pasolini ei giovani - IISS "Francesco De Sanctis"

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pasolini ei giovani - IISS "Francesco De Sanctis"
PASOLINI E I GIOVANI
La letteratura fra passione e impegno
Non di rado capita di sentire parlare di scrittori «impegnati». Che cosa si intende
precisamente? Con questa definizione si indicano quegli scrittori che nella loro attività
artistica, e parallelamente ad essa testimoniano una forte e determinante attenzione a
quanto avviene nella società in cui vivono e un coinvolgimento diretto nelle vicende e nei
dibattiti in corso.
È comunque evidente che la categoria di «scrittore impegnato», come del resto la
maggior parte delle categorie, può essere giudicata vaga e discutibile: lo scrittore vive nel
proprio contesto sociale e politico come chiunque altro e come tutti si trova a subire
condizionamenti da quel contesto e ad esprimere giudizi su di esso. Lo scrittore non è un
uomo «astratto», al di fuori del tempo e della storia; la società in cui vive influisce in
forte misura sulla sua opera offrendo ispirazione e spunti, presentando difficoltà e
possibilità nuove. Per questo è importante sottolineare gli aggettivi «forte» e
«determinante» quando si parla dell'attenzione dello scrittore a quanto avviene nella
società. Infatti, lo scrittore impegnato è quel poeta, drammaturgo o narratore che ritiene
necessari per lo sviluppo e per la vita stessa della sua opera d'arte una speciale attenzione
ed un coinvolgimento pieno con gli eventi, i dibattiti, le contraddizioni e i conflitti della
società in cui si trova; fino a prendere posizioni e ad assumere una propria parte attiva.
L'impegno come scelta dei temi
Lo scrittore impegnato, di conseguenza, sceglierà per le sue opere, in modo più o
meno diretto, temi che presenteranno un'evidente connessione con i problemi sociali e
politici della realtà del suo tempo; problemi legati per esempio a difficili congiunture di
governo, alla presenza di drammatici conflitti o situazioni di «tensione» (come le guerre
civili, le guerre fra Stati, azioni persistenti di protesta, di rivolta, l'affermarsi di strategie
terroristiche), che spesso divengono emblematici della storia o dell'identità di una
nazione o di un popolo, e giungono ad inquadrarsi in riflessioni di più ampio respiro.
Generalmente la trattazione di queste tematiche può essere diretta, realizzata tramite uno
sguardo cronachistico, «documentario», uno sguardo «in presa diretta» sulla realtà attuale
che renda più esplicito, in determinati casi, l'intento della «denuncia»; oppure può
avvenire, spesso con eguale efficacia e maggior risonanza, in opere in cui è più attiva la
finzione romanzesca o, nel caso della poesia, la trasfigurazione lirica. Una situazione
problematica e conflittuale a livello politico e sociale si riflette necessariamente sulla
personalità dello scrittore che ha scelto, a più livelli, di esservi presente. Anche le ferite
dell'«io», combattuto o deluso dalla società o dal momento storico in cui si trova a
operare, possono diventare materia di narrazione o di canto poetico e riescono, nei loro
risultati più alti, a rappresentare «spie» e sintomi di un malessere civile altrettanto forti ed
emblematici.
Già nel Settecento francese troviamo un legame strettissimo fra i molteplici aspetti
dell'opera di uno scrittore come Voltaire (1694-1778): richiamiamo per esempio Il secolo
di Luigi XIV, scritto in cui la valutazione positiva dell'operato del Re Sole si affianca alla
forte e documentata critica degli aspetti di autoritarismo e di intolleranza religiosa che
caratterizzarono il suo regno; anche opere come il Trattato sulla tolleranza (1763) e le
Idee repubblicane (1763), nelle quali emerge il Voltaire storico e «polemico», immerso
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nelle tensioni della Francia pre-rivoluzionaria.
In questo contesto, è importante citare un altro autore francese del secolo
successivo: Emile Zola (1840-1902). Con lui si inaugura un filone della letteratura che si
rifiuta di guardare il mondo e le forme della società come puro scenario, come semplice
fonte di ispirazione, ritenendo invece che essi siano lo specchio più fedele dei mali e delle
ingiustizie che affliggono la realtà. Il cosiddetto naturalismo di Zola inaugurò un modo
nuovo di intendere la funzione del romanzo e il compito del romanziere, il quale diventa
non più l'artefice di una forma, pur alta, di svago e di intrattenimento, bensì una voce
capace di denunciare le ingiustizie, di descrivere la vita reale della popolazione,
specialmente la più disagiata, come nel celebre romanzo Germinal (1885), che si occupa
della vita e delle lotte sociali degli operai di un distretto carbonifero.
