1538: In tema di responsabilità professionale del medico, spetta a quest’ultimo provare che non vi sia stato un inadempimento a lui imputabile o che esso, pur esistente, non sia stato eziologicamente rilevante (nella specie, la S.C., dopo aver ribadito che la responsabilità medica è responsabilità contrattuale, ha espressamente richiamato il principio espresso dalle Sez. Un, con sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, secondo cui il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento, ex art. 1218 c.c. Responsabilità contrattuale della struttura sanitaria – Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2011, n. 23562 (in senso conforme, Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577) In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (nella specie la .Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda risarcitoria avanzata dai genitori per ottenere il ristoro dei danni in conseguenza della condotta colposa tenuta dai sanitari dell'ospedale civile in occasione del parto; condotta dalla quale erano derivati gravissimi danni al figlio minore). Danno da nascita indesiderata: Cass. 21 giugno 2004 n. 11488 In caso di gravi malformazioni fetali, posto che, a) si assume come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante, se informata correttamente e tempestivamente sulla gravità delle patologie cui va incontro il nascituro, interrompa la gravidanza; b) il difetto di informazione da parte del medico per omessa diagnosi prenatale impedisce l’esercizio del diritto all’aborto, il medico che abbia omesso di diagnosticare rilevanti patologie del feto è responsabile dei danni, patrimoniali e non, che siano conseguenza immediata e diretta del suo inadempimento. Cass. 10 maggio 2002, n. 6735 In tema di responsabilità del medico da nascita indesiderata, allorquando occorre stabilire se la donna avrebbe potuto esercitare il suo diritto di interrompere la gravidanza ove fosse stata convenientemente informata sulle condizioni del nascituro, non si deve accertare se in lei si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la sua salute psichica, ma se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l'insorgere di un tale processo patologico. (Nella specie la Suprema Corte ha peraltro confermato la sentenza di merito che, nel riferirsi alla reazione instauratasi nella madre al momento della nascita del figlio, ha espresso il giudizio che analoga reazione si sarebbe determinata durante la gravidanza, ove la gestante avesse potuto rappresentarsi le conseguenze che sulla vita sua e del nascituro sarebbero potute derivare dalle malformazioni che il feto presentava.) Salvo il caso di grave pericolo di vita per la donna, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la gestante può esercitare il diritto all'aborto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 6 e 7 comma terzo legge 22 maggio 1978 n.194, solo in presenza di due condizioni positive concernenti la propria salute e di una negativa, costituita dall'insussistenza di possibilità di vita autonoma per il feto. Per possibilità di vita autonoma del feto si intende quel grado di maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall'ambiente materno. Pertanto in una causa in cui si discute se la donna sia stata impedita ad interrompere la gravidanza da un inadempimento del medico ad una sua obbligazione professionale, l'eventuale interrogativo concernente la possibilità di vita autonoma del feto va risolto avendo riguardo al grado di maturità raggiunto dal feto nel momento in cui il medico ha mancato di tenere il comportamento che da lui ci si doveva attendere. In tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del ginecologo all'obbligazione di natura contrattuale gravante su di lui spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l'ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all'interruzione della gravidanza, atteso che, sottratta alla madre la possibilità di scegliere a causa dell'inesatta prestazione del medico, agli effetti negativi del comportamento di quest'ultimo non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò ritenersi tra i soggetti "protetti" dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio. In tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, l'inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna di compiere la scelta di interrompere la gravidanza. Infatti la legge, in presenza di determinati presupposti, consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto. (Nella specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva affermato la responsabilità del medico senza specifica discussione sul nesso di causalità, non essendo emersi in causa argomenti -­‐ quali fattori ambientali, culturali, di storia personale -­‐ idonei a dimostrare in modo certo che, pur informata, la donna avrebbe accettato la continuazione della gravidanza, ed essendo anzi desumibile dalla richiesta al medico di esami volti a conoscere l'esistenza di anomalie o malformazioni del feto un comportamento orientato, in caso positivo, a rifiutare la prosecuzione della gravidanza). Nella causa tra la donna che chiede il risarcimento dei danni derivatile dal non aver potuto esercitare il suo diritto ad interrompere la gravidanza, ed il medico che sostiene l'insussistenza del nesso causale perché la donna non avrebbe