novelle per un restauro - Progetto Cultura

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novelle per un restauro - Progetto Cultura
NOVELLE PER UN RESTAURO
Liberamente tratte dalle schede del catalogo
Restituzioni 2013. Tesori d’arte restaurati
Il programma di questa edizione di Restituzioni è anche una narrazione con tanti attori: l’arte, il
restauro, gli uomini e le donne, l’artista che ha realizzato l’opera ma anche l’archeologo che l’ha
scoperta, il committente che l’ha voluta, il collezionista che l’ha gelosamente conservata, il luogo
che l’ha accolta. Più di quaranta i nuclei di opere restaurate, ciascuno è protagonista di un suo
racconto.
Il guerriero che depose le armi.
Una stele trafugata e ritrovata narra la vita di guerriero daunio e del suo popolo: dai riti della vita
ad animali mitici tra cui chimere e cavalli alati.
Una stele, rimasta per millenni sepolta nelle terre in cui era stata scolpita, viene ritrovata, trafugata,
percorre la penisola e viene intercettata nel suo viaggio. È una stele daunia, proveniente dalla
Puglia, da scavi clandestini probabilmente in zone di necropoli, sequestrata in Veneto e ora tutelata
dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Regione.
La stele, magnifica, ”parlante” come tutte le migliaia di simili monumenti funerari o votivi ritrovati
nella zona fra Foggia e Manfredonia, apre nuovi scenari sui popoli antichi che abitavano quelle
terre, sei secoli circa a.C.
È una stele alta un metro circa, candida, appena ingiallita dall’ossidazione, di un calcare tenero e
friabile proveniente dalle cave del Gargano; va immaginata accesa di un colore rosso, come ancora
si percepisce dai pigmenti rimasti in superficie.
La stele appartiene a una categoria particolare, quella delle stele maschili con armi. Vi è rappresentato
un guerriero della Daunia: era il ceto aristocratico di allora a concedersi il lusso e l’onore di erigere
questo tipo di manufatti, a volte in vita come voto, altre dopo la morte per ricordare il rango e le
gesta degli uomini.
In questo caso il guerriero aristocratico, forse il defunto, è agghindato con una veste funebre
arricchita dalle insegne del suo rango, in particolare si rincorrono, nella veste e nella ornamentazione
inferiore e superiore della stele, riquadri geometrici con meandri e svastiche. Le braccia del guerriero
sono nude, piegate sul petto, ad indicare che ora riposa un sonno eterno. La spada, che non ha più
un uso, è inguainata nel fodero, e si notano una corazza, lo scudo decorato a dadi, e un pettorale
che protegge il cuore.
Sono però le scene secondarie a raccontare la vera vita della società di allora. La fortuna, forse, di
un horror vacui, il bisogno di riempire ogni interstizio trasforma le stele in libri aperti. E così, quel
popolo antico, che non conosceva la scrittura, si racconta nei particolari della vita. La stele in mostra
fissa, sul bordo laterale, il guerriero cacciatore nell’atto di scagliare una lancia verso un cinghiale.
Ma molti altri monumenti simili parlano, e raccontano episodi di vita quotidiana, antichi rituali,
cerimonie nuziali e funerarie, lotte armate a piedi o a cavallo. Conosciamo così la molitura del
grano, scene di tessitura, di caccia a piedi o a cavallo, scene di pesca e navi, di esequie, processioni e
combattimenti rituali. Non mancano esseri mostruosi, creature teriomorfe e divine, come la chimera
e il cavallo alato. Viene così restituito alla Storia l’insieme dei miti delle popolazioni indigene, la cui
religiosità appare influenzata dalle credenze escatologiche del mondo mediterraneo.
In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano
Il sarcofago del “figlio di Iside” e il doppio mistero dei geroglifici.
Nel ‘700 il papa bolognese Benedetto XIV donò alla città di Bologna una raccolta di reperti egizi per
farla divenire fondamentale mèta culturale. Fra i reperti, un magnifico sarcofago che era stato però
frutto di intervento di restauro “migliorativo” su immagini e iscrizioni.
Quando Champollion riuscì, nel 1822, a decifrare il linguaggio segreto degli antichi egizi, il mondo
ebbe accesso a una civiltà fino ad allora – e ancora oggi per vari aspetti – misteriosa e dal grande
e immutato fascino. Quei segni, in realtà, erano studiati da tempo da eruditi appassionati della
civiltà egizia, nel tentativo di trovarne la chiave di lettura. Fra questi era Georg Zoëga, uno studioso
danese che non passò alla storia come Champollion, ma di lui fu precursore per i prolungati studi
filologici condotti sui testi in geroglifico.
Lo splendente sarcofago detto “del figlio di Iside” fa parte della collezione del bolognese Prospero
Lambertini, salito al soglio pontificio nel 1740 col nome di Benedetto XIV, che donò alla città di
Bologna alcune antichità egiziane di notevole interesse storico-artistico e antropologico.
Fra queste erano il grande sarcofago antropoide di Mes-Isis e quattro mummie di adulto, tre delle
quali con cartonnage e iscrizioni sul bendaggio.
Nell’estate del 1789, l’anno della rivoluzione in Francia, Georg Zoëga intraprende un viaggio da
Roma a Venezia per visitare le principali raccolte antiquarie del centro-nord della penisola, e Bologna
è per lui una tappa fondamentale. Lo studioso è attratto dalla ricchezza cromatica, iconografica e
linguistica del sarcofago e scriverà “Se avessimo più reperti di questo genere, potremmo fare questo
primo passo nella lettura dei geroglifici con meno difficoltà e più fiducia”.
In realtà il sarcofago, che riproduce nell’insieme di cassa e coperchio le sembianze di una mummia
avvolta in un sudario di lino, la testa coperta da una voluminosa parrucca, riporta parti di immagini
e di iscrizioni che – grazie anche agli studi condotti nel recente restauro – si possono con certezza
definire non originali. Restauri successivi, il primo risalente probabilmente già al periodo fra il ‘400
e il ‘600, hanno fatto sì che sia stata fatta una integrazione pittorica mimetica ove possibile mentre,
in corrispondenza delle lacune maggiori e in assenza di chiari punti di riferimento iconografici, lo
schema decorativo è stato modificato rispetto all’originale.
Lo stesso trattamento è stato riservato alle iscrizioni, in parte definibili quindi “pseudo-geroglifici”
(e quindi a maggior ragione maggiormente indecifrabili da parte di studiosi come Zoëga) che nella
parte autenticamente egiziana corrispondono a un inno alla dea Nut, rappresentata seduta sul
tallone destro con il disco solare sulla testa, nell’atto di stendere le proprie ali sull’addome del
defunto, stringendo in ciascuna mano un segno ankh della vita.
Il sarcofago, che risale con tutta probabilità al periodo compreso tra la XXIII dinastia e gli inizi della
XXII, continua oggi ad emanare un grande fascino.
In esposizione al Museo di Capodimonte
Una donna antica, e la sua vita oltre la morte.
Il corredo funerario trovato in una tomba in Calabria ci svela il racconto di una donna sposata, il suo
aspetto, le sue abitudini, fino all’ultimo saluto.
Una donna sposata, di rango nobile, di circa 2400 anni fa.
Era alta un metro e quaranta appena e aveva circa quaranta anni la donna ritrovata in una delle più
importanti aree archeologiche dell’antica Lucania, presso il primo paese oltre il confine di quella
che è oggi la Calabria.
È stata rinvenuta, con tutto il suo corredo funerario, in una necropoli emersa e studiata di recente.
