Frontiere N. 2 . 2009 - Shanthi

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Frontiere N. 2 . 2009 - Shanthi
Anno VIII N. 2/2 - Periodico quadrimestrale dell’A.M.I.
Spediz. in abbonamento postale art. 2 comma 20/c
Legge 662/96 - Filiale di Milano - Aut.del Tribunale
di Milano N. 730 del registro periodici 10.11.2000
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2009
EDITORIALE
Il mondo salvato dai dilettanti
MILLE E UNA NOTTE
Le Vie dei Venti
Racconti di “malati”
di viaggi
Il viaggio:
un riflesso della propria anima
Etiopia:
La misura del “Tetto dell’Etiopia”
Uganda:
Edward Lake, mare d’Uganda
Perù: Maria
Rwanda: Pillole di solidarietà
L’ANIMA DEL VIAGGIATORE
Club Magellano
Quale Tibet?
Un pensiero africano
DOSSIER
Argonauti Explorers
L’ARCIPELAGO DELLA SONDA
Un ponte tra i continenti
Le isole dei draghi
Megalitica Sumba
Cerimonie a Sumba e Flores
ITINERARI INSOLITI
Argonauti Explorers
Panama
viaggi e passaggi segreti nelle terre degli uomini
FRONTIERE
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ARGONAUTI EXPLORERS - Associazione Culturale Nazionale - Milano
Associazione di Viaggiatori, che vivono il viaggio come percorso di conoscenza, confronto e solidarietà; Luogo dove si progettano itinerari e dove conta lo
spirito con cui ci si rapporta con le altre culture e non il “con chi si viaggia”, cioè da soli, con amici o in gruppo. Un’Associazione culturale che non organizza
direttamente viaggi, ma si propone come supporto a chi li propone. Anche se il nome è legato alla risonanza di spedizioni di cui siamo orgogliosi, non per
questo ci dedichiamo solo a cose “difficili”: più semplicemente cerchiamo originalità in ogni itinerario, in questo senso esplorando sentieri non scontati.
www.argonauti.net; e-mail: [email protected]; Centro Documentazione: 02-799911
CLUB MAGELLANO - Torino
Dall’800 in molte famiglie piemontesi si raccontano storie sullo zio o sul compaesano illustre vissuto “nell’altrove”: militari della conquista coloniale, missionari Salesiani o della Consolata, veri esploratori (Bottego, Allamano, De Filippi etc.). E’ da questi racconti che nasce la spinta piemontese verso l’irrequietezza?
Dagli anni ’70 un gruppo di amici si aggrega prima attorno alla Marcopol, una piccola associazione che organizza viaggi avventurosi ed autogestiti, poi nel
Club Magellano con un programma di foto, viaggi, cultura: un punto di incontro “storico” quindi, per viaggiatori della realtà e della fantasia.
Circolo Dipendenti Comunali – Corso Sicilia 12 – Torino – Tel. 011-307066 (Anna Mina)
ITINERARI AFRICANI - Cuneo
L’associazione nasce nel 2003 da un gruppo di viaggiatori con lo scopo di promuovere e valorizzare sul territorio nazionale la cultura africana, proprio perché
è indispensabile considerare il patrimonio culturale di un popolo, un bene da salvaguardare sopra ogni cosa. A tale proposito l’associazione realizza diverse
iniziative che vanno dalle mostre tematiche, alla presentazione di libri, diaproiezioni, una rassegna culturale annuale dal titolo About Africa cronache di un
continente, progetti di solidarietà e sviluppo in Niger e Mauritania.
Donato Cianchini – www.itinerariafricani.net – e-mail: [email protected] – tel. 0171696721
LE VIE DEI VENTI - Varese
L’Associazione, fondata nel 1993, si propone di aggregare persone accomunate dal desiderio di parlare di viaggi e di varcare così i limiti del proprio mondo, al
fine di promuovere uno scambio di conoscenze ed esperienze. Documenti fotografici, ma soprattutto racconti, costituiscono testimonianze di un grande amore
per il “diverso” e per l’ambiente, che passa attraverso i rischi, le sofferenze di coloro che ne sono stati di volta in volta i protagonisti.
www.asiaroad.it – tel. 0332 231967; e-mail: [email protected] (Gianluca Torrente)
MULA MULA - Pontoglio (Bs)
Mula Mula è il nome dato dal popolo Tuareg ad un uccellino che le credenze popolari raccontano accompagni il nomade negli sconfinati orizzonti sahariani come
portafortuna. L’Associazione, fondata nel 1998, propone la “divulgazione del viaggio come cultura” e come “Università della Vita”, suggerendo l’arte di convivere con altri popoli in modo responsabile, attraverso conferenze, racconti di viaggio, sostegno a progetti di solidarietà, quali la costruzione di pozzi nel Sahel.
Tel. 030 7167244 (Lotti Brull) - e-mail: [email protected]
OBIETTIVO SUL MONDO - Associazione Culturale
L’Associazione è stata costituita nel 1992 da un gruppo di viaggiatori che intendevano proporre al pubblico i loro reportages. Non per protagonismo, ma come
occasione per avvicinare culture diverse: un libro aperto per tutti coloro che lo vogliono leggere. Proiezioni, mostre tematiche e la pubblicazione di tre libri con
il contributo CEE, hanno rappresentato un salto di qualità che ha consentito di allargare le attività ad altre città. Un’attività sempre più impegnativa, ma che non
ha perso di vista la filosofia dell’Associazione.
E.mail: [email protected] - Tel. 02-9466688 (Claudio Tirelli)
SOMMARIO
Mille e una notte: racconti di malati di viaggi - Le vie dei venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’anima del viaggiatore - Club Magellano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dossier: L’arcipelago della Sonda - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Itinerari insoliti: Panama - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Racconti per immagini: L’arte di ornare se stessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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In copertina: Indonesia: Uomo di Sumba - Nusa Tenggara. Foto di Roberto Pattarin (Sondrio)
All’interno foto di: Sandro Bernes, Marina Buratti, Giovanni Busetto, Renato Civitico, Giulio Gorini, Werner Kropik, Clara
Monzeglio, Carlo Onofri, Roberto Pattarin, Marco Pierli, Gianluca Torrente, Erik Viani.
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RONTIERE
Editoriale
IL MONDO SALVATO DAI DILETTANTI
di Marco Di Marco
“Quando consideriamo la società più ampia al di fuori dell’ambito della scienza, vediamo dei dilettanti svolgere funzioni essenziali in quasi tutti i campi dell’attività umana. I musicisti
dilettanti creano la cultura nella quale potranno fiorire i musicisti di professione. Gli atleti dilettanti, gli attori dilettanti e gli
ambientalisti dilettanti migliorano la qualità della vita, propria
e altrui. [...]. La frazione della popolazione formata da dilettanti
è una buona misura della libertà di una società”. Sono parole di
Freeman Dyson, grande scienziato e spirito libero - non a caso
anche filosofo “dilettante” - in una riflessione sul rapporto tra
scienza e società sviluppata al di fuori di ogni conformismo
accademico. Che cosa c’entra questo discorso con una rivista
legata soprattutto alle tematiche del viaggio? Una risposta la
si può trovare riflettendo sui contesti sempre più complessi e
nuovi in cui si muove il moderno viaggiatore.
Il cambiamento climatico, la questione ambientale, i mutamenti economici, sociali e culturali che investono Africa, Asia ed
America Latina, la globalizzazione, le nuove reti di comunicazione, sono tutti fenomeni che vanno a comporre un quadro
quanto mai dinamico, per “navigare” dentro al quale non bastano più al viaggiatore gli strumenti tradizionali.
Come andiamo da tempo dicendo, il viaggiare deve sempre di
più farsi culturale, e nel facilitare questo approccio si inserisce,
nel suo piccolo, la mission della nostra rivista. Una rivista amatoriale, “dilettante”, nel senso magistralmente enunciato dallo
scienziato-filosofo Dyson. E dilettante, di sicuro, il viaggiatore lo è, il più delle volte. Può essere antropologo dilettante,
naturalista dilettante, archeologo dilettante, cooperatore dilettante, giornalista dilettante, poeta dilettante, scrittore dilettante,
ambientalista dilettante ... Anticipando in certi casi i professionisti. Senza trascurare il fatto che la situazione del viaggio
permette spesso, anche a chi viaggia con motivazioni di tipo
specialistico, di non rifugiarsi in una dimensione elitaria, cercando invece una feconda contaminazione tra professionismo
e dilettantismo.
Alla luce di queste considerazioni il viaggiatore curioso e attento dovrebbe essere considerato - chiedo scusa per il temine
così abusato - una risorsa per la società.
In particolare, questo Occidente, questa Europa, questa Italia
tutta raggomitolata su se stessa e sulle sue idiosincrasie, tutti
dovrebbero tenere in maggior conto la sua esperienza, chiedendogli anzi di farsi osservatore attento e poi relatore delle dinamiche in atto nel mondo, di cui noi tutti facciamo parte e con
cui siamo sempre più interconnessi.
Nei prossimi numeri “Frontiere” cercherà di proporsi, ancor
più che nel passato, come un collettore di esperienze tese a cogliere i cambiamenti che, nel bene o nel male, stanno trasformando il nostro mondo.
E’ nostra intenzione partire da un tema che sicuramente a chi
viaggia sta molto a cuore: la bellezza del nostro pianeta e l’impegno a difenderlo. Ciò significa che su “Frontiere” assumeranno un rilievo via via crescente i momenti di riflessione e
documentazione dedicati al tema dell’ambiente. Con un invito ai nostri amici: partite per i prossimi viaggi riservando uno
sguardo particolare a questo specifico aspetto, per poi proporci,
lo speriamo, le esperienze così acquisite e le riflessioni successivamente elaborate.
Quello autunnale di Frontiere è sempre un numero particolare:
essendo scritto da viaggiatori, la sua preparazione coincide con
le settimane immediatamente successive al ritorno dall’avventura estiva. E’ una fase sempre molto delicata che per ognuno
di noi si gioca tra il reinserimento nelle occupazioni - e preoccupazioni - usuali e la rielaborazione dell’esperienza, appena
conclusa, del viaggio.
E, per chi ha già viaggiato assai, alla bellezza del ricordare si
associa di tanto in tanto una sensazione di stanchezza, di difficoltà a pensare nuove mete. Ma, come abbiamo detto, il mondo
cambia, ed anche i luoghi che abbiamo visto nel passato non
sono più gli stessi. E noi stessi siamo cambiati e, quindi, abbiamo ancora tutto un mondo da scoprire, in noi e al di fuori di noi.
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
IL VIAGGIO: UN RIFLESSO DELLA PROPRIA ANIMA
di Gianluca Torrente
Il tormentato scenario dell’Acrocoro etiopico, un tramonto africano su un lago dove la fatica si stempera nella felicità, un temporale ed una bambina, una strada di solidarietà ed un padre, l’inaugurazione di una chiesa rwandese ed un’amica scomparsa … il
viaggio ed il riflesso della propria anima nei paesaggi e nelle persone che l’occhio man mano incontra.
Nei racconti che seguono ci sono tutti i nostri viaggi compreso il mio errare per l’alto Pamir ed il deserto di Taklamakan, luoghi
dove ho girovagato quest’estate.
Shaymak: una decina di case in un deserto mummificato a circa
4000 metri d’altezza nel sud del Pamir. A sud lo stretto corridoio di Wakhan in territorio afgano è talmente vicino da poterlo raggiungere comodamente a piedi. Pochi chilometri oltre
s’ergono le montagne dell’Hindu Kush, una enorme muraglia
che ci fa già immaginare il vicino Himalaya e che ci separa dal
Pakistan. A est e a sud-est il confine con il Xinjiang cinese da
dove scintilla la candida cima del Muztagata, un bianco panettone di oltre 7500 metri che contrasta con l’esteso deserto del
Taklamakan poco più a nord. In questa vasta distesa desolata
schiacciata fra i fianchi delle montagne, uno spettrale fondo
roccioso ospita Shaymak. Se non fosse per le sfuggenti ombre
dei suoi abitanti che appaiono strisciare per un attimo lungo i
bianchi muri delle poche case, nulla farebbe pensare alla vita.