comunque potuto esercitarlo, alla donna spetta provare i fatti costitutivi del diritto, al medico i fatti idonei ad escluderlo. Pertanto non spetta alla donna provare che quando è maturato l'inadempimento del medico il feto non era ancora pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma, ma spetta al medico provare il contrario. In senso contrario: Cass. 24 marzo 1999, n. 2793 A norma dell'art. 6 lett. b) della legge n. 194 del 1978, per la possibilità giuridica di ricorrere all'interruzione di gravidanza dopo il novantesimo giorno non è sufficiente la presenza di anomalie o malformazioni del nascituro, ma è necessario che tale presenza determini processi patologici in atto consistenti in un "grave" pericolo per la salute fisica o psichica della madre. Consegue che la parte che richiede il risarcimento del danno per la lesione del diritto all'interruzione della gravidanza in conseguenza della violazione da parte dei sanitari del diritto all'informazione deve provare che, quantomeno in termini di probabilità scientifica, la patologia richiesta dall'art. 6 della legge necessaria per ricorrere all'interruzione di gravidanza si sarebbe manifestata in conseguenza della conoscenza della situazione appresa dall'informazione da parte dei medici. Il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza non consegue automaticamente all'inadempimento dell'obbligo di esatta informazione che il sanitario era tenuto ad adempiere in ordine alle possibili anomalie o malformazioni del nascituro, ma necessita anche della prova della sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 6 e 7 della legge n. 194 del 1978 per ricorrere all'interruzione di gravidanza (La Corte ha affermato il principio in un caso in cui era stato richiesto un risarcimento del danno conseguente alla nascita del figlio affetto da sindrome di Down, sulla base dell'avvenuta violazione del diritto all'informazione da parte dei sanitari circa i rischi di possibili anomalie o malformazioni del nascituro e del diritto all'interruzione della gravidanza). 1) Responsabilità dell'ente ospedaliero. Cass. 18805/2009: ove l'istituto ospedaliero autorizzi un chirurgo o un medico ad operare al suo interno, mettendogli a disposizione le sue attrezzature e la sua organizzazione, e con esso cooperi, concludendo con il paziente un contratto di degenza e le prestazioni accessorie, esso viene ad assumere contrattualmente rispetto al paziente la posizione e le responsabilità tipiche dell'impresa erogatrice del complesso di prestazioni sanitarie. A nulla rileva che il paziente sia pervenuto all'ospedale attraverso il medico e per sua indicazione e, invero, il medico non avrebbe potuto operare se non nell'ambito dell'organizzazione ospedaliera. Accettandone l'attività, la casa di cura ha assunto le conseguenze della responsabilità. 2) Responsabilità professionale per mancata informazione. Cass. 2847/2010: l'intervento del medico, anche in funzione diagnostica, dà comunque luogo all'instaurazione di un rapporto di tipo contrattuale. Ne consegue che, effettuata la diagnosi in esecuzione del contratto, l'illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia costituisce un'obbligazione il cui adempimento deve essere provato dalla parte che l'altra affermi inadempiente e, dunque, dal medico a fronte dell'allegazione dell'inadempimento da parte del paziente. L'omessa informazione viola il diritto all'autodeterminazione del paziente. Tale diritto rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e decidere consapevolmente di interromperla. Secondo la definizione della Corte Costituzionale (sent. 438/2008), il consenso informato si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost. Ne deriva che la mancanza di consenso può assumere rilievo ai fini risarcitori quante volte siano configurabili conseguenze pregiudizievoli che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale di autodeterminazione in se stesso considerato. 3) Responsabilità del medico nell'esercizio della professione. La diligenza qualificata del medico deve valutarsi secondo il combinato disposto dell'art. 1176, comma secondo, c.c e 2236 c.c., atteso che il medico è un prestatore d'opera intellettuale. L'esistenza di “vasta letteratura” che illustrava le conseguenze della terapia ci porta ad escludere che la prestazione del medico coinvolgesse problematiche tecniche di particolare complessità. Cass. 20806/2009: se la prestazione professionale è di routine spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze sono state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale, o da imperizia, o da inesperienza o inabilità, dimostrando invece che sono sorte a causa di un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-­‐scientifiche del momento. 4) Mancata interruzione della gravidanza. Cass. 13/2010: l'omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente indormata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza. Cass. 2354/2010: per stabilire se i danni risarcibili sono conseguenza dell'inadempimento all'obbligo della completa informazione da parte del medico, è necessario che il giudice del merito accerti ex ante se la conoscibilità delle rilevanti anomalie e malformazioni del feto avrebbe determinato un grave pericolo della lesione del diritto alla salute della madre, avuto riguardo alle condizioni concrete fisiopsichiche patologiche della stessa, così da determinare i presupposti per attuare la tutela di tale interesse consentendo alla madre di interrompere la gravidanza. Solo nella concomitanza di tali condizioni possono essere risarciti i danni ingiusti che sono derivati, in termini di causalità adeguata, dalla lesione degli interessi tutelati dalla legge sull'interruzione volontaria della gravidanza. 