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Gianluca Schiavo
DAL SIGNOR MAESTRO
AL PROF IN CRISI
L’insegnante di scuola attraverso
la letteratura italiana contemporanea
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione
7
I. Il sessantennio liberale
I.1. La scuola nel periodo postunitario
I.2 Il maestro come “missionario” dell’educazione
I.3 Uno strumento di riscatto sociale
I.4 La situazione reale delle scuole italiane è però ben diversa
I.5 La maestra di scuola fra emancipazione e discriminazione
I.6 La “scuola come la si vorrebbe” e la “scuola come è
nella realtà”
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29
32
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II. Il ventennio fascista
II.1 Una involuzione conservatrice
II.2 La figura letteraria dell’insegnante in età fascista,
tra idealizzazione e denigrazione
II.3 L’insegnante durante il governo fascista:
una rappresentazione retrospettiva
II.4 Insegnante disadattato
59
59
III. L’insegnante nella seconda metà del Novecento
III.1 La scuola nella nuova Italia democratica
III.2 Figure esemplari
III.3 Il rapporto umano con gli allievi
III.4 L’inizio della crisi
III.5 Il Sessantotto
III.6 La crisi di fine Novecento
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IV. L’inizio del nuovo secolo
IV.1 Un grande bisogno di autorappresentazione
IV.2 Frustrazione e disinteresse
IV.3 Impreparazione e scarse capacità didattiche
IV.4 L’immagine sociale dell’insegnante
IV.5 Il rapporto con gli studenti
IV.6 Il piacere di insegnare
IV.7 Nonostante tutti i gravi problemi, ne vale comunque la pena
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Bibliografia
Opere narrative e testi autobiografici
Saggistica
171
171
173
Introduzione
Questo libro è il frutto di una ricerca iniziata nel 2010 quando, per
diletto più che per lavoro, lessi alcuni libri a sfondo autobiografico,
scritti negli anni precedenti e in cui dei colleghi avevano rappresentato
la categoria professionale di cui all’epoca anche io, con grande piacere,
facevo parte, ossia quella degli insegnanti di scuola. Apprezzando il
loro contenuto, non solo interessante ma anche gradevolmente ironico, raccolsi qualche ulteriore notizia sui libri di letteratura scolastica
che erano stati pubblicati negli ultimi anni, e mi resi conto di tre dati
molto evidenti che stimolarono la mia curiosità intellettuale. Il primo
era rappresentato dal fatto che, tra la fine del XX e l’inizio del XXI
secolo, si era verificata una vera moltiplicazione esponenziale di testi
narrativi in cui era rappresentata la figura dell’insegnante. La scuola era
sempre stata un soggetto di primaria importanza nella letteratura italiana, a partire da De Amicis e Collodi a fine Ottocento, ma mai era stato
pubblicato un numero tanto elevato di opere in un lasso di tempo così
relativamente breve come è accaduto nei venticinque anni che hanno
preceduto la nostra indagine.
In secondo luogo notai come, nella narrativa di argomento scolastico più recente, nella quasi totalità dei casi gli autori erano dei colleghi
che avevano dunque sentito il bisogno di rappresentare l’ambiente di
lavoro in cui da molti anni si muovevano. Questo tratto è meno scontato
di quanto si potrebbe credere: sia nella letteratura sulla scuola risalente
ai decenni precedenti sia anche nei libri in cui sono descritte altre realtà
professionali (magistrati, poliziotti, medici, militari etc.) la percentuale
di addetti ai lavori che si sono cimentati nella scrittura è decisamente
più bassa.
7
Il terzo e ultimo tratto che richiamò la mia attenzione era il fatto che
la maggior parte delle pagine che avevo davanti raffiguravano la realtà
dell’istruzione pubblica in termini piuttosto critici: scuole incapaci di
dare ai ragazzi una formazione ricca e soddisfacente, insegnanti demotivati, impreparati e anche piuttosto disprezzati dalla comunità in cui vivevano. Anche quest’ultimo carattere era piuttosto peculiare e non trovava corrispondenza nella rappresentazione letteraria di altri ambienti
lavorativi, in cui la tendenza alla raffigurazione critica era certamente
meno generalizzata.
Stimolato da tutto ciò, decisi di iniziare a studiare in maniera più
profonda e metodica la narrativa sulla scuola prodotta nei primi anni del
nuovo millennio. Il frutto di tale prima fase della mia ricerca è rappresentato dall’articolo del 2011 La scuola italiana vista dagli insegnanti,
pubblicato nel n. 38 della rivista «Filologia antica e moderna» e che
ripropongo, in versione riveduta e ampliata, nel quarto capitolo di questo volume.
Le caratteristiche delle opere più recenti erano molto diverse da
quelle che ricordavo di aver trovato in alcuni romanzi e racconti che
avevo avuto modo di leggere negli anni precedenti e che erano stati
pubblicati a fine Ottocento e nella prima parte del Novecento, in cui
quella dell’insegnante era una figura autorevole e rispettata, caratterizzata da una grande passione per lo studio e per la propria missione
educativa. Attraverso quali passaggi e stadi intermedi era stato possibile
passare dalla “maestrina dalla penna rossa” di De Amicis all’insegnante
di matematica citata da Margherita Oggero che sembrava aver preso
una laurea “con i punti Kinder”? Passare dai maestri citati da Giovanni
Mosca negli anni Trenta, innamorati del proprio lavoro e i cui allievi
ricambiavano con calore l’affetto ricevuto, al professor Turrisi descritto
da Scurati, che ripeteva con orgoglio “di non aver mai letto un libro in
vita sua (tolti i libri di testo ai tempi dell’università, s’intende)”?