Eppure basta entrare in una abitazione e subito l’odore della
sua umanità ti riempie le narici: ambienti chiusi dove la penombra contrasta con il cielo che fuori non smette di essere di
un blu intenso, artificiale, come se un polarizzatore filtrasse la
luce continuamente. Un vecchio kirghizo con la barba fluente
e gli occhi che appaiono fra due strette e lunghe fessure, offre
da bere e mangiare. Racconta in russo storie che appartengono
alla quotidianità dei nomadi interrompendosi in lunghi silenzi
ogni qual volta deve raschiare la gola. Capisco una parola su
quattro, ma mi basta per fantasticarne il significato. Bevendo
il latte di capra inizio a immaginare la yurta in cui il kirghizo
ancor giovane usava trascorrere l’estate. Pochi attimi e la vecchia jeep sovietica, una volta “arruolata” nell’Armata Rossa,
Tajikistan - Bambino kirghizo di Shaymak - Gianluca Torrente (Varese)
mi porta in una yurta sita a 20 minuti da Shaymak. Il
vecchio kirghizo scende dalla jeep e corre ad afferrare
due bimbi che improvvisamente sollevano lo spesso
strato di feltro della propria abitazione. Intorno un
uomo e una donna continuano a svolgere mansioni
che si perdono nella notte dei tempi: la donna intenta
a battere il latte contenuto in un otre in pelle, l’uomo
a spazzolare un cavallo. Sembrano non curarsi della
presenza di estranei: forse il vecchio ne ha già portati
altri o forse più semplicemente non ne hanno il tempo perché il freddo vento invernale sta per sferzare
quella terra aspra e desolata che non si fa a meno di
inghiottire. Brevi immagini di una quotidianità che la
macchina fotografica cattura, più rapida della mente.
Shaymak, un luogo fuori dal mondo o forse siamo noi
che da tempo ne siamo ormai usciti.
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Tajikistan - Vecchio kirghizo di Shaymak - Gianluca Torrente (Varese)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
QUANTO È ALTO
IL “TETTO DELL’ETIOPIA”
di Giulio Gorini
Non conoscevo i monti Simien in Etiopia, e non sapevo che lì
ci fosse una delle montagne più alte d’Africa, il Ras Dashan o
Ras Degien (come è chiamato nella lingua locale, l’amarico).
La scoperta avvenne grazie a un incontro con Marco Viganò,
un visionario varesino animato dal desiderio di misurare o, per
meglio dire, rimisurare l’altezza di questa montagna con mezzi più precisi di quelli adottati nel 1837 e nel 1936. Marco,
presentandomi questo suo sogno, toccò in me le corde giuste,
perché amo le montagne e le civiltà che si sono sviluppate in
questi ambienti talvolta estremi, e anche perché avevo avuto
un’impressione molto piacevole dell’Etiopia qualche anno prima, quando mi era capitato, quasi per caso, di andarci una prima volta. Avevo avuto la sensazione di un paese vitale e ricco di
umanità e cultura. In me la voglia di tornare c’era - c’è ancora
- mancava solamente l’occasione giusta. Così, ascoltando Marco che parlava non solo della misurazione e del cammino tra le
montagne, ma soprattutto di questa parte d’Africa e di quelle
popolazioni, che lui conosceva bene per esserci vissuto alcuni
anni, capii che era questa l’occasione giusta per ritornare.
I monti Simien (o Semien) si trovano nella parte nord dell’Etiopia, nella regione di Ahmara, e fanno parte di un parco nazionale protetto e classificato dall’UNESCO come patrimonio
dell’umanità. Sono montagne insolite, per me abituato al paesaggio alpino, caratterizzate dal susseguirsi di guglie appuntite che superano i 4000 metri e da vertiginosi dirupi, veri e
propri precipizi che sembrano senza fine. Questa successione
frastagliata di valli e cime poggia sull’Altipiano etiope, già
alto più di 2000 metri. Nel periodo delle piogge o in quello
immediatamente successivo - i mesi di settembre/ottobre - il
colore predominante è il verde intenso delle steppe di alta quota
punteggiato dal giallo brillante dei fiori di campo e dal rosso
pallido combinato al giallo intenso dei fiori della lobelia. Di
lobelie esistono anche esemplari giganti con una folta chioma
verde sostenuta da un fusto che può raggiungere
i due metri. Queste piante, insieme ai boschi di
erica arborea, punteggiano il paesaggio della fascia più bassa, sotto i 3500 metri. A quote ancora
più basse, intorno ai 3000 metri, villaggi e campi
coltivati si inerpicano sui pendii. La vita non è per
niente facile, le case sono poco più che capanne
e la costruzione più solida e accogliente sembra
essere la chiesa, presente in tutti villaggi. L’unico
aiuto è dato dai buoi, che sotto la guida dell’uomo
rivoltano con un aratro arcaico i fazzoletti di terra
rossa strappata alla montagna. Oltre all’uomo ci
sono numerose creature del regno animale, come
lo stambecco del Simien e la volpe etiopica, en-
trambi endemici di quest’area. Si vedono inoltre molti uccelli
di piccole dimensioni, ma anche maestosi come il Gipeto, un
grande avvoltoio che elegantemente volteggia tra le cime e i
precipizi. Gli animali più facili da vedere ed incontrare sono
anche i più insoliti, come i babbuini Gelada, grosse scimmie
dal pelo folto. Non è stato difficile osservarli da vicino, non
sembravano molto impauriti, forse perché su queste montagne
non hanno predatori. Vivono e si spostano in branchi di parecchie decine di esemplari, ed incontrarli in questo ambiente
afro-alpino fa davvero impressione.
E così, con una decina di persone variamente interessate alla
misurazione, al trekking tra i monti Simien e all’Etiopia, arriviamo ad Addis Abeba all’inizio di settembre del 2007. Per il
calendario giuliano, adottato da millenni dalla chiesa cristiana ortodossa etiope e da tutta la nazione, i primi di settembre
sono anche gli ultimi giorni dell’anno ed il nostro 2007 è per
gli Etiopi il 1999. L’11 settembre si entra nel nuovo millennio.
Dopo un lento avvicinamento alle montagne, pensato non solo
per acclimatarsi ma anche per ammirare i molti luoghi di interesse storico e naturalistico di questa parte dell’Etiopia, come
l’area di Ankober, Lalibela, il lago Tana e Gondar, arriviamo al
villaggio di Debark ai piedi dei Simien. Questa lentezza ci ha
anche consentito di familiarizzare con il modo di vivere della
gente, la loro cultura, il loro cibo, e ci ha offerto l’opportunità
di partecipare ai festeggiamenti per il Capodanno e per il nuovo
millennio. A Debark, punto di ingresso del parco, organizziamo gli aspetti pratici del trekking: le guide, i muli per il trasporto dei viveri e delle tende e i cuochi per avere un pasto caldo la
sera. Al villaggio c’è anche l’incontro con Jerome, il cartografo
francese coinvolto da Marco per effettuare in maniera precisa
e professionale la misurazione. L’apparato strumentale è costituito da due ricevitori/misuratori professionali che capteranno i
codici trasmessi via radio dalla costellazione di satelliti del sistema GPS. Uno dei due strumenti è stato posto in un punto geografico di cui si conosce la quota precisa, l’altro sarà collocato
sul punto da misurare (la vetta del Ras Dashan). Lasciando i ricevitori/misuratori GPS sui due punti per alcune ore, e successivamente confrontando e integrando i dati di quota e posizione
da ambedue registrati, si ricaverà il valore preciso dell’altitudi-
Etiopia: Lobelie giganti nel massiccio del Simien - Leonardo Pucci (Roma)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
ne (con un errore massimo di due metri). Finalmente si parte, e
con i fuoristrada arriviamo al primo campo, un’area abbastanza
pianeggiante dove c’è una specie di capanna semichiusa, comoda per mangiare al coperto e preparare un pasto caldo. Siamo appena in tempo per piazzare le tende prima del buio e fare
un giro intorno. Il paesaggio è bellissimo, la luce è quella calda
del tramonto, poco più in là della zona semipianeggiante c’è un
impressionante precipizio - 1000 metri o più - e in lontananza
si scorgono delle guglie appuntite, anch’esse verdi. Siamo a
3700 metri ed è appena finita la stagione delle piogge: la sera è
umida e il freddo, anche se non intenso, pungente. Il mattino di
buon’ora io, Leonardo e Jerome con le guide e i muli partiamo
per il primo dei due giorni di cammino che ci separano dal Ras
Dashan. Oggi si deve salire fino a 4000 metri, per poi scendere
fino a 2900, in un fondovalle, e poi nuovamente risalire sull’altro versante fin verso i 4000 metri, dove piazzare le tende; il
giorno successivo di buon mattino potremo finalmente salire
sulla cima. Veramente dura! Sia per la quota sia per il dislivello,
ma anche, da metà mattina in poi, per il caldo umido. Il sentiero
è ben visibile, una mulattiera che collega i villaggi della valle.
Non siamo soli: oltre agli animali incontriamo persone che si
muovono per raggiungere i piccoli mercati rurali o i campi da
coltivare. Il programma però è troppo ottimistico, e così siamo
costretti, prima che faccia buio, a piantare le tende a 3800 m.
dall’ultimo villaggio. Il mattino successivo si riparte all’alba:
finalmente è il giorno della salita in vetta e della misurazione! Dopo tre ore di cammino appare il Ras Dashan. Non è una
bella montagna a vedersi, niente a che fare con il Monte Rosa
o il K2, non assomiglia nemmeno ai pinnacoli visti nei giorni
precedenti. Un grosso parallelepipedo di roccia, piatto e allungato, immerso in un paesaggio senza vegetazione. Altre tre ore
e siamo in cima senza troppe difficoltà.
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E’ stata un’ascesa facile, solo la quota può creare qualche
problema. Essere in vetta è comunque un’emozione forte e
lo scenario è maestoso. Piazzato il GPS si può solo aspettare,
ammirando, al riparo dal vento, questo paesaggio senza segni
di vita. Ma con grande sorpresa, timidamente, spuntano dalle
rocce dei bambini avvolti in mantelli di lana, in testa cappelli di
feltro pesante. Quello che più colpisce sono i grandi occhi neri,
vivissimi, che danno un’espressione fiera a quei piccoli corpi
fragili, la stessa intensità mistica che si legge nei volti degli
angeli affrescati sulle pareti delle bellissime chiese di Gondar e
del lago Tana. Chissà dove vivono! L’ultimo villaggio è parecchio distante, forse ci sono delle capanne lì vicino, forse hanno
degli animali da accudire e vedendoci ci hanno seguito. Cerco
di comunicare con loro, ma non è semplice, riesco solo a farli
ridere coi miei gesti goffi e impacciati e a sorprenderli offrendo
loro della frutta secca. Recuperato il GPS e salutati i bambini,
torniamo contenti al campo, che le guide hanno piazzato in un
villaggio del fondovalle. Ci aspettano una cena calda e un accogliente sacco a pelo. Ah! Dimenticavo la misurazione! La quota
rilevata nel 1837, tuttora riportata da alcuni atlanti (per esempio
quello del Touring) è 4620 metri. Su altre mappe l’altitudine
indicata è 4533 o 4543 metri. Quella elaborata dal computer,
nel quale sono stati inseriti i dati registrati dai nostri ricevitori/
misuratori GPS, è invece di 4548,8 metri, arrotondati a 4549.
Jerome che già lavorava in Etiopia alla realizzazione di nuove
strade, ha presentato i dati alle autorità e forse un giorno la
misura sarà riconosciuta e accettata. O forse no. Ma questo per
me non è molto importante. Le cose che apprezzo di più in un
viaggio sono le esperienze ed il contatto umano con le persone
incontrate lungo il cammino e con i miei compagni di avventura. Cose che restano e che, forse, mi aiutano a vedere il mondo
e gli eventi della vita in maniera più consapevole.
Etiopia: Panorama nel massiccio del Simien - Giulio Gorini (Varese)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
EDWARD LAKE,
MARE D’UGANDA
di Renato Civitico
Seduto sulla staccionata di legno guardo il lago e poi oltre,
verso le colline. Il giorno ormai sta perdendosi dentro la notte e l’oscurità che lentamente arriva sempre da ovest, tra poco
adombrerà questo splendido paesaggio. Non si sentono le onde
infrangersi sulla riva, ma nella penombra tutto è silenzio e quiete. Non lo spegni improvvisamente il rumore dell’acqua, ma
nel crepuscolo di tutto quest’infinito il suono si diluisce leggerissimo nello spazio circostante. Ora in questo momento non ho
necessità di sentire il suo rumore, così come vedere le sue onde
che muoiono e nascono e muoiono ancora all’infinito. Ho bisogno che il mio sguardo si perda nell’immensità del paesaggio.