5) Diritti del padre. Cass. 13/2010: trattasi di contratto di prestazione d'opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito che, per effetto dell'attività professionale del ginecologo diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale). Il danno provocato da inadempimento del sanitario costituisce conseguenza immediata e diretta anche nei suoi confronti e, come tale, è risarcibile ex art. 1223 c.c. Cass. 2354/2010: Al padre, terzo del contratto intercorso tra la madre del figlio gravemente malformato ed il medico, ma obbligato alla pari di essa nei confronti del figlio, sono direttamente risarcibili i danni provocati dall'inadempimento del medico all'obbligo di informare la madre sullo stato di salute del feto e di individuare e suggerire tutti gli strumenti diagnostici idonei a tal fine. Cass. 11 maggio 2009, n. 10741 Gli effetti del contratto debbono essere individuati avendo riguardo anche alla sua funzione sociale, e tenendo conto che la Costituzione antepone, anche in materia contrattuale, gli interessi della persona a quelli patrimoniali. Ne consegue che il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio anche del concepito e del di lui padre, i quali in caso di inadempimento, sono perciò legittimati ad agire per il risarcimento del danno. Il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall'ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all'onore, all'identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l'avverarsi della "condicio iuris" della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. Ne consegue che la persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi (nella specie teratogeni), alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò. La gestante alla quale vengano prescritti farmaci potenzialmente dannosi per il concepito vanta un diritto soggettivo perfetto ad essere informata dei rischi derivanti dal loro uso; la violazione da parte del medico curante dell'obbligo d'informazione al riguardo costituisce causa non di nullità, ma di inadempimento del contratto di prestazione d'opera intellettuale e comporta il risarcimento del danno. La valutazione del nesso causale in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., secondo i quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché al criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano -­‐ ad una valutazione "ex ante" -­‐ del tutto inverosimili, presenta tuttavia notevoli differenze in relazione al regime probatorio applicabile, stante la diversità dei valori in gioco tra responsabilità penale e responsabilità civile. Nel processo civile vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige infatti la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio". Nel caso in cui ad una gestante siano stati somministrati senza adeguata informazione farmaci che abbiano provocato malformazioni al concepito, la violazione dell'obbligo d'informazione da parte dei sanitari dà luogo al risarcimento del danno in favore sia della gestante-­‐madre che del concepito, una volta che quest'ultimo sia venuto ad esistenza, ma solo in relazione all'inosservanza del principio del c.d. consenso informato, non potendo invece ravvisarsi a carico dei sanitari una responsabilità nei confronti del concepito perché la madre non è stata posta in condizione di esercitare il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza, non essendo configurabile nel nostro ordinamento un diritto "a non nascere se non sano", in quanto le norme che disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono nei soli casi in cui la prosecuzione della stessa o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei danni. Cass. Sez. Un., n. 26972 del 2008 Il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale. La perdita di una persona cara implica necessariamente una sofferenza morale, la quale non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto – del quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva – del danno non patrimoniale. Ne consegue che è inammissibile, costituendo una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione, al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito costituente reato, del risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale, del danno morale (inteso quale sofferenza soggettiva, ma che in realtà non costituisce che un aspetto del più generale danno non patrimoniale). Il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. – anche quando non sussiste un fatto-­‐reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 cod. civ., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità. Non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-­‐reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel “danno esistenziale” si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 cod. civ. Responsabilità medica – danni alla vita prenatale – omessa diagnosi – danno da contatto sociale Cass Civ Sez III, 