L’intero corredo, di circa quaranta elementi, comprende oggetti che raccontano il momento del
trapasso: la veglia funebre con l’hydria, vaso per versare l’acqua utilizzata per il rito funerario, e
una olla – un altro grande vaso – ai piedi della donna, usata probabilmente per contenere l’acqua
delle abluzioni sacre; il banchetto testimoniato dai contenitori della libagione fra cui un guttus per
gli olii, due skyphoi per bere e le lekanides adoperate, forse, come piatti da portata.
Ma l’arredo funebre racconta soprattutto la vita della donna, la sua cura per il corpo, lo stato di
sposata.
Troviamo gli accessori per la cosmesi: una conchiglia come trousse per contenere le terre colorate,
unguentari e pissidi dalle diverse forme per i belletti. Il lebete, forma vascolare tipicamente connessa
alla realtà nuziale, deposto a fianco della defunta addirittura in due esemplari.
Al momento del passaggio fu abbigliata con una veste di cui è rimasta la fibula, al dito aveva un
anello d’argento.
Della vita sua, come di quella delle donne del suo rango, raccontano le immagini dei vasi: donne
sedute nell’atto di specchiarsi, accompagnate spesso da eroti in volo, a volte in piedi o seduti per
partecipare anche loro alla libagione. L’hydria rappresenta una testa femminile di profilo, con i
capelli raccolti nel sakkos. Tutto fa pensare che la donna appaia nella sua dimensione di amante e
sposa. Le mani diverse (ma con tratti comuni) degli artisti che hanno dipinto la scena rimandano
all’attività di almeno due artigiani, probabilmente chiamati in causa in occasione del trapasso. Tra gli
oggetti metallici un piccolo sonaglio potrebbe ricordare l’infanzia della donna, e piace pensare che,
accanto ai ricordi della vita nuziale, il coniuge abbia voluto porre un ricordo della vita prenuziale
della sposa, o sia stata la stessa donna a esprimere in vita il desiderio.
Il degrado dei reperti ritrovati, come si può immaginare, era fisico, chimico e biologico. Risalenti a
un periodo fra il 340 e il 290 a.C., rimasti millenni sotto terra, hanno subìto gli effetti del tempo, con
la tomba che li conteneva composta da tegole ben ordinate, poi crollate su se stesse.
Ma quello che colpisce è che, una volta tolti gli oggetti dalla terra, il processo di degrado prosegue
e anzi si accelera. Ciò che la terra ha a suo modo conservato, l’aria e gli agenti atmosferici rischiano
di rovinare in poco tempo.
Un restauro prevalentemente, quindi, conservativo quello attuato. Non vi è stato bisogno di
ricostruire alcunché dato che gli oggetti erano conservati in tutte le loro parti. La colla usata per
ricostruire i puzzle è di tipo reversibile.
Un intervento che ha fermato il tempo, e ci consente oggi di scoprire la vita di una donna antica,
appartenente ad un popolo guerriero, i Lucani, comunità italica di origine sannita.
In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano
La stele Borgia e il ritratto della bellezza classica.
L’importante collezione d’arte del cardinale Borgia, voluta nell’Ottocento dai regnanti francesi,
fu acquistata definitivamente dai Borboni. Fra i reperti una stele funeraria con l’immagine di un
defunto che, in vita, appartenne alla cerchia dei “belli e buoni” della Grecia classica.
Kalos kai agathos. Il perfetto cittadino della Grecia classica era una sintesi degli ideali di bellezza e
onestà in una ricerca che coinvolgeva in egual misura la sfera etica e quella estetica.
La preziosa stele funeraria detta “Borgia” fissa nella pietra attraverso alcuni simboli un esempio di
una biografia che rimanda a un passato “alto” del soggetto per cui fu scolpita. Si tratta di un uomo
adulto appoggiato ad un bastone, un defunto raffigurato vivente secondo la tipica visione greca. La
stele racconta, attraverso un particolare simbolico, il suo passato di cultore del fisico e della bellezza:
pendente dal suo polso sinistro è un aryballos, un contenitore per l’olio col quale l’atleta frizionava
il corpo nudo prima dell’allenamento. Una fatica non quindi fine a se stessa quella del lavoro in
palestra dell’atleta, ma la ricerca di una prestanza e di una bellezza fisica legate indissolubilmente
al valore morale dell’individuo.
Un secondo elemento rimanda ad un altro tema che aveva una connotazione “ideale” nella società
greca del tempo: l’uomo è accompagnato da un levriero, un cane da caccia associato all’attività
venatoria, allora appannaggio di pochi e, quindi, aristocratica. Lo status elitario del defunto era
dunque visualizzato nella compagnia del cane, come avveniva spesso anche nella rappresentazione
delle ceramiche.
La stele funeraria è uno degli esemplari di maggior pregio della raccolta settecentesca del cardinal
Stefano Borgia, erudito e appassionato di antichità. La trattativa per l’acquisizione della collezione,
avvenuta nel 1814 a Napoli durante il cosiddetto periodo francese fra l’erede della collezione,
Camillo Borgia, e Gioacchino Murat, rientrava nella politica culturale promossa dai regnanti francesi
e basata sul rilancio della città con la sua trasformazione in polo artistico. Lo stesso Napoleone tentò
di realizzare l’acquisizione della raccolta, poi assolta dai Borboni – tornati a regnare su Napoli – con
Ferdinando IV che confermò l’acquisto e pagò buona parte dei 50.000 ducati stabiliti per la vendita.
Non si conosce, purtroppo, il luogo di ritrovamento della stele, che già nell’800 risulta inserita nel
percorso espositivo del Museo Archeologico quale importante testimonianza dell’arte dei primi
decenni del V secolo a.C., momento di passaggio fra la ieraticità dello stile arcaico e l’equilibrio
figurativo di quello classico.
Numerose lacune della stele – fra cui una frattura antica che la taglia orizzontalmente – non ne
hanno compromesso in alcun modo la bellezza e l’efficacia.
In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano
La loutrophoros. Il dolore che pietrifica l’anima, e il mistero di una ricostruzione
“mimetica”.
Un importante vaso apulo a figure rosse narra il dolore di Niobe, eroina del mito, che si vantò con
gli dei per i suoi numerosi figli, e dagli dei fu punita.
Il recente restauro ha evidenziato una parte ricostruita: misteriosi ancora il quando e il perché.
Niobe, moglie di Anfione re di Tebe, talmente famosa da essere narrata nell’Iliade, partorisce sette
figli maschi e sette figlie femmine. Compie però un errore imperdonabile nel rapporto con gli dei.
Si vanta della sua prolificità con Latona, madre solo delle due divinità gemelle, Apollo e Artemide.
La vendetta della dea sarà implacabile. Latona ordina ai figli di uccidere, colpendola con frecce,
la prole di Niobe. La regina di Tebe, per il dolore, si trasforma in pietra dopo avere pianto senza
tregua, nove giorni e nove notti, sulla tomba dei suoi figli.
Simbolo del dolore senza fine, che accomuna senza distinzione uomini e dei, Niobe è scelta come
soggetto di un vaso “al femminile”, una loutrophoros, un grande vaso a figure rosse di produzione
apula.
“Femminile” è definito la loutrophoros per la sua originaria funzione di contenitore per il trasporto
dell’acqua usata per i bagni lustrali collegati ai riti del matrimonio; la sua forma elegante, arricchita
da elementi plastici e dotata di anse sinuose, è spesso decorata da scene complesse del repertorio
mitico di cui protagonisti, di sovente, sono personaggi femminili.
Il vaso in questa circostanza è usato per ricordare la scomparsa di una donna importante, per
accompagnarla nel suo ultimo viaggio.
Il distillato di tutti i dolori del mondo, personificato da Niobe, è fissato in quell’oggetto funebre che
ricorda, al tempo stesso, uno dei momenti belli della vita: il giorno delle nozze.