Ci si può perdere solo in un’altra immensità eguale, quella del
deserto, quella di una pianura innevata o quella di un volto femminile, ma non oggi, non ora, che ho davanti tutta quest’acqua!
Non è tanto un piacere che filtra da dentro il corpo, e nemmeno
il cuore che s’ingrossa quasi impazzito o questa percezione di
calma, il godimento è la sensazione di sparire, di uscire dai
propri pensieri, di essere soltanto un’indistinta bonaccia o un
sussulto di tranquillità. Sul volto ho un sorriso di piacere che si
spegne contro il buio che avanza, ma c’è una musica che arriva
alle mie orecchie, ed è un piacevole sottofondo sonoro all’immagine che ho di fronte. Dopo una giornata di viaggio ho imparato che la fatica si cura con l’imprevedibile potere terapeutico
dell’infinito. Io stesso mi curo con la bellezza, e quando oltre
alla bellezza trovo anche l’eleganza, allora questo è proprio il
posto giusto.
A quest’ora della sera i colori della terra e del lago sono diventati uguali, ombre di grigio e di nero che si perdono nell’orizzonte, c’è solo la fitta vegetazione e due isole all’orizzonte che
si evidenziano in questo paesaggio dal colore simile, quasi a
Uganda: Panorama del Lago Edward - Renato Civitico (Torino)
voler rimarcare la propria differenza. Il cielo invece è ancora
blu, solo un po’ più scuro rispetto al giorno appena trascorso.
E’ una specie d’inviolabile forza della natura la vista su questo
lago, ma bisogna cercare di capire, lavorando anche di fantasia per dimenticare il vagabondare e la stanchezza accumulata
durante la giornata. Vedere con l’anima aiuta a spostare quel
velo trasparente davanti agli occhi che spesso ci portiamo dietro nell’osservare il mondo, e se li chiudo ho la percezione che
quest’immagine mi è entrata dentro. Questo posto, proprio in
questo preciso momento dopo il tramonto, trasmette anestetico
e terapia al corpo ed alla mente. Oggi ho viaggiato per molti
chilometri su una strada di colore rosso, respirando terra africana. La terra di questo continente è polvere sottile che penetra
profondamente nelle narici; ho respirato tutto il suo odore, la
sua vita ed il suo sudore; viaggiando con il finestrino aperto ciò
che ho visto dall’auto in corsa è stato un trompe-l’oeil. Immagini che seguono altre immagini, ombre che ne seguono altre,
con persone e tanti sguardi lungo la strada per una giornata
intera. Così per conoscere questo spicchio di mondo, mi è sufficiente solo saperlo osservare ed ascoltare.
Uganda: Pescatori sul Lago Edward - Renato Civitico (Torino)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
Il Lago Eduardo, questo mare che ho di fronte è uno dei tanti grandi laghi della regione, ed è posizionato nella Rift Valley, confinando con la Repubblica Democratica del Congo e
l’Uganda, a soli pochi chilometri dall’Equatore. Henry Morton Stanley è stato il primo occidentale che nel 1889 lo scoprì chiamandolo Lago Eduardo, in onore di Alberto Eduardo,
l’allora Principe di Galles. Il lago Eduardo è alimentato dai
diversi fiumi: Nyamugasani, Ishasha, Rutshuru e Rwindi e tramite il fiume Semliki le sue acque fluiscono verso nord-est nel
lago Alberto; il canale naturale Kazinga, collega poi questo
lago all’adiacente specchio d’acqua, il lago George. Il lago
Eduardo si trova ad una altezza di 920 metri, ha una lunghezza
massima di 77 km e una larghezza massima di 40 km, copre
una superficie di 2150 km², che ne fa il quindicesimo lago più
grande del continente. Alte falesie contornano la sua sponda,
che a nord è dominata dal massiccio del Ruwenzori; ha acque
salmastre ricche di sali minerali che ne fanno un habitat naturale per varie specie di pesci, coccodrilli, ippopotami e per
numerosi uccelli acquatici.
PERU’: MARIA
il peggio meteorologico sia passato. La trattoria propone poche pietanze: huevos y papas andranno benissimo. Ce le porta Maria, otto anni ed uno sguardo penetrante. Si ferma con
noi, è tardi, non ci sono più altri avventori da servire. È particolarmente incuriosita da Rosaria che, in mancanza di acqua
corrente, si sta lavando le mani con una salvietta umidificata
e profumata. Molto profumata. Finalmente trova il coraggio
di chiedere che cosa sono quei fazzolettini, glielo spieghiamo.
Ma non si allontana. Non è soddisfatta, ci deve ancora chiedere
qualcosa. È una bella bimba, pulita e ordinata, forse stamane
è perfino andata a scuola. “Che c’è Maria?” “Perché non posso averli anch’io?” “Sì cara, eccoli per te” “No, voglio sapere
dove si comprano”. Forse ad Arequipa, a
sei ore di autobus, nei negozi frequentati
da ricchi peruviani e turisti nostalgici dei
supermercati, ci sono tanti fazzolettini
profumati. Ma qui c’è solo abbondanza
di alberi, condor e nuvole. Rosaria, da
buona figlia napoletana di avvocato napoletano, cerca di confonderti le idee e
di spiegarti come puoi procurarteli e che,
soprattutto, non sono così importanti, ne
puoi fare a meno. Anche ora però non sei
convinta, rigiri fra le mani la confezione che ti abbiamo regalato e non capisci
perché il mondo è pieno di Marie che
vorrebbero usare le salviette profumate
e non possono. Come possiamo spiegarti
che il vero lusso, anche questo a te negato, è aprire il rubinetto e lavarsi le mani
con l’acqua pulita? Il triste surrogato
dell’acqua corrente ti sembra un lusso
inaudito, riservato solo a distratti turisti
che presto dimenticheranno questo breve incontro. O forse no.
di Alessandra Monti
Il temporale proprio non ci voleva. Siamo partiti prestissimo da
Arequipa per visitare il Cañon del Colca; tutto molto bello: la
jungla, i condor. Poi, come spesso avviene qui, le nuvole sono
comparse, raggruppate, e poi scaricate: altrimenti che foresta
pluviale sarebbe? Così ci siamo trovati a pranzare sotto una
tettoia, in attesa che il temporale finisca. Lungo la strada del
ritorno troveremo anche una nevicata, ma ora pensiamo che
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Sono ancora qui, intento ad osservare tutto questo paesaggio,
anche se sono conscio che tra poco mi dovrò distaccare. Percorrerò così il pontile di legno, il cortile adiacente e poi la strada principale del parco, arrivando fino nella mia stanza dove
proverò a scrivere qualcosa … Qualcosa che sia il più possibile
vicino a questa realtà, perché ora che girerò le spalle al lago in
un momento svaniranno le immagini e si oscureranno i colori,
ma tutto questo rimarrà dentro. La felicità non è una meta e
neanche un viaggio, è un sentiero tortuoso, un tramonto, un
paesaggio. E’ lì per sparire ... ma anche per tornare!
Perù: Orgoglio materno - Carlo Onofri (Bologna)
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
RWANDA:
PILLOLE DI SOLIDARIETÀ
di Erik Viani (Associazione “Viaggiare liberi”)
Ci sono strade che nel corso della vita rimarranno impresse nella memoria come inchiostro indelebile. Una è quella che dalla
capitale Kigali conduce a Ruhuha, nel profondo e povero sud
del Rwanda, a pochi passi dal confine con il Burundi. L’avrò
percorsa non so quante volte, sotto il sole, la pioggia e la polvere dello sterrato. Poco meno di 50 km, che raccontano la storia
di questo Paese, martoriato dal genocidio tribale scoppiato tra
il ‘92 ed il ’94, e la difficile ricostruzione successiva. E, parallelamente, parlano del mio legame con questo popolo e della profonda amicizia con un parroco, ma soprattutto un uomo, che ha
fatto della sua esistenza un esempio di vita fondato sulla solidarietà e la bontà d’animo: Padre Onesphore. Per la terza volta
mi spingo a queste latitudini, tanto per assaporare l’atmosfera
africana viva e pura quanto per viverla sino in fondo a stretto
contatto con le situazioni del vivere quotidiano: una partita di
pallone, una bevuta di liquore di banana, un piatto di spiedini
di capra ... Il nostro gruppo, quattordici persone unite dallo spirito d’avventura e da una forte abnegazione nel contribuire a
progetti concreti, ha realizzato ed iniziato alcune opere di grande spessore e significato per la popolazione locale, e non solo.
Durante questo viaggio mi rendo conto come tre corrisponda al
numero perfetto (“... tre come la Trinità” dice Onesphore) della
solidarietà: La prima volta “tocchi” con mano, / la seconda
“prendi” per mano, / la terza “dai” in mano.
Dove “dare” non significa semplicemente toccare la nuda e
fredda moneta ma trasmettere il proprio “know-how”, la propria capacità di esprimersi e rendersi utile in un contesto polivalente. A riscontro vedevo i miei compagni di viaggio offrire
le loro capacità nella propria sfera di esperienze: Anna e Giusy
le due infermiere, Maurizio il geometra, Ugo il fabbro ...
Il fenomeno del “fatalismo” in queste zone è ben radicato. E’
quindi molto importante, pur nel rispetto di culture e tradizioni,
trasmettere la giusta dose di conoscenza.
L’Africa è un giocattolo nelle mani di un destino cieco ...
Mi trovo, a distanza di un anno, catapultato in una realtà che
ha visto trascorrere in questo lasso di tempo vicissitudini di
ogni sorta. Ritorno in Rwanda con un’atmosfera particolare,
con un significato di rilievo per la mia vita: l’inaugurazione e
la consacrazione della chiesa dedicata ad una cara amica scomparsa pochi giorni prima di quello che sarebbe poi diventato il
nostro primo viaggio rwandese. La gioia nel vedere assiepate,
in mezzo all’arsura di un venerdì d’agosto rwandese, più di tremila persone accorse per questo evento è incommensurabile.
Per loro è come ricevere una seconda vita, una seconda opportunità. Per un popolo così fatalista è molto importante una sana
dose di spiritualità che lo aiuti ad uscire dagli stereotipi tramandati di secolo in secolo da più generazioni. A sottolineare
l’importanza dell’evento erano presenti l’arcivescovo di Kigali,
diversi parroci delle chiese locali (anche dal vicino Burundi),
alcuni politici altolocati in rappresentanza del governo. Ma
c’era pure tanta gente comune, e non è mancata la celebrazione
di matrimoni e battesimi di massa. Tra gli ospiti i genitori di
Elisa, a cui è stata dedicata la chiesa. I miei occhi si riempivano
di lacrime per la gioia nel vedere tutta questa gente festante e
capace di farci sentire, anche qui, a casa nostra.
Rwanda: La scuola di Butereri e la consacrazione della nuova chiesa - Erik Viani (Sondrio)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
Scorrendo nella memoria i 50 km da Kigali a Ruhuha - di cui
vi ho già parlato - non posso poi dimenticare le visite all’orfanotrofio di Nyamata ed alla scuola di Butereri. In quell’orfanotrofio sono ormai passato diverse volte, e ad ogni visita ho
cercato di notare i miglioramenti di struttura e organizzazione.
Ma, soprattutto, di ridare un sorriso a quei ventiquattro bambini
provenienti dalle strade polverose del circondario. Quarantotto
occhi per guardare ad un futuro pieno di vita e ventiquattro
bocche da sfamare tutti i giorni. Armati di pazienza e buona
volontà ci siamo spinti nella capitale alla ricerca di coperte,
materassi, zanzariere, ed in un batter d’ali siamo ritornati con
il materiale, organizzando il trasporto dei materassi in bicicletta e, per il resto, caricando a tappo il nostro minivan. E’ stato
il primo passo verso un restyling che prenderà corpo con la
costruzione della nuova cucina, progettata sul posto, che sostituirà quella fatiscente ed obsoleta composta da quattro lamiere
messe in croce da spaghi e corde volanti. La scuola di Butereri
è un complesso di più aule con annessa stalla, cisterne per la
raccolta dell’acqua e sala per i professori. Alla mia prima visita
vi erano solo due aule adibite a prima e seconda elementare ed
una terza in costruzione. Allo stato attuale, grazie all’impegno
di tutti, locali ed amici italiani, siamo giunti a sei aule, una
stalla con due preziosi occupanti a quattro zampe, una sala per i
docenti e, a breve, una prima cisterna per la raccolta dell’acqua
piovana per svariati usi.