Infine, ricordiamo il poeta Eugenio Montale (1896-1981) che, apparentemente
appartato e solitario, col messaggio di radicale negatività esistenziale, con la denunzia
della perdita di riferimenti e di valore dell'uomo, espressi nella raccolta Ossi di seppia
(1925) uscita nel pieno affermarsi del regime fascista, diventò uno dei punti di
riferimento principali per gli intellettuali e gli artisti del tempo. Si trattò di un'apertura
radicale alla coscienza antifascista, cui daranno voce, tra gli altri, pittori come Giorgio
Morandi e Renato Guttuso.
L'impegno dell'artista in quanto intellettuale
La figura dello scrittore impegnato, specialmente negli anni del secondo dopoguerra,
tende a integrarsi con quella dell'intellettuale, il quale, in questa nuova accezione, arriva
ad assumere un'autorità di rilievo che gli permette di intervenire nei dibattiti più vari e
delicati, anche a livello sociale e politico; di far sentire la propria voce anche attraverso
«canali» diversi rispetto all'opera letteraria. Le riviste, che allargano sempre di più i loro
margini di intervento coinvolgendo un numero sempre maggiore di personalità di rilievo,
gli articoli sui quotidiani, gli interventi radiofonici sono fra i mezzi principali a svolgere
questo compito, ad affermare l’auctoritas (cioè il prestigio e l'autorità) dell'artista in
quanto intellettuale. Un poeta come Montale, per esempio, affiancò alla sua produzione
lirica una vastissima produzione giornalistica nella quale, oltre a questioni spesso di
carattere polemico relative alla situazione della letteratura e dei letterati in Italia, non
risparmiava diagnosi acute e puntuali in materia di società e di costumi. In quest'ottica,
anche una rivista come «Il Politecnico», fondata nel 1945 dallo scrittore Elio Vittorini,
fissava i propri obiettivi su un discorso che comprendesse la volontà di una riforma
culturale in stretto rapporto con istanze politiche e ideologiche, e proponeva gli interventi
di artisti e intellettuali su fronti ampi ed eterogenei di dibattito.
È importante precisare come questa nuova condizione appaia, almeno
superficialmente, come un ribaltamento, un'inversione di tendenza rispetto a ciò che fu
duramente rimproverato agli scrittori e intellettuali italiani proprio dopo la seconda
guerra mondiale, cioè l'aver mantenuto, anche durante gli anni del fascismo, un
atteggiamento di «non schieramento», di «disimpegno», se non di vera e propria, anche
se quasi mai dichiarata, compromissione con la politica culturale del regime. Dopo il
prevalere di un tipo di scrittore-intellettuale fondamentalmente distaccato, isolato in una
sicura «torre d'avorio», si afferma così, prepotentemente, il bisogno di intervenire su una
realtà drammatica come quella del dopoguerra e della ricostruzione attraverso canali e
strumenti molteplici. L'idea di una letteratura «assoluta», autosuffìciente nel porsi in
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rapporto alla realtà da rappresentare, si fa sempre più da parte.
La società e le idee nel tempo di Pasolini.
Dopo la guerra, in Italia e negli altri paesi che si posero sotto l'influenza del sistema
capitalista statunitense, il ruolo degli intellettuali che si opponevano a tale visione del
mondo si nutrì di nuova energia.
La figura dello «scrittore impegnato», come abbiamo visto, ebbe particolare fortuna
in quegli anni, a seguito di una situazione civile e politica straordinaria, quella della
ricostruzione, che seguì alla seconda guerra mondiale. Il Paese sembrava diviso in due:
c'era chi attendeva da un momento all'altro la rivoluzione marxista, la presa di potere da
parte della classe operaia, e chi invece badava solo a costruire «muri» e a cercare nuovo
benessere economico. Inoltre, venivano alla luce le conseguenze dei mutamenti sociali
derivanti dalla guerra e, in seguito, dall'industrializzazione, dallo svuotarsi delle
campagne e dall'ingigantirsi delle città: nuovi poveri, tensioni nella convivenza,
affermazione di nuovi modelli «importati» in Italia dai vincitori del conflitto, cioè gli
Stati Uniti, coi loro film e le loro mode.