Il colore bianco nella parte inferiore della veste della regina rende perfettamente quello che doveva
essere un progressivo ma repentino mutamento di materia del suo corpo. La raffigurazione del mito
che interessa l’intero lato principale è articolato intorno alla tomba dei figli, una edicola funeraria –
o naiskos – trasformata, grazie a un’astuta ambivalenza, nella stessa sepoltura della donna; morta,
nell’anima, insieme ai suoi ragazzi.
All’esterno, seduta accanto al naiskos è la nutrice di Niobe: la sua non giovane età è resa dalla
corta chioma canuta e dalle rughe del viso. Sull’altro lato è un uomo anziano barbato e canuto:
Tantalo, il padre dell’eroina, anch’esso dal destino segnato crudelmente dall’avere, lui stesso, sfidato
gli dei; il suo status regale si nota dallo scettro che stringe con la mano, mentre l’origine lidia è
espressa dall’abito orientale. Dietro di lui si avvicina un giovane, Pelope, fratello di Niobe, in nudità
con bel corpo muscoloso; sulle spalle appoggia un copricapo ad ampie tese, il cappello del viaggiatore.
Offerte sono poste ai piedi del naiskos: un kalathos contenente uova, una lira di cui è indicata con
precisione la testuggine, una corazza posta di tre quarti.
Nel registro superiore sono raffigurati gli altri protagonisti della vicenda: le divinità offese dall’atto
di hybris di Niobe: su di un lato Apollo, Artemide e Latona; dalla parte opposta Hermes, Mercurio,
con gambe incrociate e gli alti sandali alati ai piedi, intento a parlare con Zeus che gli siede accanto
col suo bel profilo severo e la folta chioma e barba.
La loutrophoros appartiene alla considerevole raccolta vascolare proveniente da Ruvo di Puglia
conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, formatasi nell’800 per iniziativa dei Borboni
attraverso scavi condotti dalla Real Commissione dè Scavamenti, e da acquisizioni di collezioni di
privati, spesso locali che, per passione o per lucro, avevano saccheggiato i ricchi corredi delle tombe
messe in luce.
L’esemplare è conservato al museo di Napoli dal 1838, quando fu acquistato dal Real Museo Borbonico
insieme ad altri duecentocinquanta oggetti antichi (vasi, bronzi, pitture tra le quali i celebri affreschi
della tomba delle Danzatrici) dai proprietari Michele Ficco e Vincenzo Cervone, rispettivamente
canonico e farmacista di Ruvo, abili imprenditori che, capendo e sfruttando l’interesse suscitato
dalle scoperte ruvestine, avevano creato una vera e propria società di scavo.
La loutrophoros è opera pregevole del Pittore di Varrese o della sua officina, attivi a Taranto.
Il restauro del vaso, condotto nella campagna 2011-2012 del progetto Restituzioni, ha consentito
una scoperta ancora in parte avvolta nel mistero: una parte del manufatto, compresa dall’orlo
all’attacco delle spalle, è stata realizzata in maniera autonoma dal resto. La parte superiore della
ceramica non è, dunque, di fabbricazione antica: una vera e propria ricostruzione fatta nel tentativo
di nascondere l’intervento, di mimetizzarlo, di spacciarlo per un pezzo originale.
Rimane il mistero di quando, e del perché, sia stata inserita in modo così deciso e invasivo una
intera parte mancante. Una ipotesi è che ciò sia stato fatto proprio nell’ottica di rendere appetibili
i vasi nel mercato antiquario. È risaputo che i Borboni cercassero solamente vasi integri per le loro
collezioni; è quindi probabile che l’intervento in questione sia avvenuto in un momento precedente
all’acquisizione da parte dei reali.
Proprio nell’ottica di ripercorrere la storia dell’opera – e del collezionismo ad essa legato – nelle
varie epoche, l’attuale intervento di restauro non ha rimosso la parte aggiunta.
Un enigma dunque aperto, che affascina gli studiosi così come i visitatori, chiamati a individuare
l’integrazione in gesso, le pennellate nere e i disegni inseriti in epoche successive.
In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano
Il mosaico del leopardo.
Un tuffo in un simposio di una lussuosa abitazione romana.
Un frammento di un mosaico di una domus romana ci fa rivivere i fasti dei banchetti, e porta il
pensiero alle province lontane, all’Africa, alla Siria, alla Turchia.
Un leopardo nell’atto di spiccare il volo. Le zampe posteriori elastiche, pronte a balzare sulla preda.
Quelle davanti forse la toccano già. Dell’animale braccato si intravvedono le zampe posteriori. Tese
e tremanti, immaginiamo.
La scena riguarda una porzione, bellissima, di un mosaico molto ampio che adornava il pavimento
di una antica casa romana a Faenza.
Si tratta di una domus ricca, come si deduce dalla preziosità della pavimentazione. Il mosaico
apparteneva al triclinium, la sala da pranzo. L’intero mosaico, di circa trenta metri quadri, era parte
di un ambiente più ampio, e rimaneva probabilmente in alto rispetto alla restante superficie della
sala.
Immaginiamo le feste che si svolgevano, i banchetti infiniti preparati sopra quell’emblema. Perché
un leopardo con la preda? Classico il riferimento alla selvaggina come cibo nel convito, o forse alla
caccia, ai combattimenti di animali negli anfiteatri, alla vastità geografica ricordata dagli animali
esotici rappresentati, ai vivaria, specie di piccoli zoo privati presenti nelle ville più lussuose, o forse
infine alle celebrazioni della natura di matrice epicurea.
Certo la raffigurazione lascia immaginare maestranze venute da lontano, dalle province romane,
probabilmente dall’Africa del nord: un gusto “africano” filtrato, però, dalla committenza, da una
più rigorosa interpretazione tipica della produzione italica. Figure di leopardi simili si trovano
nell’area del Mediterraneo: in Turchia, in Tunisia, in Siria. Il motivo decorativo, lo stesso, si ritrova ad
Atene, nella basilica vicina all’Ilissos.
La domus conobbe tempi d’oro, fu costruita probabilmente in età augustea, poi viene abbandonata
a causa di un incendio. Del fuoco il mosaico porta ancora le tracce. La domus fu spoliata dei materiali
più preziosi e poi lo spazio venne occupato da altro in età altomedievale, forse una fornace per
produrre la calce, una calcara, o per dare spazio a sepolture.
Cinquanta anni esatti sono passati dal ritrovamento della domus, in occasione della costruzione
di un nuovo fabbricato. Oggi questo prezioso frammento, uno dei nove strappati in occasione del
cantiere nel 1963, viene restituito alla storia grazie al programma Restituzioni. Il fuoco, il tempo.
Oggi il restauro. E per questa fiera superba, una nuova vita.
In esposizione al Museo di Capodimonte
Le erme del Museo Nazionale di Ravenna: storia di scavi, restauri e di naufragi
Cinque erme di eroi e filosofi greci, copie romane degli originali perduti, vennero ritrovate negli
scavi romani compiuti alla metà del XVI secolo.
Perdute in un naufragio, impigliate nelle reti, secoli dopo vennero ritrovate nel mare Adriatico
vicino a Ravenna e portate al Museo Nazionale di Ravenna.
Oggi il loro restauro e la grande mostra a Napoli.
Cinque sculture antiche. Gli scavi del Rinascimento. Un naufragio misterioso e una stupefacente
biblioteca a Ferrara, che le attese invano è la storia avvincente di questi capolavori in mostra al
Museo di Capodimonte. Le erme erano statue marmoree composte da un pilastrino sormontato da
una testa scolpita che, nell’antica Roma, ad imitazione degli usi greci, venivano collocate lungo le
strade, ai crocevia, nei confini, sulle porte, talvolta ad adornare biblioteche. Il loro nome deriva da
Ermes, protettore dei viandanti.
