novelle per un restauro - Progetto Cultura
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novelle per un restauro - Progetto Cultura
NOVELLE PER UN RESTAURO Liberamente tratte dalle schede del catalogo Restituzioni 2013. Tesori d’arte restaurati Il programma di questa edizione di Restituzioni è anche una narrazione con tanti attori: l’arte, il restauro, gli uomini e le donne, l’artista che ha realizzato l’opera ma anche l’archeologo che l’ha scoperta, il committente che l’ha voluta, il collezionista che l’ha gelosamente conservata, il luogo che l’ha accolta. Più di quaranta i nuclei di opere restaurate, ciascuno è protagonista di un suo racconto. Il guerriero che depose le armi. Una stele trafugata e ritrovata narra la vita di guerriero daunio e del suo popolo: dai riti della vita ad animali mitici tra cui chimere e cavalli alati. Una stele, rimasta per millenni sepolta nelle terre in cui era stata scolpita, viene ritrovata, trafugata, percorre la penisola e viene intercettata nel suo viaggio. È una stele daunia, proveniente dalla Puglia, da scavi clandestini probabilmente in zone di necropoli, sequestrata in Veneto e ora tutelata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Regione. La stele, magnifica, ”parlante” come tutte le migliaia di simili monumenti funerari o votivi ritrovati nella zona fra Foggia e Manfredonia, apre nuovi scenari sui popoli antichi che abitavano quelle terre, sei secoli circa a.C. È una stele alta un metro circa, candida, appena ingiallita dall’ossidazione, di un calcare tenero e friabile proveniente dalle cave del Gargano; va immaginata accesa di un colore rosso, come ancora si percepisce dai pigmenti rimasti in superficie. La stele appartiene a una categoria particolare, quella delle stele maschili con armi. Vi è rappresentato un guerriero della Daunia: era il ceto aristocratico di allora a concedersi il lusso e l’onore di erigere questo tipo di manufatti, a volte in vita come voto, altre dopo la morte per ricordare il rango e le gesta degli uomini. In questo caso il guerriero aristocratico, forse il defunto, è agghindato con una veste funebre arricchita dalle insegne del suo rango, in particolare si rincorrono, nella veste e nella ornamentazione inferiore e superiore della stele, riquadri geometrici con meandri e svastiche. Le braccia del guerriero sono nude, piegate sul petto, ad indicare che ora riposa un sonno eterno. La spada, che non ha più un uso, è inguainata nel fodero, e si notano una corazza, lo scudo decorato a dadi, e un pettorale che protegge il cuore. Sono però le scene secondarie a raccontare la vera vita della società di allora. La fortuna, forse, di un horror vacui, il bisogno di riempire ogni interstizio trasforma le stele in libri aperti. E così, quel popolo antico, che non conosceva la scrittura, si racconta nei particolari della vita. La stele in mostra fissa, sul bordo laterale, il guerriero cacciatore nell’atto di scagliare una lancia verso un cinghiale. Ma molti altri monumenti simili parlano, e raccontano episodi di vita quotidiana, antichi rituali, cerimonie nuziali e funerarie, lotte armate a piedi o a cavallo. Conosciamo così la molitura del grano, scene di tessitura, di caccia a piedi o a cavallo, scene di pesca e navi, di esequie, processioni e combattimenti rituali. Non mancano esseri mostruosi, creature teriomorfe e divine, come la chimera e il cavallo alato. Viene così restituito alla Storia l’insieme dei miti delle popolazioni indigene, la cui religiosità appare influenzata dalle credenze escatologiche del mondo mediterraneo. In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano Il sarcofago del “figlio di Iside” e il doppio mistero dei geroglifici. Nel ‘700 il papa bolognese Benedetto XIV donò alla città di Bologna una raccolta di reperti egizi per farla divenire fondamentale mèta culturale. Fra i reperti, un magnifico sarcofago che era stato però frutto di intervento di restauro “migliorativo” su immagini e iscrizioni. Quando Champollion riuscì, nel 1822, a decifrare il linguaggio segreto degli antichi egizi, il mondo ebbe accesso a una civiltà fino ad allora – e ancora oggi per vari aspetti – misteriosa e dal grande e immutato fascino. Quei segni, in realtà, erano studiati da tempo da eruditi appassionati della civiltà egizia, nel tentativo di trovarne la chiave di lettura. Fra questi era Georg Zoëga, uno studioso danese che non passò alla storia come Champollion, ma di lui fu precursore per i prolungati studi filologici condotti sui testi in geroglifico. Lo splendente sarcofago detto “del figlio di Iside” fa parte della collezione del bolognese Prospero Lambertini, salito al soglio pontificio nel 1740 col nome di Benedetto XIV, che donò alla città di Bologna alcune antichità egiziane di notevole interesse storico-artistico e antropologico. Fra queste erano il grande sarcofago antropoide di Mes-Isis e quattro mummie di adulto, tre delle quali con cartonnage e iscrizioni sul bendaggio. Nell’estate del 1789, l’anno della rivoluzione in Francia, Georg Zoëga intraprende un viaggio da Roma a Venezia per visitare le principali raccolte antiquarie del centro-nord della penisola, e Bologna è per lui una tappa fondamentale. Lo studioso è attratto dalla ricchezza cromatica, iconografica e linguistica del sarcofago e scriverà “Se avessimo più reperti di questo genere, potremmo fare questo primo passo nella lettura dei geroglifici con meno difficoltà e più fiducia”. In realtà il sarcofago, che riproduce nell’insieme di cassa e coperchio le sembianze di una mummia avvolta in un sudario di lino, la testa coperta da una voluminosa parrucca, riporta parti di immagini e di iscrizioni che – grazie anche agli studi condotti nel recente restauro – si possono con certezza definire non originali. Restauri successivi, il primo risalente probabilmente già al periodo fra il ‘400 e il ‘600, hanno fatto sì che sia stata fatta una integrazione pittorica mimetica ove possibile mentre, in corrispondenza delle lacune maggiori e in assenza di chiari punti di riferimento iconografici, lo schema decorativo è stato modificato rispetto all’originale. Lo stesso trattamento è stato riservato alle iscrizioni, in parte definibili quindi “pseudo-geroglifici” (e quindi a maggior ragione maggiormente indecifrabili da parte di studiosi come Zoëga) che nella parte autenticamente egiziana corrispondono a un inno alla dea Nut, rappresentata seduta sul tallone destro con il disco solare sulla testa, nell’atto di stendere le proprie ali sull’addome del defunto, stringendo in ciascuna mano un segno ankh della vita. Il sarcofago, che risale con tutta probabilità al periodo compreso tra la XXIII dinastia e gli inizi della XXII, continua oggi ad emanare un grande fascino. In esposizione al Museo di Capodimonte Una donna antica, e la sua vita oltre la morte. Il corredo funerario trovato in una tomba in Calabria ci svela il racconto di una donna sposata, il suo aspetto, le sue abitudini, fino all’ultimo saluto. Una donna sposata, di rango nobile, di circa 2400 anni fa. Era alta un metro e quaranta appena e aveva circa quaranta anni la donna ritrovata in una delle più importanti aree archeologiche dell’antica Lucania, presso il primo paese oltre il confine di quella che è oggi la Calabria. È stata rinvenuta, con tutto il suo corredo