Proprio per far luce su ciò ho progressivamente ampliato la ricerca,
fino a prendere in esame molti dei testi più rilevanti che, dall’unificazione nazionale ad oggi, hanno rappresentato la figura dell’insegnante. In
questo volume, che è il risultato di tale studio, ripercorreremo dunque
centocinquanta anni di letteratura sulla scuola, soffermandoci soprattutto su romanzi e racconti ma dando ampio spazio anche alle testimo8
nianze autobiografiche dei professori-scrittori, non appartenenti dunque
al genere narrativo in senso stretto. Anche con l’aiuto di alcuni saggi
che hanno ricostruito le vicende della pubblica istruzione italiana sotto
il profilo storico, sociologico e pedagogico, cercheremo di individuare
le principali ragioni che hanno determinato nel corso del tempo una
progressiva e inarrestabile decadenza dell’immagine dell’insegnante,
nella percezione sociale e di conseguenza nelle opere letterarie che in
tale contesto hanno visto la luce.
Ci renderemo gradualmente conto di come il periodo “chiave” in
tal senso sia rappresentato dai decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Nel terzo quarto del Novecento innanzitutto cessa
di essere attribuita al corpo docente quella grande funzione di formazione civile e politica della gioventù che, con contenuti e scopi molto
diversi, gli era stata affidata sia nel periodo liberale (formazione di una
coscienza nazionale) che in quello fascista (indottrinamento delle giovani generazioni). Negli anni del dopoguerra inizia anche a svilupparsi
un sistema capitalistico sempre più avanzato, che stravolge i parametri
attraverso cui in precedenza era stata giudicata l’autorevolezza sociale della varie categorie professionali, travolgendo inevitabilmente chi,
come gli insegnanti, su un piano economico non è certamente molto
competitivo. Infine c’è la contestazione studentesca del Sessantotto,
che vede ampia parte del mondo giovanile ribellarsi contro quei professori che sono visti sempre più come rappresentanti di un sistema
autoritario da scardinare.
Tutto ciò ha fatto crollare quel prestigio che per molto tempo aveva
avvolto l’istituzione scolastica, l’ha resa un fattore sempre meno essenziale per lo sviluppo e la crescita della nazione, producendo in molti
docenti un malessere che alcuni di essi hanno espresso nelle pagine dei
propri libri. Queste ultime sono dunque spesso una denuncia dei mali
che affliggono il sistema educativo del Paese, ma anche ipso facto un
contributo alla loro soluzione.
febbraio 2013
G.S.
9
I. Il sessantennio liberale
I.1. La scuola nel periodo postunitario
La nascita dello Stato nazionale unitario avvenne un anno e mezzo
dopo che il Parlamento del regno di Sardegna aveva approvato un progetto di riorganizzazione generale della pubblica istruzione, presentato
dal ministro Gabrio Casati. I primi governi postunitari ebbero dunque il
compito di applicare ed estendere all’intero territorio italiano le norme
che esso, nei suoi 380 articoli, aveva stabilito. La cosiddetta “legge
Casati”, varata il 13 novembre 1859, pur riformata più volte nei decenni successivi, rimase in vigore fino al 1923, quando il nuovo governo,
presieduto da Benito Mussolini, ristrutturò il sistema educativo italiano
attraverso una legge che portava il nome del filosofo Giovanni Gentile, titolare del ministero della pubblica istruzione e che ne era stato il
promotore.
Uno degli assi portanti della legge Casati era la distinzione molto
netta tra un percorso di formazione secondaria di tipo umanistico, che
prevedeva studi ginnasiali e liceali e di cui l’università era lo sbocco
naturale, e un percorso di tipo tecnico, alla fine del quale erano previste forti restrizioni per l’accesso alle facoltà universitarie. Quest’ultimo
era infatti previsto solo per i diplomati dell’indirizzo fisico-matematico
degli istituti tecnici ed era limitato alle sole facoltà di tipo scientifico.
Di fatto la “biforcazione” dell’educazione secondaria comportava una
selezione sociale piuttosto rigida: gli studenti che provenivano dai ceti
meno abbienti (piccola borghesia e classi popolari) erano destinati soprattutto alla formazione tecnica, che avrebbe consentito loro un’immissione diretta nei vari rami del mondo del lavoro. Il primo percorso
11
veniva invece prevalentemente scelto dagli appartenenti ai ceti più elevati e si configurava pertanto come una vera fucina della futura classe
dirigente del Paese.
L’altro cardine del provvedimento era rappresentato dall’introduzione di un ciclo primario quadriennale, comune a tutti gli studenti e il cui
primo biennio era gratuito ed obbligatorio. La gestione dell’istruzione elementare era demandata ai singoli comuni che, se di dimensioni
molto ridotte, avrebbero potuto anche prevedere un percorso abbreviato
di tipo biennale. L’obbligatorietà dell’“imparare a leggere e scrivere”,
passaggio obbligato per combattere l’enorme analfabetismo del Paese, rimase però per molti anni poco applicata per molteplici concause,
dall’assenza di misure coercitive alla scarsità di risorse di cui i comuni
disponevano per finanziare le proprie scuole, fino a giungere alla riluttanza di molte famiglie, appartenenti ai ceti più umili, a mandare i
propri figli in scuole che, ancorché gratuite, impedivano però loro di
lavorare e di contribuire così al mantenimento della famiglia stessa.