Quelle in mostra a Napoli ritraggono uomini illustri, filosofi, eroi del mondo greco: Milziade,
Carneade, Epicuro, forse Dioniso. Provengono dalla Capitale, e la loro storia, che prosegue nel
tempo, da due millenni ad oggi, è densa di fascino e mistero. Risalgono al II sec. d.C.. Vengono
scolpite, in marmo pentelico, le erme di Carneade e di Epicuro. Qualche decennio dopo le altre, in
pavonazzetto quella di Dioniso.
Adornano le ville romane, al Celio e in altri luoghi, e verranno sepolte dal tempo e dalla storia.
Fino a quando, nel Cinquecento irrompe il desiderio di ritrovare le vestigia del passato; quando,
col Rinascimento, la civiltà classica diventa il riferimento principe. A Roma, un cardinale, Ippolito II
d’Este, famoso per le ville a Tivoli e al Quirinale, sa di queste erme ritrovate, degli scavi nella vigna
Strozzi al Celio, ed egli stesso commissiona campagne di ricerche. Acquisisce le preziose erme e le fa
restaurare. Si completano i nasi mancanti di Epicuro e Dioniso, le sopracciglia perdute di Carneade,
la barba e il naso scolpiti in un unico blocco del Milaziade. Ciocche della barba si notano perché
risultano più mosse rispetto a quelle laterali, antiche.
Il cardinale donerà le erme nel 1573 al nipote, il duca di Ferrara, Alfonso II d’Este.
Il duca ha in progetto per il suo castello a Ferrara una meravigliosa biblioteca; di più, un vero museo
di antichità, di oggetti rari e preziosi. Il geniale architetto e antiquario napoletano Pirro Ligorio,
collaboratore di cardinali e papi, non lascia nulla al caso, e anzi vuole riprendere l’impostazione di
un’antica biblioteca romana, quella descritta da Plinio, una libraria-antichario “in sembianze e in
parole”; prende ispirazione anche dalla Biblioteca Laurenziana di Michelangelo. In un suo disegno
rappresenta la biblioteca realizzata nel 1573, poi precocemente disallestita. Si riconoscono in basso,
al primo ordine, le erme con i fondatori del pensiero occidentale, i classici e gli eroi della Grecia
antica, scelte con cura dall’architetto, come gemme preziose, e incastonate a mo’ di telamoni; poi,
più su i busti degli imperatori romani, e nella scansie della Biblioteca-Antichario i manoscritti degli
scrittori moderni che trattano dell’antico.
Ben diciannove erme verranno utilizzate nella Biblioteca; le cinque protagoniste in mostra vengono
scelte, una per una, da Ligorio, per entrare a fare parte dell’architettura, per le loro preziose fattezze
e il significato; fra tutte spicca il Milziade, eroe della famosa battaglia di Maratona del 490 a.C., con
doppia iscrizione sul pettorale, in latino e greco. Quella in latino ricorda colui che vinse in guerra i
Persiani sui campi di Maratona, morto per i cittadini ingrati e per la patria.
Le erme partono da Roma dirette a Ferrara in casse di marmo. Inizialmente per strada via terra fino
ad Ancona, poi prendono la via del mare. Ma a poche miglia dalla costa adriatica, ormai vicine alle
foci del Reno, avvirene il naufragio delle cinque preziose casse.
Lì le erme rimarranno, sotto il mare, per tre secoli e mezzo. Il tempo farà la sua parte, il mare.
Conchiglie si depositano su quelle strane rocce.
Un giorno alcuni pescatori, tirando le reti, raccolgono quella pesca strana. È il 1936. Tornano alla
luce tre erme, e poi nel 1938 ne emergeranno altre, e venti anni dopo il tronco che sormontava la
testa di Dioniso.
Trovano presto posto nel Museo ravennate, ma non riescono a parlare fino in fondo, a dispiegare
tutta la loro storia e bellezza. A loro è riservata un’attenzione un po’ distratta, accanto a sublimi
trafori marmorei dell’età di Giustiniano. Colpiscono, certo, per il loro valore plastico e artistico, con
la lavorazioni dei volti, delle capigliature, delle torsioni impercettibili dei corpi.
Poi, più di recente, una soprintendente che aveva studiato Pirro Ligorio e le ville tiburtine le
riconosce. E allora le erme riprendono la loro narrazione. Raccontano la storia delle loro “antenate”, diventano
echi preziosi di quelle scomparse, originali, della Grecia.
Sono di importanza straordinaria perché raccontano la storia degli scavi del ‘500, delle passioni
antiquarie e del collezionismo in voga allora, dei restauri nel Rinascimento, e di quelli dello scorso
secolo, quando il mare restituì le opere.
Oggi un nuovo pezzetto di storia è scritto con l’intervento voluto da Intesa Sanpaolo nell’ambito
del programma Restituzioni.
In esposizione al Museo di Capodimonte
Antichi “wrestler” e pugili immortalati in bianco e nero.
Un mosaico a Reggio Calabria del III secolo d.C., acquistato dallo Stato nel 1924 per 1.500 lire,
rappresenta due scene di combattimenti con atleti olimpici.
La forza dell’intero corpo. A mani nude, gli atleti olimpici di pancrazio possono utilizzare tutte
le tecniche possibili per sconfiggere l’avversario. Il nome, che deriva da pan, cioè tutto, e kràtos,
potere, forza, lascia immaginare come si poteva svolgere un combattimento nella Grecia antica.
Divenuta “olimpica” dal 648 a.C., la disciplina nel tempo si fa meno cruenta, e ancora oggi conta
appassionati che in qualche modo la ritrovano nel “wrestling”, nel valetudo e in altre forme di arti
marziali miste.
Una gara di pancrazio, con gli atleti nudi, come si usava allora, è raffigurata in un grande mosaico,
datato ai primi decenni del terzo secolo d.C., emerso il 9 febbraio 1922 nella costruzione di una casa,
a Reggio Calabria, e risalente all’allora Magna Grecia. Sullo sfondo della scena si nota il corredo
dell’atleta: una ampulla olearia per contenere l’olio per ungere il corpo prima, per detergerlo poi,
alla fine della lotta. A fianco, appesi per il manico, sono due strigili, quei raschietti di metallo usati
dopo il combattimento per eliminare l’eccesso di sudore e polvere, o per rimuovere la mistura di olio
e sabbia che disturbava, nel contatto, l’avversario.
Anche se il tempo ha compromesso molti elementi della scena, si notano comunque altri due atleti,
probabilmente impegnati in una gara di pugilato, sport anch’esso molto amato e praticato fin dai tempi
antichi. Vicino ai gruppi di atleti sono due figure che, nelle prime comunicazioni con le quali l’ispettore
onorario avvisava il sovrintendente del ritrovamento eccezionale, venivano definite, forse, “donne”.
Raccontano i primi documenti che la persona vestita – “col braccio destro levato in alto e recante
nella mano uno scudiscio alla cui cima, essendovi attaccate delle cose pendenti, ci ricorda l’antica
sferza” (forse per “sferzare i due lottatori”) – è stato poi identificato, negli studi successivi, con
l’allenatore giudice: in un caso reca in mano un ramoscello di palma, nell’altra una piccola verga.
I gruppi di tre figure, quasi a grandezza umana, si stagliano composti da tesserine nere, i particolari
ricavati in bianco, come una antica fotografia istantanea.