funerario, in una necropoli emersa e studiata di recente. L’intero corredo, di circa quaranta elementi, comprende oggetti che raccontano il momento del trapasso: la veglia funebre con l’hydria, vaso per versare l’acqua utilizzata per il rito funerario, e una olla – un altro grande vaso – ai piedi della donna, usata probabilmente per contenere l’acqua delle abluzioni sacre; il banchetto testimoniato dai contenitori della libagione fra cui un guttus per gli olii, due skyphoi per bere e le lekanides adoperate, forse, come piatti da portata. Ma l’arredo funebre racconta soprattutto la vita della donna, la sua cura per il corpo, lo stato di sposata. Troviamo gli accessori per la cosmesi: una conchiglia come trousse per contenere le terre colorate, unguentari e pissidi dalle diverse forme per i belletti. Il lebete, forma vascolare tipicamente connessa alla realtà nuziale, deposto a fianco della defunta addirittura in due esemplari. Al momento del passaggio fu abbigliata con una veste di cui è rimasta la fibula, al dito aveva un anello d’argento. Della vita sua, come di quella delle donne del suo rango, raccontano le immagini dei vasi: donne sedute nell’atto di specchiarsi, accompagnate spesso da eroti in volo, a volte in piedi o seduti per partecipare anche loro alla libagione. L’hydria rappresenta una testa femminile di profilo, con i capelli raccolti nel sakkos. Tutto fa pensare che la donna appaia nella sua dimensione di amante e sposa. Le mani diverse (ma con tratti comuni) degli artisti che hanno dipinto la scena rimandano all’attività di almeno due artigiani, probabilmente chiamati in causa in occasione del trapasso. Tra gli oggetti metallici un piccolo sonaglio potrebbe ricordare l’infanzia della donna, e piace pensare che, accanto ai ricordi della vita nuziale, il coniuge abbia voluto porre un ricordo della vita prenuziale della sposa, o sia stata la stessa donna a esprimere in vita il desiderio. Il degrado dei reperti ritrovati, come si può immaginare, era fisico, chimico e biologico. Risalenti a un periodo fra il 340 e il 290 a.C., rimasti millenni sotto terra, hanno subìto gli effetti del tempo, con la tomba che li conteneva composta da tegole ben ordinate, poi crollate su se stesse. Ma quello che colpisce è che, una volta tolti gli oggetti dalla terra, il processo di degrado prosegue e anzi si accelera. Ciò che la terra ha a suo modo conservato, l’aria e gli agenti atmosferici rischiano di rovinare in poco tempo. Un restauro prevalentemente, quindi, conservativo quello attuato. Non vi è stato bisogno di ricostruire alcunché dato che gli oggetti erano conservati in tutte le loro parti. La colla usata per ricostruire i puzzle è di tipo reversibile. Un intervento che ha fermato il tempo, e ci consente oggi di scoprire la vita di una donna antica, appartenente ad un popolo guerriero, i Lucani, comunità italica di origine sannita. In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano La stele Borgia e il ritratto della bellezza classica. L’importante collezione d’arte del cardinale Borgia, voluta nell’Ottocento dai regnanti francesi, fu acquistata definitivamente dai Borboni. Fra i reperti una stele funeraria con l’immagine di un defunto che, in vita, appartenne alla cerchia dei “belli e buoni” della Grecia classica. Kalos kai agathos. Il perfetto cittadino della Grecia classica era una sintesi degli ideali di bellezza e onestà in una ricerca che coinvolgeva in egual misura la sfera etica e quella estetica. La preziosa stele funeraria detta “Borgia” fissa nella pietra attraverso alcuni simboli un esempio di una biografia che rimanda a un passato “alto” del soggetto per cui fu scolpita. Si tratta di un uomo adulto appoggiato ad un bastone, un defunto raffigurato vivente secondo la tipica visione greca. La stele racconta, attraverso un particolare simbolico, il suo passato di cultore del fisico e della bellezza: pendente dal suo polso sinistro è un aryballos, un contenitore per l’olio col quale l’atleta frizionava il corpo nudo prima dell’allenamento. Una fatica non quindi fine a se stessa quella del lavoro in palestra dell’atleta, ma la ricerca di una prestanza e di una bellezza fisica legate indissolubilmente al valore morale dell’individuo. Un secondo elemento rimanda ad un altro tema che aveva una connotazione “ideale” nella società greca del tempo: l’uomo è accompagnato da un levriero, un cane da caccia associato all’attività venatoria, allora appannaggio di pochi e, quindi, aristocratica. Lo status elitario del defunto era dunque visualizzato nella compagnia del cane, come avveniva spesso anche nella rappresentazione delle ceramiche. La stele funeraria è uno degli esemplari di maggior pregio della raccolta settecentesca del cardinal Stefano Borgia, erudito e appassionato di antichità. La trattativa per l’acquisizione della collezione, avvenuta nel 1814 a Napoli durante il cosiddetto periodo francese fra l’erede della collezione, Camillo Borgia, e Gioacchino Murat, rientrava nella politica culturale promossa dai regnanti francesi e basata sul rilancio della città con la sua trasformazione in polo artistico. Lo stesso Napoleone tentò di realizzare l’acquisizione della raccolta, poi assolta dai Borboni – tornati a regnare su Napoli – con Ferdinando IV che confermò l’acquisto e pagò buona parte dei 50.000 ducati stabiliti per la vendita. Non si conosce, purtroppo, il luogo di ritrovamento della stele, che già nell’800 risulta inserita nel percorso espositivo del Museo Archeologico quale importante testimonianza dell’arte dei primi decenni del V secolo a.C., momento di passaggio fra la ieraticità dello stile arcaico e l’equilibrio figurativo di quello classico. Numerose lacune della stele – fra cui una frattura antica che la taglia orizzontalmente – non ne hanno compromesso in alcun modo la bellezza e l’efficacia. In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano La loutrophoros. Il dolore che pietrifica l’anima, e il mistero di una ricostruzione “mimetica”. Un importante vaso apulo a figure rosse narra il dolore di Niobe, eroina del mito, che si vantò con gli dei per i suoi numerosi figli, e dagli dei fu punita. Il recente restauro ha evidenziato una parte ricostruita: misteriosi ancora il quando e il perché. Niobe, moglie di Anfione re di Tebe, talmente famosa da essere narrata nell’Iliade, partorisce sette figli maschi e sette figlie femmine. Compie però un errore imperdonabile nel rapporto con gli dei. Si vanta della sua prolificità con Latona, madre solo delle due divinità gemelle, Apollo e Artemide. La vendetta della dea sarà implacabile. Latona ordina ai figli di uccidere, colpendola con frecce, la prole di Niobe. La regina di Tebe, per il dolore, si trasforma in pietra dopo avere pianto senza tregua, nove giorni e nove notti, sulla tomba dei suoi figli. Simbolo del dolore senza fine, che accomuna senza distinzione uomini e dei, Niobe è scelta come soggetto di un vaso “al femminile”, una loutrophoros, un grande vaso a figure rosse di produzione apula. “Femminile” è definito la loutrophoros per la sua originaria funzione di contenitore per il trasporto dell’acqua usata per i bagni lustrali collegati ai riti del matrimonio; la sua forma elegante, arricchita da elementi plastici e dotata di anse sinuose, è spesso decorata da scene complesse