4 gennaio 2010, n 13 La sentenza affronta il delicato problema relativo alla configurabilità ed alla natura della responsabilità della clinica in relazione alla nascita di bambino malformato addebitabile a negligenze di natura omissiva nella diagnosi delle malformazioni nel feto. Nella specie, la Suprema Corte afferma la violazione della libertà di autodeterminazione della madre con riferimento alla possibilità dell'interruzione della gravidanza e la dispensabilità di una tutela risarcitoria sia in favore della madre sia in favore del padre. Ai fini della compiuta valutazione del caso vanno richiamati i principi di legittimità che disciplinano la responsabilità della struttura sanitaria e del medico nei confronti del paziente. L’oggetto dell’obbligazione assunta dalla prima non è costituito semplicemente dalla prestazione medica dei propri dipendenti, ma da una più complessa prestazione, definita come “assistenza sanitaria”, oggetto di un contratto atipico, inquadrabile nella categoria della locatio operis. A carico della struttura sanitaria gravano infatti, prestazioni non solo di diagnosi e cura, ma anche di tipo organizzativo, connesse all’assistenza post-­‐operatorie, alla sicurezza delle attrezzature, dei macchinari, alla vigilanza ed alla custodia dei pazienti, oltre prestazioni più propriamente riconducibili al contratto d’albergo (cfr. Cass S.U. n. 577/2008). L’attività del medico costituisce quindi solo un momento di una più complessa prestazione ed il danno non sempre è conseguenza dell’errore del singolo operatore, ma talvolta anche del comportamento di più soggetti. Tanto comporta, oltre la responsabilità vicaria per il fatto del dipendente, altra diretta per la carente organizzazione, che può riguardare numerosi aspetti, quali la disponibilità di personale qualificato ed in numero sufficiente, la sorveglianza sul coordinamento dei servizi, la garanzia sulla salubrità degli ambienti, la disponibilità di attrezzature di adeguato livello tecnologico, la cui disponibilità sia esigibile per la natura delle prestazioni ivi offerte. Il rapporto fra paziente e struttura trova quindi fondamento in un contratto autonomo ed atipico, definito come contratto di spedalità o contratto di assistenza sanitaria, per il cui inadempimento si applicano le regole fissate dall’art. 1218 c.c. (si vedano Cass. s.u. n. 9556/2002; Cass. n. 571/2005, Cass. sez. III, n. 1698/2006; Cass. sez. III, n. 8826/2007). Conseguentemente la responsabilità dell’ente per il fatto dei propri medici ausiliari si fonda sulla previsione dell’art. 1228 c.c., in forza del quale il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro. Al riguardo la Cassazione ha peraltro precisato che è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico, in quanto sono sostanzialmente equivalenti a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi. In entrambi i casi le violazioni incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale della costituzione, senza possibilità di limitazione di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata della struttura sanitaria (cfr. Cass. S.U. n. 577/2008; Cass. n. 4058/2005) Ed ancora la natura della responsabilità della struttura non muta se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del servizio sanitario nazionale o convenzionata o se si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l’intervento presso una struttura privata, sempre che il professionista sia inserito nella stessa, in rapporto di dipendenza o di mera convenzione, supponendo anche la seconda forma di collaborazione una scelta del medico da parte della struttura, con assunzione del relativo rischio (cfr. Cass. N. 1698/2006). Quanto alla responsabilità del medico, da circa un decennio la Suprema Corte qualifica la responsabilità professionale del medico di natura contrattuale, pur fondandola, ove manchi il rapporto contrattuale diretto, sul solo contatto sociale (cfr. Cass. sez. III, n. 589/’99; id. n. 11488/2004; id. 12362/2006; Cass. sez. III, n. 8826/2007; Cass. S.U. n. 577/2008). Il contatto sociale è infatti la fonte di un rapporto che non ha ad oggetto la protezione del paziente, bensì una prestazione che si modella su quella propria del contratto d’opera professionale, in base al quale il medico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del detto contatto e in ragione della prestazione medica da eseguirsi. In sostanza, in assenza di vincolo, il paziente non può pretendere la prestazione sanitaria dal medico, ma se il medico in ogni caso interviene, perché tenuto nei confronti dell’ente ospedaliero, l’esercizio della sua attività sanitaria non può essere differente nel contenuto da quello che ha come fonte un contratto fra paziente e medico. Il contatto sociale è fonte quindi di responsabilità contrattuale per non avere il soggetto fatto ciò cui era tenuto. Tale inquadramento ha conseguenze importanti sul piano della ripartizione e del contenuto dell’onere probatorio, nonché sulla disciplina applicabile in tema di prescrizione. Nell’ambito della responsabilità professionale del medico la giurisprudenza delle sezioni semplici ha infatti ritenuto che gravi sull’attore, paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, oltre alla prova del contratto, anche quella dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie, nonché la prova del nesso