Nel 1946, un referendum popolare poneva fine alla monarchia in Italia. Nel 1948 le
prime elezioni per il governo della Repubblica decretarono il successo della Democrazia
cristiana contro il Fronte popolare (comunisti e socialisti). Grazie anche all'appoggio
della base cattolica e del clero si affermò dunque il partito che voleva che l'Italia entrasse
nel «blocco» dei paesi occidentali, caratterizzato dal sistema capitalistico e dalla
democrazia parlamentare, contro il partito che mirava al modello del sistema
collettivistico di stampo sovietico. L'Italia si avviava a diventare uno dei sette paesi più
sviluppati del mondo. Ma per ottenere questo risultato doveva accettare di svolgere, per
conto degli alleati americani, un ruolo di presidio verso Est, cioè verso le terre su cui si
allungava il dominio dell'altra potenza mondiale, l'Unione Sovietica. Le scelte politiche
conseguenti, come l'adesione al patto di difesa atlantica (NATO) nel 1949, provocarono
conflitti e polemiche vivacissime nel nostro paese, dove si era avuta la presenza del più
forte partito comunista occidentale.
Il Partito comunista italiano, che più sembrava incarnare le speranze di una
maggiore uguaglianza tra gli uomini e promettere una più radicale soluzione dei
problemi, fu preso a riferimento da molti scrittori e intellettuali italiani che si sentirono
impegnati a intervenire urgentemente contro la presa di potere democristiana, che
identificavano come l'avvento di un nuovo «regime». Proprio a partire da questo periodo
si rafforzò il conflitto cattolicesimo-marxismo.
Per quanto riguarda l'impegno in ambito artistico, negli anni immediatamente
successivi alla guerra si affermò un movimento che vedeva riuniti scrittori, registi,
intellettuali, anche con differenze notevoli dal punto di vista estetico e ideologico, e che
si è soliti racchiudere (pur con grossi margini di imprecisione, soprattutto cronologica)
nella definizione di Neorealismo. La coscienza di aver vissuto in prima persona gli anni
della guerra e di essere ancora «all'interno» di un momento storico di capitale importanza
per l'Italia fece nascere l'esigenza, in registi come Roberto Rossellini e Vittorio De Sica,
in narratori come Elio Vittorini, Cesare Pavese, Giorgio Bassani e Carlo Cassola, in
pittori come Renato Guttuso o in personalità carismatiche e poliedriche come Cesare
Zavattini, di un'arte e di una letteratura che si fondassero unicamente sul rispetto e
l'adesione alla realtà presente e che avessero il valore assoluto di una testimonianza, in
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modo da portare in primo piano la vita della nazione e i suoi «veri» protagonisti, spesso
identificati con le persone più umili.
Un'altra data fondamentale per la comprensione delle tensioni di quest'epoca, anche
all'interno del ceto intellettuale, fu il 1956, anno in cui avvenne l'invasione dell'Ungheria
e furono denunciati le aberrazioni e i crimini commessi durante la dittatura comunista di
Stalin. Questi fatti portarono a crisi e ripensamenti (si pensi all'abbandono del Pci da
parte dello scrittore Italo Calvino) tra le file di molti scrittori e artisti impegnati a fianco
del Partito comunista. La dura repressione operata dall'Unione Sovietica sui moti di
libertà ungheresi, e più tardi (1968) in Cecoslovacchia, significò per molti militanti un
duro colpo e per molti artisti e intellettuali una crisi di appartenenza e di identità. Ma in
quel periodo si era ormai dissolta la vecchia concezione ideologica che vedeva il mondo
distinto in due parti nette rappresentate dal capitalismo «cattivo» degli Stati Uniti e dal
comunismo «buono» di Mosca.
Le sommosse operaie e del movimento studentesco nel 1968 rappresentarono
l'ultima occasione in cui gli intellettuali presero la parola. Fu un vero «processo» alla
società capitalistica e fu un momento di altissimo impegno politico e ideologico. Questo
movimento da un lato, per un certo periodo, ebbe la forza di contrastare l'azione dei
governi, ma dall'altro non poteva che affidare agli stessi poteri contestati la responsabilità
delle riforme delle strutture scolastiche e del vecchio sistema «accademico». All'epoca la
cultura ufficiale e gli intellettuali in genere reagirono adeguandosi al nuovo clima e
dando vita a un vero e proprio fenomeno di conformismo culturale cui Pasolini non si
allineò mai.
Pasolini nella storia della letteratura dell'impegno
Una delle prospettive principali per comprendere la grandezza e la molteplicità di un
personaggio chiave nella cultura del Novecento come Pier Paolo Pasolini va ricercata nel
suo interesse per la poesia dialettale, già forte negli anni giovanili e ancora prima, nei
suoi prolungati soggiorni in Friuli, nel paese di Casarsa. È importante specificare che non
si tratta solo di un interesse legato alla poesia, ma al dialetto in generale. Da un lato esso
rappresenta, in una dimensione più partecipe e affettiva, la lingua della madre, lingua a
cui sono profondamente legate le proprie radici, lingua «originaria»; dall'altro, quando
intervengono più direttamente gli aspetti legati all'impegno letterario e sociale, il dialetto
rappresenta la manifestazione di una cultura «altra», nel senso di non ufficiale, non legata
alla «scuola» né all'ambiente accademico. Pasolini identifica il dialetto soprattutto
nell'espressione più autentica, ricca di vitalità, di una cultura umile, povera, nata
dall'esistenza piena di stenti delle famiglie contadine sulle rive del fiume Tagliamento.