del repertorio mitico di cui protagonisti, di sovente, sono personaggi femminili. Il vaso in questa circostanza è usato per ricordare la scomparsa di una donna importante, per accompagnarla nel suo ultimo viaggio. Il distillato di tutti i dolori del mondo, personificato da Niobe, è fissato in quell’oggetto funebre che ricorda, al tempo stesso, uno dei momenti belli della vita: il giorno delle nozze. Il colore bianco nella parte inferiore della veste della regina rende perfettamente quello che doveva essere un progressivo ma repentino mutamento di materia del suo corpo. La raffigurazione del mito che interessa l’intero lato principale è articolato intorno alla tomba dei figli, una edicola funeraria – o naiskos – trasformata, grazie a un’astuta ambivalenza, nella stessa sepoltura della donna; morta, nell’anima, insieme ai suoi ragazzi. All’esterno, seduta accanto al naiskos è la nutrice di Niobe: la sua non giovane età è resa dalla corta chioma canuta e dalle rughe del viso. Sull’altro lato è un uomo anziano barbato e canuto: Tantalo, il padre dell’eroina, anch’esso dal destino segnato crudelmente dall’avere, lui stesso, sfidato gli dei; il suo status regale si nota dallo scettro che stringe con la mano, mentre l’origine lidia è espressa dall’abito orientale. Dietro di lui si avvicina un giovane, Pelope, fratello di Niobe, in nudità con bel corpo muscoloso; sulle spalle appoggia un copricapo ad ampie tese, il cappello del viaggiatore. Offerte sono poste ai piedi del naiskos: un kalathos contenente uova, una lira di cui è indicata con precisione la testuggine, una corazza posta di tre quarti. Nel registro superiore sono raffigurati gli altri protagonisti della vicenda: le divinità offese dall’atto di hybris di Niobe: su di un lato Apollo, Artemide e Latona; dalla parte opposta Hermes, Mercurio, con gambe incrociate e gli alti sandali alati ai piedi, intento a parlare con Zeus che gli siede accanto col suo bel profilo severo e la folta chioma e barba. La loutrophoros appartiene alla considerevole raccolta vascolare proveniente da Ruvo di Puglia conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, formatasi nell’800 per iniziativa dei Borboni attraverso scavi condotti dalla Real Commissione dè Scavamenti, e da acquisizioni di collezioni di privati, spesso locali che, per passione o per lucro, avevano saccheggiato i ricchi corredi delle tombe messe in luce. L’esemplare è conservato al museo di Napoli dal 1838, quando fu acquistato dal Real Museo Borbonico insieme ad altri duecentocinquanta oggetti antichi (vasi, bronzi, pitture tra le quali i celebri affreschi della tomba delle Danzatrici) dai proprietari Michele Ficco e Vincenzo Cervone, rispettivamente canonico e farmacista di Ruvo, abili imprenditori che, capendo e sfruttando l’interesse suscitato dalle scoperte ruvestine, avevano creato una vera e propria società di scavo. La loutrophoros è opera pregevole del Pittore di Varrese o della sua officina, attivi a Taranto. Il restauro del vaso, condotto nella campagna 2011-2012 del progetto Restituzioni, ha consentito una scoperta ancora in parte avvolta nel mistero: una parte del manufatto, compresa dall’orlo all’attacco delle spalle, è stata realizzata in maniera autonoma dal resto. La parte superiore della ceramica non è, dunque, di fabbricazione antica: una vera e propria ricostruzione fatta nel tentativo di nascondere l’intervento, di mimetizzarlo, di spacciarlo per un pezzo originale. Rimane il mistero di quando, e del perché, sia stata inserita in modo così deciso e invasivo una intera parte mancante. Una ipotesi è che ciò sia stato fatto proprio nell’ottica di rendere appetibili i vasi nel mercato antiquario. È risaputo che i Borboni cercassero solamente vasi integri per le loro collezioni; è quindi probabile che l’intervento in questione sia avvenuto in un momento precedente all’acquisizione da parte dei reali. Proprio nell’ottica di ripercorrere la storia dell’opera – e del collezionismo ad essa legato – nelle varie epoche, l’attuale intervento di restauro non ha rimosso la parte aggiunta. Un enigma dunque aperto, che affascina gli studiosi così come i visitatori, chiamati a individuare l’integrazione in gesso, le pennellate nere e i disegni inseriti in epoche successive. In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano Il mosaico del leopardo. Un tuffo in un simposio di una lussuosa abitazione romana. Un frammento di un mosaico di una domus romana ci fa rivivere i fasti dei banchetti, e porta il pensiero alle province lontane, all’Africa, alla Siria, alla Turchia. Un leopardo nell’atto di spiccare il volo. Le zampe posteriori elastiche, pronte a balzare sulla preda. Quelle davanti forse la toccano già. Dell’animale braccato si intravvedono le zampe posteriori. Tese e tremanti, immaginiamo. La scena riguarda una porzione, bellissima, di un mosaico molto ampio che adornava il pavimento di una antica casa romana a Faenza. Si tratta di una domus ricca, come si deduce dalla preziosità della pavimentazione. Il mosaico apparteneva al triclinium, la sala da pranzo. L’intero mosaico, di circa trenta metri quadri, era parte di un ambiente più ampio, e rimaneva probabilmente in alto rispetto alla restante superficie della sala. Immaginiamo le feste che si svolgevano, i banchetti infiniti preparati sopra quell’emblema. Perché un leopardo con la preda? Classico il riferimento alla selvaggina come cibo nel convito, o forse alla caccia, ai combattimenti di animali negli anfiteatri, alla vastità geografica ricordata dagli animali esotici rappresentati, ai vivaria, specie di piccoli zoo privati presenti nelle ville più lussuose, o forse infine alle celebrazioni della natura di matrice epicurea. Certo la raffigurazione lascia immaginare maestranze venute da lontano, dalle province romane, probabilmente dall’Africa del nord: un gusto “africano” filtrato, però, dalla committenza, da una più rigorosa interpretazione tipica della produzione italica. Figure di leopardi simili si trovano nell’area del Mediterraneo: in Turchia, in Tunisia, in Siria. Il motivo decorativo, lo stesso, si ritrova ad Atene, nella basilica vicina all’Ilissos. La domus conobbe tempi d’oro, fu costruita probabilmente in età augustea, poi viene abbandonata a causa di un incendio. Del fuoco il mosaico porta ancora le tracce. La domus fu spoliata dei materiali più preziosi e poi lo spazio venne occupato da altro in età altomedievale, forse una fornace per produrre la calce, una calcara, o per dare spazio a sepolture. Cinquanta anni esatti sono passati dal ritrovamento della domus, in occasione della costruzione di un nuovo fabbricato. Oggi questo prezioso frammento, uno dei nove strappati in occasione del cantiere nel 1963, viene restituito alla storia grazie al programma Restituzioni. Il fuoco, il tempo. Oggi il restauro. E per questa fiera superba, una nuova vita. In esposizione al Museo di Capodimonte Le erme del Museo Nazionale di Ravenna: storia di scavi, restauri e di naufragi Cinque erme di eroi e filosofi greci, copie romane degli originali perduti, vennero ritrovate negli scavi romani compiuti alla metà del XVI secolo. Perdute in un naufragio, impigliate nelle reti, secoli dopo vennero ritrovate nel mare Adriatico vicino a Ravenna e portate al Museo Nazionale di Ravenna. Oggi il loro