100 anni fa il genocidio degli armeni. la storia

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100 anni fa il genocidio degli armeni. la storia
100 ANNI FA IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI. LA STORIA STAORDINARIA DI
ARMIN WEGNER, GIUSTO TRA I GIUSTI
Esattamente 100 anni fa, nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915,
l'organizzazione nazional-laicista dei Giovani Turchi (a forti infiltrazioni
massoniche) perpetrò sugli armeni cristiani, nonché su siri, assiri, caldei e
greci cristiani presenti nei territori dell'impero ottomano (in quel mondo
sostanzialmente "congelato"), un genocidio di proporzioni immani. Costò la
vita ad almeno 1 milione e mezzo di armeni, a cui si aggiunsero altre
migliaia di vittime appartenenti alle altre minoranze etniche cristiane. Papa
Francesco lo ha definito, con perfezione giuridica e storica, il «primo
genicidio del secolo XX», e la Turchia se n'à data grande scandalo: la
Turchia moderna, infatti, tutt'altro che avviata alla laicità, tanto meno al
laicismo, affonda le radici proprio in quegli anni e in quella tragedia. Di
essa, il l'ufficiale medico tedesco di stanza in Anatolia Armin T. Wegner fu
testimone diretto e indignato, documentatore d'eccezione attraverso
fotografie oramai famosissime e un Giusto tra i Giusti perché fece tutto
quanto fu in suo potere per fermare la mattanza e sensibilizzare il mondo.
Le straordinarie fotografie che testimoniano quell'ecatombe sono raccolte
nel bel volume Armin T. Wegner e gli armeni in Anatolia, 1915.
Immagini e testimonianze, edito da Guerini. (Red.).
di Rodolfo Casadei
A Erevan, sulla Collina delle Rondini dove sorgono il monumento e il museo che ricordano e documentano il genocidio subìto dagli armeni nel
1915 per mano del governo dei Giovani Turchi, si trovano anche un Muro della Memoria e un Giardino dei Giusti. Il primo contiene le ceneri o la
terra tombale, il secondo alberi e targhe commemorative dei non armeni che hanno aiutato gli armeni prima, durante e dopo il genocidio. Che
hanno cercato di salvarli dalla morte o hanno cercato di far valere i loro diritti, o semplicemente di far sapere al mondo la verità intorno alla
loro morte. Il modello è quello dello Yad Vashem di Gerusalemme, il museo dell’Olocausto ebraico che sin dagli anni Sessanta si è dotato di un
Giardino dei Giusti dove a ogni non ebreo che aveva salvato vite ebree durante la Seconda Guerra mondiale sono intestate una pianta e una
targa col proprio nome. Poi, quando l’affollamento degli alberi sulla collina ha reso impossibili nuove piantumazioni, la funzione di ricordare i
salvatori è stata demandata al Muro dell’Onore dove sono incisi i nomi di circa 24 mila Giusti. Quelli del Muro della Memoria a Erevan sono, per
ora, solo 17. Ma c’è un nome – uno solo – che si trova in entrambi i luoghi: quello di Armin Theophil Wegner, militare paramedico, scrittore e
attivista dei diritti umani tedesco. Nato in Westfalia e morto nel 1978 a Roma, dopo aver vissuto per quarant’anni in Italia.
Sembra incredibile, ma è la verità: c’è stato un uomo che ha visto coi suoi occhi il genocidio degli armeni cento anni fa e ha cercato di allertare
il mondo per porre fine a quell’orrore; lo stesso uomo meno di venti anni dopo ha lucidamente intuito che la stessa tragedia stava per ripetersi
ai danni di un’altra minoranza, quella degli ebrei, e si è rivolto direttamente al genocida in potenza per scongiurare il crimine. In entrambi i casi
ha messo a repentaglio la sua vita per cercare di salvare altri esseri umani, in entrambi i casi ha fallito nel suo intento. Ma ha reso
testimonianza alla grandezza morale dell’uomo e al senso della giustizia che non muore mai nel suo cuore, anche quando le maggioranze
tacciono per indifferenza o per paura o si rendono complici.
«So che il mio è alto tradimento»
Armin Wegner è colui che ci ha lasciato il maggior numero di testimonianze visive del genocidio armeno, con decine di drammatiche foto in
bianco e nero realizzate in condizioni proibitive e trasportate in Europa in modo rocambolesco; e allo stesso tempo è l’unico tedesco che ha
osato scrivere una lettera aperta al Führer all’indomani della vittoria del partito nazista alle elezioni del 1933, scongiurandolo di rinunciare alla
persecuzione contro gli ebrei. Pagò il suo coraggio con la prigione e la tortura, quindi con l’esilio volontario. Sulla sua tomba a Positano c’è la
stessa scritta che papa Gregorio VII volle sulla sua: «Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità: perciò muoio in esilio».