L'uso del dialetto che Pasolini fa nella sua prima opera poetica ha complessivamente
un duplice significato:
a) recuperare un'espressione pura, «vergine» (una vera e propria tradizione
letteraria in lingua friulana si forma in zone diverse rispetto a quella casarsese), cercando
di superare i forti condizionamenti della cultura poetica italiana dominante e compiendo
contemporaneamente, su un materiale linguistico multiforme e spesso «contaminato» da
sfumature dialettali di zone differenti del Friuli, un importante lavoro di sperimentazione
linguistica e poetica;
b) dare voce e testimonianza alla presenza e alla vitalità della cultura dialettale che,
per lo scrittore, anche quando affronterà l'uso di altri dialetti, come il romanesco nei
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romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), o nelle opere
cinematografiche (il napoletano nel Decameron), rappresenterà sempre l'identità più
schietta, l'espressione più autentica di mondi e di culture spesso marginali (il mondo
contadino friulano e soprattutto, a partire dagli anni Cinquanta, il sottoproletariato delle
borgate romane).
In questo senso il dialetto e la diffusione di una letteratura in dialetto, sia nei modi
più «privati» dell'espressione lirica, sia nel recupero delle forme più narrative e popolari
(per esempio la canzone nella produzione friulana o il linguaggio gergale nei romanzi o
nei film), rappresentano, da parte di Pasolini, anche il notevole sforzo di contribuire alla
sopravvivenza di queste culture «basse» e povere, ma ancora così vitali, definite,
autonome; di contrapporle all'affermarsi di un sistema sociale che, spinto dalla diffusione
dei principi della mercificazione capitalistica, tende progressivamente ad appiattire
drammaticamente il senso e la presenza, pur rilevante, delle culture «differenti» o «non
integrate».
Se a partire da queste osservazioni è possibile rendersi conto di come nell'esercizio
letterario, sin dalla prima raccolta Poesie a Casarsa del '42 fino a Ragazzi di vita del '55 e
oltre, ci siano già, più o meno espliciti, tutti gli elementi che caratterizzeranno le prese di
coscienza del Pasolini maturo, bisogna ricordare anche l'impegno dello scrittore, tutt'altro
che trascurabile, non direttamente connesso all'espressione artistica.
La partecipazione alle lotte dei contadini in Friuli aveva provocato nel giovane
autore un appassionato avvicinamento al marxismo, ovvero all'ipotesi di una
trasformazione della società che dovesse passare attraverso la presa del potere da parte
della classe operaia. A partire dal 1947 legge direttamente i testi di Karl Marx e di
Antonio Gramsci, il più importante intellettuale italiano di orientamento marxista. È utile
sapere che, nello stesso anno, Pasolini si iscrive al Pci svolgendo attività militante e che,
pochi anni dopo, per un episodio a sfondo omosessuale, ne viene espulso «per indegnità
morale» (così come viene interdetto dall'insegnamento nella scuola media). L'esperienza
della militanza lascia un segno indelebile nella personalità di Pasolini che cercherà
sempre, nelle opere come nei numerosi scritti giornalistici, o negli interventi pubblici che
si accumuleranno a ritmi vertiginosi nel corso degli anni, di colpire e denudare gli aspetti
più contraddittori e oscuri della società in cui si trovava a vivere, gli atteggiamenti
antidemocratici e la corruzione degli apparati governativi, il rischio che le strategie di
governo finissero per occultare i bisogni più autentici delle classi sottoproletarie
sacrificandole, nella prospettiva di un benessere diffuso, alla logica di un potere
autoritario, privandole della loro identità e della loro forza interna. Non mancò di
scagliare attacchi sulle contraddizioni, gli errori e le complicità della sinistra italiana, del
partito in cui lui stesso aveva militato.
Al di là degli aspetti più militanti e «ideologici» degli scritti e degli interventi
pasoliniani, che diverranno sempre più forti e sistematici tra gli anni Sessanta e i primi
anni Settanta, ciò che guida lo scrittore nelle sue battaglie come nelle sue opere è uno
straordinario temperamento vitale, quella che lui stesso, accanto al termine ideologia,
definirà passione.