restauro e la grande mostra a Napoli. Cinque sculture antiche. Gli scavi del Rinascimento. Un naufragio misterioso e una stupefacente biblioteca a Ferrara, che le attese invano è la storia avvincente di questi capolavori in mostra al Museo di Capodimonte. Le erme erano statue marmoree composte da un pilastrino sormontato da una testa scolpita che, nell’antica Roma, ad imitazione degli usi greci, venivano collocate lungo le strade, ai crocevia, nei confini, sulle porte, talvolta ad adornare biblioteche. Il loro nome deriva da Ermes, protettore dei viandanti. Quelle in mostra a Napoli ritraggono uomini illustri, filosofi, eroi del mondo greco: Milziade, Carneade, Epicuro, forse Dioniso. Provengono dalla Capitale, e la loro storia, che prosegue nel tempo, da due millenni ad oggi, è densa di fascino e mistero. Risalgono al II sec. d.C.. Vengono scolpite, in marmo pentelico, le erme di Carneade e di Epicuro. Qualche decennio dopo le altre, in pavonazzetto quella di Dioniso. Adornano le ville romane, al Celio e in altri luoghi, e verranno sepolte dal tempo e dalla storia. Fino a quando, nel Cinquecento irrompe il desiderio di ritrovare le vestigia del passato; quando, col Rinascimento, la civiltà classica diventa il riferimento principe. A Roma, un cardinale, Ippolito II d’Este, famoso per le ville a Tivoli e al Quirinale, sa di queste erme ritrovate, degli scavi nella vigna Strozzi al Celio, ed egli stesso commissiona campagne di ricerche. Acquisisce le preziose erme e le fa restaurare. Si completano i nasi mancanti di Epicuro e Dioniso, le sopracciglia perdute di Carneade, la barba e il naso scolpiti in un unico blocco del Milaziade. Ciocche della barba si notano perché risultano più mosse rispetto a quelle laterali, antiche. Il cardinale donerà le erme nel 1573 al nipote, il duca di Ferrara, Alfonso II d’Este. Il duca ha in progetto per il suo castello a Ferrara una meravigliosa biblioteca; di più, un vero museo di antichità, di oggetti rari e preziosi. Il geniale architetto e antiquario napoletano Pirro Ligorio, collaboratore di cardinali e papi, non lascia nulla al caso, e anzi vuole riprendere l’impostazione di un’antica biblioteca romana, quella descritta da Plinio, una libraria-antichario “in sembianze e in parole”; prende ispirazione anche dalla Biblioteca Laurenziana di Michelangelo. In un suo disegno rappresenta la biblioteca realizzata nel 1573, poi precocemente disallestita. Si riconoscono in basso, al primo ordine, le erme con i fondatori del pensiero occidentale, i classici e gli eroi della Grecia antica, scelte con cura dall’architetto, come gemme preziose, e incastonate a mo’ di telamoni; poi, più su i busti degli imperatori romani, e nella scansie della Biblioteca-Antichario i manoscritti degli scrittori moderni che trattano dell’antico. Ben diciannove erme verranno utilizzate nella Biblioteca; le cinque protagoniste in mostra vengono scelte, una per una, da Ligorio, per entrare a fare parte dell’architettura, per le loro preziose fattezze e il significato; fra tutte spicca il Milziade, eroe della famosa battaglia di Maratona del 490 a.C., con doppia iscrizione sul pettorale, in latino e greco. Quella in latino ricorda colui che vinse in guerra i Persiani sui campi di Maratona, morto per i cittadini ingrati e per la patria. Le erme partono da Roma dirette a Ferrara in casse di marmo. Inizialmente per strada via terra fino ad Ancona, poi prendono la via del mare. Ma a poche miglia dalla costa adriatica, ormai vicine alle foci del Reno, avvirene il naufragio delle cinque preziose casse. Lì le erme rimarranno, sotto il mare, per tre secoli e mezzo. Il tempo farà la sua parte, il mare. Conchiglie si depositano su quelle strane rocce. Un giorno alcuni pescatori, tirando le reti, raccolgono quella pesca strana. È il 1936. Tornano alla luce tre erme, e poi nel 1938 ne emergeranno altre, e venti anni dopo il tronco che sormontava la testa di Dioniso. Trovano presto posto nel Museo ravennate, ma non riescono a parlare fino in fondo, a dispiegare tutta la loro storia e bellezza. A loro è riservata un’attenzione un po’ distratta, accanto a sublimi trafori marmorei dell’età di Giustiniano. Colpiscono, certo, per il loro valore plastico e artistico, con la lavorazioni dei volti, delle capigliature, delle torsioni impercettibili dei corpi. Poi, più di recente, una soprintendente che aveva studiato Pirro Ligorio e le ville tiburtine le riconosce. E allora le erme riprendono la loro narrazione. Raccontano la storia delle loro “antenate”, diventano echi preziosi di quelle scomparse, originali, della Grecia. Sono di importanza straordinaria perché raccontano la storia degli scavi del ‘500, delle passioni antiquarie e del collezionismo in voga allora, dei restauri nel Rinascimento, e di quelli dello scorso secolo, quando il mare restituì le opere. Oggi un nuovo pezzetto di storia è scritto con l’intervento voluto da Intesa Sanpaolo nell’ambito del programma Restituzioni. In esposizione al Museo di Capodimonte Antichi “wrestler” e pugili immortalati in bianco e nero. Un mosaico a Reggio Calabria del III secolo d.C., acquistato dallo Stato nel 1924 per 1.500 lire, rappresenta due scene di combattimenti con atleti olimpici. La forza dell’intero corpo. A mani nude, gli atleti olimpici di pancrazio possono utilizzare tutte le tecniche possibili per sconfiggere l’avversario. Il nome, che deriva da pan, cioè tutto, e kràtos, potere, forza, lascia immaginare come si poteva svolgere un combattimento nella Grecia antica. Divenuta “olimpica” dal 648 a.C., la disciplina nel tempo si fa meno cruenta, e ancora oggi conta appassionati che in qualche modo la ritrovano nel “wrestling”, nel valetudo e in altre forme di arti marziali miste. Una gara di pancrazio, con gli atleti nudi, come si usava allora, è raffigurata in un grande mosaico, datato ai primi decenni del terzo secolo d.C., emerso il 9 febbraio 1922 nella costruzione di una casa, a Reggio Calabria, e risalente all’allora Magna Grecia. Sullo sfondo della scena si nota il corredo dell’atleta: una ampulla olearia per contenere l’olio per ungere il corpo prima, per detergerlo poi, alla fine della lotta. A fianco, appesi per il manico, sono due strigili, quei raschietti di metallo usati dopo il combattimento per eliminare l’eccesso di sudore e polvere, o per rimuovere la mistura di olio e sabbia che disturbava, nel contatto, l’avversario. Anche se il tempo ha compromesso molti elementi della scena, si notano comunque altri due atleti, probabilmente impegnati in una gara di pugilato, sport anch’esso molto amato e praticato fin dai tempi antichi. Vicino ai gruppi di atleti sono due figure che, nelle prime comunicazioni con le quali l’ispettore onorario avvisava il sovrintendente del ritrovamento eccezionale, venivano definite, forse, “donne”. Raccontano i primi documenti che la persona vestita – “col braccio destro levato in alto e recante nella mano uno scudiscio alla cui cima, essendovi attaccate delle cose pendenti, ci ricorda l’antica sferza” (forse per “sferzare i due lottatori”) – è stato poi identificato, negli studi successivi, con l’allenatore giudice: in un caso reca in mano un ramoscello di palma, nell’altra una piccola verga. I gruppi di tre figure, quasi a grandezza umana, si stagliano composti da tesserine nere, i