Questo viaggio mi ha presentato più sfaccettature, vissute con
intensità ed emozioni differenti. Oltre che per i progetti di solidarietà c’è stato tempo anche per visite fugaci ai laghi Cyohoha
(vicino a Ruhuha) e Muhazi (a nord di Kigali). Indimenticabili poi le bevute di birra e whisky nella capitale, le camminate
nella savana e le serate al chiar di luna nel parco dell’Akagera,
la vista delle impetuose cascate Rusumu (formate dal fiume
Akagera in piena sul confine con la Tanzania), la festa per il
centenario della prima chiesa cattolica rwandese a Rulindo,
l’incontro con gli amici del gruppo Argonauti Explorers a Kigali e con quelli di Avventure nel Mondo a Ruhuha, e tante altre
emozioni. Non posso nascondere la soddisfazione per ciò che si
è realizzato e si farà in futuro, merito anche della collaborazione di tutti, avendo lavorato in sinergia e a stretto contatto con le
realtà locali. E, soprattutto, grazie al supporto di Onesphore, il
vero motore di questa macchina perfetta! Ormai questo motore
è a pieno regime ed ha avuto un nuovo incarico; la gestione
della parrocchia di Rulindo, la più antica in Rwanda. Mi trovo
all’atto finale, all’uscita dall’aeroporto di Kigali l’ufficiale che
mi controlla il passaporto esclama: “Lei lavora qui?”. Ed io,
sorridendo: “Ho tanti amici in Rwanda ...”.
Rwanda: La vecchia cucina dell’orfanotrofio di Nyamata
Erik Viani (Sondrio)
Rwanda: Bambini sulle rive del Lago Cyohoha - Erik Viani (Sondrio)
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Il fenomeno del fatalismo in Africa
In Rwanda, così come in Africa in generale, si percepisce un
atteggiamento di accettazione passiva degli eventi, con tanta
rassegnazione, senza contrapporre alcuna resistenza al “fato”,
al destino. Il concetto junghiano di “inconscio collettivo” ci
può dare un valido aiuto nella spiegazione di questo fenomeno.
L’inconscio collettivo si esprime in Africa in una forma primitiva strettamente legata al passato, propria degli archetipi che
a loro volta lo costituiscono e che ancora oggi determinano in
larga parte il modo in cui l’africano interpreta la realtà. Questa
considerazione ci porta su un terreno di osservazione e indagine di grande interesse. Il fatto, per esempio, che la comunicazione di massa (televisione, stampa, cinema, ecc.) giochi
dovunque un ruolo sempre più rilevante nella sopravvivenza di
tali archetipi, ravvivandoli oppure indebolendoli (e ciò è vero
anche in Africa), ci spinge ad interrogarci sulle relative dinamiche attualmente in atto e sui loro esiti. Come pure qualsiasi
discorso su scolarizzazione ed istruzione non può prescindere
dal ruolo che questi processi giocano nel regolare il rapporto tra
inconscio collettivo e individuale. Una riflessione, insomma,
che detta il passo a molti quesiti cui rimane difficile rispondere,
se non andando a scavare nelle forme degli archetipi istintivi ai
quali la maggior parte degli africani è tuttora legata.
F
RONTIERE
Club Magellano
L’anima del viaggiatore
QUALE TIBET?
di Werner Kropik
Raccontare la realtà del Tibet mi mette in crisi. Quale Tibet?
Le idee che mi sono fatto sul paese, rappresentano solo parte
di una realtà complessa, che evolve a un ritmo vertiginoso e
mi costringe a rivedere le mie opinioni dopo ogni visita. Una
prima idea me l’ero fatta nel 1953 leggendo, fresco di stampa,
“Sette anni in Tibet” di H. Harrer. Questo Tibet non esiste più.
Nel 1951 fu occupato dall’esercito popolare “di liberazione” e
la fuga del Dalai Lama in India nel 1959, dopo un’insurrezione
popolare soffocata nel sangue, pose fine all’indipendenza del
paese. Oggi, mezzo secolo dopo, mi chiedo che Tibet avrei trovato se il paese fosse rimasto libero e indipendente, con un sistema teocratico, feudale e magari ostile agli influssi ideologici
del mondo moderno. I primi Tibetani li vidi in India nel 1962.
Avevano seguito il Dalai Lama nel suo esilio a Dharamsala. Alcune famiglie avevano trovato accoglienza nel tempio centrale
dei Sikh ad Amritsar. Nel caldo torrido delle pianure indiane
indossavano ancora i vestiti pesanti con i quali erano fuggiti. E’
passato mezzo secolo e i discendenti di questi rifugiati vivono
ancora in gran parte in India, ma anche la Svizzera ne ha accolto
un gran numero, ed è incredibile come, nella diaspora, i Tibetani
siano riusciti a mantenere la loro identità culturale e religiosa.
Ho avuto l’occasione di incontrare il Dalai Lama un paio di volte in India durante la celebrazione del Kalachakra. I suoi discorsi equilibrati testimoniano una viva intelligenza e il suo senso
di humour è di una sincerità disarmante. Alla domanda di un
giornalista francese “Agli europei praticare la meditazione tibetana potrebbe far bene?” ha risposto: “Fa bene anche una birra”.
Piero Verni, che ha scritto la biografia del Dalai Lama, e Bob
Thurman, amico da 30 anni di sua Santità, mi hanno confermato
questo suo lato spiritoso. Ho avuto anche occasione di parlare a
lungo con Lodi Ghyeri, il primo ministro degli esteri del governo tibetano in esilio. Così, senza un’intenzione precisa, ho accumulato nozioni su questa storia e cultura che emana un fascino
inspiegabile per noi occidentali. Sono forse gli influssi sciamanici della precedente religione Bön sul buddismo tibetano a renderlo rendono cosi misterioso? Anche la mania di bruciare l’incenso, che riempie di fumo denso l’aria del quartiere tibetano di
Lhasa, è un espressione religiosa. Le bandierine colorate, che
con il vento e il sole liberano le preghiere nell’universo, sono
dappertutto, sugli alti passi, sui ponti, fissate alle tende dei nomadi per proteggere le greggi o sui tetti delle case dei contadini
come auspicio per un buon raccolto. Per i tibetani il praticare la
religione non è limitato alla messa domenicale di un cristiano, è
un modo di vivere. Accumulare meriti per creare le premesse di
una vita futura, migliorare il proprio Karma per uscire dal ciclo
delle reincarnazioni e accedere finalmente al nirvana. Le buone
azioni porteranno magari frutti in una prossima vita. Forse per
questo i Tibetani non hanno fretta di raggiungere la libertà, forzando gli eventi storici con la violenza.
Tibet: Veduta del Potala nel 1904 - Archivio Werner Kropik (Lugano)
Kailash, la lunga via del Nirvana
Dopo tanti viaggi nelle regioni di cultura tibetana al di fuori del
Tibet (il Ladakh, lo Zanskar, lo Spiti in India e il Dolpo nel Nepal) ho attraversato in bici il Tibet orientale, l’Amdo e il Kham,
che in seguito ho visitato a più riprese in macchina. Quindici
anni fa sono stato per la prima volta nella “regione autonoma”
del Tibet, le province U e Tsang. In quell’occasione ho compiuto la prima volta il Kora del monte Kailash e ho visitato
Tsaparang nella valle del Sutlej, la mitica capitale del regno di
Guge. Pochi giorni fa sono tornato dall’ultimo viaggio in Tibet,
durante il quale ho compiuto per la seconda volta il giro del
Kailash. Dato che il Nirvana ti viene garantito solo dopo 108
giri, ho perso la speranza di riuscire in questa impresa. Già rivedere Lhasa dopo 15 anni fa capire con quale velocità il Tibet
stia cambiando. Con i suoi 130mila abitanti, è una città moderna che si raggiunge con il treno (via Golmud, 5 treni al giorno)
o con l’aereo (5-8 voli al giorno). Cinque strade portano oggi
a Lhasa: la Sichuan-Tibet Highway da Chengdu, un’altra dallo
Yunnan via Degen e Tsetang, la Friendship Highway da Katmandu, la strada che passa da Golmud e, dallo Xingjiang, la
Transtibetana (Kashgar-Yarkanda-Ali-Shigatze-Lhasa), ancora
in costruzione nel tratto dal lago Manasarovar a Lhatse.
A Darchen (altitudine 4700 m) inizia il Kora, la camminata intorno al Kailash, la montagna sacra per induisti, bön, buddisti e
jain. Il pellegrinaggio si fa in senso orario, solo i bön lo fanno
in senso opposto. Dato che il governo cinese non limita più il
numero di pellegrini indiani, migliaia di devoti induisti arrivano via terra da Purang o, via Tingri, da Katmandu. Spesso non
si concedono il tempo necessario ad acclimatarsi all’altitudine
e ogni anno ne muoiono dai 30 ai 40, di edema polmonare o di
stenti. Evento che non è considerato un dramma: chi muore al
Kailash accede direttamente al Nirvana e si risparmia il lungo
cammino spirituale per raggiungere l’illuminazione. Nonostante queste prospettive incoraggianti, gli indiani, per i quali il
Kailash è il lingam (pene) di Shiva, si accontentano di visitare
il monastero di Drirapukh, da dove si ha una vista stupenda
sul versante nord della montagna che, come luogo sacro, non è
mai stata scalata. Su un pianerottolo, che funge da cimitero, le
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RONTIERE
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L’anima del viaggiatore
vittime dell’altitudine sono deposte per il funerale “dell’aria”.
I cadaveri tagliati a pezzi, il cranio spezzato con un sasso, il
tutto è offerto agli avvoltoi. Il problema è che a queste altitudini
girano ben pochi avvoltoi e di solito i cadaveri sono sbranati da
cani randagi che si aggirano in branchi affamati e diventano assai aggressivi quando i cadaveri scarseggiano. Allora attaccano
anche i pellegrini vivi, e così capita che si debba bloccare l’entrata nella valle perché il rischio di essere sbranati è troppo alto.
Sotto il Drolma-la, un passo di 5660m, c’è un altro “cimitero”.
Qui i pellegrini depongono un indumento o un oggetto personale - uno spazzolino da denti, un pettine, una tazza da the,
stivali, cappelli, talvolta anche banconote di piccolo taglio o
caramelle - poi si sdraiano per morire simbolicamente. Quando
si rialzano sono come rinati, liberi dalla zavorra dei peccati. In
confronto la chiesa cattolica offre questo servizio con una semplice confessione e un paio di preghiere. Al passo sono fissate
le solite bandierine, si brucia incenso e si urlano ai quattro venti
le lodi agli dei. La sacralità del luogo è turbata solo dall’immondizia, in gran parte lattine, ma c’è anche un lato positivo:
in caso di nebbia la vista dei rifiuti dà al pellegrino la certezza
di trovarsi sulla retta via.
A Tsaparang, vicino a Thöling, nella valle del Sutlej, troviamo
i ruderi del castello dei re di Guge. Qui un gesuita portoghese, Antonio de Andrade, aveva tentato per tanti anni, a partire
dal 1623, di convertire i buddisti in buoni cattolici, ma senza
successo. Quando il re chiese aiuto al clero locale per vincere
una guerra contro il Ladakh, i monaci acconsentirono a patto
che il missionario fosse cacciato dal paese. In tal modo fallì
l’unico tentativo di cristianizzare il Tibet. Oggi tanti cristiani
disorientati cercano risposte nell’insegnamento buddista, e il
Dalai Lama va per il mondo a diffondere il suo messaggio.
Stranamente anche tanti intellettuali cinesi, indottrinati da più
di sessant’anni di comunismo e ateismo, mostrano per il buddismo tibetano un crescente interesse, simile a quello dei bianchi
per la cultura degli Indiani d’America (dopo averli quasi sterminati). Sarà solo una moda o un vero bisogno di spiritualità?
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Nei monasteri tibetani i lama vendono oggi souvenir di dubbio
gusto ai turisti cinesi, che si fanno poi fotografare davanti al
Potala, travestiti da “tibetani”, ma questi sono sintomi della
“globanalizzazione” che avanza in tutto il mondo.
Fortunatamente ho trovato nelle valli remote anche il Tibet
come lo sogniamo noi: villaggi senza elettricità, vecchi monasteri con l’odore tipico di burro rancido e incenso, le nere
tende dei drokpa, i nomadi, che con le greggi di yak, pecore
e capre percorrono gli altipiani alla ricerca di nuovi pascoli.