I nomi dei due pugili sono scritti con caratteri greci. Purtroppo si conservano solo parzialmente: uno
dei due pare termini in APΩΣ, ma sulla prima parte non c’è ancora una ipotesi di integrazione, ed il
mistero è dunque tutto aperto. In alto a sinistra, sono invece più visibili i nomi dei due pancraziasti:
il primo, TPIMΩΡ, potrebbe essere l’abbreviazione di un nome di origine egiziana; il secondo,
DAMAΣ, richiama Marcus Aurelius Damas, figlio del più famoso atleta Marcus Aurelius Demostratus
Damas, originario di Sardi e duplice campione olimpico, nel 173 e 177 d.C. Questi fu famoso anche
perché fondò una associazione alla quale aderivano i più famosi lottatori professionisti del tempo,
e perché ricoprì la veste doppia di pancraziaste e pugile invincibile, vincitore in un solo giorno della
gara di pancrazio e pentatlo.
Il grande mosaico, subito smembrato per esigenze del cantiere, fu acquistato dal Soprintendente
Orsi, e quindi dallo Stato, nel 1924, per 1.500 lire.
Conservato per decenni in un cortile interno nel Museo Archeologico di Reggio, venne restaurato
nel 1981, per essere posto, nella sua grandiosa dimensione di oltre 5 mt. x 3, in una grande sala
destinata a contenere i bronzi di Riace. La mostra non si tenne e non fu mai esposto; i sette lacerti
in cui era stato smembrato restarono, di nuovo, a lungo, imballati nei depositi.
In esposizione al Museo di Capodimonte
La palestra dei gladiatori di Pompei.
In mostra due affreschi che ricostruiscono nei dettagli le armi del ludus gladiatorius.
A Pompei, quando nel 79 a.C. il Vesuvio ricopre di ceneri e lapilli la città, la vita ferve. Vicino al
grande teatro un imponente portico colonnato ospita i gladiatori, i loro allenamenti, i sonni.
Non sono gladiatori qualunque. Lì, nel ludus gladiatorius, vivono e si allenano i retiarii, i combattenti
chiamati a sfidare gli avversari con il solo utilizzo di una rete.
Che sia stato un luogo di sfide e di fatiche lo si vede dai graffiti ritrovati, che già allora, millenni fa,
rovinavano con iscrizioni le pareti, ma anche dalle splendide armi in bronzo che furono ritrovate
negli ambienti.
Nel 1767 gli scavi sono ormai in corso da decenni. La città di Pompei sta prendendo forma. Campagne
di scavi si susseguono, interrotte a volte dal risvegliarsi del vulcano. Re e famiglie reali accorrono
curiosi, a tratti finanziano i lavori; spesso vengono inviate schiere di ergastolani a fare emergere
una intera città sepolta.
In Europa, Napoli e l’entroterra diventano i luoghi del momento, Pompei con Ercolano il cuore
del Grand Tour, il viaggio dei giovani europei colti nella terra del bel sole, del bel canto, delle
meraviglie più incredibili dell’arte.
In quell’anno, il 14 febbraio, emergono due frammenti di affresco all’interno dell’exedra, un
ambiente vicino al quadriportico; le scene raffigurate iniziano a parlare, la palestra dei gladiatori
prende forma. Due fratelli, Filippo e Giovanni Morghen, eseguono il rilievo degli affreschi, che
verranno poi staccati nel marzo successivo.
Ai tempi d’oggi non rimane la brillantezza dei colori e dei decori di allora, ma con l’immaginazione
possiamo ripensare a quell’ampio ambiente circolare dipinto con pannelli rossi e azzurri, che si
alternavano, inquadrati da colonne metalliche attorte. Gli scomparti a fondo azzurro accoglievano
dipinti: trofei di armi che proseguivano nel campo del sottostante zoccolo a fondo nero ornato, nei
pannelli adiacenti, con cespugli di lunghe foglie lanceolate, rami di oleandro, bordi di tappeto e
sottili ghirlande.
Il groviglio di armi affrescate, perfettamente riprodotte nei particolari, si può oggi ammirare nella
mostra Restituzioni 2013.
Si comprende subito che si tratta di armi gladiatorie per la presenza dei tridenti e del galerus
propri dei retiarii, e per la caratteristica degli elmi nei quali le originarie alette paraguance si erano
espanse fino a congiungersi sul davanti per proteggere completamente il volto.
Nel frammento di cui rimane solo lo zoccolo si riconoscono una cnemis, lo schiniere che proteggeva
tutta la gamba compresa la coscia, e l’ocrea, protezione solo della gamba sinistra, con gli anelli
per il passaggio delle corregge di cuoio necessarie a fissarla, proprie del mirmillo, gladiatore
della categoria più possente che portava un grosso elmo decorato con figure marine che copriva
interamente il volto; il tridente e il galerus, spallaccio sistemato sulla spalla sinistra per una parziale
protezione della gola e unica difesa del retarius; forse un elmo senza tesa, con le griglie di protezione
per gli occhi, raffigurato di profilo e due gladii. Sulla cornice superiore, tra uno scudo ovale con
rinforzo verticale e uno scudo rettangolare ornato da rilievi, è raffigurato frontalmente un elmo
completamente chiuso sul davanti e con i fori circolari per gli occhi; la tesa ricurva e inflessa sui
lati, con innesti per piume in corrispondenza delle tempie, ne indicano la datazione all’età flavia,
perfettamente congruente con l’epoca di esecuzione del dipinto.
Nel frammento con lo scomparto a fondo azzurro si riconoscono dall’alto due grandi scudi
rettangolari, un gladio e un elmo visto di tre quarti, anch’esso a chiusura integrale e con i fori
per gli occhi protetti da griglie; seguono altri due scudi rettangolari, uno dei quali del tipo con
costolatura centrale e umbone, un fascio di tre giavellotti e una lunga spada in ferro. Un piccolo
scudo d’argento (parma) con niellature d’oro si sovrappone a una lunga lancia e segna la cesura
verso il gruppo di base costituito da due altri grandi scudi rettangolari, ricurvi contrapposti, sui quali
poggiano un elmo con visiera a tesa liscia e cimiero, una spada di ferro con elsa d’argento e una sica
dalla grossa impugnatura, la tipica spada ricurva dei thraeces.
Una storia che potrà appassionare adulti e forse ancor più i piccoli che conoscono i gladiatori dalla
letteratura e soprattutto dal grande schermo, e che avranno l’occasione di leggere gli affreschi
come immagine parlante. Di certo, fra tutte, la più vera.
In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano
La preziosa reliquia della Croce.
Grande il fascino che porta con sé la stauroteca veneziana, reliquiario appartenuto nel ‘400 al
cardinal Bessarione, che la portò in dono a Venezia cercando collaborazioni per una crociata.
Il reliquario più prezioso, la stauroteca, rivela nel suo nome antico il contenuto inestimabile: a lei il
ruolo di contenere, e conservare, i frammenti della vera Croce.
La stauroteca in mostra al Museo di Capodimonte è una croce a filigrana alloggiata in un incavo
ricavato in una tavola di legno. Accanto a essa trovano posto, in quattro alveoli protetti da vetro,
due frammenti della tunica di Gesù e due schegge del legno della Croce. Nella parte centrale si
trovano due placche d’argento lavorate a sbalzo con le immagini degli arcangeli Michele e Gabriele
e due vetri dipinti con Sant’Elena e l’imperatore Costantino. La restante superficie è ricoperta da
lamine d’argento pigmentate. Lungo i bordi, sono sette Scene della Passione. Quella cardine, la
Crocifissione, decora uno sportello separato che si inserisce a scorrimento fino a coprire la parte
mediana dell’oggetto: la più sacra poiché contenente le reliquie sante. Rinascimentale, infine, è
l’asta d’argento che sostiene il manufatto con un sostegno a foglie e volute.
Il magnifico reliquario, conosciuto come Stauroteca del cardinal Bessarione, dal nome di un suo
famoso proprietario, ha una storia affascinante, di lunghi viaggi, di passaggi di mani, di imprese
belliche a lei in qualche modo legate, fino alla sede che, per vari secoli lontani, e poi ancora da quasi
cent’anni, la conserva a Venezia alle Gallerie dell’Accademia.
La genesi e il momento dell’esecuzione del manufatto rimangono non semplici da dire. Un’iscrizione
a margine della croce centrale parla di Irene Paleologina, descritta come nipote dell’imperatore di
Costantinopoli; probabilmente figura divenuta a sua volta imperatrice nel 1335. Ma non si può dire
se Irene abbia realizzato la croce ex novo, se l’abbia abbellita e se a lei si deve la tabella lignea. È
probabile pensare che in origine, la vera stauroteca con la reliquia del sacro legno fosse la croce
filigranata, così come avviene per altri esempi di reliquari similmente strutturati.
La stauroteca ha la fortuna di avere, di sé, un antico documento quasi “fotografico” che consente
il confronto fra diversi periodi storici. A Londra, la National Gallery conserva un dipinto di Gentile
Bellini che racconta con immagini dall’incredibile dettaglio il reliquario al momento del suo arrivo a
Venezia nel ‘400. Risulta qui confermata l’origine costantinopolitana del prodotto. Unica esclusione:
la parte argentea rinascimentale voluta probabilmente dal cardinale per l’utilizzo della reliquia
in processione, e che ricopre il retro dell’oggetto ripercorrendone i passaggi, fino all’approdo
veneziano.
Bessarione fu una figura chiave nel quadro politico e religioso del suo secolo. Prelato di origini
greche, tentò prima, a lungo, la strada diplomatica per ricongiungere la chiesa orientale e quella
occidentale; poi, dopo che i Turchi ebbero conquistato Costantinopoli, fu fra i promotori di una
crociata contro gli invasori.
Entra qui in gioco il valore simbolico e al tempo stesso assai concreto della Croce: Bessarione porta
doni alla città lagunare per convincerla a sostenere, con il fondamentale apporto della flotta, la
crociata contro i Turchi indetta da Papa Pio II.
È quindi al fine della ricerca del consenso che il prelato dona il suo prezioso patrimonio librario alla
Biblioteca Marciana e nel 1463 la preziosa stauroteca alla Scuola Grande di Santa Maria della Carità,
con la clausola di poterla tenere con sé fino alla morte.
Nove anni dopo, sentendosi vicino a quell’appuntamento estremo, prima di recarsi in Francia come
legato pontificio, dispone che tre emissari portino la stauroteca da Bologna a Venezia. La preziosa
reliquia giunge in laguna il 24 maggio del 1472, accolta nella chiesa di San Marco e poi, con solenne
processione, nella chiesa di Santa Maria della Carità e da qui nella sala dell’albergo della Scuola.
Non sarà la fine del viaggio del prezioso manufatto. Secoli dopo, Napoleone sopprime gli ordini,
e fra loro, nel 1806, la Scuola Grande. La stauroteca è acquisita dal conte Luigi Sarvognan, poi
dall’abate Celotti finché, nel 1821, viene ceduta all’imperatore d’Austria Francesco I. Nemmeno il
paese d’oltralpe sarà l’ultima sede della reliquia; saranno le vicissitudini di guerra a segnare, ancora
una volta, il suo destino. L’Italia esce vincitrice dal conflitto immane, e fra le restituzioni previste
ecco rientrare la Croce, che giunge alle Gallerie dell’Accademia. La croce si ritrova così, per i casi,
forse ancora una volta, del destino, nel posto da cui era partita, addirittura nella stessa sala, perché
nel frattempo l’antico complesso della Carità era divenuto sede della straordinaria collezione d’arte.
In esposizione al Museo di Capodimonte
Le storie della Passione scolpite in alabastro.
Capolavoro d’arte medievale, il grande Trittico esposto a Capodimonte si diceva venisse portato in
battaglia da re Ladislao d’Angiò.
Il racconto della Passione scolpito in alabastro è uno dei capolavori assoluti in mostra. Sette scene
– dalla cattura, all’incontro con Pilato, alla Crocefissione, fino alla deposizione e alla Resurrezione –
vengono ripercorse in un grande racconto per immagini di straordinario effetto scenografico. Colpisce
l’utilizzo dei particolari – dall’uso dei colori o della pietra lucente pura secondo il messaggio che si
voleva comunicare – fino a dettagli che acquistano grande efficacia espressiva in un realismo che giunge
a rappresentare l’uso di uno strumento quale una chiave inglese per togliere i chiodi della Croce.
Una stessa mano ha scolpito con tutta probabilità la magnifica opera in alabastro, imperioso
manufatto di oltre tre metri di lunghezza racchiuso in una cassa di legno che ne è anche preziosa
cornice. L’artista artigiano lavorò quasi certamente nell’Inghilterra del ‘400 a Nottingham, luogo da
cui provenivano le migliori produzioni del genere, e dove l’alabastro si trovava abbondante nelle
vicine cave.
Non un’unica mano si rivela invece nei tanti particolari che affollano il polittico. Se le sette scene
della Passione – racchiuse in un trittico che aveva una parte superiore, ora perduta – sono frutto
di un’unica mente, le lavorazioni di alabastro erano però spesso “seriali”, e ad esse partecipavano
vari artigiani specializzati ciascuno in diversi aspetti. Nel trittico di Capodimonte viene ad esempio
da pensare che possano essere stati lavorati separatamente i quattro Evangelisti, che in effetti non
risultano proporzionati agli altri personaggi.
Il Trittico, trasferito a Capodimonte all’inizio dell’800 dalla chiesa di San Giovanni a Carbonara che
lo conservava ab antiquo, è stato restaurato nel laboratorio di restauro del museo stesso con un
intervento completo sull’opera che, togliendo la “polvere del tempo”, ha restituito fra l’altro la
policromia amata nel Medioevo. I colori, fra cui la polvere d’oro data a pennello nei capelli e nelle
vesti, si mescolano sapientemente alla lucentezza e alla trasparenza dell’alabastro, e permettono di
mettere in luce i diversi caratteri e ruoli dei personaggi. Se quindi nel grande Trittico i personaggi
positivi sono rappresentati con pochi interventi di pennello, perché è sufficiente la lucentezza e
trasparenza della pietra a evidenziare il loro animo, così i personaggi negativi sono invece dipinti
nei volti e in alcuni casi, come quello dei soldati dell’Andata al Calvario, vestiti con gonnellini tardomedievali pieghettati, giungono a mostrare la lingua in smorfie grottesche.
Lucenti e pure, come la pietra tenera su cui sono scolpiti, sono le figure positive: non solo Cristo, la
Madonna, la Maddalena dalla lunga treccia di sapore quattrocentesco ai piedi della croce, ma anche
il ladrone pentito, il centurione che riconosce Cristo ai piedi della croce e il soldato romano Longino
che, trafitto il costato di Gesù e colpito dal suo sangue, riacquista la vista e si converte.
Ci sono poi iscrizioni, veri e propri “fumetti” dell’epoca. Raccontano gli incipit o i versetti iniziali
dei Vangeli e, con le loro grandi lettere nere su fondo bianco, erano tali da essere visti anche da
lontano, dai fedeli che varcavano le soglie delle chiese alle luci di candela.
Il Trittico porta con sé anche il fascino di una leggenda. Vera e propria macchina lunga oltre tre metri
e spessa circa dieci centimetri, provvista di una cornice lignea lavorata di gusto “fiammeggiante”
che la conteneva e sorreggeva, si diceva fosse stata voluta dal re Ladislao della dinastia degli Angiò
Durazzo – sovrano guerriero in grado di tenere sotto scacco nei brevi anni del suo regno tutta la
penisola e anche il papato – per essere portato sempre al suo seguito in battaglia, e fungere da
altare da campo per le celebrazioni della messa.
In realtà, insieme all’attribuzione che la fa risalire a un periodo successivo alla morte del sovrano,
avvenuta nel 1414, non è pensabile che una opera così possente e delicata, di oltre 300 chilogrammi
di peso, venisse trasportata facilmente nei luoghi di battaglia. Certo è che polittici quale quello in
esame erano effettivamente già costruiti con una “scatola” che li proteggeva e permetteva il loro
trasferimento relativamente agevole fino alla sede definitiva.
I polittici in alabastro ebbero un periodo d’oro in vari paesi d’Europa durante tutto il Trecento
e il Quattrocento per la loro bellezza intrinseca e la capacità di unire messaggi devozionali – in
particolare le storie di Maria e della Passione – al loro valore di oggetti preziosi, e comunque
accessibili per le classi più agiate. Gli alabastermen inglesi riuscirono quindi a creare un grande
interesse e un mercato europeo per i loro prodotti come era accaduto, nel Duecento e nel Trecento,
per gli avori parigini.
In Inghilterra, alla venuta di Enrico VIII, che a partire dagli anni Trenta del ‘500 mise in atto distruzioni
e dispersioni di immagini delle chiese e dei monasteri inglesi, molti polittici presero vie di fuga e
raggiunsero anche una Italia che, ormai entrata nel Rinascimento, e incline alla riscoperta della
civiltà classica, apprezzava però ancora il gusto tardo medievale.
Il polittico di Capodimonte, uno dei circa settanta tuttora esistenti al mondo, in assoluto fra i
meglio conservati, racconta quindi la storia del collezionismo dell’epoca attraverso l’intera Europa.
Documentato sin dalla fine del Seicento nella sacrestia della chiesa di San Giovanni a Carbonara
dove è presente il grande monumento funebre dedicato a re Ladislao dalla sorella che lo sostituì al
potere. Racconta quindi una storia cara alla città e sarà l’unica opera d’arte che non avrà necessità
di compiere un ulteriore viaggio per “tornare a casa” perché già collocato nella sua sede ideale, e
definitiva: la Galleria le Arti a Napoli del Museo di Capodimonte, dove si troverà a pochi passi da
un altro capolavoro del museo che ci riporta anch’esso a una straordinaria rappresentazione di un
episodio della Passione: la Flagellazione di Cristo di Caravaggio.
ln esposizione al Museo di Capodimonte
Due teste di monaci provenienti da Varallo Sesia.
Stacchi di affresco da un luogo dall’incredibile magia.
Le teste, raffiguranti san Pietro martire e frate Leone, sono opera di Gaudenzio Ferrari e del suo
allievo Sperindio Cagnoli, che operarono a Varallo e al Sacro Monte, un sito dove è ricostruita dalla
fine del 1400 una “piccola Gerusalemme”.
Una mostra può, deve servire a dare una nuova luce alle opere d’arte, a far scoprire, o riscoprire,
gioielli spesso nascosti ai più. C’è un luogo, in Italia, molto amato e noto da chi vi abita vicino o
abbia avuto modo di scoprirlo, che merita di essere conosciuto da un pubblico sempre più vasto.
Parliamo del Sacro Monte di Varallo, sito dove alla fine del ‘400, dal ritorno da Gerusalemme, frate
Bernardino Caimi, poi Beato, volle ricreare i luoghi della Palestina. Lo stesso san Carlo Borromeo
si interessò al progetto che chiamò “Nuova Gerusalemme”. Secoli dopo, 45 cappelle, circa 4.000
figure e 400 gruppi di statue raccontano ancora con forza e immediatezza episodi della Storia Sacra
continuando a meravigliare pellegrini e visitatori che giungono in questo sito unico nel suo genere
per l’insieme di natura, arte e fede.
Fra gli artisti di maggiore levatura che lavorarono a Varallo è Gaudenzio Ferrari, relativi al quale in
mostra a Capodimonte sono due lacerti di affresco: la testa di san Pietro Martire e quella di frate Leone.
Sull’identità di san Pietro non vi è dubbio: il restauro che oggi restituisce l’opera alla sua originaria
fattezza – con la rimozione fra l’altro di un tenace strato di cere e caseina – ha fatto emergere fra
l’altro l’aureola del santo.
Non si conosce l’esatta provenienza dei dipinti. Si sa che si tratta di frammenti staccati a massello da
affreschi di maggiori dimensioni, in seguito ritagliati e incorniciati.
L’ipotesi che li voleva raffigurati nelle mura di un convento francescano di Varallo cozza con l’idea
di un frate domenicano quale san Pietro martire difficilmente collocabile in un edificio francescano.
Perfetta collocazione sarebbe stata invece per frate Leone, la cui identità è emersa nel corso del
recente restauro, compagno di san Francesco e suo confessore.
Dopo la mostra, le due teste di monaci verranno restituite al luogo di provenienza: la Pinacoteca di
Varallo Sesia, dove sono ricordati dal primo catalogo manoscritto da Giulio Arienta nel 1892.
In esposizione al Museo di Capodimonte
La Madonna del Carmine di Torre in Piemonte. Icona della moda nel Settecento.
Una preziosa veste di una “statua vestita” fa riscoprire una antica tradizione scomparsa e affascina
per la magnificenza del tessuto, per la perfezione del restauro.
Un guardaroba da principessa. Di più. Da Regina.
Tra i capolavori esposti a Napoli al Museo di Capodimonte fa splendida mostra di sé una veste regale
appartenuta a una statua della Madonna del Carmine.
Una tradizione, quella di vestire con abiti laici le statue religiose, che stupisce il visitatore che ancora
oggi si rechi in una chiesa e incontri simulacri di santi provvisti di vesti, accessori, capigliatura, ma che
era usanza diffusa anche in Italia; fino a quando, nell’Ottocento, questi manichini sontuosamente
agghindati iniziarono a scomparire da chiese e comunità: nascosti, banditi, spesso distrutti per
essere sostituiti da statue scolpite.
A quelli rimasti è dedicato oggi un lavoro di studio e riscoperta.
Dalla Valtellina, dalla chiesa della Natività della Beata Vergine Maria a Torre di Santa Maria (Sondrio)
giunge questa Madonna sontuosamente vestita alla maniera di una dama del Settecento.
Il manichino – come solitamente succedeva nel caso di simulacri vestiti – era prodotto in modo
seriale, con piccole personalizzazioni, e spesso aveva uno scheletro sulle quali venivano inserite solo
le parti in vista: testa, mani, piedi.
La statua sfilava probabilmente in processione, con ciò mostrando la devozione del committente e
al contempo la sua ricchezza e generosità.
Un’iconografia, quella delle statue vestite, nata in uno spazio laico, di corte, e passata al sacro
rimanendo invariata per secoli. Una presenza affettuosa e domestica che travalicava i confini e che si
ritrovava indistintamente nelle piccole pievi di campagna come nelle cattedrali di città o nei villaggi
montani, segno di una devozione radicata e vissuta che riviveva, di volta in volta, nella ritualità delle
processioni, momento imprescindibile per la comunità femminile che custodiva il simulacro.
I denari, tanti, tantissimi, e l’enorme mole di lavoro che comportava la realizzazione delle statue
riguardavano la decorazione della stoffa, la predisposizione dell’abito e di tutti gli accessori che
potevano comprendere gioielli e persino frivole e leggiadre scarpette ricamate.
Il visitatore potrà in effetti rimanere perplesso di fronte alla totale mancanza di simboli religiosi del
vestito; nulla in realtà di cui stupirsi: fino alla metà del Settecento era molto labile la differenziazione
fra tessuti impiegati per l’abbigliamento, l’arredamento e per le chiese, e venivano anzi spesso
impiegati tessuti ricavati da vesti laiche per confezionare parati ecclesiastici.
Chissà che provenienza aveva quella veste, prima di diventare vestito della Vergine. Giunse in
Valtellina, forse, sulle vie dell’emigrazione, e ci racconta di quell’intreccio fra la cultura artigiana,
grande tessuto connettivo della civiltà europea, e i suoi prodotti più alti, che sapevano diventare
vere opere d’arte.
Fu certamente un devoto dalle grandi possibilità economiche a finanziare l’opera d’arte religiosa
in mostra a Napoli. Nella realizzazione della magnifica e assai costosa veste in stoffa broccata,
qualunque fosse la sua misteriosa provenienza, erano stati di certo coinvolti i migliori artigiani
dell’epoca. La seta proviene dalle manifatture di Lione, il massimo del tempo; i sarti furono molto
probabilmente milanesi, o veneziani. Sarti – e non pianetari – con tutta probabilità abituati a vestire
i signori, più che a cimentarsi con paramenti religiosi. Lo si deduce dalla complessità dell’impianto
alla base del vestito, con stecche di balena, fodere di taffetas rosso, blu, bianco, écru, undici coppie
di asole a chiudere il corpetto, maniche con merletti a fuselli in oro, soprammaniche rese gonfie
dalle pieghe.
La veste – composta da un prezioso corpetto e da una gonna – è realizzata con uno spettacolare
gros de Tours in cui il fondo turchese è ricoperto da trame broccate in oro e argento e fiori colorati.
Secondo la moda dell’epoca, l’ornato crea effetti tridimensionali, plastici e pittorici. La tecnica,
inventata a Lione e definita point rentré, permetteva di creare con grande vigore plastico frutti, fiori
ma anche elementi architettonici, sculture e paesaggi. Questi scenari, che sembrano a prima vista
naturali, erano spesso invece fantastici e carichi di elementi esotici, come il tema della “pagoda”,
con proporzioni ribaltate, che si ammira nella veste in esposizione.
La gonna di Maria è più semplice del corpetto, nella fattura e nel decoro. E insegna una buona
norma tornata oggi di grande attualità. Nemmeno un centimetro quadro di stoffa andava perso,
tenuto conto della preziosità del tessuto, del ricamo, del costo, del lavoro; ogni parte di tessuto
andava utilizzata, con inserti e rammendi che non dipendevano dalle possibilità economiche del
committente, ma dall’abitudine a non sprecare nulla.
Il delicato restauro è stato eseguito, oggi, con la stessa cura con cui era stata creata la veste, secoli
orsono.
In esposizione al Museo di Capodimonte
Medusa, mostruosa bellezza canoviana.
Una rarissima opera in metallo di Antonio Canova rivela il destino tragico della Gorgone.
L’opera è frutto di una ricerca dell’artista che studiò l’effetto “terrific” del metallo all’interno di un
gruppo scultoreo in marmo.
Medusa, creatura mostruosa o bellissima?
Di certo fra le tre Gorgoni, esseri inquietanti e mitici, è l’unica a non essere immortale. Perirà in
effetti per mano di Perseo, che le mozzerà la testa dai capelli tramutati in un groviglio di vipere,
per vendetta della dea Atena. Così finirà Medusa, rapita da Poseidone innamorato. Medusa che,
sotto la splendida capigliatura, aveva nascosto il volto dietro a un’immagine di Atena; la dea adirata
farà in modo che venga tramutata in pietra ogni creatura caduta nello sguardo della gorgeneion.
Condannata a vivere in solitudine in un antro, Medusa verrà trovata da Perseo, che la fisserà
attraverso il riflesso del suo scudo, prima di ucciderla, con un solo colpo di falcetto, ancora una volta
guidato dalla vendicativa Atena.
Una Medusa dalla inquietante bellezza secondo il mito più recente, quello tramandato da Ovidio
– secondo il quale dalla testa mozzata della dea nasceranno Pegaso, il cavallo alato, e avrà origine
il corallo rosso – è protagonista della mostra Restituzioni. Tesori d’arte restaurati, dal 22 marzo al 9
luglio alle Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano.
È una opera di grande rarità perché l’unica testa in metallo attribuita ad Antonio Canova. Il metallo
scelto dal grande artista di Possagno è soprattutto il rame, e nella sua ricerca gli effetti di luce
rossastra contribuiscono a creare quell’effetto di bellezza inquieta e drammatica in una creatura
dal destino così tragico; quel senso di “terribilità”, che doveva essere davvero impressionante prima
della brunitura del tempo che ha mitigato la luce rossastra del metallo, assecondando il gusto caro
ai preromantici venuti dal nord Europa, che negli ultimi decenni del Settecento portarono a Roma
le loro poetiche. Canova studiò l’effetto luminoso e terrificante per quella Medusa che sarebbe
andata a completare il gruppo scultoreo con Perseo a lui commissionato dall’amministratore delle
finanze dell’armata napoleonica a Roma e poi acquistato per Pio VII, e posizionato ancora oggi nel
Cortile del Belvedere dei Musei Vaticani. Alla fine la scelta ricadde su una testa di marmo, ma per
mantenere l’effetto “terrific” scavò l’opera per porvi una candela e illuminare il volto dall’interno.
Della vittima “bellissima” dell’eroe, nella descrizione di Ovidio, colpiscono molto i capelli,
componente eccezionale nella ideazione e nella realizzazione, quasi scultura di un “acconciatore”
di fine Settecento. L’analisi ha messo in luce due fasi distinte di lavoro. Quella delle calotte sbalzate
che creano la testa della Gorgone, anteriore e posteriore, con una mano sicura che procede senza
indugi ed errori (solo un piccolo “rammendo”, probabilmente dovuto all’assottigliamento eccessivo
della lamina, verrà subito fatto in un occhio), e i capelli, inseriti in quello che oggi chiameremmo
“extension”: sottili strisce di rame infilate ad una ad una, saldate fra loro nella parte frontale a
formare piccole ciocche, in un andamento selvaggio e arruffato, e strette in alto da uno chignon,
oggi perduto, raccolto in quello ai tempi nostri conosciuto come “effetto bagnato”; c’erano inoltre
probabilmente anche una ciocca più alta e una pendente che nascondevano le saldature dei capelli
e i capelli di rame deformati, oggi visibili.
I serpenti che cingono il viso, che si allungano lungo le guance e al centro della fronte fra le ali, fino
ad annodarsi sotto il mento, sono realizzati invece in bronzo, a cera persa, e in seguito finemente
cesellati.
Ma l’aspetto che già nel ‘700 non mancò di colpire Goethe, che si rifaceva all’originale da cui
prese ispirazione Canova, un esemplare greco di Fidia, è quella bocca semiaperta, in quell’urlo
espressionista di dolore, muto, in quello stupore pietrificato, lei che nel suo antro aveva accanto a
sé tutti gli esseri che l’avevano avvicinata, pietrificati per l’eternità.
Canova si ispira al modello greco, e mentre lavora gli risuonano forse in mente le parole di Ovidio
“Era bellissima (…) e in tutta la sua persona nessuna parte era più bella dei capelli”.
In esposizione alle Gallerie d’Italia - Palazzo Zevallos Stigliano