di causalità fra l’azione o l’omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario, restando di contro a carico del debitore l’onere della prova di aver tenuto un comportamento diligente e che l’esito negativo sia stato determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile (cfr. Cass. n. 12362/2006; n. 9085/2006; n. 22894/2005; n. 10297/2004). In particolare in una recente pronuncia a sezioni unite, relativa ad azione risarcitoria per epatite contratta a seguito di trasfusione di sangue infetto, l’attore aveva provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria ed il danno, ovvero la patologia epatica, ed aveva allegato, quale inadempienza dei convenuti, la trasfusione con sangue infetto. La Suprema Corte ha quindi affermato che competeva ai convenuti provare l’inesistenza dell’inadempimento o quanto meno l’insussistenza del rapporto di causalità fra l’inadempienza ed il danno, ad esempio per la preesistenza dell’affezione ed ha ritenuto che violava tali principi la sentenza di merito, che aveva posto a carico del danneggiato l’onere della prova della preesistente inesistenza della patologia, evidenziando peraltro come gli accertamenti ematici che avrebbero dovuto precedere l’intervento e che andavano diligentemente inseriti nella cartella clinica, non potevano non evidenziare tali dati (Cass. S.U. n. 577/2008). In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale viene quindi delineato il seguente principio: ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto o contatto sociale e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante. Quanto al nesso di causalità, agli inizi del 2000 prevaleva l’orientamento della certezza, che riteneva accertato il rapporto di causalità solo in presenza di una legge scientifica che statisticamente prevedesse che nella totalità o quasi totalità dei casi a quell’antecedente conseguisse quell’esito (Cass. pen., sez. IV, 1/10/1998 n. 1957). Più di recente le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno statuito, in tema di reato omissivo, che non è sufficiente la probabilità statistica per attribuire la causa di un evento ad una determinata condotta, essendo necessario tenere conto di tutte le caratteristiche del caso singolo che possono influenzarne l’esito (cfr. S.U. n. 30328/2002). Tale indirizzo, basato sulla probabilità logica e su soglie elevate di accertamento controfattuale, è stato inizialmente condiviso dalla III Sezione Civile del Supremo Collegio, che ha affermato il principio secondo il quale il giudice deve fare una valutazione globale che possa consentire di arrivare ad un giudizio di elevata credibilità razionale, al di là di ogni ragionevole dubbio, ovvero compiere un giudizio controfattuale per verificare se, da quell’antecedente, in specie la prestazione sanitaria colposa, sia derivato quell’esito, sicché nella causalità omissiva, se l’evento non era comunque evitabile, non si può ricollegare la condotta all’esito negativo che ne è sopravvenuto (cfr. Cass. n.4400/2004). Negli ultimi tempi invece la Suprema Corte è ritornata a valutazioni più probabilistiche del nesso causale in campo civile, ravvisandone la ricorrenza in presenza di “soglie meno elevate di accertamento controfattuale”. In particolare, nella pronuncia n.7997 del 18/4/2005, la III Sezione Civile della Suprema Corte ha statuito che la valutazione del nesso causale “va compiuta secondo criteri a) di probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se non appare praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi scientifiche di copertura”. In sostanza l’accertamento del nesso causale, che indica la relazione oggettiva fra comportamento ed evento, indipendentemente da qualunque giudizio di prevedibilità soggettiva, rilevante ai fini della diversa valutazione della colpa, va compiuto secondo giudizi probabilistici fondati su leggi scientifiche ed, in difetto, sulla logica aristotelica secondo cui è probabile quello che avviene nella maggior parte dei casi. La sufficienza di soglie meno elevate di accertamento controfattuale è stata poi ribadita anche dalla pronuncia n. 11755 del 19/5/2006 della III Sezione Civile. Sull’argomento va richiamata altresì Cass. sez. III, n. 21619/2007, che, con decisa presa di posizione, fondata su articolate e complesse riflessioni, non solo giuridiche, distingue nettamente il nesso causale in ambito civile, ispirato alla regola della normalità causale, ovvero al “più probabile che non”, da quello in ambito penale, ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla certezza. La tematica del nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta omissiva, è stata poi affrontata dalle S.U. con la sentenza n. 576/2008 e le successive n. 581 e 584/2008, nelle quali è stato ribadito che nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”. Si può quindi concludere che l’accertamento del nesso causale in ambito civile va compiuto secondo criteri di probabilità scientifica e dunque, in caso di divergenze, secondo le ipotesi aventi maggiore validità scientifica, ed, ove le stesse non siano esaustive, secondo criteri di probabilità logica, tesa a chiarire se, probabilmente, ovvero secondo quello che accade nella gran parte dei casi, l’evento si sarebbe avverato anche se il comportamento omesso fosse stato posto in essere. Responsabilità del