L’inquieto Wegner giunge in Anatolia al seguito dei servizi sanitari militari nell’aprile 1915. Si è già guadagnato la Croce di Ferro sul fronte
polacco per l’abnegazione con cui soccorreva i feriti in pieno combattimento. Durante i permessi esce alla ricerca di notizie sui massacri di
armeni di cui si vocifera. Viene assegnato al seguito del feldmaresciallo Von der Goltz, insieme al quale attraverserà Anatolia, Mesopotamia e
Siria fra l’autunno del 1915 e il maggio del 1916. Il suo tragitto coincide con la via crucis degli armeni, deportati verso la morte. Raccoglie e
scrive lettere, appelli agli ambasciatori, e soprattutto scatta fotografie con le ingombranti macchine di allora. Riuscirà a trafugare le lastre in
Europa. «Negli ultimi tempi ho scattato molte fotografie», scrive. «Mi hanno raccontato che Djemal Pascià, il carnefice siriano, ha proibito, pena
la morte, di scattare fotografie nei campi profughi. Io conservo le immagini di terrore e di accusa legate sotto la mia cintura. Nei campi di
Meskenè e di Aleppo ho raccolto molte lettere di supplica che tengo nascoste nel mio zaino in attesa di consegnarle all’ambasciata americana
a Costantinopoli. Io so di commettere in questo modo un atto di alto tradimento, e tuttavia la consapevolezza di aver contribuito per una
piccola parte ad aiutare questi poveretti, mi riempie di gioia più di qualsiasi altra cosa io abbia fatto».
Quell’ingiustizia mai vista prima
Una sua lettera viene intercettata e lui è arrestato dai tedeschi su richiesta del comando turco. Viene confinato nel ricovero degli ammalati di
colera a Baghdad, esposto al contagio. Si ammala invece di tifo, e nel dicembre 1916 rientra in Germania. Comincia la sua crociata per gli
armeni, pubblica La via senza ritorno. Un martirio in lettere, organizza mostre delle sue foto, tiene conferenze a Berlino, Vienna, Lipsia. Nel
1919 scrive un famoso articolo-appello indirizzato al presidente americano Harold Wilson, affinché sia concesso uno stato agli armeni. Lì
descrive in modo toccante quello che ha visto coi suoi occhi quattro anni prima: «A nessun popolo della Terra è mai toccata un’ingiustizia quale
quella toccata agli armeni. Quando il governo turco nella primavera del 1915 passò all’esecuzione del suo inconcepibile piano di sterminio ed
eliminazione di due milioni di armeni dalla faccia della Terra, le mani dei loro fratelli europei di Francia, Inghilterra e Germania erano bagnate
dal sangue che essi avevano versato a fiumi, e nessuno aveva impedito ai truci dittatori della Turchia di portare a termine le loro atroci torture
(…). Così hanno cacciato un popolo intero, uomini, donne, vecchi, bambini, madri in attesa, lattanti, nel deserto arabico con l’unico obiettivo di
farli morire di fame. I loro uomini sono stati massacrati in massa, gettati nei fiumi incatenati e legati gli uni agli altri con corde e catene, fatti
rotolare giù dalle montagne con le membra legate, le loro donne e i bambini venduti sui pubblici mercati, vecchi e ragazzi spinti a bastonate
mortali sulle strade ai lavori forzati. Non contenti di essersi così sporcate le mani per sempre con questi delitti, si continuò a dare la caccia a
questo popolo, privato dei suoi capi e dei suoi portavoce, cacciandolo dalle città a ogni ora del giorno e della notte. Gli armeni furono strappati
mezzi nudi dai letti, i villaggi furono bruciati, le case saccheggiate, le chiese distrutte o trasformate in moschee, il bestiame rubato; si tolse loro
l’asino e il carro, si strappò il pane dalle mani, i bambini dalle braccia, l’oro dai capelli e dalla bocca».
«Funzionari, ufficiali, soldati e pastori, gareggiando nel loro selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori dalle scuole ragazze orfane per il
loro bestiale piacere, picchiavano con randelli donne incinte o morenti fino a che cadevano sulla strada e morivano e la polvere sotto di loro si
trasformava in melma sanguinolenta. Viaggiatori che percorrevano quelle strade distoglievano gli occhi terrorizzati da queste colonne di
deportati sottoposti a diaboliche atrocità, per poi trovare, nelle locande dove alloggiavano, neonati nel letame dei cortili e vie ricoperte di mani
mozzate di ragazzi che avevano osato alzarle implorando pietà dai loro aguzzini». «Morirono tutte le morti della terra, le morti di tutti i secoli.
Ho visto persone impazzite che mangiavano i propri escrementi, donne che cuocevano il corpo dei loro bambini appena nati, ragazze che
sezionavano il corpo ancora caldo delle loro madri per cercare nell’intestino dei morti l’oro ingoiato per timore dei rapaci gendarmi. Molti
giacevano in caravanserragli diroccati in mezzo a mucchi di cadaveri semiputrefatti, indifferenti e aspettavano la morte».