Negli ultimi anni il governo, nel tentativo di renderli sedentari,
ha costruito delle abitazioni che i nomadi usano volentieri nei
mesi invernali. Durante l’ultimo viaggio ho visto sempre più
terreni recintati o trasformati in campi di colza, il che rende la
vita dei nomadi più difficile e a volte li costringe a vendere gli
animali e abbandonare lo stile di vita tradizionale. Solo al nord,
nelle steppe dello Chang Tang, resistono ancora i veri drokpa.
Siamo noi che creiamo questo mondo ...
Noi tutti siamo i testimoni della realtà che viviamo. I cambiamenti sono lenti, appena percepibili, ma da viaggiatore che rivede luoghi visitati magari mezzo secolo prima, ci si accorge di
come stia cambiando il mondo. Per esempio, le mani dei monaci tibetani, per un millennio occupate con cilindri di preghiera
e rosari, oggi maneggiano un telefonino. Sulle vette, accanto a
chörten e bandierine di preghiera troviamo adesso le antenne
per i cellulari ... Dove è rimasta allora la spiritualità tibetana?
Parlando con i tibetani della diaspora e con tutti quelli che lottano per la causa tibetana, come Richard Gere, Bob Thurman,
Piero Verni o i rappresentanti delle organizzazioni impegnate
per un “Free Tibet”, si percepisce tanta speranza: è caduto il
muro di Berlino, si è frantumata l’Unione Sovietica, perché
non la Cina? Gli abitanti di Hongkong, prima della unificazione
con la Cina, temevano che la loro città diventasse come la Cina
di Mao; invece la Cina è diventata come Hongkong. Chi sa che
in futuro i concetti filosofici del buddismo tibetano non abbiano un impatto sulla società cinese assetata di spiritualità? Già
si avvertono i primi segni. A Sertar,
la più grande università del buddismo tibetano, studiano migliaia di
cinesi Han. Ma il partito, vigile, ha
già messo fuorilegge un movimento
spirituale cresciuto troppo in fretta:
il Falun Gong.
L’India si vanta di essere la democrazia più grande del mondo, ma a che
cosa serve la democrazia se a bloccare la risoluzione dei problemi più
urgenti sono la corruzione, l’assurdo
sistema delle caste e l’ignoranza delle masse? In Tibet, a paragone con
tante zone confinanti, tutto sommato si sta bene. Perfino i mendicanti
oggi guadagnano bene, e per libertà
Tibet: Monastero lungo il Kora intorno al Kailash - Werner Kropik (Lugano)
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L’anima del viaggiatore
d’opinione e diritti civili i Tibetani non stanno peggio del resto
della Cina: finché l’identità culturale e religiosa viene espressa
in modo folcloristico - che magari attira anche turisti - nessuno ha da temere nulla. Invece chi osa tenere un’immagine del
Dalai Lama è considerato terrorista e nemico dello stato, ma
questo vale per tutti i movimenti autonomisti delle minoranze
in Cina. Come se i nostri giovani finissero in prigione per aver
indossano una T-shirt con l’immagine di Che Guevara! In Cina
sono di moda le magliette con scritte in inglese che quasi nessuno è in grado di leggere, mentre da noi è di moda farsi tatuare
con caratteri cinesi, che sovente nemmeno il tatuato riesce decifrare. Di che cosa dobbiamo lamentarci allora? Siamo noi che
creiamo questo mondo, giorno per giorno ...
UN PENSIERO AFRICANO
cidente alcuni grandi intellettuali africani, tra i quali ritroviamo
in più di un’occasione anche i Padri delle Indipendenze, creano
in maniera originale un dibattito filosofico autenticamente interculturale. Il libro porta così a conoscenza del lettore per la
prima volta anche testi fondamentali mai tradotti in italiano. E
riformula la questione, oggi decisiva, dell’incontro tra le identità nel panorama globalizzato della postmodernità.
Cosa resta di quella stagione? Il silenzio sembra essere calato, in Europa ma soprattutto in Italia, su una vicenda e una
produzione intellettuale tanto illustri. Barbara Cannelli sottolinea come, paradossalmente, sia oggi il continente europeo,
che aveva dominato l’Africa e il resto del mondo, a dibattersi
nella paura di un’identità compromessa, che si teme sempre
più di perdere a contatto con l’altro. Viviamo in un periodo caratterizzato da “nuova migrazione di popoli” in cui gran parte
dell’umanità, soprattutto la più povera e disperata, conosce la
dimensione della precarietà e dell’incertezza. Tuttavia, siamo
pienamente immersi in una stagione in cui la consapevolezza
dell’intreccio delle relazioni a livello planetario suscita motivazioni e istanze di unità e cooperazione sempre più allargate.
E’ l’intuizione del noto presidente senegalese Léopold Sedar
Sénghor - poeta e letterato oltre che politico, inventore della négritude - che oltre cinquanta anni fa lanciò l’idea di Eurafrica,
facendo riferimento a una visione di complementarietà dei due
continenti, a partire dalla cultura. Eurafrica è una visione - ha
osservato Andrea Riccardi - in cui collocare le diverse identità
nazionali europee e africane: “Eurafrica vuole essere una politica, ma anche un insieme di sentimenti e di idee tra mondi
che si scoprono vicini”. Una visione evocatrice di sentimenti
di comunanza, che offre “un quadro di dignitosa reciprocità all’interesse con cui gli africani
guardano all’Europa”.
Questo libro rappresenta senz’altro una novità nel panorama editoriale italiano sull’Africa,
presentando per di più un aspetto poco conosciuto del continente. Più abituati all’Africa
della natura, dell’economia, o della geopolitica
dei conflitti e dell’antropologia, ci troviamo
qui di fronte all’Africa del pensiero. Una ricognizione amplissima della migliore produzione
africana permette così al filosofo occidentale
ma anche al lettore meno specialista di avvicinarsi alla questione dei rapporti con l’Altro e
della difesa della propria identità.
di Antonio Salvati
Le relazioni tra Europa e Africa, così strette nel passato, oggi
appaiono così allentate da far sparire tutto un continente dal nostro orizzonte quotidiano. Eppure per tanti decenni i due continenti sono vissuti congiunti all’interno di uno stesso spazio
storico e geografico. L’Occidente in generale e l’Europa in particolare - nonostante l’antica storia comune e la colonizzazione
- sembrano abbandonare l’Africa al suo destino. In Occidente
da tanto tempo ci si rassegna a un continente pieno di drammi e
alla periferia della storia. Tuttavia, l’Africa non è inerte: l’energia e la vitalità dei suoi popoli è più forte di quel che si crede e
delle informazioni che a noi giungono.
Il ricco e bel libro di Barbara Cannelli, Un Pensiero Africano.
Filosofi africani del Novecento a confronto con l’Occidente,
1934-1982 (Leonardo International Editore 2008), è una concreta dimostrazione che, malgrado i gravi problemi che la investono oggi, nonostante il presente non possa che apparire nella
sua drammaticità, l’Africa non è soltanto sinonimo di miseria
e arretratezza. In altri termini, vi sono storie diverse, che però
non vediamo e pochi conoscono: si tratta del patrimonio culturale ricchissimo che i filosofi africani, in particolare francofoni,
hanno ricostruito e tessuto lungo tutto il XX secolo favorendo
un dibattito intellettuale e filosofico che “ha avviato una gigantesca opera di riabilitazione di quell’uomo (e donna) africani
che i filosofi europei avevano giudicato senza Storia e privi di
Ragione”. Nel vasto studio di Barbara Cannelli l’Africa e l’Europa, dopo un secolo che le ha drammaticamente unite e poi separate, tornano a incontrarsi nelle pagine di un gruppo di filosofi africani
di lingua francese, cui dobbiamo la nascita del
pensiero africano contemporaneo. Una delle
pagine più emozionanti del Novecento: una vicenda storica e politica straordinaria che inizia
a Parigi negli anni Trenta, dove tra i membri
di un piccolo gruppo di giovanissimi studenti e scrittori di colore maturano le linee del
“Risveglio nero” che porterà all’Indipendenza
dell’Africa. Il libro documenta la nascita della
filosofia africana del Novecento di cui restituisce tutto lo spessore. Confrontandosi con l’Oc-
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RONTIERE
Argonauti Explorers
Indonesia - L’arcipelago della Sonda
UN PONTE
TRA I CONTINENTI
di Roberto Pattarin
La linea di Wallace
Le isole della Sonda rappresentano l’ultimo anello meridionale di quel ponte di isole che congiunge l’Asia all’Oceania.
Una catena orizzontale che si estende da Lombok, subito ad est
di Bali, a Timor, la più vicina all’Australia. Conosciute come
Nusa Tenggara, sono costituite da una dorsale più a nord (Lombok, Sumbawa, Komodo, Rinka, Flores, Salor ed Alor), che
prosegue poi lungo l’anello meridionale delle Molucche (Kisar,
Leti, Babar, Tanimbar ed Aru) fino alla Nuova Guinea, e da una
dorsale più a sud (Sumba, Sabu, Roti e Timor), che ha davanti
a sé il mare aperto fino all’Australia ed all’Antartide. Proprio
osservando le grandi differenze di flora e fauna tra Borneo e
Celebes, Wallace nel 1859 formulò la sua teoria: queste due
isole contigue dovevano appartenere a due continenti diversi,
separati da una linea di demarcazione che correva lungo quel
canale verticale profondo oltre 300m, che passa tra Kalimantan
e Sulawesi a nord e tra Bali e Lombok più a sud. Si accertò poi
infatti che le grandi isole della Sonda (Sumatra, Borneo, Java,
Bali) si trovano sulla piattaforma di Sunda, un tempo collegata all’Asia, da cui derivano flora e fauna (elefanti, tigri, rino-
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Indonesia - Sumba: Costumi Ikat - Roberto Pattarin (Sondrio)
ceronti, leopardi, oranghi; fitte foreste pluviali con ricca flora
asiatica); mentre Papua ed Aru fanno parte della piattaforma
di Sahul e del continente oceanico (canguri, topi marsupiali,
ratti giganti, coccodrilli, clamidosauri e molti tipi di uccelli endemici, tra cui il casuario e l’uccello del paradiso). Sulawesi,
Molucche e Nusa Tenggara si trovano invece a cavallo tra i due
blocchi: sicuramente non asiatiche (a Sulawesi ci sono specie
uniche come il bufalo pigmeo, il babirussa o cervo-maiale, il
bucero colorato, l’ebano ed il tek; nelle Molucche le farfalle
giganti e particolari uccelli; a Nusa Tenggara i varani ed una
natura molto più arida), ma nemmeno oceaniche, visto che successivi studi (Lyddeker) spostarono quel confine ad est delle
Molucche e di Timor. Questa zona così insolita doveva quindi
essere un ponte, probabilmente un’isola separatasi molto prima
da entrambe le piattaforme: una condizione di lungo isolamento che spiegherebbe una flora ed una fauna decisamente uniche
e la sopravvivenza fino ai giorni nostri di specie antiche come
i varani di Komodo.