medico, ginecologo, contatto sociale, onere probatorio Cassazione civile , sez. III, sentenza 01.02.2011 n° 2334 La responsabilità del medico in ordine al danno subito dal paziente presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata; tale diligenza non è quella del buon padre di famiglia ma quella del debitore qualificato ai sensi dell'art. 1176, secondo comma cod.civ. che comporta il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obbiettivamente connesse all'esercizio della professione e ricomprende pertanto anche la perizia. La limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all'art. 2236, secondo comma cod.civ. non ricorre con riferimento ai danni causati per negligenza o imperizia ma soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica. Quanto all'onere probatorio, spetta al medico provare che il caso era di particolare difficoltà e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee ovvero a questi spetta provare che l'intervento era di facile esecuzione e al medico che l'insuccesso non è dipeso da suo difetto di diligenza. In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante. Medico e prova della responsabilità. Cassazione Sez III Civile n. 3520/2008 dep 14 febbraio " .....va in questa sede ribadito come sia principio di diritto del tutto consolidato quello secondo cui, positivamente e previamente accertata l'esistenza di un nesso di causalità giuridicamente rilevante (secondo i criteri di recente affermati da questa stessa corte con la sentenza 21619/07) tra la condotta e l'evento di danno, è consentito al giudice il passaggio, logicamente e cronologicamente conseguente, alla valutazione dell'elemento soggettivo dell'illecito, e cioè della sussistenza, o meno, della colpa dell'agente (che, pur in presenza di un comprovato nesso causale, potrebbe essere autonomamente esclusa secondo criteri, storicamente elastici, di prevedibilità ed evitabilità). Orbene, criteri funzionali all'accertamento della colpa medica -­‐ la prova della cui assenza grava, nelle fattispecie di responsabilità contrattuale quale quella di specie, sempre sul professionista/debitore (Cass. ss.uu. 13533/2001, sia pur con riferimento a vicenda processuale diversa dall'inadempimento del medico) -­‐ risultano essere, in astratto, quelli: a) della natura, facile o non facile, dell'intervento del medico; b) del peggioramento o meno delle condizioni del paziente; c) della valutazione del grado di colpa di volta in volta richiesto: lieve, nonché presunta, in presenza di operazione routinarie; grave, sia pur sotto il solo profilo della sola imperizia (Corte cost. 166/1973), se relativa ad interventi che trascendano la ordinaria preparazione media ovvero non risultino sufficientemente studiati o sperimentati, salvo l'ulteriore limite della particolare diligenza e dell'elevato tasso di specializzazione richiesti in tal caso al professionista; d) del corretto adempimento tanto dell'onere di informazione -­‐ con conseguente consenso del paziente -­‐, quanto dei successivi obblighi "di protezione" del paziente stesso attraverso il successivo controllo degli effetti dell'intervento." Diritto alla sessualità. Cassazione , sez. III civile, sentenza 02.02.2007 n° 2311 Quanto al diritto alla sessualità, occorre ricordare l’incipit della Corte Costituzionale (Corte costituzionale 561/87) che lo inquadra tra i diritti inviolabili della persona (articolo 2), come modus vivendi essenziale per io espressione e lo sviluppo della persona. Certamente la perdita della sessualità costituisce anche danno biologico (la cui valutazione nelle tabelle medico legali convenzionali supera normalmente il livello della micropermanente e determina un rilevante ritocco del punteggio finale) consequenziale alla lesione per fatto della circolazione (come è nel caso di specie), ma nessuno ormai nega (v:da ultimo Cassazione, Sezioni Unite 6572/06 e 13546/06) che la perdita o la compromissione anche soltanto psichica della sessualità (come avviene nei casi di stupro e di pedofilia) costituisca di per sé un danno esistenziale, la cui rilevanza deve essere autonomamente apprezzata e valutata equitativamente in termini non patrimoniali e con una congrua stima dell’equivalente economico del debito di valore. (Cfr. Suprema Corte di Cassazione,Sezione prima civile,Sentenza 10 maggio 2005, n. 9801). Danni alla sessualità La Corte di cassazione, ribaltando le precedenti sentenze dei giudici di merito, ha stabilito che anche i danni sessualità vanno risarciti autonomamente: tale danni vanno risarciti in quanto il diritto alla sessualità è stato riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 561/09, che lo ha inquadrato tra i diritti inviolabili della persona (art. 2 cost.) e come modus vivendi essenziale per l'espressione e lo sviluppo della persona. Ancora sui danni alla sessualità Sentenza 19092/2009 Ancora la Cassazione con la sentenza n. 19092/09 ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni per il coniuge non può più avere rapporti sessuali con l'altro a causa di un intervento medico errato Danni al feto e nascituro Col ricovero della gestante l'ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attivita' necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresi' ad effettuare, con la dovuta diligenza e prudenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), si' da garantirne