particolari ricavati in bianco, come una antica fotografia istantanea. I nomi dei due pugili sono scritti con caratteri greci. Purtroppo si conservano solo parzialmente: uno dei due pare termini in APΩΣ, ma sulla prima parte non c’è ancora una ipotesi di integrazione, ed il mistero è dunque tutto aperto. In alto a sinistra, sono invece più visibili i nomi dei due pancraziasti: il primo, TPIMΩΡ, potrebbe essere l’abbreviazione di un nome di origine egiziana; il secondo, DAMAΣ, richiama Marcus Aurelius Damas, figlio del più famoso atleta Marcus Aurelius Demostratus Damas, originario di Sardi e duplice campione olimpico, nel 173 e 177 d.C. Questi fu famoso anche perché fondò una associazione alla quale aderivano i più famosi lottatori professionisti del tempo, e perché ricoprì la veste doppia di pancraziaste e pugile invincibile, vincitore in un solo giorno della gara di pancrazio e pentatlo. Il grande mosaico, subito smembrato per esigenze del cantiere, fu acquistato dal Soprintendente Orsi, e quindi dallo Stato, nel 1924, per 1.500 lire. Conservato per decenni in un cortile interno nel Museo Archeologico di Reggio, venne restaurato nel 1981, per essere posto, nella sua grandiosa dimensione di oltre 5 mt. x 3, in una grande sala destinata a contenere i bronzi di Riace. La mostra non si tenne e non fu mai esposto; i sette lacerti in cui era stato smembrato restarono, di nuovo, a lungo, imballati nei depositi. In esposizione al Museo di Capodimonte La palestra dei gladiatori di Pompei. In mostra due affreschi che ricostruiscono nei dettagli le armi del ludus gladiatorius. A Pompei, quando nel 79 a.C. il Vesuvio ricopre di ceneri e lapilli la città, la vita ferve. Vicino al grande teatro un imponente portico colonnato ospita i gladiatori, i loro allenamenti, i sonni. Non sono gladiatori qualunque. Lì, nel ludus gladiatorius, vivono e si allenano i retiarii, i combattenti chiamati a sfidare gli avversari con il solo utilizzo di una rete. Che sia stato un luogo di sfide e di fatiche lo si vede dai graffiti ritrovati, che già allora, millenni fa, rovinavano con iscrizioni le pareti, ma anche dalle splendide armi in bronzo che furono ritrovate negli ambienti. Nel 1767 gli scavi sono ormai in corso da decenni. La città di Pompei sta prendendo forma. Campagne di scavi si susseguono, interrotte a volte dal risvegliarsi del vulcano. Re e famiglie reali accorrono curiosi, a tratti finanziano i lavori; spesso vengono inviate schiere di ergastolani a fare emergere una intera città sepolta. In Europa, Napoli e l’entroterra diventano i luoghi del momento, Pompei con Ercolano il cuore del Grand Tour, il viaggio dei giovani europei colti nella terra del bel sole, del bel canto, delle meraviglie più incredibili dell’arte. In quell’anno, il 14 febbraio, emergono due frammenti di affresco all’interno dell’exedra, un ambiente vicino al quadriportico; le scene raffigurate iniziano a parlare, la palestra dei gladiatori prende forma. Due fratelli, Filippo e Giovanni Morghen, eseguono il rilievo degli affreschi, che verranno poi staccati nel marzo successivo. Ai tempi d’oggi non rimane la brillantezza dei colori e dei decori di allora, ma con l’immaginazione possiamo ripensare a quell’ampio ambiente circolare dipinto con pannelli rossi e azzurri, che si alternavano, inquadrati da colonne metalliche attorte. Gli scomparti a fondo azzurro accoglievano dipinti: trofei di armi che proseguivano nel campo del sottostante zoccolo a fondo nero ornato, nei pannelli adiacenti, con cespugli di lunghe foglie lanceolate, rami di oleandro, bordi di tappeto e sottili ghirlande. Il groviglio di armi affrescate, perfettamente riprodotte nei particolari, si può oggi ammirare nella mostra Restituzioni 2013. Si comprende subito che si tratta di armi gladiatorie per la presenza dei tridenti e del galerus propri dei retiarii, e per la caratteristica degli elmi nei quali le originarie alette paraguance si erano espanse fino a congiungersi sul davanti per proteggere completamente il volto. Nel frammento di cui rimane solo lo zoccolo si riconoscono una cnemis, lo schiniere che proteggeva tutta la gamba compresa la coscia, e l’ocrea, protezione solo della gamba sinistra, con gli anelli per il passaggio delle corregge di cuoio necessarie a fissarla, proprie del mirmillo, gladiatore della categoria più possente che portava un grosso elmo decorato con figure marine che copriva interamente il volto; il tridente e il galerus, spallaccio sistemato sulla spalla sinistra per una parziale protezione della gola e unica difesa del retarius; forse un elmo senza tesa, con le griglie di protezione per gli occhi, raffigurato di profilo e due gladii. Sulla cornice superiore, tra uno scudo ovale con rinforzo verticale e uno scudo rettangolare ornato da rilievi, è raffigurato frontalmente un elmo completamente chiuso sul davanti e con i fori circolari per gli occhi; la tesa ricurva e inflessa sui lati, con innesti per piume in corrispondenza delle tempie, ne indicano la datazione all’età flavia, perfettamente congruente con l’epoca di esecuzione del dipinto. Nel frammento con lo scomparto a fondo azzurro si riconoscono dall’alto due grandi scudi rettangolari, un gladio e un elmo visto di tre quarti, anch’esso a chiusura integrale e con i fori per gli occhi protetti da griglie; seguono altri due scudi rettangolari, uno dei quali del tipo con costolatura centrale e umbone, un fascio di tre giavellotti e una lunga spada in ferro. Un piccolo scudo d’argento (parma) con niellature d’oro si sovrappone a una lunga lancia e segna la cesura verso il gruppo di base costituito da due altri grandi scudi rettangolari, ricurvi contrapposti, sui quali poggiano un elmo con visiera a tesa liscia e cimiero, una spada di ferro con elsa d’argento e una sica dalla grossa impugnatura, la tipica spada ricurva dei thraeces. Una storia che potrà appassionare adulti e forse ancor più i piccoli che conoscono i gladiatori dalla letteratura e soprattutto dal grande schermo, e che avranno l’occasione di leggere gli affreschi come immagine parlante. Di certo, fra tutte, la più vera. In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano La preziosa reliquia della Croce. Grande il fascino che porta con sé la stauroteca veneziana, reliquiario appartenuto nel ‘400 al cardinal Bessarione, che la portò in dono a Venezia cercando collaborazioni per una crociata. Il reliquario più prezioso, la stauroteca, rivela nel suo nome antico il contenuto inestimabile: a lei il ruolo di contenere, e conservare, i frammenti della vera Croce. La stauroteca in mostra al Museo di Capodimonte è una croce a filigrana alloggiata in un incavo ricavato in una tavola di legno. Accanto a essa trovano posto, in quattro alveoli protetti da vetro, due frammenti della tunica di Gesù e due schegge del legno della Croce. Nella parte centrale si trovano due placche d’argento lavorate a sbalzo con le immagini degli arcangeli Michele e Gabriele e due vetri dipinti con Sant’Elena e l’imperatore Costantino. La restante superficie è ricoperta da lamine d’argento pigmentate. Lungo i bordi, sono sette Scene della Passione. Quella cardine, la Crocifissione, decora uno sportello separato che si inserisce a scorrimento fino a coprire la parte mediana dell’oggetto: la più sacra poiché contenente le reliquie