La grande deriva etnica
L’Homo Erectus era presente a Java 1-2 milioni di anni fa ed a
Sonda 300.000 anni fa, mentre il suo arrivo in Australia (Lago
Mungo) e Nuova Guinea (Kosipe) fu molto più tardivo (35.000
- 25.000 anni fa): dovevano quindi esistere degli ostacoli (bracci di mare?) che rallentarono il cammino dei primi uomini verso l’Oceania. Tra i 40.000 ed i 10.000 anni fa, quando le terre
emerse erano molto più estese per effetto delle glaciazioni (i
residui delle piattaforme di Sunda e Sahul), transitò la prima
migrazione (australoidi) di cacciatori-raccoglitori che dall’Asia
meridionale raggiunse la Melanesia e l’Australia.
s 5N GRUPPO NEGROIDE DA CUI DERIVANO GLI ABORIGENI AUSTRAliani, gli estinti tasmaniani ed i papua della Nuova Guinea;
tracce di questo passaggio si ritrovano nei gruppi residuali
di “negritos” lasciati lungo la via: in India (Bonda e Kondh
dell’Orissa; Yarawas delle Andamane), in Malesia (Semang),
in Indonesia (Kubu a Sumatra, Papuasi a Timor) e nelle Filippine (Batak a Pelawan e Negros a Visayas).
s 4RAIEDIANNIFAUNASECONDAONDATADIMONgolici (austronesiani o protomalesi), agricoltori ed allevatori,
migrò con piccole canoe e maiali dall’Indocina alle Filippine
ed alla Polinesia; navigando di isola in isola imposero la loro
lingua e cultura su tutte queste terre, mescolandosi con le
popolazioni precedenti (ad eccezione della Melanesia, dove
si fermarono sulle coste ed i caratteri negroidi restarono dominanti).
s #IRCAANNIFAUNANUOVAMIGRAZIONEDIAGRICOLTORINEomalesi) giunse dall’Indocina, portando con sé la cultura irrigua del riso, il sacrificio rituale del bufalo, la fusione del
bronzo, l’usanza di erigere megaliti e particolari tecniche di
tessitura (ikat). Questi antichi indonesiani erano animisti e
credevano che tutte le cose avessero un’anima (semangat),
una forza vitale propria; gli spiriti dei defunti venivano onorati perché la loro forza potesse aiutare i vivi, giacchè esiste
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un’altra vita dopo la morte dalla quale si può incidere su quella terrena ed a cui bisogna prepararsi, costruendo sepolcri e
deponendo utensili ed armi per il viaggio. I resti di questa
antica cultura, poi sopraffatta da successive migrazioni, sopravvivono ancor oggi nelle zone più remote dell’Indonesia:
in particolare sui monti di Sulawesi (Toraja) e nelle lontane isole di Nusa Tenggara. Tradizioni strettamente collegate
LE ISOLE DEI DRAGHI
di Marco Bono
I giganteschi varani di Komodo, di Flores e delle altre isole del
mare della Sonda sono considerati gli “ultimi dinosauri”, un
assunto tuttora diffuso, perché supportato da una divulgazione tesa a semplificare i concetti e a suscitare scalpore, ma che
ha perduto ogni validità scientifica. Recenti ricerche sembrano
infatti dimostrare che i dinosauri, estintisi 65 milioni di anni
fa, fossero animali a sangue caldo, con un metabolismo e una
fisiologia simili a quelli degli uccelli, che sarebbero derivati
proprio da un loro ramo ancestrale, tanto che qualcuno ha arditamente proposto che nella classificazione zoologica il termine
“uccelli” sia sostituito dal termine “dinosauri”. Comunque sia,
dei vertebrati a sangue caldo non possono essere assimilati ai
rettili.
Rettili, non relitti
Un altro dogma diffuso è che questi animali siano “fossili viventi”, cioè organismi primitivi ed arretrati che sfuggono alle
leggi dell’evoluzione, in base alle quali ogni creatura, con il
passare del tempo, dovrebbe trasformarsi in forme più progredite oppure estinguersi per lasciare il campo a nuovi venuti
più perfezionati. Il problema della sopravvivenza di esseri immutati nelle ere geologiche è stato sollevato ad ogni scoperta
di animali che si credevano estinti o che apparivano simili a
creature del passato remoto. Il tuatara (sauro della Nuova Zelanda), i mammiferi monotremi australiani (l’echidna e l’ornitorinco), il celacanto (pesce preistorico che, fino al suo ritrovamento nelle acque del Madagascar, si riteneva estinto dalla
fine del Cretaceo), sono stati considerati come relitti viventi
sfuggiti all’evoluzione, grazie all’essersi rifugiati in ambienti
isolati ed all’assenza di specie rivali più avanzate. Anche i marsupiali australiani e sudamericani sono stati visti come esempi
di arretratezza biologica rispetto ai placentati cui noi apparteniamo. Ma la realtà è più complessa: l’evoluzione non implica
necessariamente una progresso crescente tra le specie viventi
che si succedono nel tempo, come si crede erroneamente in
base ad una visione antropocentrica. Il paradigma darwiniano
originario implica che il mutamento evolutivo debba avvenire
in risposta alle trasformazioni dell’ambiente, tramite la comparsa di organismi più idonei a sopravvivere. Ma più adatti non
significa necessariamente più complessi, anche perché, spesso,
tra loro, che non mancano di collegamenti anche con Papua,
confermando anche dal punto di vista culturale quel ponte tra
i continenti ed i contatti nei secoli tra Asia ed Oceania. Culto
degli antenati e sacrifici animali, plutocrazia e compensazione sono infatti rituali ancora oggi molto forti in tutte queste
società e, pur con differenze, si manifestano con significati
sostanzialmente unitari.
l’eccessivo adattamento e l’esagerata specializzazione possono riuscire svantaggiosi quando l’ambiente muta. L’ossimoro
“fossile vivente”, oltre ad esprimere una contraddizione in termini - o si è viventi o si è fossilizzati - comporta una falsa interpretazione della natura di certi organismi, con l’attribuire loro
infondati caratteri di arretratezza e di inferiorità.
Un animale di successo
I “draghi” di Komodo espletano al massimo le loro caratteristiche di sauri: possono raggiungere i 100 anni, sentire gli odori
a 12 km di distanza e sono al vertice della catena alimentare
delle isole in cui vivono, qualità che non presuppongono certo arretratezza o inferiorità. La famiglia dei varani comprende
numerose specie diffuse in tutta l’area tropicale e subtropicale,
dall’Africa all’Australia. Il termine “varano” deriva dall’arabo
varal o ural, mentre in occidente erano noti come “coccodrilli
di terra”, in base alla definizione di Erodoto; i più diffusi sono
il varano del Nilo, che può raggiungere 2 metri (Africa sudorientale), ed il varano del deserto (Sahara e Sahel). In Oriente,
dall’India all’Indonesia, vivono il varano fasciato, che supera i
2 metri, e il varano arboricolo (rudicollis), che raggiunge appena il metro; altrettanto piccolo è il varano prasinus della Nuova
Guinea. L’Australia presenta due versioni opposte: il varano
pigmeo, inferiore a mezzo metro, e il varano gigante, che raggiunge i 2.50 metri; nelle zone interne del continente, durante
Indonesia - Isola di Komodo: Varano - Marina Buratti (Milano)
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il Pleistocene fino a circa 10mila anni fa, sarebbe vissuta anche
la Megalania Prisca, un varano di dimensioni titaniche, lungo
fino a 10 metri. La stessa famiglia del dragone di Komodo comprende una trentina di specie grandi e piccole. Si tratta quindi di
animali di successo, che possono adattarsi ad una vasta gamma
di ambienti, dal deserto alla giungla: la diffusione di una specie
in un vasto spazio è indicativa della sua capacità di adattamento
ed è direttamente proporzionale alla sua probabilità di sopravvivenza nel tempo. Prima che avesse termine il Pleistocene, un
periodo caratterizzato da estese glaciazioni, Sulawesi e le isole
della Sonda erano abitate anche da elefanti pigmei, che probabilmente furono condotti all’estinzione da mutamenti climatici,
che inabissarono nel mare numerose terre, e dalla caccia degli
uomini primitivi. Ma anche il Pitone reticolato di Celebes, un
rettile di dimensioni titaniche (con oltre 10 metri contende il
primato all’anaconda) che ancor oggi vive nel fitto della foresta
di Sulawesi, avrebbe potuto nutrirsene.
Una linea tra due mondi
Perché su una manciata di isole sperdute tra il Pacifico e l’Indiano si sono affermati dei sauri enormi, le più grosse lucertole
viventi dell’intero pianeta? Come si sono originati questi rettili
mostruosi che hanno ricreato quasi un frammento di Triassico
sperduto tra gli oceani? Perché nelle isole di Flores, Celebes e
Timor la nicchia ecologica dei grandi predatori è occupata da
rettili e non da mammiferi come le tigri?
Una spiegazione potrebbe consistere nel ruolo di barriera per
la fauna asiatica svolto dalla linea di Wallace, che corre perpendicolare all’Equatore dall’Oceano Indiano fino al Pacifico
attraverso gli Stretti di Makassar e Lombok: un tratto di mare
con fondali così profondi da non permettere, durante le glaciazioni, l’emergere di ponti di terra tra le isole. Questa linea
separa due zone tra cui vi è discontinuità di specie animali: ad
ovest quelle asiatiche, ad est quelle oceaniche. Ma l’assenza di
grossi carnivori a sangue caldo è dovuta solo in parte al man-
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cato collegamento terrestre del passato e deve invece avere una
spiegazione prevalentemente ecologica. La Wallacea (nome
attribuito nel loro insieme alle isole della Sonda situate ad est
della Wallace) è, dal punto di vista ambientale, parte dell’Oceania, la cui massa continentale, l’Australia, dovrebbe essere
considerata non tanto il più piccolo continente, quanto la più
grande isola del pianeta. Nella sua fauna prevalgono i rettili:
circa dieci specie di pitoni e molti sauri di medie dimensioni
fra i quali varani, quattro specie di coccodrilli, oltre a lucertole
bizzarre come il moloch orridus e il clamidosauro. Il territorio
interno (“outback”) è occupato da un esteso deserto che, come
tutte le aree povere di risorse, può ospitare solo poche specie
animali e vegetali. Lo stesso dicasi per le isole sudorientali
dell’arcipelago indonesiano, che, avendo superficie piccola,
non possono ospitare cospicue popolazioni animali che necessitino grandi quantità di energia. A Sulawesi l’evoluzione ha
provveduto a rimpicciolire parecchi mammiferi; ormai estinti
gli elefanti nani, si possono trovare l’anoa, considerato il più
piccolo bovide del mondo (ha la taglia di un grosso cane), ed il
tarsio, che è la scimmia più piccola (ha le dimensioni di un ratto). Questo fenomeno si è verificato anche su altre grandi isole:
in Madagascar, in passato, vissero ippopotami nani e persino
la Sicilia e Malta, centinaia di migliaia di anni fa, ospitarono
popolazioni di elefanti pigmei. Dunque, su molte terre poste in
mezzo al mare si verifica una tendenza biologica bidirezionale:
gli animali di grossa mole a sangue caldo tendono a rimpicciolire, mentre i rettili tendono ad acquisire dimensioni colossali.
Perché?
Una terra per predatori “frugali”
Questo fatto all’apparenza paradossale trova una spiegazione
nell’ecologia: in tutti gli ecosistemi, dai più semplici ai più
complessi, le specie sono interrelazionate le une alle altre secondo la cosiddetta “piramide ecologica”, che consiste in una
estesa e ramificata catena alimentare con al vertice pochi carnivori predatori. Il numero di individui per singola
specie decresce salendo verso l’apice della piramide:
le piante sono più numerose degli erbivori, i quali
sono a loro volta più numerosi dei loro predatori.
Tigri, leoni, leopardi, lupi e orsi sono, in ogni ambiente, presenti in numero nettamente inferiore a
quello delle loro prede. La presenza di erbivori di
grandi o medie dimensioni deve accompagnarsi a
quella di grossi predatori posti all’apice della catena
alimentare, che mantengano l’equilibrio ecologico;
il contrario andrebbe a detrimento dell’ambiente,
per la rapida spoliazione del manto vegetale ad opera degli erbivori. Gli ecosistemi di ampiezza ridotta
o con scarsità di risorse rimediano a questo pericolo favorendo l’evoluzione di enormi rettili o di altri
animali a sangue freddo, come sauri o serpenti, che
hanno necessità di nutrirsi meno frequentemente che
i mammiferi. I varani, come anche i coccodrilli e i
Indonesia - Isola di Flores: Combattimento Cachi - Marina Buratti (Milano)
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grossi serpenti devono mangiare soltanto una volta al mese, per
cui una popolazione di grossi rettili costa all’ambiente 10 volte
meno che un ugual numero di tigri, leoni o leopardi. Questo è
il motivo basilare per cui le isole sudorientali dell’Indonesia
non ospitano grandi felini carnivori, che avrebbero forse potuto
raggiungere a nuoto queste terre, ma la cui progenie avrebbe
finito per destabilizzare ambienti di estensione limitata. Al contrario, le inferiori esigenze nutrizionali di varani e pitoni giganti, adeguate a mantenere costante il livello di erbivori senza
causare squilibri ecologici, hanno consentito l’affermazione di
questi grandi rettili. Si calcola che la stragrande maggioran-
za delle specie viventi sulle terre emerse, negli oceani e nelle
acque interne, sia ancora ignota e che possa ammontare fino
a 10 milioni di organismi, per lo più insetti ed altri artropodi.
Le ricerche in futuro potrebbero quindi portare alla scoperta di
nuovi organismi ritenuti estinti o simili a specie di altre ere geologiche. Tali creature, come i varani di Komodo e il celacanto,
meriterebbero una considerazione maggiore che non quella di
“fossili viventi” o “relitti del passato”: l’essere sopravvissuti
attraverso le vicissitudini e i travagli del nostro pianeta attesta
la loro capacità di adattamento ed efficienza biologica e non
certo arretratezza o inferiorità.