Quando la Sinistra storica giunse al potere nel 1876, il governo Depretis iniziò a lavorare a una riforma della scuola elementare che rendesse la lotta all’analfabetismo più incisiva. Il progetto culminò, nel
1877, nell’approvazione della cosiddetta “legge Coppino” (dal nome
del ministro dell’istruzione, il piemontese Michele Coppino), che rese
quinquennale l’educazione primaria, estese l’obbligo di frequenza anche al terzo anno e introdusse sanzioni per le famiglie inadempienti.
L’obbligo scolastico sarà ulteriormente innalzato nel 1904 dal secondo
governo Giolitti, che lo estenderà all’intero quinquennio1.
Per la formazione dei maestri della nuova scuola elementare la legge
Casati aveva previsto l’apertura di scuole normali triennali, destinate a
studenti in età adolescenziale e che, nelle intenzioni dei dirigenti del
ministero, avrebbero dovuto gradualmente risolvere la piaga dell’impreparazione degli insegnanti elementari che, soprattutto al sud e nelle zone rurali, era un problema di notevole gravità. Nell’ambito della
struttura bipartita della scuola secondaria che la legge prevedeva, le
1
I contenuti delle leggi in materia di pubblica istruzione approvate nei decenni
successivi all’Unità d’Italia, da noi trattati in maniera inevitabilmente sintetica, sono
esaminati in modo dettagliato da Anna Laura Fadiga Zanatta nel suo Il sistema scolastico italiano, Bologna: Il Mulino, 1971.
12
scuole normali affiancavano gli istituti tecnici come secondo indirizzo
del percorso di istruzione tecnico-professionale.
La creazione di una scuola elementare di massa in concomitanza
(non casuale) con la nascita dello Stato unitario, fece sì che essa finisse
inevitabilmente per rivestire un ruolo centrale nella difficile opera di
nation building con cui i governi di fine Ottocento e inizio Novecento
dovettero misurarsi. Per molti secoli la penisola italiana era stata profondamente disunita e frammentata su un piano politico e culturale. Una
delle più grandi imprese in cui i governi italiani dovevano cimentarsi era
dunque, come ovvio, quella di portare gradualmente alcune decine di
milioni di persone a sentirsi parte di una stessa nazione e a conoscerne la
lingua2. In tale contesto la scuola primaria, proprio perché (teoricamente) frequentata da tutti, divenne uno dei principali strumenti di cui ci si
servì per fare degli abitanti della penisola una vera nazione italiana.
Questi concetti tornavano ovviamente più volte nei discorsi e negli
scritti a cui in quegli anni gli uomini di governo e gli intellettuali a
loro vicini affidavano il proprio pensiero. Se però leggiamo con cura
la circolare diramata dal ministro Coppino il 7 febbraio 1886 e avente come oggetto proprio la funzione che la scuola elementare avrebbe
dovuto svolgere in quella delicata fase della storia nazionale, notiamo
che tale missione, dal punto di vista dello statista piemontese, era ben
più ampia:
Non bisogna dimenticare che la scuola primaria intende formare una
popolazione, per quanto sia possibile, istruita, ma principalmente
onesta, operosa, utile alla famiglia e devota alla patria ed al Re.
È quindi necessario che i maestri si studino non solo di diventare
esperti nei migliori metodi d’insegnamento, ma ancora atti a rendere
la scuola apportatrice di beni morali3.
2
Il primo censimento della popolazione italiana, svolto nel 1861 e ovviamente
relativo alle sole regioni che all’epoca facevano parte del Regno, registrò la presenza
di circa 22 milioni di persone, il 78% dei quali analfabeti. Secondo Tullio De Mauro
(Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari: Laterza, 1963, p. 43) solo il 2,5% di
essi era in grado di esprimersi in lingua italiana.
3 Citato da G. Vigo, “Gli Italiani alla conquista dell’alfabeto”, in S. Soldani, G. Turi
(a cura di), Fare gli Italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna: Il
Mulino, 1993, p. 60.
13
Quanto poi alla possibilità che l’istruzione generasse un desiderio
di riscatto negli alunni di condizione sociale più umile, Coppino aggiungeva: «consideriamo bene che dalla scuola primaria i figliuoli del
popolo debbano ritrarre conoscenza e attitudini utili alla vita reale delle
famiglie e de’ luoghi, e conforto a rimanere nella condizione sortita
dalla natura, anziché incentivo ad abbandonarla»4.
Non si trattava dunque solo di educare i più giovani a sentirsi italiani, ma anche di far radicare in loro l’accettazione degli aspetti principali
dell’ordine politico (“devota alla patria ed al Re”) e sociale (“condizione sortita dalla natura”) del Paese, nonché di principi morali che, essendo essi cosa profondamente soggettiva, erano presumibilmente quelli
che le classi dominanti consideravano tali. In altri termini si trattava di
attribuire alla scuola una funzione di divulgazione di quei principi che
erano considerati essenziali dalle forze liberali e dai loro soggetti sociali di riferimento, ossia i ceti più abbienti.