sante. Rinascimentale, infine, è l’asta d’argento che sostiene il manufatto con un sostegno a foglie e volute. Il magnifico reliquario, conosciuto come Stauroteca del cardinal Bessarione, dal nome di un suo famoso proprietario, ha una storia affascinante, di lunghi viaggi, di passaggi di mani, di imprese belliche a lei in qualche modo legate, fino alla sede che, per vari secoli lontani, e poi ancora da quasi cent’anni, la conserva a Venezia alle Gallerie dell’Accademia. La genesi e il momento dell’esecuzione del manufatto rimangono non semplici da dire. Un’iscrizione a margine della croce centrale parla di Irene Paleologina, descritta come nipote dell’imperatore di Costantinopoli; probabilmente figura divenuta a sua volta imperatrice nel 1335. Ma non si può dire se Irene abbia realizzato la croce ex novo, se l’abbia abbellita e se a lei si deve la tabella lignea. È probabile pensare che in origine, la vera stauroteca con la reliquia del sacro legno fosse la croce filigranata, così come avviene per altri esempi di reliquari similmente strutturati. La stauroteca ha la fortuna di avere, di sé, un antico documento quasi “fotografico” che consente il confronto fra diversi periodi storici. A Londra, la National Gallery conserva un dipinto di Gentile Bellini che racconta con immagini dall’incredibile dettaglio il reliquario al momento del suo arrivo a Venezia nel ‘400. Risulta qui confermata l’origine costantinopolitana del prodotto. Unica esclusione: la parte argentea rinascimentale voluta probabilmente dal cardinale per l’utilizzo della reliquia in processione, e che ricopre il retro dell’oggetto ripercorrendone i passaggi, fino all’approdo veneziano. Bessarione fu una figura chiave nel quadro politico e religioso del suo secolo. Prelato di origini greche, tentò prima, a lungo, la strada diplomatica per ricongiungere la chiesa orientale e quella occidentale; poi, dopo che i Turchi ebbero conquistato Costantinopoli, fu fra i promotori di una crociata contro gli invasori. Entra qui in gioco il valore simbolico e al tempo stesso assai concreto della Croce: Bessarione porta doni alla città lagunare per convincerla a sostenere, con il fondamentale apporto della flotta, la crociata contro i Turchi indetta da Papa Pio II. È quindi al fine della ricerca del consenso che il prelato dona il suo prezioso patrimonio librario alla Biblioteca Marciana e nel 1463 la preziosa stauroteca alla Scuola Grande di Santa Maria della Carità, con la clausola di poterla tenere con sé fino alla morte. Nove anni dopo, sentendosi vicino a quell’appuntamento estremo, prima di recarsi in Francia come legato pontificio, dispone che tre emissari portino la stauroteca da Bologna a Venezia. La preziosa reliquia giunge in laguna il 24 maggio del 1472, accolta nella chiesa di San Marco e poi, con solenne processione, nella chiesa di Santa Maria della Carità e da qui nella sala dell’albergo della Scuola. Non sarà la fine del viaggio del prezioso manufatto. Secoli dopo, Napoleone sopprime gli ordini, e fra loro, nel 1806, la Scuola Grande. La stauroteca è acquisita dal conte Luigi Sarvognan, poi dall’abate Celotti finché, nel 1821, viene ceduta all’imperatore d’Austria Francesco I. Nemmeno il paese d’oltralpe sarà l’ultima sede della reliquia; saranno le vicissitudini di guerra a segnare, ancora una volta, il suo destino. L’Italia esce vincitrice dal conflitto immane, e fra le restituzioni previste ecco rientrare la Croce, che giunge alle Gallerie dell’Accademia. La croce si ritrova così, per i casi, forse ancora una volta, del destino, nel posto da cui era partita, addirittura nella stessa sala, perché nel frattempo l’antico complesso della Carità era divenuto sede della straordinaria collezione d’arte. In esposizione al Museo di Capodimonte Le storie della Passione scolpite in alabastro. Capolavoro d’arte medievale, il grande Trittico esposto a Capodimonte si diceva venisse portato in battaglia da re Ladislao d’Angiò. Il racconto della Passione scolpito in alabastro è uno dei capolavori assoluti in mostra. Sette scene – dalla cattura, all’incontro con Pilato, alla Crocefissione, fino alla deposizione e alla Resurrezione – vengono ripercorse in un grande racconto per immagini di straordinario effetto scenografico. Colpisce l’utilizzo dei particolari – dall’uso dei colori o della pietra lucente pura secondo il messaggio che si voleva comunicare – fino a dettagli che acquistano grande efficacia espressiva in un realismo che giunge a rappresentare l’uso di uno strumento quale una chiave inglese per togliere i chiodi della Croce. Una stessa mano ha scolpito con tutta probabilità la magnifica opera in alabastro, imperioso manufatto di oltre tre metri di lunghezza racchiuso in una cassa di legno che ne è anche preziosa cornice. L’artista artigiano lavorò quasi certamente nell’Inghilterra del ‘400 a Nottingham, luogo da cui provenivano le migliori produzioni del genere, e dove l’alabastro si trovava abbondante nelle vicine cave. Non un’unica mano si rivela invece nei tanti particolari che affollano il polittico. Se le sette scene della Passione – racchiuse in un trittico che aveva una parte superiore, ora perduta – sono frutto di un’unica mente, le lavorazioni di alabastro erano però spesso “seriali”, e ad esse partecipavano vari artigiani specializzati ciascuno in diversi aspetti. Nel trittico di Capodimonte viene ad esempio da pensare che possano essere stati lavorati separatamente i quattro Evangelisti, che in effetti non risultano proporzionati agli altri personaggi. Il Trittico, trasferito a Capodimonte all’inizio dell’800 dalla chiesa di San Giovanni a Carbonara che lo conservava ab antiquo, è stato restaurato nel laboratorio di restauro del museo stesso con un intervento completo sull’opera che, togliendo la “polvere del tempo”, ha restituito fra l’altro la policromia amata nel Medioevo. I colori, fra cui la polvere d’oro data a pennello nei capelli e nelle vesti, si mescolano sapientemente alla lucentezza e alla trasparenza dell’alabastro, e permettono di mettere in luce i diversi caratteri e ruoli dei personaggi. Se quindi nel grande Trittico i personaggi positivi sono rappresentati con pochi interventi di pennello, perché è sufficiente la lucentezza e trasparenza della pietra a evidenziare il loro animo, così i personaggi negativi sono invece dipinti nei volti e in alcuni casi, come quello dei soldati dell’Andata al Calvario, vestiti con gonnellini tardomedievali pieghettati, giungono a mostrare la lingua in smorfie grottesche. Lucenti e pure, come la pietra tenera su cui sono scolpiti, sono le figure positive: non solo Cristo, la Madonna, la Maddalena dalla lunga treccia di sapore quattrocentesco ai piedi della croce, ma anche il ladrone pentito, il centurione che riconosce Cristo ai piedi della croce e il soldato romano Longino che, trafitto il costato di Gesù e colpito dal suo sangue, riacquista la vista e si converte. Ci sono poi iscrizioni, veri e propri “fumetti” dell’epoca. Raccontano gli incipit o i versetti iniziali dei Vangeli e, con le loro grandi lettere nere su fondo bianco, erano tali da essere visti anche da lontano, dai fedeli che varcavano le soglie delle chiese alle luci di candela. Il Trittico porta con sé anche il fascino di una leggenda. Vera e propria macchina lunga oltre tre