MEGALITICA SUMBA
debbono essere rispettati e riveriti, placandone i risentimenti.
Occorre quindi garantire ai morti degna sepoltura per un onorevole passaggio nell’aldilà.
di Roberto Pattarin e Bruna Bianco
Una società equestre
Sumba è la più meridionale ed isolata delle isole della Sonda;
ne consegue un clima più secco e quindi una vegetazione più
arida, tanto anomala rispetto al resto dell’Indonesia da favorire
il diffondersi del cavallo. Introdotto dai cinesi e dai portoghesi durante i loro viaggi verso le Isole delle Spezie, la società
equestre che ne derivò è parte integrante della storia e della
cultura di Sumba. L’eccentricità dell’isola è stata una barriera
di protezione da invasioni, mentre la sporadicità dei contatti ha
lasciato intatta una società ancestrale. Se Lombok, Sumbawa e
parte di Timor hanno ceduto all’Islam; se Flores e l’altra Timor
per reazione si sono aggrappati al Cristianesimo, Sumba resta
fondamentalmente pagana. E mentre a Flores ciò che resta della cultura animista è rappresentato da alcuni villaggi Nggada
e Menggarai museificati e dalla riscoperta in chiave di rappresentazione rituale della battaglia del Cachi, a Sumba l’adozione
del Cristianesimo è stata più superficiale e la vita del
villaggio ruota ancora attorno al mondo degli spiriti.
Tombe megalitiche e sacrifici
Culto degli antenati e culto funerario rappresentano un binomio
inscindibile, il cui collegamento è garantito dal rito del sacrificio. Al centro del villaggio è posta la zona funeraria, costituita
da imponenti pietre tombali, che come pagane are megalitiche,
danno lustro e visibilità al defunto e al suo lignaggio, la cui importanza può essere sottolineata da un secondo elemento simbolico: la rappresentazione megalitica dell’impugnatura di un
kriss conficcato nel terremo, simbolo del legame con la propria
terra. Ancor oggi la vita di Sumba ruota attorno alla sepoltura:
ogni persona importante commissiona già in vita la sua tomba;
le lastre vengono tagliate a mano in cave lontane e poi trasportate a mano, con l’aiuto del proprio clan, trascinandole con funi
vegetali su un letto di bastoni che funge da rulliera. Come non
vedere similitudini con gli spiriti Taotao dei Toraja di Sulawesi
o con la cultura maori dell’isola di Pasqua in Polinesia? Come
tra i Toraja, il funerale comporta un eccidio di bufali per ac-
Il mondo dei Marapu
I Marapu sono gli spiriti degli antenati, raffigurati
come stilizzate statuette collocate nella cuspide delle
capanne. La casa di bambù, di forma quadrata, è costruita su tre livelli, attorno ad un alto palo centrale
simbolicamente istoriato: in basso il mondo animale
col suo recinto, sopra la piattaforma per la vita quotidiana (una veranda esterna, uno spazio quadrangolare interno per la cucina e la zona letto), il terzo
livello, costituito dalla cuspide del tetto in paglia, per
gli spiriti. Cibo e offerte sono ogni giorno devolute a
questi “Lari” e la cuspide, fungendo da canna fumaria, veicola agli antenati attraverso il fumo l’essenza dei doni, dei pensieri e delle preghiere. I Marapu
proteggono la casa e la famiglia, intercedono con
le divinità e scacciano gli spiriti avversi: per questo
Indonesia - Isola di Sumba: Tomba megalitica con Kriss - Marina Buratti (Milano)
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compagnare il trapasso nell’aldilà di un defunto o il passaggio
al successivo strato sociale di un vivente. Ma la cerimonia è qui
molto più rituale, a volte ancestralmente più aggressiva nella
modalità di sgozzamento dell’animale, a volte collettivamente più gioiosa, attraverso danze che devono mantenere allegro
il defunto. E, sempre come tra i Toraja, le famiglie ostentano
ricchezza eccedendo nel numero di animali sacrificati, tanto da
obbligare il governo in entrambi i casi a stabilire per legge un
tetto, per evitare l’impoverimento del patrimonio animale ed
economico. Ed in questo, cioè nel determinarsi e nel deteriorarsi di una società plutocratica che accumula e distrugge ricchezza, nel salire nei gradi di una complessa scala sociale mediante
i sacrifici, non vi è forse analogia anche con i sacrifici di maiali
nei Sing Sing e nei Nimangki melanesiani?
Kriss ed Ikat
Agricoltura ed allevamento sono le fonti di vita, ma la cultura
è evoluta nelle forme artistiche e simboliche: le donne tessono
splendidi drappi colorati con metodo particolare, gli ikat, mentre gli uomini conversano ostentando gli inseparabili turbanti
ed il Kriss di battaglia. Il tessuto ikat, quasi sempre in cotone,
viene filato a mano per mezzo di un fuso. La colorazione si ottiene immergendo i fili in tinture derivate da erbe e piante, mentre le parti che non devono essere colorate vengono annodate
con fibre resistenti al colore. Si passa quindi alla tessitura con
telaio a mano per realizzare stoffe usate in occasioni importanti. I colori sono contrastati ed i motivi rappresentano guerre,
eventi rituali o storici, animali mitici.
CERIMONIE
A SUMBA E FLORES
Cerimonia funebre a Sumba
I parenti e gli amici arrivano in corteo accompagnando il loro
bufalo sacrificale, addobbato con lunghe strisce di tela, fino al
centro del villaggio dove si affaccia la casa del defunto. Sono
vestiti con i tradizionali tessuti ikat con decorazioni tipiche
del villaggio di provenienza. I figli e i nipoti del defunto li accolgono con urla ed una danza che mima un combattimento:
bisogna tenere allegro lo spirito in modo che non ritorni nel
villaggio. Ben 26 (sì, è incredibile!) sono i cortei che portano
bufali. Un’altra ventina i maiali offerti. La cerimonia deve essere sfarzosa per gratificare i marapu e le offerte accompagneranno lo spirito per consentirgli di pagare l’ingresso al mondo
invisibile. Mentre betel, tabacco, machete e gli altri ornamenti
vengono messi nella tomba, bufali e maiali devono essere sacrificati. Ciò avviene con un deciso
colpo di machete alla gola, che recide
(se il colpo è ben assestato, il che non
avviene sempre) la carotide del bufalo. Il sangue sgorga copioso mentre
l’animale rantola e il sacrificatore
urla danzando la propria soddisfazione per il buon esito del sacrificio. Nel
giro di un’ora il terreno tra le case
e le tombe si arrossa di sangue e la
cerimonia animista raggiunge il suo
culmine. A questo punto, al leggio,
pronto fin dal mattino, si avvicina …
il prete. Sì, perché ora c’è la cerimonia funebre cristiana. Orazioni, litanie, canti religiosi seguiti con la dovuta partecipazione da tutti i presenti.
A pochi metri ci sono le carcasse dei
bufali e dei maiali sacrificati. Dopo la
consueta benedizione compare il cavallo, montato da un parente per guidare lo spirito del defunto alla tomba.
di Gianni Oggioni
Vicine, ma isolate
Flores e Sumba sono isole molto diverse. Nella prima sono rari
i villaggi tradizionali e la popolazione, salvo l’eccezione che
vedremo, ha uno stile di vita fondamentalmente di tipo occidentale. A Sumba, invece, la popolazione rurale si attiene alle
antiche tradizioni, in particolare in occasione delle cerimonie
che scandiscono la vita della famiglia: tra queste particolare
importanza hanno i funerali.
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Indonesia - Isola di Flores: Funerale Ngada - Marina Buratti (Milano)
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A differenza dei bufali, il cavallo non viene sacrificato, confermando il grande valore che a Sumba hanno i cavalli. Bufali e
maiali vengono sezionati accuratamente ed i pezzi distribuiti
tra i partecipanti alla cerimonia. Di fatto c’è una redistribuzione
della carne tra le famiglie. E’ un modo tradizionale di sostegno
reciproco.
Funerale Ngada a Flores
Nonostante che i loro antenati provengano da Java, quindi da
tutt’altra parte rispetto a Sumba e Sulawesi, anche per gli Ngada il sacrificio del bufalo è elemento di base per accompagnare il defunto. Un centinaio di persone affolla il terrazzamento
antistante la casa del defunto. A pochi metri di distanza è stata
scavata la fossa, a fianco della quale è già pronta la croce con
relativa iscrizione. Sull’altro lato del terrazzamento è situato
lo ngadhu, il simbolo maschile (costituito da un palo in legno
sormontato da una specie di ombrello in paglia), vicino al quale gli uomini legano un bufalo. A questo punto iniziano due
cerimonie parallele, a meno di dieci metri di distanza l’una
dall’altra. La carotide del bufalo viene tranciata da un colpo di
machete sferrato in religioso silenzio da un parente. L’animale
legato rantola finendo a terra, mentre gli uomini raccolgono in
un tubo di bambù il sangue che sgorga copioso dalla profonda
ferita. Con le mani il sangue viene spalmato accuratamente sul
palo dello ngadhu che già fu spalmato con il sangue dei bufali
degli antenati. Contemporaneamente il feretro è stato portato
fuori dalla casa, benedetto dal prete che pronuncia le orazioni
funebri mentre le donne intonano serie di litanie. Il feretro è
calato nella tomba che viene prontamente ricoperta di terra. La
croce viene piantata e decine di candele accese sul tumulo. Le
donne buttate a terra piangono e si consolano l’un l’altra: una
scena molto simile a quelle che accadevano anche nel nostro
paese. E’ una strana sensazione assistere contemporaneamente
alla cerimonia cristiana e a quella animista. Il rito, introdotto
dai missionari dopo il 1920, si è sommato a quello tradizionale.
parare il colpo. I due si muovono l’uno intorno all’altro come
uccelli in un corteggiamento. I campanelli appesi alla cintura
di stoffa colorata tintinnano. I muscoli si gonfiano, fino a che la
frusta parte schioccando per abbattersi sul nemico. Un sospiro
di delusione si alza dai supporter del perdente mentre esultano
quelli del vincente che intona un canto guerresco di vittoria. I
combattenti, a torso nudo per mostrare con orgoglio le ferite dei
precedenti combattimenti, usano una maschera in legno con una
specie di parasole e corna (il solito bufalo) stilizzate. Indossano costumi cerimoniali in stoffa e cuoio riccamente decorati. I
padrini vestono sarong di ikat scuri, alla moda di Ruteng, con
ricami colorati e giacca sempre di ikat intonata. Una eleganza
esibita con la dignità di chi sa di impersonare una celebrazione
che ha avuto origine dagli antenati, i quali, nelle culture melanesiane, costituiscono le vere radici della comunità in cui si vive.
La Pasola
Per propiziarsi il raccolto gli anziani del villaggio organizzano
la Pasola, rito in cui la società equestre di Sumba esprime i
valori del coraggio guerriero - in passato anche del sacrificio
umano - da offrire alle divinità per la prosperità comunitaria.
La sfida viene recapitata ai villaggi circostanti che designano i
propri campioni. Questi sono incoraggiati dalle donne che danzano nella notte attorno al fuoco brandendo i kriss per evocare
i propri uomini, i quali appaiono all’improvviso urlando, mascherati ed armati di scudo e lance, per terrorizzare gli astanti
e spaventare il nemico. La mattina successiva i cavalieri ed i
loro destrieri, sontuosamente ornati, si radunano nella vallata,
mentre tutto il villaggio segue trepidante i sacerdoti nell’ispezione delle viscere di un pollo, che annunceranno se gli spiriti
gradiscono il rito e sono disponibili all’intercessione. Gli anziani danno quindi il via alla tenzone: coppie di cavalieri si
lanciano al galoppo l’un contro l’altro, scagliandosi lance, fino
all’emergere di un gruppo di vincitori. Ma non importa chi vince, perché ciò segue il volere degli dei: contano il coraggio ed
il sacrificio a favore della comunità.
Combattimenti cachi a Flores
Il Cachi (si pronuncia “Ciaci”) è una tradizione dell’etnia Manggarai nella quale due gruppi di combattenti si sfidano a singolar tenzone
con una frusta. Si svolge nelle occasioni importanti, quali ordinazioni sacerdotali, festa
della mietitura, feste di villaggio. Si tratta di
rimanere immobili e parare una frustata con
un piccolo scudo ed un’asta arcuata di bambù.