I.2
Il maestro come “missionario” dell’educazione
La letteratura dei primi decenni successivi all’unificazione del Paese
sembra risentire fortemente della centralità che la scuola, soprattutto
primaria, andava gradualmente assumendo nella vita pubblica italiana.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento infatti la scuola e
i suoi insegnanti sono rappresentati in un numero crescente di opere,
molte delle quali mettono al centro dell’attenzione proprio la scuola
primaria e dunque la figura del maestro. Per molto tempo gli istituti di
educazione secondaria rivestiranno un ruolo non centrale nella rappresentazione letteraria del mondo dell’istruzione. Alcuni degli autori sembrano anche piuttosto sensibili alla necessità, da Coppino efficacemente
evidenziata, di fare della scuola uno strumento di diffusione dei principi
su cui, a loro avviso, l’Italia unita e liberale dovrebbe fondarsi.
Tale tendenza è molto marcata soprattutto nella narrativa per l’infanzia di fine Ottocento, per la quale i fanciulli sono dunque non solo
i protagonisti di quella vita scolastica che le opere rappresentano, ma
4
14
Ibidem.
anche e soprattutto i lettori di esse, coloro a cui i testi sono destinati. I
primi libri che vedono la luce non eccellono per qualità letterarie, ma
sono comunque degni di menzione sia per aver inaugurato un filone che
avrà grande successo negli anni sucessivi sia anche per l’influenza che
indubbiamente esercitano su scrittori di ben altro talento.
Nel 1870 il comune di Torino bandì un concorso per libri di narrativa per l’infanzia che riuscissero a “spargere ne’ cuori della gioventù
semi di urbanità e di rettitudine”5. Per il testo vincitore era prevista la
pubblicazione per i tipi di Paravia e la distribuzione agli allievi più meritevoli delle scuole cittadine. Ad aggiudicarsi la competizione fu Enrichetto, ossia il Galateo del fanciullo, scritto dall’insegnante Costantino
Rodella e strutturato sotto forma di diario di un alunno. Nelle pagine del
libro, di qualità piuttosto modesta, ha ampio spazio l’immagine della
scuola come luogo di formazione globale del cittadino di domani, al
quale, insieme ai contenuti della varie materie, sono anche e soprattutto
insegnati la rettitudine morale e l’amor di patria. Ai giovani è anche
trasmesso un profondo amore e rispetto verso la figura del maestro che,
in quanto educatore, è depositario di quei valori e lascerà un’impronta
indelebile sulla loro vita futura. Lo stesso amore e rispetto che, secondo
gli insegnamenti impartiti loro, devono essere nutriti per i genitori e,
immancabilmente, per le autorità politiche del Regno.
Non v’è dubbio che, quindici anni dopo, l’Enrichetto sia stato un
importante punto di riferimento per il Cuore di Edmondo De Amicis,
ligure di origine ma torinese di adozione. Gli elementi comuni tra i due
testi
sono parecchi e significativi, benché svolti diversamente. Il travaso
ovviamente non è ricalco, e De Amicis era troppo buon letterato
per confondersi con uno scrittorello paludato di buoni sentimenti.
Avvenne piuttosto come quando un pittore di talento e un dilettante
prendono a modello il medesimo soggetto: se anche la resa è qualitativamente diversa, certi particolari tematici, certi moduli compositivi affiorano egualmente in modo riconoscibile […] rapporti
5 L. Tamburini, “Cuore e dintorni. La scuola deamicisiana”, in AA.VV., L’immagine
della scuola nella letteratura, Atti del Convegno nazionale (Torino, 2 dicembre 2002),
Torino: Ed. Provincia di Torino, 2004, p. 13.
15
con genitori e maestri, monellerie più o meno veniali, vanità e superbie, povertà e menomazioni, interrogativi sul futuro. A volte la
connessione sfiora il plagio, ma De Amicis è De Amicis e ciò fa la
differenza6.
Un’altra opera “minore” che ha certamente contribuito a gettare le
basi per i futuri sviluppi della letteratura dell’infanzia di fine Ottocento
è Le memorie di un pulcino, scritta dalla maestra fiorentina Ida Baccini
e pubblicata nel 1875 dalla Libreria Editrice Paggi di Firenze. Attraverso le vicende allegoriche di un pulcino che vive nella campagna del
Mugello, l’autrice punta a sensibilizzare i più giovani alla necessità di
apprezzare la preziosa funzione educativa esercitata da maestri e genitori, nonché di prepararsi al proprio futuro di cittadini responsabili della
nuova Italia coltivando la fede cattolica e l’amor di patria. Come avverrà anche nelle pagine di Cuore, la povertà che affligge una parte molto
grande della popolazione è più volte menzionata, ma non come prova
delle ingiustizie esistenti, bensì solo al fine di generare un sentimento di
pietà ben più innocuo: è sì importante avere «de’ bei punti nella lettura,
ne’ conti e nella calligrafia; ma chi tutti li sopravanza, ma quegli che
merita la lode e l’amore di chi lo conosce, è il bambino buono che è la
consolazione del babbo e della mamma, è il bambino caritatevole, che
divide la merendina co’ poverelli»7.