La «passione» pasoliniana ha i caratteri di un'inesausta curiosità, di un totalizzante
amore per la vita, in tutte le sue manifestazioni; di un bisogno irriducibile, dettato da
questo amore e dalla profondità di sguardo che esso alimenta, di conoscere e interpretare
il mondo come attraverso una lastra radiografica con tutti gli strumenti intuitivi, razionali,
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artistici di cui può disporre. Nell'ottica di questa assoluta vitalità sul piano esistenziale e
conoscitivo, si può interpretare e giudicare «necessaria» la molteplicità della personalità
artistica e intellettuale di Pasolini. Se ne può dare un'idea generica anche solo elencando
dei titoli.
Tutte le istanze tematiche, estetiche, polemiche, ideologiche cui si è fatto cenno, non
ultime quelle relative alla visione cupa e apocalittica della società contemporanea,
fluiscono nella multiforme e controversa opera di Pasolini sorrette da un presupposto di
fondo: la totale fiducia nel linguaggio, nella sua capacità di rappresentare, dire, criticare
(anche di celebrare, in alcuni casi) la realtà. Questo aspetto della poetica pasoliniana, e il
problema più ampio del rapporto realtà linguaggio, furono alla base di una polemica
accesa con il poeta e critico Edoardo Sanguineti, personalità emergente tra i fondatori,
all'inizio degli anni Sessanta, della cosiddetta Neoavanguardia (caratterizzata, al suo
nascere, dall'incontro di alcuni poeti e intellettuali sotto il nome di Gruppo '63).
Sanguineti, pur nel radicale impegno di opposizione all'organizzazione capitalistica e
neocapitalistica della società borghese, al contrario di Pasolini opponeva alla fiducia nella
parola, all'uso realistico e narrativo di questa, la volontà di distruggere, di «decostruire» il
linguaggio: egli riteneva, infatti, che proprio tramite la strutturazione del linguaggio si
realizzasse l'organizzazione capitalistica e borghese della società. Naturalmente, l'attacco
era in buona parte rivolto allo stesso linguaggio poetico dominante, in Italia, fino alla
metà degli anni Cinquanta.
La produzione artistica
La sua opera è in buona parte occupata dalla produzione in versi: basta ricordare,
oltre alle già citate Poesie a Casarsa, confluite poi nella raccolta dialettale complessiva
La meglio gioventù (1954), le raccolte principali Le ceneri di Gramsci (1957), La
religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), Trasumanar e
organizzar (1971), tutte confluite, insieme alla grossa mole delle poesie sparse o non
riunite direttamente in volume, nella raccolta postuma complessiva Bestemmia (1993).
Dopo l'esordio nel '61 con Accattone ha inizio anche una felice stagione, anche se
contrastata e ricca di scandali, di lavori cinematografici: Mamma Roma (1962), La ricotta
(1963), II Vangelo secondo Matteo (1964), Edipo re (1967), Teorema (1968), la «trilogia
della vita» composta dal Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore
delle Mille e una notte (1974) fino al suo «film testamento», Salò e le 120 giornate di
Sodoma (1975), uscito nelle sale dopo la sua morte. Al suo «cinema di poesia» Pasolini
ha dedicato anche una serie di importanti riflessioni teoriche.
Ha avuto un certo peso anche la sua produzione teatrale che comprende
prevalentemente tragedie in versi: Orgia (1968), Calderòn (1973), Affabulazione e Pilade
uscite dopo la sua morte. Inoltre è stata intensa la sua attività di saggista e polemista.
Dopo la ricerca antologica su La poesia popolare italiana (1960) e gli scritti di critica
letteraria di Passione e ideologia (1960) ed Empirismo eretico (1972), è passato agli
interventi politici pubblicati sulle colonne di un settimanale e sulle pagine del «Corriere
della Sera» (dal 1974).
La pietra dello scandalo
Ricorrente è il conflitto tematico, anche nelle opere «non letterarie» dello scrittore,
tra la percezione di un mistero della vita, in un'accezione quasi «sacra», primordiale, e la
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costrizione della vita stessa, originaria, nelle forme dell'organizzazione politica e sociale
e nella necessità dei mutamenti della storia. In quest'ambito compare poi spesso
l'omosessualità, come motivo che nasce al tempo stesso da un trauma, da una ferita
inferiore, e dalla volontà, in parte ideologica, di rappresentare nel mondo contemporaneo
una «pietra di scandalo». Pasolini ha «usato» la propria omosessualità in funzione
ideologica come strumento polemico d'«urto» molto forte se si tiene conto dell'epoca,
per esprimere violentemente il suo radicale rifiuto nei confronti di una società appiattita e
svuotata dall'imporsi in Italia del neocapitalismo come logica di potere e del derivante
consumismo come logica e sistema di vita.
Inoltre l'omosessualità come motivo di scandalo e di diversità rafforzava il distacco
e la polemica contro tutta una schiera di intellettuali e scrittori, prevalentemente di
«sinistra», che Pasolini giudicava non solo poco critici e «alternativi», ma addirittura
funzionali al potere. D'altra parte, non si può prescindere da una lettura dell'omosessualità
pasoliniana come trauma, come coscienza ferita dalla percezione di una «diversità»
sentita drammaticamente, nei termini di un'irriducibile estraneità al mondo e alla vita. Il
trauma, in Pasolini, è il risvolto oscuro della vitalità debordante, dell'amore assoluto per
la vita, del desiderio inesauribile. È l'amore per un oggetto (la vita stessa), sentito come
assoluto e disperato proprio perché non pienamente corrisposto.
Il senso di estraneità e di «non vita» ha il suo rovescio, nella letteratura di Pasolini,
nell'instancabile attenzione, nello sguardo fisso e un po' maniacale su tutte le
manifestazioni (i luoghi, i volti, gli incontri, le occasioni) del vivere, che scorre via e
brucia lasciandolo fondamentalmente nel ruolo distaccato di osservatore. I ragazzi,
soggetti privilegiati del suo amore, appaiono nelle sue pagine, nei suoi versi, come figure
emblematiche della vita che si dà alla realtà in tutto il suo mistero e la sua pienezza;
figure quasi inafferrabili, lontane, «mitiche».
I giovani in Pasolini
Fu proprio la condizione dei giovani tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta a
rappresentare uno dei punti più problematici nelle osservazioni e nelle diagnosi sociali
dell'ultimo Pasolini. Il benessere diffuso legato all'affermazione, nell'Italia democristiana,
dell'«impero» neocapitalista, il boom economico degli anni Sessanta e le conseguenti
condizioni di vita più agiate, ebbero l'effetto più vistoso nella riduzione delle differenze
tra una fascia sociale e l'altra, soprattutto tra la cosiddetta «classe operaia», il
«proletariato», e la classe considerata egemone, quella rappresentata dalla piccola e
media borghesia. Al relativo livellamento economico ne subentrava un altro, che Pasolini
considerava più pericoloso e distruttivo, il livellamento dei modelli culturali.
Il giovane appartenente alla classe operaia, al proletariato, non riusciva, e non
voleva più, riconoscersi nei valori e nei modelli che caratterizzavano la sua classe e si
orientava verso i valori e i modelli della vita piccolo borghese. Ne derivavano senso di
smarrimento, di confusione, di perdita d'identità, e un difficile e problematico processo di
integrazione, che Pasolini designava come fenomeno dell'omologazione. Tra gli esiti più
drammatici di questo fenomeno, Pasolini annoverava innanzitutto l'infelicità, che affligge
il giovane che aspira a raggiungere un «modello» adatto a lui solo in apparenza, e che per
questo non può essere raggiunto pienamente; inoltre, la perdita di ogni tratto caratteristico
dei tipi sociali non appartenenti alla classe borghese, e, fra questi tratti, dell'originalità
linguistica (per esempio l'uso «creativo» del linguaggio gergale nelle borgate); infine, la
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progressiva trasformazione, oltre che dell'uso del vestiario, dei tratti somatici. Tutto
questo è stato inquadrato da Pasolini in un fenomeno di vaste proporzioni, di risonanza
epocale e anche eccezionalmente repentino rispetto ai precedenti mutamenti storici: il
fenomeno della mutazione antropologica (espressione che fa riferimento a una
trasformazione radicale della specie umana).
Ed ora, proprio a proposito del tormentato rapporto di Pasolini con i giovani leggiamo un
suo scritto tratto dalle Lettere luterane, opera scritta nel 1975 poco prima che egli venisse
ucciso, e uscita postuma, quasi un testamento, l’anno successivo.
“I giovani infelici”
“Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio,
per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato
molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche
cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di
bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non
si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado
tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni
del '75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una
parola sbagliata (...) dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è
una «cessazione di amore», cessazione di amore, che, appunto, non dà luogo a «odio» ma
a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa
che resta al di qua del verbale, manifestandosi irrazionalmente nell'esistere, nel «provare
sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale-padre storico - condanno i figli, è naturale che,
di conseguenza, accetti in qualche modo l'idea della loro punizione. (...)
Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi
presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa
mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili,
prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine,
hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine,
rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue
forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti
possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e
soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai
neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto,
credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di
conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell'identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a
quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo
chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa
capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch'io ho diritto alla
vita – perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre, per me la
vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli
ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell'imperterrito
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esercizio della ragione, non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della
vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti
dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è
fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide,
occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica.
Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son
trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili
spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti,
che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, né forse capacità
di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione
alcuna: sono l'ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è
perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza
o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto ai loro coetanei di
dieci o vent'anni prima, ma non abbastanza. L'integrazione non è più un problema
morale, la rivolta si è codificata.
Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In
realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c'è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che
non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i
lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li
caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una
trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più
la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza
tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l'aspetto esteriore di una maggiore educazione
scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una
parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio, dall'altra sono
quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando
ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o
ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto,
ancora una volta!, dell'inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente
appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i
loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi
giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza
ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in
genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di
conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce
con l'essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse,
naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo, i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono
adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono
finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei
gruppi analoghi di dieci o vent'anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e
della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti», «puniti», intanto,
dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il
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nostro sentimento, insopprimibile).
Ed ora leggiamo una poesia proprio rivolta ai giovani in un periodo particolarmente
problematico della nostra vita nazionale: gli anni di piombo.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo borghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
E su di essa facciamo qualche considerazione.
Quaranta anni fa moriva Pier Paolo Pasolini. Qui ci interessa evidenziare uno, e uno solo,
dei passaggi importanti della sua straordinaria biografia culturale e politica, che
corrisponde peraltro a un grave travisamento del suo pensiero. Col trascorrere dei decenni
Pasolini e la poesia sopra riportata sono stati piegati, strapazzati e manipolati a tal punto
da produrre uno stereotipo che sembra dominare incontrastato. Lo stereotipo - presto
detto - è quello di “Pasolini contro gli studenti”. Di questa celeberrima poesia, intitolata Il
Pci ai giovani (l’Espresso 16 giugno 1968, poi in Nuovi Argomenti), si è fatto un uso
tanto disinvolto da proporla come bandiera di un presunto conflitto, profondo e
insuperabile, tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista (che si riconosce
nel movimento detto “del ‘68”), e il proletariato e il sottoproletariato identificati nel
mestiere e nella vita dell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere in
qualche modo. Questa falsa rappresentazione non è stata mai messa in discussione ed è
diventata dunque una sorta di verità storico-letteraria accettata dall’intero establishment
in tutte le sue componenti culturali e politiche. Eppure di essa c’è da dubitare, eccome.
Un bravissimo regista, Davide Ferrario, ha voluto indagare sulla questione e ne ha
ricavato una interpretazione tutt’affatto differente. Secondo Ferrario, il senso di quella
poesia sarebbe stato completamente ribaltato, da letture interessate, rispetto
all’ispirazione originaria. Fu lo stesso Pasolini ad argomentarlo puntualmente. A
proposito di quei versi così sprezzanti scrisse: «Nessuno (...) si è accorto che questa non
era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare
l’attenzione del lettore... su ciò che veniva dopo... dove i poliziotti erano visti come
oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (...) ha la possibilità di fare di
questi poveri degli strumenti, le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti
particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle
università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si
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sono fermati al primo paradosso introduttivo, appartenente ai formulari della più ovvia
ars retorica», (il Tempo, 17 maggio 1969).
Certo, si può maliziosamente ipotizzare che questa “lettura autentica” a opera dello stesso
Pasolini fosse ispirata anche dalla preoccupazione per le reazioni, talvolta assai aspre, che
la sua poesia determinò. E tuttavia, come è potuto accadere che l’interpretazione, offerta
dalla fonte più autorevole, ovvero l’autore, venisse totalmente ignorata? Resta da fare una
considerazione: quella interpretazione «antistudentesca» (e reazionaria, in senso
letterale), che ha prevalso in questi decenni conteneva un grumo di verità. In altri termini,
il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana
per il potere, come già aveva fatto nel 1945 il poeta Umberto Saba: «gli italiani non sono
parricidi, sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i
socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla
base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio
(uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Pasolini mostrava come, negli
eventi della fine degli anni ’60 emergesse – intrecciata alla frattura destra/sinistra – una
frattura infragenerazionale «di classe». E non perché il movimento degli studenti fosse
sociologicamente, o politicamente, borghese o piccolo-borghese (antagonista, dunque, dei
«Proletari in divisa»); ma perché quella stessa lacerazione sociale, che attraversava
sotterraneamente il movimento studentesco al suo interno, si riproduceva anche nel
rapporto tra il movimento studentesco e gli «altri»: i possibili, riottosi alleati (gli operai,
gli «sfruttati» tutti) e i certi, aggressivi nemici (i poliziotti, i carabinieri, i fascisti). Il
sovrapporsi di tali fratture (quella destra/sinistra e quella sociale) all’interno della
medesima generazione contribuisce a produrre, appunto, una sorta di dinamica fratricida.
Il Sessantotto fu anche questo.
Ora riporto qui di seguito un articolo di Massimo Recalcati, uscito su “La Repubblica”
nel quarantennale della morte, che tenta offrirci un ritratto in parte nuovo ma certamente
interessante del grande intellettuale:
“L'eros. Tra i demoni alla ricerca dell'Origine
Le contraddizioni e le pulsioni vissute nella propria carne
Sono diverse e note le contraddizioni che attraversano la vita e l'opera di Pasolini:
individualista, testimonia con coraggio l'impegno civile e collettivo dell'intellettuale;
anticlericale, si schiera risolutamente contro l'aborto; comunista militante entra in un
conflitto aspro con il Pci; ateo, marxista, resta cristiano nello spirito; anticonformista,
detesta l'anticonformismo; contestatore vigoroso del "sistema" si schiera contro i giovani
contestatori del '68; anti-paternalista, non si risparmia nel segnalare il rischio del
tramonto del padre nel nostro tempo; sperimentatore della lingua, resta critico irriducibile
di ogni avanguardismo; straordinario poeta civile, conduce pascolianamente la poesia
verso i propri drammi più segreti e indicibili; pedagogo libertario, riconosce come
insuperabile la figura del maestro; poeta sublime dei corpi e della loro esuberanza
pulsionale, ne ha messo in scena il loro oltraggio e la loro devastazione; omosessuale e
ribelle è un conservatore dei valori della tradizione. Ragione e passione, storia e natura,
pensiero critico e pulsione non trovano mai in lui una conciliazione stabile, ma
permangono in uno stato di perenne dissidio. La sua stessa psicologia individuale appare
scissa tra gentilezza e attitudine alla provocazione, altruismo e rapacità pulsionale,
divismo e umiltà, mondanità e solitudine. Libertario nei modi e nel pensiero, è preda di
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un fantasma che lo obbliga ad un godimento compulsivo simile a quello di cui è stato,
paradossalmente, un feroce critico. È forse quest'ultima contraddizione quella che lo ha
reso veggente, capace cioè di leggere nello sviluppo promosso dal capitalismo italiano
del secondo dopoguerra, salutato come una redenzione, l'inizio di un'epoca di barbarie, un
"nuovo fascismo", il volto più prossimo dell'inferno. Pasolini ha potuto decifrare
quell'inferno — l'inferno della mutazione antropologica dell'uomo in consumatore,
ovvero della distruzione dell'uomo — perché lo viveva intimamente nella sua stessa
carne?
Se ci chiediamo da dove scaturiscano tutte queste contraddizioni che così radicalmente lo
dilaniano non possiamo non mettere in primo piano la sua spinta indomita ad attingere
all'Origine, alla fonte prima, alla verità del Mito, ad un "essere" non ancora, come si
esprimeva Artaud, tradito dal linguaggio. Non è forse questo fantasma ad orientare
Pasolini e la sua opera? Pasolini-Rousseau? L'esordio dell' Emilio del filosofo francese
suona come una sintesi perfetta del fantasma pasoliniano: «Tutto è bene quando esce
dalle mani dell'Autore delle cose, tutto degenera nelle mani dell'uomo». Lo sviluppo è
senza progresso perché ci allontana dalla verità dell'Origine, ci costringe a perdere
contatto con la vita e con il suo fondamento sacro e mitologico. Nelle mani della ragione
strumentale tutto non può che degenerare. Pasolini si muove allora verso Sud — come
Nietzsche, Rimbaud, Van Gogh — per trovare il corpo nudo, incorrotto e immacolato del
popolo (friulano, romano, africano) e della sua lingua. Il suo presupposto è anti-storico.
Si può ridurre il suo genio ad un Edipo irrisolto? Se nel legame con la madre si gioca
sempre il problema del nostro legame con la vita e con la sua Origine, le contraddizioni
di Pasolini rivelano la sua difficoltà ad abbandonare non tanto la madre, ma l'idea
nostalgica di una armonia ineffabile della vita che precede l'esistenza del linguaggio di
cui la madre è solo il simbolo. È questo, a mio giudizio, il cuore inconscio dell'uomo e
della sua opera. Preservando il mito della vita come assoluto Bene, egli non può che
restare diviso tra la trascendenza del desiderio che lo sospinge in avanti e un rimpianto
struggente nei confronti della perdita inevitabile dell'Origine che lo mantiene
costantemente ripiegato all'indietro, preda della spinta conservatrice, come direbbe Freud,
della pulsione e del suo godimento, il quale, se privato della trascendenza del desiderio,
non può che rivelarsi distruttivo.”.
Romualdo Marandino
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