Se la frustata dell’attaccante colpisce la schiena o il petto nudi dell’altro combattente questi
ha perso, altrimenti vince. Subito dopo i due
si scambiano ruolo e colui che prima attaccava ora si deve difendere. Il combattente alza
sopra la testa la frusta ondeggiando come in
una danza per ingannare le difese dell’avversario che a sua volta muove scudo e arco per
Indonesia - Isola di Sumba: Pasola - Roberto Pattarin (Sondrio)
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Itinerari insoliti
PANAMA
di Roberto Pattarin e Sandro Bernes
Panama è per i viaggiatori una piacevole sorpresa, giacché pochi si aspettano di trovare a poca distanza dai grattacieli di Panama City (un paradiso fiscale che registra duecento nuove società alla settimana) e dall’andirivieni di navi lungo il Canale,
paradisi naturali ragguardevoli, etnie di grande interesse ed una
cultura vivace, che al folklore tradizionale abbina l’innovazione, soprattutto nel campo musicale ed artistico. D’altronde la
caratteristica di Panama, come la storia insegna, è proprio questa: lo Stato del Canale, presidiato dagli Stati Uniti fino a pochi
anni fa, è una striscia di modernità strappata alla foresta. Era il
25 settembre 1513 quando Vasco Nuñez de Balboa, seguendo
le indicazioni degli indios che parlavano di un altro mare oltre
le montagne, emerse dalle foreste del Darién per avvistare per
primo l’Oceano Pacifico. Da allora un mondo moderno, caotico
e cosmopolita, si è insediato attorno a questo corridoio di traffici, ma tutto intorno la foresta è rimasta intatta. E se in un primo
tempo sono stati il clima malsano e le malattie ad impedirne la
colonizzazione, poi hanno prevalso ragioni strategiche: il Nord
America voleva proteggersi dai flussi migratori e dalle rivoluzioni sudamericane, i cartelli della coca colombiani avevano
bisogno di una terra di nessuno impenetrabile che proteggesse
i loro traffici. Così la Carretera Panamericana, che dall’Alaska
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Panama - Isole San Blas: Spiaggia - Roberto Pattarin (Sondrio)
corre fino alla Terra del Fuoco lungo la costa del Pacifico, resta
ancor oggi “inspiegabilmente” interrotta proprio sull’istmo: e
la foresta del Darién, con gli indios che ancora la abitano, ne ha
beneficiato, risultandone involontariamente, ma provvidenzialmente, protetta, anche dal turismo di massa.
La foresta del Darién: natura ed indios Emberà
E’ l’ultima grande zona naturale incontaminata del Centro
America, un’immensa foresta di 19.000km2 che prosegue lungo la costa del Pacifico nella regione colombiana del Chocò. Si
tratta di uno degli ecosistemi più integri e diversificati del mondo, come i 5800km2 del Parco Nazionale testimoniano (500
specie di uccelli, giaguari, aquile arpie e diversi tipi di macachi). Questa terra di frontiera selvaggia è da sempre rifugio di
ribelli: un tempo pirati ed ex schiavi (cimarrones), oggi guerriglieri e narcos, mentre solo gli indios restano a combattere la
battaglia di sempre: quella per la sopravvivenza. Ma se il tratto
di costa vicino alla frontiera è da tempo off limits (il famoso
trekking di 5 giorni per passare il Tapon è sempre un miraggio)
alcune zone sono invece sicure, anche se il turismo da queste
parti è ancora agli albori. Un piccolo aereo di linea atterra a
Rio Sambù, una piccola comunità cimarron ai margini della
Riserva: le regole della Comarca sono molto protettive, ed oltre
il ponte pedonale, da Puerto Indio alla frontiera, solo gli Emberà possono risiedere. E solo la comunità può condurre estranei
nella riserva: in 6 h si risale il Rio Sambù fino agli ultimi villaggi, con le capanne a palafitta allineate a rettangolo attorno
ad un grande spiazzo; i bimbi indossano collane propiziatorie e
le donne portano parei colorati e lunghi capelli che cadono sul
davanti a coprire il seno, lasciando libera la schiena, su cui sono
disegnati i tipici motivi geometrici della tribù. Sembra di essere
in Amazzonia: tunnel di foresta, montagne all’orizzonte, stormi
di aironi e pappagalli in volo, spumeggianti rapide.
Il Caribe: gli arcipelaghi delle San Blas e di Bocas del Toro
Al tempo della rivolta Kuna del 1917 gli americani schierarono
una nave da guerra per impedire la reazione del governo. Da
allora l’autodeterminazione è totale (la legge nazionale ha solo
parziale applicazione e la terra non è alienabile: una condizione
inimmaginabile per molte minoranze nel mondo). La Comarca dei Kuna si estende per circa 375km di costa caraibica, dal
Golfo di San Blas al confine colombiano di Puerto Obaldia.
L’arcipelago comprende circa 360 isolotti corallini lungo la
costa del Darién, ma i 40.000 Kunas ne abitano solo una quarantina: i villaggi sono una ventina, tutti vicino alla costa, dove
ogni famiglia ha una piantagione e si rifornisce di acqua dolce,
mentre gli isolotti più esterni sono abitati da singole famiglie
che vivono di pesca, della raccolta di cocchi e oggi di turismo.
Non ci sono resort ed alberghi, ma solo piccoli e spesso spartani ecolodge gestiti direttamente dalla famiglia proprietaria
dell’isolotto: l’ideale per piccoli gruppi o fai da te che intendono sperimentare una vita semplice con gli indios, fatta di
gite in barca sulle idilliache spiagge deserte degli atolli vicini
e quattro chiacchiere la sera in famiglia fino a che funziona il
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Itinerari insoliti
generatore, mentre il turismo di massa viene dirottato a Bocas del Toro. Mentre gli uomini vestono ormai all’occidentale,
le donne conservano intatte le tradizioni: portano anelli d’oro
alle orecchie ed al naso, collane di perline sugli avambracci
ed ai polpacci, fazzoletti in testa, fasce di tessuto colorate e i
tipici corpetti, le molas, ricamate con motivi astratti o uccelli
e pesci rituali. Una società matriarcale vera, dove è l’uomo a
trasferirsi nel clan della sposa, e le donne reggono la famiglia,
pagaiando su esili canoe per andare al mercato di Cartìz o alle
piantagioni sulla terraferma. Agli uomini la pesca ed il governo
della comunità, distesi sulle amache al centro della capanna
del Congreso. Ma anche i giovani che vanno a scuola continuano a pensare, in accordo con gli anziani e la loro cultura,
ad uno sviluppo ecologicamente sostenibile. L’arcipelago di
Bocas del Toro è invece situato all’estremo nord, al confine con
il Costarica; dalle foreste pluviali sulle pendici della Cordillera
Talamanca si scende alle piantagioni di banane della costa, di
fronte alle quali si estendono le mangrovie delle isole. Furono
proprio i pirati della Tortuga a portarvi gli schiavi creoli dalla Giamaica che ne costituiscono oggi la popolazione. Fino a
poco tempo fa isolate e sconosciute, hanno recentemente visto
un grande boom turistico, con nuovi alberghi e resort, musica e
mare: splendide spiagge ad Isla Colon, surf a Isla Carenero ed
il Parco Marino di Isla Bastimentos, che ospita un ecosistema
talmente complesso ed intatto da meritare la denominazione di
Galapagos del XXI secolo (tartarughe, delfini, squali ed una
varietà infinita di uccelli e pesci tropicali): un paradiso per surfisti e sub.
La Cordillera Central e il Volcan Baru
Da Bocas o da David si sale sulla Cordillera Talamanca ed i
Parchi de La Amistad e di Volcan Barù: natura lussureggiante,
fiori giganteschi ed infinite possibilità di facili trekking. Qui
e sugli altopiani del Chirigui vivono gli ultimi indios NgobeBuglè, chiamati volgarmente guaymi, due gruppi collegati, che
assieme formano il gruppo indigeno più numeroso del Panama. La Comarca è sulle montagne, ma molti di loro sono scesi a valle per lavorare come braccianti nelle piantagioni o nei
mercati: vestiti coi tipici abiti dagli sgargianti colori vendono
il loro artigianato (ceste, borse e bambole) molto apprezzato in
tutto il Panama. A Boquete e più a est a Cherro Macho, sono
stati realizzati due emozionanti Canopy Trekking, che consentono di ammirare la foresta dalle altissime piattaforme costruite
sugli alberi e collegate tra loro da carrucole.
Folklore e tradizione nella penisola di Azuero
Nella regione agricola del Chitrè batte il cuore coloniale di Panama: è terra di allevatori, gli uomini coi tipici cappelli in paglia
(i panama appunto) e le donne con splendidi costumi di pizzo.
Davanti alle chiese spagnole dei piccoli centri si svolgono sentite processioni per le feste patronali; a Las Tablas in febbraio
si svolge il più scatenato Carnevale di Panama, in settembre a
Guararè il Festival Folkloristico La Meyorana, un concorso di
danza, musica e costumi tradizionali. Ma è la Guerra lo sport
Panama - Penisola di Azuero: Corrida detta “Guerra”
Roberto Pattarin (Sondrio)
nazionale: una specie di corrida, organizzata per ogni festività
importante, dove i gauchos inseguono il toro a cavallo e lo devono atterrare prendendolo in corsa per la coda: orchestrine,
balli, carni alla brace e tanto rhum.
Le isole del Pacifico: Boca Brava, Iguana e Contadora
Le isole del Pacifico sono paradisi ornitologici: vicino a David l’incontaminato arcipelago di Boca Brava: natura splendida
con rocce e scogli a picco sul mare, spiagge laviche e coralline,
particolari tipi di scimmie ed ogni varietà di uccelli. Nella penisola di Azuero l’escursione all’incantevole Isla Iguana, popolata da migliaia di pellicani e fregate, ed al Parco di Isla Canas
con le sue tartarughe. Tutta diversa, ma comunque stupenda, è
Contadora, esclusiva residenza di miliardari americani e politici locali: ville supernascoste e pochi alberghi, si percorre solo
a piedi o con macchinine elettriche da golf. Stupende spiagge
e molti uccelli.
Panama City
Anche la capitale ha il suo fascino, nel contrasto tra i grattacieli
della City e le belle chiese e case coloniali del Barrio Antico,
appena ristrutturato. La città sta rifiorendo e non è un caso che
il Ministro della Cultura sia Ruben Blades, noto in tutto il mondo come uno dei più importanti musicisti, intellettuali ed artisti
del Caribe.
SCHEDA TECNICA:
Costi non elevati (tranne hotel di Panama City); voli interni
efficienti e frequenti; distanze contenute e buone strade (possibilità
di noleggio auto); utile corrispondente per voli e prenotazioni
alberghiere in alta stagione.
s 0ROPOSTA DA GIORNI: San Blas 4 giorni (volo), Boca del
Toro (o Darién) 4 giorni (volo), Boca Brava ed Azuero 4
giorni (auto da Panama), Panama e voli 3 giorni
s 0ROPOSTA DA GIORNI: San Blas 4 giorni (volo), Darién 4
giorni (volo), Azuero-Boca Brava-Volcan Barù 6 giorni (auto
da Panama a David), Boca del Toro (o Contadora) 4 giorni,
Panama e voli 3 giorni.
19
F
RONTIERE
Racconti per immagini:
l’arte di ornare se stessi
Indios Ixil (Nebaj - Guatemala)
Roberto Pattarin (Sondrio)
Indios Mam
(Todos Santos Cuchumatanes - Guatemala)
Roberto Pattarin (Sondrio)
Indios Atitlan (Santiago Atitlan - Guatemala)
Giovanni Busetto (Sondrio)
Indios Quiché (Chichicastenango - Guatemala)
Roberto Pattarin (Sondrio)
Indios Guajiros (Uribia - Colombia)
Marco Pierli (Modena)
I popoli del
Centro America
e del Caribe
Indios Kogi (Sierra Nevada - Colombia)
Marco Pierli (Modena)
Donne Kunas (San Blas - Panama)
Sandro Bernes (Udine)
Ragazzi Garifuna (Utila - Honduras)
Giovanni Busetto (Sondrio)
Indios Emberà (Rio Sambù Darien - Panama)
Clara Monzeglio (Torino)
Indios Ngobe-Buglé (Boquete - Panama)
Clara Monzeglio (Torino)