Solo due anni dopo la pubblicazione delle Memorie di un pulcino,
presso la stessa casa editrice del capoluogo toscano uscì Giannettino,
il primo volume di una fortunata collana di Carlo Collodi che, nel corso degli anni, arriverà a comprendere ben otto titoli di letteratura per
l’infanzia, e si chiuderà nel 1890 con la pubblicazione della Lanterna
magica di Giannettino8. Nel 1878 lo scrittore toscano pubblicò anche
Minuzzolo, altro romanzo per l’infanzia le cui vicende ricordano molto
da vicino quelle del più fortunato testo dell’anno precedente: ambedue
vertono intorno alla figura di un piccolo “monello” che, anche grazie
alla funzione formativa della scuola, inizia a condurre una vita che, in
6
Ivi, pp. 13-14.
I. Baccini, Le memorie di un pulcino (1875), Firenze: Giunti, 1967, p. 24.
8 Da parte di Bemporad, che l’anno precedente aveva rilevato la libreria editrice
dei fratelli Paggi.
7
16
base ai parametri della società borghese in cui vive, appare sempre più
all’insegna della rettitudine.
Lorenzini (Collodi) non era un maestro, anzi in più di un’occasione
ebbe modo di ricordare in termini scherzosi di non aver mai avuto un
rapporto particolarmente sereno con i suoi insegnanti: «Coi professori,
confesso, francamente me la son detta sempre poco. Quand’ero scolare
me ne hanno fatte passar tante! L’unica cosa che non mi abbiano fatto
passare è stato l’esame! … E io non sono un ingrato. Me lo ricordo
anch’oggi!»9. Tuttavia il carattere prezioso e insostituibile del ruolo
educativo dei maestri è uno dei concetti che più frequentemente emergono dalle pagine che descrivono le vicende di Giannettino e Minuzzolo. Gli insegnanti appaiono come dei veri missionari dell’educazione,
animati da grande amore per il proprio lavoro e per gli alunni che sono
la loro vera ragione di vita. Quando Giannettino mostra al maestro il
suo scoramento per il fatto che i compagni lo abbiano canzonato per
una sua défaillance, l’uomo gli si rivolge con grande calore dicendogli:
«Sta bene che ti sia rincresciuta la risata dei tuoi compagni, ma più di
quella ti deve dispiacere il pensiero di avere, in certo modo, addolorato
me, che t’insegno con tanto amore e che vedrei tanto volentieri un maggior profitto nei tuoi studi!»10.
Il dottor Boccadoro, l’amico di famiglia che svolge la funzione di
maestro di vita di Giannettino, non perde occasione per richiamare l’attenzione del giovane sui “doveri di rispetto e di gratitudine verso i maestri” che derivano dalla centralità della loro funzione, giungendo a menzionare l’esempio dell’imperatore romano Teodosio che «entrando un
giorno nella stanza dove il figlio riceveva lezione, e trovato che esso era
a sedere e il maestro gli insegnava restando in piedi, pieno di collera, si
volse al figlio e gli disse: “Alzati, e cedi quel posto al tuo maestro”»11.
Una lettura accurata delle Avventure di Pinocchio, che seguirono di
pochi anni quelle di Giannettino e Minuzzolo e a cui la fama letteraria
di Collodi è legata, fa emergere come, nonostante l’apparenza molto
disimpegnata, anche il capolavoro dello scrittore sottolinei in più punti
9
C. Collodi, Ciarle fiorentine, «Fanfulla», 1 febbraio 1875.
C. Collodi, La lanterna magica di Giannettino (1877), Roma: L’Artiere, 1963,
p. 91.
11 Ivi, p. 137.
10
17
quanto è importante la funzione che la scuola svolge, plasmando i più
giovani per prepararli a una vita di rettitudine e onestà. Da questo punto
di vista è abbastanza evidente il valore allegorico della seconda parte
del testo, soprattutto dei capitoli che presentano le peripezie di Pinocchio e Lucignolo nel paese dei balocchi. I bambini che, abbandonati gli
studi, si recano in tale luogo attratti dalla prospettiva di trascorrere un
lungo periodo solo giocando e divertendosi, prima o poi contrarranno
certamente la “febbre del ciuchino”, una malattia che fa sì che «tutti
quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri,
passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbono finire prima o poi per trasformarsi in tanti piccoli somari»12.
Il morbo colpisce ineluttabilmente anche Pinocchio che, tentato da
Lucignolo, non aveva resistito alla tentazione di andare a godersi i divertimenti di quel luogo così affascinante: «Io volevo essere ubbidiente;
io volevo seguitare a studiare e farmi onore … ma Lucignolo mi disse:
“Perché vuoi tu annoiarti a studiare? Perché vuoi andare alla scuola?
Vieni piuttosto con me nel Paese dei balocchi: lì non studieremo più, lì
ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri”»13.
I bambini che trascorrono la propria vita sui libri, facendo tesoro
degli insegnamenti che i maestri danno loro, sono certamente avviati a
una vita retta ed encomiabile, ma quanti si sottraggono a ciò sono destinati a un’esistenza scioperata. Chi rifiuta la funzione educatrice della
scuola, dice dietro le righe Collodi rivolto ai suoi piccoli lettori, finirà
certamente male. Ovviamente, per chi ha intrapreso una via sbagliata,
è sempre possibile ravvedersi. Una volta tornato a casa, Pinocchio inizia a lavorare e studiare (per la verità da autodidatta, in questo caso),
e all’improvviso, da burattino qual è, viene prodigiosamente trasformato in un bel bambino, poiché, come Geppetto gli spiega nella pagina conclusiva, quando un bambino mette giudizio anche il suo aspetto
esteriore cambia in meglio, adeguandosi alla sopraggiunta “bellezza”
interiore.
La narrativa didascalica per l’infanzia di fine Ottocento raggiunge
il suo apice in Cuore, pubblicato nel 1886 e in cui De Amicis riprende
12 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio (1883), Torino: Il Capitello, 2010, pp.
153-154.
13 Ibidem.
18
molti spunti già presenti nelle opere degli anni precedenti e li sviluppa,
con mezzi letterari notevolmente superiori rispetto ai suoi predecessori,
in pagine caratterizzate da quel tono languido e “strappalacrime” che
molta critica gli ha rimproverato. Si tratta di una caratteristica che pervade molte delle parti più importanti dell’opera e che certamente non
è giustificata dal fatto che si tratti di testi indirizzati a bambini, come
dimostrato da Collodi che, negli stessi anni, dà alle stampe dei lavori la
cui ispirazione e i cui fini non sono molto diversi, ma il tono è ben più
sereno, scherzoso e gradevole.
I maestri che incontriamo nelle pagine deamicisiane sono professionisti profondamente innamorati dell’insegnamento e dei giovani che ne
sono destinatari. Per costoro la scuola non è solo un’attività da svolgere
con serietà ma una vocazione civile che occupa per intero il loro tempo
e le loro energie mentali. Molti di essi sembrano non avere una vera
vita privata, distinta dal lavoro scolastico. Il primo giorno di scuola, di
fronte a un alunno un po’ indisciplinato, il maestro Perboni si rivolge
alla scolaresca confessando subito quali sono i suoi sentimenti verso di
loro:
Finito di dettare, ci guardò un momento in silenzio; poi disse adagio adagio, con la sua voce grossa ma buona: «Sentite, abbiamo un
anno da passare insieme. Vediamo di passarlo bene. Studiate e siate
buoni. Io non ho famiglia. La mia famiglia siete voi. Avevo ancora
mia madre l’anno scorso: mi è morta. Son rimasto solo. Non ho più
che voi al mondo, non ho più altro affetto, altro pensiero che voi. Voi
potete essere i miei figliuoli. Io vi voglio bene, bisogna che vogliate
bene a me. Non voglio aver da punire nessuno. Mostratemi che siete
ragazzi di cuore; la nostra scuola sarà una famiglia e voi sarete la
mia consolazione e la mia alterezza»14.
Ovviamente tale calorosa dedizione è ancora maggiore quando dietro alla cattedra c’è una maestra di sesso femminile (una delle quali,
Teresa Boassi, De Amicis aveva sposato nella realtà) che, soprattutto se
14
E. De Amicis, Cuore (1886), in Id., Opere scelte, Milano: Mondadori, 1996, pp.
105-106.
19
non è ancora diventata madre, dirige i propri sentimenti materni verso i
suoi scolari. È questo il caso del più celebre dei personaggi dello scrittore piemontese, la “maestrina dalla penna rossa”:
È sempre allegra, tien la classe allegra, sorride sempre, grida sempre
con la sua voce argentina che par che canti, picchiando la bacchetta
sul tavolino e battendo le mani per impor silenzio; poi, quando escono, corre come una bimba dietro all’uno e all’altro per rimetterli in
fila; e a questo tira su il bavero, a quell’altro abbottona il cappotto
perché non infreddino; li segue fin nella strada perché non si accapiglino, supplica i parenti che non li castighino a casa, e porta delle
pastiglie a quei che han la tosse, e impresta il suo manicotto a quelli
che han freddo; ed è tormentata continuamente dai più piccoli che le
fanno carezze e le chiedon dei baci15.
A volte la dedizione al lavoro è talmente profonda da portarli addirittura a disinteressarsi di se stessi e della propria salute. L’ex maestra di
Enrico (l’io narrante) muore prematuramente dopo una lunga malattia
che l’ha lentamente consumata. Parlando ai ragazzi in una breve commemorazione della defunta, il direttore della scuola tiene a sottolineare
che l’esito tragico è stato certamente favorito dal fatto che, così presa
dal suo lavoro che ha voluto proseguire fino all’ultimo, la donna non
ha dedicato abbastanza tempo al prendersi cura della propria salute.
L’ultimo pensiero prima di morire è stato ovviamente per i suoi alunni,
a cui ha lasciato i suoi pochi libri e del materiale per scrivere. Si tratta di
uno dei passi in cui l’autore, nell’intento di coinvolgere emotivamente
i suoi piccoli lettori, non riesce ad evitare di cadere nel cattivo gusto:
«Ha fatto del bene, ha sofferto, è morta. Povera maestra, rimasta sola
nella chiesa oscura! Addio! Addio per sempre, mia buona amica, dolce
e triste ricordo della mia infanzia!»16.
Naturalmente tale affetto è del tutto reciproco: fatte poche eccezioni,
rappresentate da ragazzi particolarmente indisciplinati, gli insegnanti
sono circondati dal calore e dall’ammirazione degli allievi, che non per15
16
20
Ivi, p. 156.
Ivi, p. 359.
dono occasione per manifestar loro i propri sentimenti. È una stima pienamente condivisa anche dalle loro famiglie nonché, in molte pagine,
dalle stesse autorità politiche cittadine, da cui la formazione primaria
dipende. All’attribuzione alla scuola di un ruolo importante e delicato
corrisponde dunque, in De Amicis come in molti degli scrittori di fine
secolo, la presentazione dell’insegnante come professionista onorato e
rispettato dall’intera comunità del luogo in cui opera.
Proprio in Cuore troviamo una delle più intense (ancorché molto
mielosa) esaltazioni della funzione del maestro che la nostra letteratura
contemporanea presenti. È il padre di Enrico a parlare, rivolgendosi al
figlio in uno dei frequenti paragrafi in corsivo che l’autore inserisce:
Ama il tuo maestro, perché appartiene a quella grande famiglia di
cinquantamila insegnanti elementari, sparsi per tutta Italia, i quali
sono come i padri intellettuali dei milioni di ragazzi che crescon
con te; i lavoratori mal riconosciuti e mal ricompensati, che preparano al nostro paese un popolo migliore del presente. […] Amalo
come ameresti un mio fratello; amalo quando ti accarezza e quando ti rimprovera, quando è giusto e quando ti par che sia ingiusto,
amalo quando è allegro e affabile, e amalo anche di più quando lo
vedi triste. Amalo sempre. E pronuncia sempre con riverenza questo
nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più
dolce nome che possa dare un uomo a un altr’uomo17.
I valori che i maestri di Cuore trasmettono ai loro alunni sono in larga parte quelli fondamentali della civiltà umana, su cui sarebbe difficile
non concordare: amore per il prossimo, rispetto per i propri familiari,
solidarietà verso quanti sono meno fortunati su un piano materiale ed
economico, senso del dovere, attaccamento al proprio lavoro. Particolarmente frequente è il tema dell’identità nazionale, della necessità
di sentirsi tutti cittadini della nazione italiana, a prescindere dalla regione del paese in cui si è nati. I racconti mensili, che con regolarità il
maestro Perboni sottopone all’attenzione dei suoi ragazzi, ci presentano una rassegna di azioni encomiabili compiute da giovani che, non
17
Ivi, p. 168.
21
casualmente, vivono in diverse zone d’Italia (la vedetta lombarda, il
tamburino sardo, lo scrivano fiorentino…). L’arrivo di un nuovo compagno che è appena emigrato dalla Calabria con la sua famiglia dà poi
l’opportunità al maestro di prodigarsi in un discorso molto enfatico:
Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse
accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino,
e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di
Calabria, il nostro Paese lottò per cinquant’anni e trentamila Italiani
morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti tra voi; ma chi di voi
offendesse questo compagno perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra
quando passa una bandiera tricolore18.
In molti altri passi però i principi che sono insegnati ai ragazzi sono
decisamente meno ecumenici e mirano invece a far radicare nel loro
animo l’accettazione di molti aspetti, politici e sociali, dell’ordine instauratosi in Italia dopo l’unificazione del Paese. Ad esempio la venerazione per casa Savoia, che ispira all’autore pagine dense di incontenibile retorica, come quella dedicata ai funerali di Vittorio Emanuele II:
dopo un regno di ventinove anni, ch’egli aveva fatto illustre e benefico, col valore, con la lealtà, con l’ardimento nei pericoli, con
la saggezza nei trionfi, con la costanza nelle sventure. […] L’Italia
dava il suo ultimo addio al suo re morto, al suo vecchio re, che l’aveva tanto amata, l’ultimo addio al suo soldato, al padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia.[…] Addio
buon re, prode re, leale re ! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché
splenderà il sole sopra l’Italia19.
Un tono simile pervade il brano dedicato alla descrizione della visita
a Torino del suo successore Umberto I.
In un’ottica non diversa sono da inquadrare i passi in cui lo scrittore
menziona le difficili condizioni materiali di vita che affliggono molti
18
19
22
Ivi, pp. 108-109.
Ivi, pp. 175-176.
allievi della scuola che Enrico frequenta. Tali pagine sono numerose,
ma sistematicamente in esse non c’è nemmeno l’ombra di un accenno,
anche molto elementare, all’iniquità della società in cui vivono e all’auspicio di un suo cambiamento. Esse si risolvono dunque nella semplice
espressione di sentimenti pietistici verso persone considerate più “sfortunate”.
Enzo Catarsi osserva in merito che
De Amicis ha consapevolezza del carattere politico che contraddistingue il progetto formativo che propone, sulla base di valori che
sono peculiari del disegno di società dei ceti borghesi al potere.
Anche il richiamo insistito ai buoni sentimenti e gli effetti stilistici
utilizzati al riguardo possono essere compresi in questa prospettiva,
senza fare riferimento ad un ruolo di “sciocco servo del padrone”
che certamente De Amicis non interpreta. Egli […] si muove sulla
base di una propria visione della società quando esalta quei valori di
pace sociale e fraternità che avrebbero dovuto alimentare il processo
di unificazione nazionale20.
Questo aspetto della visione di De Amicis si evolverà notevolmente
negli anni successivi, in seguito al suo avvicinamento agli ideali socialisti. Egli non si discosterà mai da idee piuttosto moderate, ma un senso
crescente della giustizia sociale si farà sempre più spazio nei suoi scritti, che non saranno più testi per l’infanzia ma libri rivolti a un pubblico
più ampio. Da un lato l’adesione alle idee della sinistra lo porterà ad
attribuire un notevole peso alla funzione di emancipazione dei ceti deboli che l’istruzione di base riveste, sottraendo le masse all’ignoranza.
È questo uno dei cardini del romanzo breve La maestrina degli operai,
incluso nella raccolta Fra scuola e casa del 1892, la cui protagonista è
appunto una giovane insegnante che svolge un corso elementare serale
a beneficio di un gruppo di operai di umile estrazione, molti dei quali
in età adulta. Il comportamento indisciplinato di alcuni è per la giovane maestra un serio problema. È molto significativa la pagina in cui il
maestro Garallo, per aiutare la sua collega in difficoltà, entra nella sua
20
E. Catarsi, I maestri e il “cuore”, Pisa: Edizioni del Cerro, 1996, p. 18.
23
classe, fissa con severità gli studenti e poi improvvisa un discorso in
cui evidenzia come la classe operaia potrà migliorare la sua condizione
solo se saprà essere unita e soprattutto se farà dello studio uno strumento di riscatto: «E ricordatevi bene – concluse con uno sguardo molto
espressivo – che soltanto con la concordia e con l’istruzione la classe
operaia potrà maturare i suoi destini»21.
L’avvicinamento al socialismo genera in lui anche una maggiore sensibilità al problema del disagio economico che gli insegnanti, a
causa di uno stipendio inadeguato, sono costretti a subire. Il tema si
era affacciato anche in alcune pagine di Cuore, ma era tuttavia stato
sviluppato con il taglio patetico e lacrimoso che si è visto. Nelle opere
successive esso è invece trattato con maggior sobrietà e incisività, soprattutto nell’ampio Romanzo di un maestro, pubblicato nel 1890 e che
ruota intorno alle vicende del giovane Emilio Ratti, che ha scelto la professione magistrale spinto da sincero entusiasmo, ma che spesso deve
toccare con mano la condizione di drammatica povertà in cui molti dei
suoi colleghi versano.
Ciò che non muta, nella narrativa scolastica di De Amicis successiva a Cuore, è la rassegna di maestri innamorati del proprio lavoro
e che dedicano per intero la propria vita alla missione di educare gli
studenti affidati loro. Il maggior equilibrio che caratterizza tali testi
rispetto a Cuore rende intensa e pregevole la descrizione di molte di
queste figure. Ad esempio Maria Pedani, la protagonista di Amore e
ginnastica, altro romanzo breve pubblicato nella raccolta Fra scuola e
casa. Diventata insegnante di educazione fisica in un momento in cui la
disciplina sta assumendo un carattere sempre più marcatamente scientifico, è talmente entusiasta per la materia a cui ha deciso di dedicarsi da
trascurare quasi del tutto la sua vita privata pur di consacrare al lavoro ogni aspetto della sua giornata. Non esita ad acquistare a sue spese
una serie di attrezzi che le consentono di rendere più efficace l’attività
didattica. Veste spesso in maniera piuttosto trascurata, sembrandole assurdo il perdere tempo prezioso per occuparsi del suo abbigliamento.
Ovviamente non è minimamente sfiorata dal pensiero di poter iniziare
una relazione sentimentale con qualcuno, poiché non vuole distogliere
21
24
E. De Amicis, Opere scelte, cit., p. 578.
le sue energie mentali dal lavoro. Quando poi partecipa a un congresso di educazione fisica e prende la parola davanti ai colleghi, la sua
esaltazione della ginnastica è talmente enfatica da assumere quasi una
coloritura religiosa:
abbiamo fede in noi stessi, una fede ardente e invincibile che la nostra idea sarà un giorno l’idea di tutti, e che un nuovo sistema di
educazione rifarà il mondo. Sì. Io lo credo come credo nell’esistenza
del sole che ci illumina. Una nuova educazione, fondata sopra un
esercizio perfezionato delle forze fisiche dell’infanzia e della gioventù, preverrà innumerevoli miserie, risparmierà all’umanità innumerevoli dolori, falcerà mille vizi alla radice, agevolerà alle generazioni che saranno più buone perché più forti, e più giuste perché più
buone, la soluzione dei grandi problemi attorno a cui s’affannano
inutilmente ora le nostre menti malate e le nostre forze esaurite22.
Molte pagine deamicisiane ci fanno anche toccare con mano questo
potere “taumaturgico” e civilizzatore che l’insegnamento può avere.
Nella Maestrina degli operai uno degli adulti a cui la signorina Varetti
fa lezione è un teppista conosciuto con il nomignolo di Saltafinestra.
Per molto tempo il comportamento del giovane è sfrontato e maleducato e ogni tentativo che maestri e compagni fanno per indurlo a cambiare
fallisce inesorabilmente. Con il passare del tempo però, gradualmente,
l’atteggiamento educato e signorile della ragazza, nonché la cultura e
la serietà professionale che la contraddistinguono, generano in lui una
vera metamorfosi e lo inducono ad incamminarsi sulla retta via, diventando quasi un altro uomo.
La rettitudine del loro comportamento e la preparazione e la dedizione che mostrano in ogni momento della propria giornata fa sì che, anche
nelle opere più tarde, i maestri siano circondati dalla stima dell’intera
comunità. Ripetutamente, nel Romanzo di un maestro, parenti di suoi
alunni o anche semplici abitanti del luogo si recano da Emilio per chiedergli consigli relativi a piccole controversie in cui sono stati coinvolti,
vedendo in lui una persona che, avendo studiato, potrà certamente aiutarli a risolvere il problema.
22
Ivi, p. 488.
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