la nascita, evitandogli -­‐ nei limiti consentiti dalla scienza (da valutarsi sotto il profilo della perizia) -­‐ qualsiasi possibile danno. La controparte del contratto rimane sempre la partoriente, o, comunque, colui che lo abbia stipulato, ma il terzo, alla cui tutela tende quell'obbligazione accessoria, non e' piu' il nascituro, bensi' il nato, anche se le prestazioni debbono essere assolte, in parte, anteriormente alla nascita. E' quindi il soggetto che, con la nascita, acquista la capacita' giuridica, che puo' agire per far valere la responsabilita' contrattuale per l'inadempimento delle obbligazioni accessorie cui il contraente sia tenuto in forza del contratto stipulato col genitore o con terzi, a garanzia e protezione di uno suo specifico interesse, anche se le prestazioni debbano essere assolte, in parte, anteriormente alla sua nascita. Ne' puo' obiettarsi -­‐ come si e' fatto -­‐ che il feto e' parte del corpo materno sicche' non potrebbe ipotizzarsene una tutela riflessa. L'affermazione e', anzitutto, destituita di fondamento giuridico, dacche' le norme prima esaminate dimostrano che trattasi, sin dal concepimento, di una entita' distinta, tutelata anche contro gli eventuali attentati che provengano dalla stessa madre (aborto al di fuori delle ipotesi previste). Da quanto si e' detto risulta, soprattutto, che la tutela riflessa non concerne tanto il feto quanto il nato ed il suo diritto ad essere e rimanere integro, anche se attraverso le prestazioni da effettuarsi anteriormente alla nascita. Sentenza della Cassazione Civile n° 11503 del 22/11/93 Sez.III. Obbligo informativo, medico e case di cura. Cass. 3847/11. «Una volta inquadrato, con motivazione infondatamente censurata, il rapporto intercorso tra paziente, medico e casa di cura privata come conseguito ad un contratto trilaterale e correttamente affermato che "la struttura sanitaria aveva l'obbligo di una compiuta informativa del paziente sui rischi di eventuali dimensioni od entità del suo equipaggiamento non idonee a fronteggiare particolari situazioni patologiche o devianti -­‐ sia pure con una qualificabilità di normalità statistica -­‐ dalla norma", la corte d'appello ha più avanti rilevato che "non interessa alla controparte del rapporto negoziale -­‐cioè alla gestante o ai danneggiati per colpa aquiliana quale fosse la struttura interna dell'organizzazione dei danneggianti, attesa la natura delle obbligazioni comunque assunte". La conclusione è corretta in diritto, in quanto l'obbligo informativo circa i limiti di equipaggiamento o di organizzazione della struttura sanitaria grava, in ipotesi siffatte, anche sul medico, convenzionato o non con la casa di cura, dipendente o non della stessa, che abbia concluso con la paziente un contratto di assistenza al parto (o, con qualunque paziente, di tipo comportante la possibilità dell'instaurarsi di situazioni patologiche che non sia agevole fronteggiare) presso la casa di cura in cui era convenuto che ella si sarebbe ricoverata. E ciò non solo per la natura trilaterale del contratto, ma anche in ragione degli obblighi di protezione che, nei confronti della paziente e dei terzi che con la stessa siano in particolari relazioni, come l'altro genitore ed il neonato, derivano da un contratto che abbia ad oggetto tale tipo di prestazioni. Ne consegue che, in caso di violazione dell'obbligazione di informare, ove sia sostenibile che il paziente non si sarebbe avvalso di quella struttura se fosse stato adeguatamente informato (secondo uno schema analogo a quello descritto, in tema di consenso informato, da Cass., n. 2847/10), delle conseguenze derivate dalle carenze organizzative o di equipaggiamento della struttura risponde anche il medico col quale il paziente abbia instaurato un rapporto di natura privatistica». Cassazione 2334/11. Carenze strutturali clinica. Responsabilità della clinica e del medico. Cassazione Civile, Sez. III, sentenza 7 gennaio 2011, n. 257. Cartella clinica. MASSIMA: «L’omessa analisi emocolturale, con la conseguente adozione di medicinali rivelatisi inefficaci, non può essere giustificata sulla base di forzature, quali il carattere improbabile del verificarsi di quel tipo di infezione (che peraltro il medico sarebbe tenuto a ipotizzare, considerata la gravità delle conseguenze che ne possono derivare e la facilità dell’adozione dei mezzi di indagine) ed il generico riferimento all’adozione di un criterio empirico epidemiologico, che non costituisce una cura o diagnosi alternativa, ma sembra consistere nella mera, oggettiva giustificazione del comportamento omissivo. L’incompleta redazione della cartella clinica costituisce di per sé inesatto adempimento per difetto di diligenza (fattispecie relativa ad omessa registrazione dei dati relativi all’evolvere di una ferita episiotomica dalla quale potrebbe aver avuto origine l’infezione che ha reso necessario protesizzare il collo del femore)». Con la sentenza n 10741 della Sez III della Suprema Corte del 11 maggio 2009, vengono affrontate, in linea di continuità con la precedente giurisprudenza di legittimità in materia, una serie di profili inerenti la responsabilità del medico nei confronti del nascituro e dei genitori in relazione ad omesse informazioni, nella specie in relazione alla somministrazione di un farmaco pericoloso (per favorire l'ovulazione) e ritenuto, sulla