metri e spessa circa dieci centimetri, provvista di una cornice lignea lavorata di gusto “fiammeggiante” che la conteneva e sorreggeva, si diceva fosse stata voluta dal re Ladislao della dinastia degli Angiò Durazzo – sovrano guerriero in grado di tenere sotto scacco nei brevi anni del suo regno tutta la penisola e anche il papato – per essere portato sempre al suo seguito in battaglia, e fungere da altare da campo per le celebrazioni della messa. In realtà, insieme all’attribuzione che la fa risalire a un periodo successivo alla morte del sovrano, avvenuta nel 1414, non è pensabile che una opera così possente e delicata, di oltre 300 chilogrammi di peso, venisse trasportata facilmente nei luoghi di battaglia. Certo è che polittici quale quello in esame erano effettivamente già costruiti con una “scatola” che li proteggeva e permetteva il loro trasferimento relativamente agevole fino alla sede definitiva. I polittici in alabastro ebbero un periodo d’oro in vari paesi d’Europa durante tutto il Trecento e il Quattrocento per la loro bellezza intrinseca e la capacità di unire messaggi devozionali – in particolare le storie di Maria e della Passione – al loro valore di oggetti preziosi, e comunque accessibili per le classi più agiate. Gli alabastermen inglesi riuscirono quindi a creare un grande interesse e un mercato europeo per i loro prodotti come era accaduto, nel Duecento e nel Trecento, per gli avori parigini. In Inghilterra, alla venuta di Enrico VIII, che a partire dagli anni Trenta del ‘500 mise in atto distruzioni e dispersioni di immagini delle chiese e dei monasteri inglesi, molti polittici presero vie di fuga e raggiunsero anche una Italia che, ormai entrata nel Rinascimento, e incline alla riscoperta della civiltà classica, apprezzava però ancora il gusto tardo medievale. Il polittico di Capodimonte, uno dei circa settanta tuttora esistenti al mondo, in assoluto fra i meglio conservati, racconta quindi la storia del collezionismo dell’epoca attraverso l’intera Europa. Documentato sin dalla fine del Seicento nella sacrestia della chiesa di San Giovanni a Carbonara dove è presente il grande monumento funebre dedicato a re Ladislao dalla sorella che lo sostituì al potere. Racconta quindi una storia cara alla città e sarà l’unica opera d’arte che non avrà necessità di compiere un ulteriore viaggio per “tornare a casa” perché già collocato nella sua sede ideale, e definitiva: la Galleria le Arti a Napoli del Museo di Capodimonte, dove si troverà a pochi passi da un altro capolavoro del museo che ci riporta anch’esso a una straordinaria rappresentazione di un episodio della Passione: la Flagellazione di Cristo di Caravaggio. ln esposizione al Museo di Capodimonte Due teste di monaci provenienti da Varallo Sesia. Stacchi di affresco da un luogo dall’incredibile magia. Le teste, raffiguranti san Pietro martire e frate Leone, sono opera di Gaudenzio Ferrari e del suo allievo Sperindio Cagnoli, che operarono a Varallo e al Sacro Monte, un sito dove è ricostruita dalla fine del 1400 una “piccola Gerusalemme”. Una mostra può, deve servire a dare una nuova luce alle opere d’arte, a far scoprire, o riscoprire, gioielli spesso nascosti ai più. C’è un luogo, in Italia, molto amato e noto da chi vi abita vicino o abbia avuto modo di scoprirlo, che merita di essere conosciuto da un pubblico sempre più vasto. Parliamo del Sacro Monte di Varallo, sito dove alla fine del ‘400, dal ritorno da Gerusalemme, frate Bernardino Caimi, poi Beato, volle ricreare i luoghi della Palestina. Lo stesso san Carlo Borromeo si interessò al progetto che chiamò “Nuova Gerusalemme”. Secoli dopo, 45 cappelle, circa 4.000 figure e 400 gruppi di statue raccontano ancora con forza e immediatezza episodi della Storia Sacra continuando a meravigliare pellegrini e visitatori che giungono in questo sito unico nel suo genere per l’insieme di natura, arte e fede. Fra gli artisti di maggiore levatura che lavorarono a Varallo è Gaudenzio Ferrari, relativi al quale in mostra a Capodimonte sono due lacerti di affresco: la testa di san Pietro Martire e quella di frate Leone. Sull’identità di san Pietro non vi è dubbio: il restauro che oggi restituisce l’opera alla sua originaria fattezza – con la rimozione fra l’altro di un tenace strato di cere e caseina – ha fatto emergere fra l’altro l’aureola del santo. Non si conosce l’esatta provenienza dei dipinti. Si sa che si tratta di frammenti staccati a massello da affreschi di maggiori dimensioni, in seguito ritagliati e incorniciati. L’ipotesi che li voleva raffigurati nelle mura di un convento francescano di Varallo cozza con l’idea di un frate domenicano quale san Pietro martire difficilmente collocabile in un edificio francescano. Perfetta collocazione sarebbe stata invece per frate Leone, la cui identità è emersa nel corso del recente restauro, compagno di san Francesco e suo confessore. Dopo la mostra, le due teste di monaci verranno restituite al luogo di provenienza: la Pinacoteca di Varallo Sesia, dove sono ricordati dal primo catalogo manoscritto da Giulio Arienta nel 1892. In esposizione al Museo di Capodimonte La Madonna del Carmine di Torre in Piemonte. Icona della moda nel Settecento. Una preziosa veste di una “statua vestita” fa riscoprire una antica tradizione scomparsa e affascina per la magnificenza del tessuto, per la perfezione del restauro. Un guardaroba da principessa. Di più. Da Regina. Tra i capolavori esposti a Napoli al Museo di Capodimonte fa splendida mostra di sé una veste regale appartenuta a una statua della Madonna del Carmine. Una tradizione, quella di vestire con abiti laici le statue religiose, che stupisce il visitatore che ancora oggi si rechi in una chiesa e incontri simulacri di santi provvisti di vesti, accessori, capigliatura, ma che era usanza diffusa anche in Italia; fino a quando, nell’Ottocento, questi manichini sontuosamente agghindati iniziarono a scomparire da chiese e comunità: nascosti, banditi, spesso distrutti per essere sostituiti da statue scolpite. A quelli rimasti è dedicato oggi un lavoro di studio e riscoperta. Dalla Valtellina, dalla chiesa della Natività della Beata Vergine Maria a Torre di Santa Maria (Sondrio) giunge questa Madonna sontuosamente vestita alla maniera di una dama del Settecento. Il manichino – come solitamente succedeva nel caso di simulacri vestiti – era prodotto in modo seriale, con piccole personalizzazioni, e spesso aveva uno scheletro sulle quali venivano inserite solo le parti in vista: testa, mani, piedi. La statua sfilava probabilmente in processione, con ciò mostrando la devozione del committente e al contempo la sua ricchezza e generosità. Un’iconografia, quella delle statue vestite, nata in uno spazio laico, di corte, e passata al sacro rimanendo invariata per secoli. Una presenza affettuosa e domestica che travalicava i confini e che si ritrovava indistintamente nelle piccole pievi di campagna come nelle cattedrali di città o nei villaggi montani, segno di una devozione radicata e vissuta che riviveva, di volta in volta, nella ritualità delle processioni, momento imprescindibile per la comunità femminile che custodiva il simulacro. I denari, tanti, tantissimi, e l’enorme mole di lavoro che comportava la realizzazione delle statue riguardavano la decorazione della stoffa, la