Una lettera di fuoco al Führer
Gli armeni non ebbero una patria, ma Wegner continuò a perorare la loro causa e quella della pace in Europa. Nel 1927 visitò l’Unione Sovietica
su invito delle autorità comuniste. Ne nacque il libro Cinque dita su di voi, che denunciava le storture del modello sovietico. Tuttavia in
Germania fu accusato di bolscevismo. L’11 aprile 1933, poco più di un mese dopo la schiacciante vittoria elettorale del partito
nazionalsocialista (43,9 per cento dei voti) e due settimane dopo il bando delle attività commerciali degli ebrei, Wegner consegna nelle mani di
Martin Bormann, segretario di Hitler, una lettera aperta per il Führer che nessun giornale avrebbe osato pubblicare. Scrive: «Nelle loro
migrazioni di secoli, cacciati dalla Spagna, rifiutati dalla Francia, la Germania da un millennio ha offerto ospitalità a questo grande infelice
popolo. (…) La Germania, una Germania smembrata che lottava in mezzo a molti nemici, ubbidì alla dottrina della sua libertà quando offrì
rifugio al perseguitato. Ed ora, ciò che è stato fatto in un millennio deve essere annullato per sempre?». «Abbiamo accettato in guerra il
sacrificio di sangue di dodicimila ebrei, e ora possiamo – se abbiamo un minimo di equità nel cuore – togliere ai loro genitori, figli, fratelli,
nipoti, alle loro donne e sorelle ciò che si sono meritati nel corso di generazioni, il diritto a una patria e a un focolare? Quale sventura è questa
per coloro che hanno amato più di se stessi il Paese che li ha accolti! Signor Cancelliere del Reich, non si tratta solo del destino dei nostri
fratelli ebrei. Si tratta del destino della Germania! In nome del popolo per il quale ho il diritto non meno che il dovere di parlare, così come
qualsiasi altro che viene dal suo sangue, come tedesco a cui non è stato dato il dono della parola per rendersi complice col silenzio quando il
suo cuore freme di sdegno, mi rivolgo a Lei: Fermate tutto questo! (…) La vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà sulla Germania
non saranno dimenticate per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli ebrei se non su noi
stessi?». «Io contesto questa folle credenza che tutto il male del mondo provenga dagli ebrei, la contesto con il diritto, con le dimostrazioni, con
la voce dei secoli e se io ora indirizzo a Lei queste parole ciò avviene perché non mi riesce di essere ascoltato per nessun’altra via. Non come
amico degli ebrei ma come amico dei tedeschi».
La lettera ovviamente non ebbe risposta. Ma poco tempo dopo Wegner viene arrestato dalla Polizia Segreta di Stato a Berlino, trascinato in un
sotterraneo, gettato imbavagliato su un tavolo e frustato fino a perdere i sensi. Quindi passa di prigione in prigione, finché è rilasciato nella
primavera del 1934. Lascia la Germania per l’Inghilterra e due anni dopo lo ritroviamo in Italia. Conosce e sposa quella che sarà la sua seconda
moglie, l’artista Irene Kowaliska. Dalla prima, la scrittrice Leonore Landau, aveva divorziato nel 1939. Entrambe sono ebree tedesche. Nel 1965,
in occasione del cinquantenario del genocidio, Wegner torna a occuparsi degli armeni. Scrive un saggio che sarà pubblicato negli Stati Uniti e in
Europa, e la stampa riscopre la sua documentazione fotografica. Viene riscoperta anche la sua lettera a Hitler. Così nel 1967 è insignito del
titolo di Giusto delle Nazioni dallo Yad Vashem (che si reca a visitare, e dove pianta un albero nel Giardino dei Giusti) e l’anno dopo dell’Ordine
di San Gregorio a Erevan, dove gli viene anche intitolata una strada.
La croce di padre Arslan
Nel 1996, diciotto anni dopo la morte, le sue ceneri sono tumulate nel Muro della Memoria del memoriale della Collina delle Rondini. Poco
prima aveva preso a circolare per l’Italia una mostra itinerante delle sue foto, a cura dell’armeno milanese Pietro Kuciukian. Ultimamente è
stata esposta a Torino a cura dell’associazione di volontariato As.So. Fra le foto in bianco e nero degli armeni condotti alla morte e i pannelli coi
testi delle lettere di Wegner si leggono passi commoventi: «Nella tenda di padre Arslan mi faccio raccontare le sue sofferenze. Delle 800
famiglie con le quali fuggì e delle migliaia di persone che ha dovuto seppellire nel deserto, fra le quali 23 preti e 1 vescovo. “Tu sei ancora un
tedesco”, mi dice. “Sei un alleato dei Turchi, dunque siete stati anche voi a volerlo!”. Io abbasso gli occhi. Come posso rispondere alle sue
accuse? Da una tasca il prete prende la sua croce di Cristo, avvolta in stracci e la ricopre con baci appassionati, mentre io, preso dalla
commozione, non posso trattenermi dal portarla alle labbra, quella croce che è testimone di tante sofferenze e di tanti dolori umani».
da «Tempi»