base delle consulenze esperite in giudizio, causa delle malformazioni del successivamente nato. La Suprema Corte afferma, in primo luogo, che sulla base di una serie di indicazioni normative, tra le quali merita in particolare specifica sottolineatura la Legge n 40/2004, il nascituro è da intendersi come dotato di soggettività giuridica anche prima della nascita configurandosi quest'ultima come condizione sospensiva di efficacia delle situazioni giuridiche ad esso riferibili (la Suprema Corte coglie ulteriori espressioni normative della soggettività giuridica del nascituro le norme codicistiche in materia di successione mortis causa ove si prevede che il nascituro concepito possa succedere sia per testamento che ab intestato e che il nascituro non concepito possa succedere per testamento se figlio di persona vivente al momento dell'apertura della successione). In secondo luogo ha affermato che, con riferimento ai danni indotti da un'omessa informativa, da un'omessa diagnosi o da una cattiva diagnosi medica nei confronti dei genitori, la tutela risarcitoria deve riconoscersi anche al concepito che, al contrario, non può vantare un diritto a non nascere se non sano. La linea argomentativa seguita dalla Suprema Corte pone la responsabilità del medico ed il diritto al risarcimento del concepito come connessi e consequenziali all'omessa informativa del medico. Ed allora dubbia appare la soluzione del caso diverso in cui i genitori siano stati adeguatamente informati dei rischi dell'assunzione di un determinato farmaco e cinonostante si siano determinati per l'assunzione del medesimo cagionando danni al nascituro. Cassazione Civile Sez. III del 11 maggio 2009 n. 10741 Nel caso in cui ad una gestante siano stati somministrati senza adeguata informazione farmaci che abbiano provocato malformazioni al concepito, la violazione dell'obbligo d'informazione da parte dei sanitari dà luogo al risarcimento del danno in favore sia della gestante-­‐madre che del concepito, una volta che quest'ultimo sia venuto ad esistenza, ma solo in relazione all'inosservanza del principio del c.d. consenso informato, non potendo invece ravvisarsi a carico dei sanitari una responsabilità nei confronti del concepito perché la madre non è stata posta in condizione di esercitare il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza, non essendo configurabile nel nostro ordinamento un diritto "a non nascere se non sano", in quanto le norme che disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono nei soli casi in cui la prosecuzione della stessa o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei danni. Il nascituro ha il diritto a nascer sano, in virtù, in particolare, degli art. 2 e 32 cost. (nonché dell'art. 3 della Dichiarazione di Diritti fondamentali dell'Unione europea che esplicitamente prevede il diritto di ogni individuo all'integrità psico-­‐fisica). Per tale motivo, sia la mancata informazione, sia la prescrizione di un farmaco ritenuto teratogeno devono essere ritenute dai giudici come fonti autonomi di responsabilità nei confronti del nascituro, per la violazione dell'obbligo di non prescrivere farmaci potenzialmente lesivi del bene salute. Il nascituro è terzo protetto dal contratto stipulato dalla madre con il sanitario e con la struttura sanitaria. Gli va riconosciuta, pertanto, legittimazione risarcitoria per i danni derivanti dalla somministrazione di farmaci dannosi per la sua salute. La soggettività giuridica che, sulla scorta di una pluralità di fonti e della c.d. giurisprudenza normativa, non può essergli negata, gli consente, infatti, di essere titolare del diritto alla vita, alla salute, all'onore, alla reputazione ed all'identità personale. Ritenuto che il nostro ordinamento privatistico tradizionale non costituisce più l'unica fonte di riferimento per l'interprete a seguito della concreta attuazione dei cc.dd. principi di decodificazione e di depatrimonializzazione; ritenute, ormai, la sussistenza e la rilevanza di una pluralità di fonti, nazionali, comunitarie ed internazionali; ritenuta la vigenza del cogente ed irriducibile principio di centralità della persona umana, portatrice non solo di interessi patrimoniali, ma anche di inviolabili interessi squisitamente personali; ritenuta la funzione nomofilattica della cd. giurisprudenza normativa, specie dei giudici di legittimità quale autonoma fonte del diritto; ritenuto che il concepito nascituro è, già in quanto tale, soggetto giuridico titolare dei diritti personali fondamentali, primo tra i quali il diritto alla salute, pur se azionabili, anche ai fini risarcitorii, dopo il verificarsi dell'evento (nascita) di cui all'art. 1 c.c.; ritenuto quanto precede, i sanitari che abbiano, ai fini dell'ovulazione, del concepimento e della gravidanza, somministrato ad una donna, anche dopo l'insorgere di una gravidanza, senza averne chiesto il consenso informato, un farmaco dalle notorie proprietà effettuali teratologiche, devono in via solidale -­‐ qualora il feto sia venuto alla luce con gravissime, permanenti, irreversibili infermità fisiopsichiche -­‐ alla donna, al padre del minore ed al minore stesso, terzo destinatario diretto dell'attività tecnica, assolutamente negligente, spiegata dai medici curanti, un risarcimento, dovendosi, altresì, escludere, nel nostro ordinamento, il cd. aborto eugenetico.