predisposizione dell’abito e di tutti gli accessori che potevano comprendere gioielli e persino frivole e leggiadre scarpette ricamate. Il visitatore potrà in effetti rimanere perplesso di fronte alla totale mancanza di simboli religiosi del vestito; nulla in realtà di cui stupirsi: fino alla metà del Settecento era molto labile la differenziazione fra tessuti impiegati per l’abbigliamento, l’arredamento e per le chiese, e venivano anzi spesso impiegati tessuti ricavati da vesti laiche per confezionare parati ecclesiastici. Chissà che provenienza aveva quella veste, prima di diventare vestito della Vergine. Giunse in Valtellina, forse, sulle vie dell’emigrazione, e ci racconta di quell’intreccio fra la cultura artigiana, grande tessuto connettivo della civiltà europea, e i suoi prodotti più alti, che sapevano diventare vere opere d’arte. Fu certamente un devoto dalle grandi possibilità economiche a finanziare l’opera d’arte religiosa in mostra a Napoli. Nella realizzazione della magnifica e assai costosa veste in stoffa broccata, qualunque fosse la sua misteriosa provenienza, erano stati di certo coinvolti i migliori artigiani dell’epoca. La seta proviene dalle manifatture di Lione, il massimo del tempo; i sarti furono molto probabilmente milanesi, o veneziani. Sarti – e non pianetari – con tutta probabilità abituati a vestire i signori, più che a cimentarsi con paramenti religiosi. Lo si deduce dalla complessità dell’impianto alla base del vestito, con stecche di balena, fodere di taffetas rosso, blu, bianco, écru, undici coppie di asole a chiudere il corpetto, maniche con merletti a fuselli in oro, soprammaniche rese gonfie dalle pieghe. La veste – composta da un prezioso corpetto e da una gonna – è realizzata con uno spettacolare gros de Tours in cui il fondo turchese è ricoperto da trame broccate in oro e argento e fiori colorati. Secondo la moda dell’epoca, l’ornato crea effetti tridimensionali, plastici e pittorici. La tecnica, inventata a Lione e definita point rentré, permetteva di creare con grande vigore plastico frutti, fiori ma anche elementi architettonici, sculture e paesaggi. Questi scenari, che sembrano a prima vista naturali, erano spesso invece fantastici e carichi di elementi esotici, come il tema della “pagoda”, con proporzioni ribaltate, che si ammira nella veste in esposizione. La gonna di Maria è più semplice del corpetto, nella fattura e nel decoro. E insegna una buona norma tornata oggi di grande attualità. Nemmeno un centimetro quadro di stoffa andava perso, tenuto conto della preziosità del tessuto, del ricamo, del costo, del lavoro; ogni parte di tessuto andava utilizzata, con inserti e rammendi che non dipendevano dalle possibilità economiche del committente, ma dall’abitudine a non sprecare nulla. Il delicato restauro è stato eseguito, oggi, con la stessa cura con cui era stata creata la veste, secoli orsono. In esposizione al Museo di Capodimonte Medusa, mostruosa bellezza canoviana. Una rarissima opera in metallo di Antonio Canova rivela il destino tragico della Gorgone. L’opera è frutto di una ricerca dell’artista che studiò l’effetto “terrific” del metallo all’interno di un gruppo scultoreo in marmo. Medusa, creatura mostruosa o bellissima? Di certo fra le tre Gorgoni, esseri inquietanti e mitici, è l’unica a non essere immortale. Perirà in effetti per mano di Perseo, che le mozzerà la testa dai capelli tramutati in un groviglio di vipere, per vendetta della dea Atena. Così finirà Medusa, rapita da Poseidone innamorato. Medusa che, sotto la splendida capigliatura, aveva nascosto il volto dietro a un’immagine di Atena; la dea adirata farà in modo che venga tramutata in pietra ogni creatura caduta nello sguardo della gorgeneion. Condannata a vivere in solitudine in un antro, Medusa verrà trovata da Perseo, che la fisserà attraverso il riflesso del suo scudo, prima di ucciderla, con un solo colpo di falcetto, ancora una volta guidato dalla vendicativa Atena. Una Medusa dalla inquietante bellezza secondo il mito più recente, quello tramandato da Ovidio – secondo il quale dalla testa mozzata della dea nasceranno Pegaso, il cavallo alato, e avrà origine il corallo rosso – è protagonista della mostra Restituzioni. Tesori d’arte restaurati, dal 22 marzo al 9 luglio alle Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano. È una opera di grande rarità perché l’unica testa in metallo attribuita ad Antonio Canova. Il metallo scelto dal grande artista di Possagno è soprattutto il rame, e nella sua ricerca gli effetti di luce rossastra contribuiscono a creare quell’effetto di bellezza inquieta e drammatica in una creatura dal destino così tragico; quel senso di “terribilità”, che doveva essere davvero impressionante prima della brunitura del tempo che ha mitigato la luce rossastra del metallo, assecondando il gusto caro ai preromantici venuti dal nord Europa, che negli ultimi decenni del Settecento portarono a Roma le loro poetiche. Canova studiò l’effetto luminoso e terrificante per quella Medusa che sarebbe andata a completare il gruppo scultoreo con Perseo a lui commissionato dall’amministratore delle finanze dell’armata napoleonica a Roma e poi acquistato per Pio VII, e posizionato ancora oggi nel Cortile del Belvedere dei Musei Vaticani. Alla fine la scelta ricadde su una testa di marmo, ma per mantenere l’effetto “terrific” scavò l’opera per porvi una candela e illuminare il volto dall’interno. Della vittima “bellissima” dell’eroe, nella descrizione di Ovidio, colpiscono molto i capelli, componente eccezionale nella ideazione e nella realizzazione, quasi scultura di un “acconciatore” di fine Settecento. L’analisi ha messo in luce due fasi distinte di lavoro. Quella delle calotte sbalzate che creano la testa della Gorgone, anteriore e posteriore, con una mano sicura che procede senza indugi ed errori (solo un piccolo “rammendo”, probabilmente dovuto all’assottigliamento eccessivo della lamina, verrà subito fatto in un occhio), e i capelli, inseriti in quello che oggi chiameremmo “extension”: sottili strisce di rame infilate ad una ad una, saldate fra loro nella parte frontale a formare piccole ciocche, in un andamento selvaggio e arruffato, e strette in alto da uno chignon, oggi perduto, raccolto in quello ai tempi nostri conosciuto come “effetto bagnato”; c’erano inoltre probabilmente anche una ciocca più alta e una pendente che nascondevano le saldature dei capelli e i capelli di rame deformati, oggi visibili. I serpenti che cingono il viso, che si allungano lungo le guance e al centro della fronte fra le ali, fino ad annodarsi sotto il mento, sono realizzati invece in bronzo, a cera persa, e in seguito finemente cesellati. Ma l’aspetto che già nel ‘700 non mancò di colpire Goethe, che si rifaceva all’originale da cui prese ispirazione Canova, un esemplare greco di Fidia, è quella bocca semiaperta, in quell’urlo espressionista di dolore, muto, in quello stupore pietrificato, lei che nel suo antro aveva accanto a sé tutti gli esseri che l’avevano avvicinata, pietrificati per l’eternità. Canova si ispira al modello greco, e mentre lavora gli risuonano forse in mente le parole di Ovidio “Era bellissima (…) e in tutta la sua persona nessuna parte era più bella dei capelli”. In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano