Hannah Arendt

Transcript

Hannah Arendt
Hannah Arendt*
di Pietro Citati1
Tratto dal sito www.feltrinelli.it riprendiamo il seguente articolo di Pietro Citati apparso sul
quotidiano "La repubblica" del 15-16 luglio 2003 col titolo "Hannah Arendt, la fanciulla con gli
occhi brillanti che cercava la verità del mondo", pubblicato sul notiziario “La nonviolenza è in
cammino”, numeri 1471 e 1472 del 6 – 7 novembre 2006.
Le origini dell'antisemitismo sono antichissime. Era già diffuso, lungo i paesi del Mediterraneo, nel
quarto o terzo secolo avanti Cristo, quando ebbe luogo la prima emigrazione giudaica. Sugli Ebrei
circolavano leggende simili a quelle narrate dai cattolici sino alla fine del diciannovesimo secolo, e
oggi ripetute dai musulmani. Persino Tacito, il più grande e severo tra gli storici, che non sapeva
niente di Israele, raccontava che gli Ebrei - questa taeterrima gens, "pervicacemente superstiziosa",
"odiata dagli dei" - veneravano una testa d'asino. Un altro storico, Apione, diceva che nel loro
Tempio compivano sacrifici rituali di stranieri, ingrassati a forza come Pollicino. Solo la menzogna
è immortale.
La spiegazione di questo antisemitismo è semplice. Tra i popoli del Mediterraneo e del Medio
Oriente, gli Ebrei erano (quasi) gli unici monoteisti. Mentre gli altri popoli possedevano un
pantheon colorato, che accoglieva sempre nuove figure, fuse e mescolate con quelle antiche, gli
Ebrei avevano un solo Dio: unico, esclusivo, eternamente immutabile, che non nasceva come gli
dei greci e non moriva come quelli egiziani. Questo Dio era possente e tremendo, e non poteva
venir rappresentato con immagini umane o animali. Bisognava osservare la Legge, che egli aveva
promulgato, i riti che aveva imposto, ed essere puri. Chi cercava di restare puro, doveva vivere
separato: non condividere i pranzi con i vicini pagani, dove si mangiavano cibi che il rito
proscriveva; e a volte nemmeno parlarne la lingua. Come dice Tacito, questi "misantropi" erano
"separati a tavola". Nessuno straniero doveva entrare, pena la morte, nel Tempio di Gerusalemme.
Nessun Ebreo doveva venerare le statue degli altri dei o degli imperatori, mentre i pagani
veneravano sia Dioniso sia Osiride, sia Demetra sia Iside, Augusto, Nerone o Caligola.
Proprio perché gli Ebrei vivevano separati, attraevano le immaginazioni dei popoli antichi. Molti
stranieri portavano offerte votive e ordinavano sacrifici ai sacerdoti dell'immenso Tempio
scintillante d'oro, due volte costruito, due volte distrutto: la seconda volta per sempre. Quale era il
vero Dio di Israele? Cosa accadeva nel Tempio di Gerusalemme, dove i pagani non potevano
penetrare? Qual era il nome segreto di Jahve, ignoto persino al suo popolo? Quando sarebbe venuto
il Messia, il Cristo? Forse non ci fu evento che colpì le fantasie antiche come ciò che accadde nel
63 a. C. Pompeo Magno entrò nel Tempio di Gerusalemme, penetrò sino al Santo dei Santi, la
piccola stanza dove aleggiava lo Spirito di Dio, e dove solo il Sommo Sacerdote poteva insinuarsi
una volta l'anno. Non scorse nulla. La stanza era completamente vuota. Dunque il cuore della
religione giudaica era un bugigattolo pieno di ragni? Alcuni Greci e Romani compresero che il
1
Pietro Citati (Firenze, 1930), è scrittore, saggista, critico letterario tra i più noti e apprezzati; collaboratore di varie
riviste ("Il punto", "L'approdo", "Paragone") e quotidiani ("Il giorno", "Corriere della sera", "La repubblica"),
condirettore della Fondazione Lorenzo Valla. Tra le opere di Pietro Citati: Goethe, 197O; Il tè del cappellaio matto,
1972; Manzoni, 1973, 1980; Alessandro Magno, 1974, 1985; La primavera di Cosroe, 1977; I frantumi del mondo,
1978; Il velo nero, 1979; Vita breve di Katherine Mansfield, 1980; I racconti dei gatti e delle scimmie, 1981; Il
migliore dei mondi impossibili, 1982; Tolstoj, 1983; Vita e morte degli Incas, 1984; Cinque teste tagliate, 1984; Il
sogno della camera rossa, 1986; Kafka, 1987; Il viaggio degli uccelli, 1988; Storia prima felice, poi dolentissima e
funesta, 1989; Ritratti di donne, 1992; La caduta del Messico, 1992; La colomba pugnalata, 1995; La luce della notte,
1996; La collina di Brusuglio, 1997; L'armonia del mondo, 1999; Il romanzo europeo dell'800, 1999; Il male assoluto.
Nel cuore del romanzo dell'Ottocento, 2000; La mente colorata. Ulisse e l'Odissea, 2002; Israele e l'Islam. Le scintille
di Dio, 2003; La civiltà letteraria europea da Omero a Nabokov, 2005; La morte della farfalla, 2006.
1
Santo dei Santi era vuoto perché solo il Vuoto può alludere
incomprensibile di Dio.
all'essenza inafferrabile e
Nell'autunno del 1924, Hannah Arendt si iscrisse a filosofia, teologia e filologia classica presso
l'università di Marburg - l'università dove insegnava Martin Heidegger. Era una bellezza ebrea, una
di quelle brune e ricciute figlie di Sion ricordate nel Cantico dei Cantici attorno all'Amato.
Aveva "occhi brillanti e scintillanti come stelle quando era felice e appassionata": vere finestre,
dalle quali si intravedeva il vasto lago dell'anima. Amava ridere con gli amici: chiacchierare per
ore: essere corteggiata; prendersi gioco di se stessa e degli altri. Desiderava la felicità con un
candore infantile; e, malgrado le sventure sue e del suo popolo, avrebbe conosciuto la gioia leggera
degli dei greci. "Sono molto felice, avrebbe detto venti anni più tardi, perché non si può andare
contro la propria vitalità naturale. Il mondo, così come Dio l'ha creato, a me sembra buono".
Possedeva il dono della naturalezza: il senso che tutte le cose che si dicono e i gesti che si fanno
sono giusti. Per adattarsi alle speranze del cuore, portava un elegantissimo abito verde. Die gruene,
"la verde", la soprannominavano gli studenti di Marburg.
Aveva grandi mete: ricercare i doni dello spirito, l'essenza della vita, il cuore delle cose, la verità
nascosta del mondo. Per lei, era un compito, che imponeva in primo luogo a se stessa. Voleva
diventare ciò che era, realizzando sino in fondo l'idea che Dio aveva posto in lei quando l'aveva
creata - a tutti i costi, anche se ciò, forse, avrebbe significato avvilirsi nell'esistenza. Con una parte
di sé, era luciferina e intoccabile: indifferente a ciò che la vita le imponeva, perché mai avrebbe
potuto intaccare l'essenza adamantina della sua anima. Perciò, durante la giovinezza e la maturità,
fu dura, arrogante, cocciuta, piena di disprezzo e di terribili collere, impaziente, sarcastica,
sferzante. Non ebbe mai pietà o compassione verso se stessa. Non conobbe il sentimento della
vanità personale, perché le premeva realizzare l'idea che Dio aveva posto in lei, idea della quale
non aveva nessun merito. Non provava nessuna considerazione di sé,: disprezzava o nascondeva i
propri sentimenti, fingeva che tutto procedesse bene anche se nell'intimo era disperata; cercava di
proteggersi con la più austera e severa discrezione - discrezione che il mondo moderno ha
dimenticato. Era generosissima. Il suo primo gesto era quello di sacrificarsi, come aveva appreso
da una delle figure essenziali della sua mente, Gesù Cristo.
Come dissero Hans Jonas e Mary McCarthy, quegli occhi radiosi di felicità diventavano,
all'improvviso, pieni di solitudine: "profondi, tenebrosi, stagni di interiorità". La creatura della luce
era anche una figlia della notte. La mattina stentava ad uscire dai sogni; e solo a poco a poco
riusciva faticosamente a mettere piede nel giorno. Spesso disse scherzando agli amici che non
possedeva un'anima: ma, quando inviò a Heidegger la prosa intitolata Ombre, non era altro che
anima, un'ombrosa e illimitata anima romantica. Non aveva rapporti con la realtà e gli avvenimenti:
viveva solitaria in un sonno incantato: conosceva solo i propri riflessi: provava angoscia, nostalgia,
attesa; quella che Goethe chiamava Sorge, la Cura, le oscurava la luce. Il minimo evento, il minimo
oggetto, qualsiasi parola potevano ferirla; e spesso si colpiva e si feriva con le sue mani. Ma questo
intreccio, nei suoi sguardi di luce e di tenebra, questa alternanza, nella sua esistenza, di felicità
leggera e di nostalgia, di dolore e di durezza, attraeva gli amici. In quei vasti occhi, "uno
sprofondava e temeva di non poter più riaffiorare alla superficie". Per tutta la vita, il suo fascino
attrasse coloro che la incontravano: studenti ebrei e cattolici, professori, romanzieri, poeti, portieri,
albergatori, editori, giornalisti alla caccia di interviste. Scrisse cose bellissime: ma il suo
incantesimo veniva da più lontano, dall'essenza segreta della persona, da quel dono occulto che
qualcuno - forse il Dio della Bibbia - nascose dentro di lei.
Quando, a diciotto anni, si iscrisse a Marburg, una fama la precedeva: quella di Martin Heidegger,
allora trentacinquenne, che non aveva ancora scritto Essere e tempo, ma era già riconosciuto "come
il re nascosto del regno del pensiero". Con lui - si diceva - il pensiero aveva ripreso a vivere; e il
patrimonio culturale del passato, che si credeva estinto, parlava con una nuova voce. Il suo era un
pensiero appassionato, nel quale "pensare ed essere vivo erano la stessa cosa". Quando Hannah
Arendt ascoltò Heidegger dalla cattedra, pensò che nessuno aveva mai parlato in quel modo di
2
filosofia; e per cinquant'anni ricordò, piena di timore e di venerazione, il periodo di Marburg,
"quando tu eri il mio insegnante".
Guardando verso la cattedra, gli occhi le brillavano. Essere lodata da lui la faceva arrossire.
Siccome quello di Heidegger era un pensiero appassionato, si innamorò con passione dell'anima e
del corpo di quel pensiero: non distinse tra filosofia e persona. Lo vide per la prima volta da solo
all'inizio del febbraio 1925: quando - ricorda Heidegger in uno dei rari passi delle sue lettere che
leggiamo senza disgusto - "una fanciulla con l'impermeabile, il cappello calcato sopra i grandi
occhi, entrò per la prima volta nel mio studio, e, timida e riservata, diede una breve risposta a tutte
le mie domande".
Almeno da parte di Hannah Arendt, fu il grande amore. Venticinque anni dopo, mentre componeva
il suo Denktagebuch, il suo Zibaldone, comprese di essere stata colpita dalla folgore, che l'aveva
bruciata dalla testa ai piedi e fatta rinascere. Era stato uno sguardo, un fulmine sacro: una forza
divina, che abitava nel cuore, ma non era un sentimento e non apparteneva al cuore, aveva fatto
risplendere le tenebre, trasformandole in luce e cancellando le altre passioni e desideri. Quel fuoco
l'aveva carbonizzata, arso lo spazio tra lei e Heidegger, stabilito l'identità assoluta tra loro, distrutto
il mondo, cancellato gli altri uomini. Non c'era più, da parte sua, che "inflessibile dedizione a
qualcosa di unico": "cuore spezzato e donato".
Ricordò la sua adolescenza, quando immaginava che poteva esistere soltanto nell'amore e proprio
per questo aveva paura di perdersi. Ora si era perduta completamente: era precipitata nell'abisso
erotico, dimenticando e cancellando il proprio io. Non c'era più,: solo un'ombra, con "gli stagni
tenebrosi degli occhi". Si accorse che con Heidegger non parlava mai o non diceva mai vere parole:
la persona di lui le era indifferente, e non le importava nulla delle sue qualità e dei suoi difetti.
Sebbene lo stringesse tra le braccia, egli era un estraneo: uno straniero che aveva incontrato per
caso. Tra loro il mondo "era bruciato". "Nell'amore, riflettè venticinque anni dopo nel
Denktagebuch, non c'è comunità, perché la sfera di ciò che è comune, il mondo, in esso viene
consumato". Queste erano le leggi dell'amore: niente speranza, niente comunità, niente fiducia,
niente amicizia, niente parole - solo estraneità e solitudine, sebbene il lampo continuasse a bruciare
e il fuoco ad ardere sino alla fine della vita. Era divenuta un fantasma, distesa accanto a un cupo
fantasma.
Mentre amava Heidegger senza rimedio, Hannah Arendt comprese che non poteva continuare a
vederlo, perché tra loro non c'era mondo, e lei aveva bisogno di mondo. Non poteva abitare nella
estraneità, nella solitudine e nel silenzio. Così rinunciò a lui: lo abbandonò, sia pure dapprima in
modo non definitivo, pronta a rivederlo ad una stazione o in un albergo. Lui, forse, aveva bisogno
di questo sanguinoso sacrificio. Hannah andò a studiare prima a Freiburg, poi ad Heidelberg. Non
aveva più nulla: non esigeva nulla; era divenuta nulla, senza nome né corpo. "Ti amo come il primo
giorno", "sono decisa a non amare più nessuno", ripeteva. Un giorno, mentre stava alla stazione, lo
vide da lontano al finestrino di un treno: il treno partì, e lui si allontanò dalla stazione senza vederla
né riconoscerla. Si sentì abbandonata per sempre, con la paura cieca di una bambina abbandonata
dalla madre. Lei stava in basso, sola, ferma vicino al binario del treno, e doveva "aspettare,
aspettare, aspettare" qualcuno che non sarebbe mai ritornato.
Così, per venticinque anni, lasciando la Germania e l'Europa, custodì Heidegger nella memoria:
perché l'amore, si accorse, vive soprattutto nell'abbandono. Gli amanti sono persone che si lasciano
e si ricordano l'uno dell'altro, nel silenzio intollerabile della mente. Gli fu fedele nella memoria:
non dimenticò mai "il re nascosto", che le aveva parlato nelle aule di Marburg e nella sua
mansarda. Quando lo rivide, nel marzo 1950, comprese che non aveva mai cessato di amarlo, e
costruì la sua teoria dell'amore. Fu ingiusta: perché quella teoria raccoglie ed elabora soltanto i suoi
ricordi di Heidegger, come se tutta la storia erotica del mondo si fosse concentrata nei pochi mesi
di Marburg. Dimenticò che aveva amato moltissimo, sia pure senza fulmini e fuoco e rivelazioni
sacre, il suo secondo marito, Heinrich Bluecher, conosciuto nel 1936 a Parigi.
Questi cinquant'anni di lettere conservate e perdute, di pensieri e ricordi taciuti e di frasi criptiche
sparse nei libri, formano una delle grandi storie amorose del secolo, che Hannah Arendt - proprio
3
lei, la felice, la ridente - visse come un'angosciosa eroina romantica. Lei prestò la voce, intonò la
musica, dettò il tono, impose le frasi. Non c'era altra voce, perché Martin Heidegger era un
fantasma ridicolo. "All'improvviso, egli scrisse, l'essere ci folgora. Lo scrutiamo, lo custodiamo - ci
lanciamo nella danza". Per cinquant'anni, Heidegger fu un mediocre professore tedesco che
danzava: un penoso e pedante pastore dell'Essere. Non era mai naturale, non sorrideva mai, non si
distendeva mai, si prendeva terribilmente sul serio, perché il suo pensiero - e lui attraverso il suo
pensiero - doveva essere tradotto, interpretato, moltiplicato, adorato, come l'unica Bibbia
dell'Occidente.
Le lettere di Heidegger alla Arendt attendono di essere affidate a due moderni Bouvard e Pecuchet
che le copino e le chiosino per il divertimento di tutti. "La tua essenza di pura fanciulla", "La Cosa
decisiva rimane il mantenere integra la più autentica autenticità femminile", "Il tuo grande
momento, in cui diventi una santa", "Ci sono ombre soltanto dove c'è il sole", "Sei semplicemente
felice e in cammino verso la felicità (mentre lei soffriva terribilmente). Decorava le sue lettere con
frasi musicali, per creare attorno ad esse la giusta atmosfera: "Bach, Concerto brandeburghese n. 3.
Secondo movimento. Allegro" o "Beethoven, Opus 111. Adagio Finale".
Inviava alla Arendt, a Manhattan, una foglia d'edera: la foglia apparteneva a un viticcio, che anni
prima contadini della Foresta Nera avevano data a sua moglie: "Decorano le loro stanze con questa
edera, senza sapere più niente delle corone del dio cui piaceva adornarsi d'edera". Attraverso
l'Atlantico la foglia d'edera avrebbe dovuto creare quell'atmosfera di frenesia dionisiaca, che il
vecchio professore aveva desiderato invano per tutta la vita.
Nell'estate del 1933, Hannah Arendt abbandonò la Germania: Hitler, il nazismo, Heidegger, i
professori e gli scrittori divenuti nazisti, e perfino il suo professore di Heidelberg, Karl Jaspers, un
futuro eroe dell'antinazismo, che qualche mese prima, quando Hitler stava per prendere il potere,
lodava "la buona volontà e lo slancio" dei giovani nazionalsocialisti e le chiese perché lei, ebrea,
volesse "distinguersi dall'essenza tedesca".
Fu a Praga, a Ginevra; e nell'autunno, a Parigi, dove cominciò a lavorare per organizzazioni
ebraiche d'assistenza. A Parigi, rimase fino al 1941: dichiarò più tardi che erano stati gli anni più
felici della sua vita, nei quali lei e il suo secondo marito, Heinrich Bluecher, "siamo veramente
divenuti ciò che siamo".
Abitò prima in un alberghetto a rue Saint- Jacques, poi a rue de la Convention: infine per molti anni,
insieme a Heinrich Bluecher, all'albergo Principautes unies, 6 rue Servandoni, camera numero 19,
tra Saint-Sulpice e il Jardin du Luxembourg. Joseph Roth viveva a due passi, in un albergo a rue de
Tournon: Walter Benjamin, cugino del primo marito di Hannah Arendt, più lontano, a 10 rue
Dombasle. La Arendt pensava che Parigi fosse l'unico luogo dove vivere. La città era come una
casa con moltissime stanze: si sentiva libera, a suo agio; e insieme era "alloggiata", "protetta",
rinchiusa dalle facciate uniformi che fiancheggiavano le strade come muri interni. Usciva lungo
rue de Vaugirard, nel Jardin du Luxembourg o a boulevard Saint-Germain, o nelle stradine che
portavano fino alla Senna: poteva passeggiare senza fine né scopo, davanti ai caffè lungo le strade,
immersa e abbandonata nella fluida moltitudine della folla. Era la sua città, che proteggeva gli
stranieri e gli apatridi come lei, tutti coloro che non desideravano guadagnare, far carriera e
raggiungere una meta.
Da ragazza, mentre viveva a Koenigsberg o studiava a Marburg, corteggiata dai giovani compagni
cattolici, non si era mai sentita ebrea. Scrisse a Jaspers che essere ebrei significava obbedire a un
destino; e lei voleva liberarsi dal destino. Con la violenza dei fatti, Hitler le fece comprendere che
era ebrea, nient'altro che ebrea: quello era il suo destino, e lei doveva seguirlo sino in fondo. Non
se ne sarebbe mai più distaccata. "Se si viene attaccati in quanto ebrei, dobbiamo difenderci avrebbe detto - in quanto ebrei: non in quanto tedeschi, non in quanto cittadini del mondo, non in
quanto difensori dei diritti umani". Un tempo, non accettava se stessa, né le condizioni esterne, i
dati, i limiti, tra i quali viveva. Ora aveva una specie di gratitudine per tutto ciò che era così come
4
era: per ciò che le era stato dato dalla natura e non poteva essere costruito dalla sua volontà,. Essere
ebrea era il cuore della sua esistenza.
Le notizie erano sempre più terribili: gli ebrei venivano cacciati dal lavoro, perseguitati, chiusi nei
campi di concentramento, e fra poco sarebbero stati uccisi a milioni. Hannah Arendt aveva
l'orgoglio di essere una paria; invisibile, nascosta, oscura, senza luce, senza passaporto, sebbene
protetta dagli alberi e dai muri di Parigi. Era una persona umiliata ed offesa, che aveva subito
ingiustizia: una mendicante che viveva ai margini della società; una straniera che veniva da
lontano, senza leggi né istituzioni, casa né protezione. Aveva perso il mondo, come accade agli
innamorati. Ma gli abitanti della Realtà ignorano le consolazioni dei paria. I paria vedono e
capiscono meglio: conoscono il piacere infantile di inventare e raccontare storie; e, soprattutto,
quando sono cacciati dal mondo, si raccolgono tra loro, si serrano strettamente gli uni agli altri, si
aiutano, con un calore, un affetto e una gioia così profondi, con un tale piacere di essere in vita, da
suggerire "che l'esistenza raggiunge la sua pienezza solo tra coloro che sono umiliati e offesi".
Questa fu la gioia di Hannah Arendt, negli otto anni in cui abitò a Parigi.
In quegli anni, la Arendt accusò gli ebrei d'Europa di avere dimenticato ed abbandonato la loro
anima. Li accusò di essersi confusi con i francesi, i tedeschi, gli inglesi e i russi, posseduti da un
perverso piacere di trasformarsi e cancellarsi. Li accusò di essere passivi, fuggendo per
sopravvivere. Erano soltanto dei parvenus, servi dei potenti di ogni paese: non formavano più un
popolo, e non conoscevano più l'arte della politica e della guerra. Pensò, e più tardi scrisse queste
cose con furore, rabbia ed ingiustizia. Ma aveva dimenticato, o non conosceva, gli aspetti principali
della tradizione ebraica.
Dopo la cacciata da Gerusalemme nel primo secolo, gli ebrei avevano formato una classe dirigente
a Roma, Baghdad, in Egitto, in Spagna, nell'Impero ottomano, in Austria- Ungheria: medici,
ambasciatori, banchieri, consiglieri segreti; in primo luogo perché avevano riconosciuto in questo
compito una missione religiosa. Essi pensavano che, a causa di un peccato di Israele, Dio avesse
affidato la sovranità agli imperatori di Roma, ai califfi di Baghdad, agli imperatori ottomani,
consegnando agli ebrei il compito di governare la terra al servizio dei potenti. Come disse
ironicamente uno dei Rothschild, "noi non siamo dei principi, ma li governiamo". Hannah Arendt
non comprese quasi nulla di questa vicenda di trionfi, persecuzioni ed esili, fasti e miserie, che
formò la grandezza della Spagna, dell'Impero ottomano e dell'Austria-Ungheria. Vide servilità e
passività in ciò che era attenzione, duttilità, cautela, molteplicità di talenti, accortezza, discrezione,
qualche volta desolazione.
Non comprese cosa era stata l'apertura dei ghetti, e l'assimilazione ebraica nell'Europa del
diciannovesimo secolo - una storia grandiosa, dolorosa e divertente, raccontata qualche anno prima
da Proust e da Kafka. E ignorò o volle ignorare la tradizione giudaica nascosta: la mistica e
teologia cabbalistica, che Scholem cominciava a raccontare in quegli anni, ricostruendo il passato
sconosciuto di Israele. Non avrebbe potuto dire come Scholem: "Niente di ciò che è ebraico mi è
estraneo". Malgrado la sua fedeltà, aveva perduto le proprie radici. Non aveva più passato: o
soltanto il passato della tradizione greca e cristiana. Dietro le sue spalle, non c'era più Bibbia, né
Talmud, né Zohar, né Sabbetay Sevi. In questo, era identica a una ebrea francese sua coetanea:
Simone Weil.
Nella primavera del 1936, a Parigi, Hannah Arendt conobbe Heinrich Bluecher, un bellissimo
tedesco dal naso in su, che fumava la pipa, e aveva sette anni più di lei. Era l'opposto di Heidegger.
Mentre Heidegger era un solenne professore e rettore universitario, Bluecher, che si incuriosiva e
incapricciava di tutto, musica e operetta, non aveva mai compiuto studi regolari; mentre il primo
conosceva il furore della scrittura, il secondo avrebbe soltanto parlato e parlato, con molto talento,
per tutta la vita; mentre Heidegger era un uomo della Legge, il secondo era talmente fuori legge,
che non conosceva nemmeno il proprio recapito; mentre il primo coltivava con feroce tenacia il
successo del suo pensiero, Bluecher disprezzava qualsiasi idea borghese di successo; mentre
Heidegger era tetro e austero (almeno con Hannah), il secondo era spiritoso, parodistico, un
personaggio berlinese di Brecht fuggito dal teatro e disceso per le vie di Parigi; mentre il primo era
5
stato nazista, Bluecher era stato spartachista e comunista, sebbene avesse perduto ogni fiducia nelle
"scimmie inviate dalla Direzione del Partito". Il clima cambiò. Le operette e le canzoni alla moda
sostituirono Bach, Concerto brandeburghese numero 3 secondo movimento e Beethoven, Opus 111
Adagio. L'alberghetto di rue Servandoni pieno di dischi prese il posto della baita nella Foresta
Nera, dove Essere e Tempo nasceva tra i pensosi abeti coperti di neve. Dopo mesi di passione
sublime e silenziosa, di appuntamenti sulle panchine e alle stazioni, Hannah Arendt cominciò a
respirare.
Qualche volta, Heinrich Bluecher era sciocco. Scriveva come Stalin o Zdanov.
"Noi dobbiamo sviluppare nelle masse popolari ebraiche gli elementi rivoluzionari antiimperialisti". "Deve costituirsi una elite ebraica che veda che gli interessi del popolo ebreo sono
indissociabili da quelli della rivoluzione degli operai, contadini e manovali contro l'imperialismo".
"La nostra parola d'ordine é,: ‘Operai e lavoratori ebrei! Liberiamo insieme, con gli operai e
lavoratori arabi, la Palestina dal giogo dei ladroni inglesi e delle borghesia ebraica loro alleata’.
Questa è una politica ebraica materialista". Col suo acutissimo e crudele sguardo ironico, dubito
che Hannah Arendt abbia mai ammirato la Questione ebraica secondo Heinrich Bluecher. Era una
donna, e sapeva che le donne debbono perdonare e tollerare, con apparente dolcezza, i vanitosi
proclami dei loro signori, specie se sono belli, fumano la pipa e le amano.
Spesso Hannah Arendt e Heinrich Bluecher risalivano insieme le piccole strade che attraversano
place Saint-Sulpice e la Senna e vanno fino al Louvre. Ammiravano un quadro di Rembrandt:
Betsabea con la lettera di Davide. Bluecher non aveva letto o aveva dimenticato la Bibbia: non
ricordava che il rapidissimo sguardo e la lettera di Davide alla sua suddita e il nascosto coito tra
loro avrebbero trascinato dietro di sé le più tremende sventure di Israele - fino alla morte di
Absalom con i capelli sospesi nell'enorme albero di terebinto, e al pianto di Davide: "Figlio mio!
Absalom figlio mio! Figlio mio Absalom! Fossi io morto per te, Absalom figlio mio!". Nel quadro,
Heinrich Bluecher ammirò soltanto il corpo nudo, sensuale, appena usato dagli anni, di Betsabea:
immaginò la sua toilette di Venere, le sue arti di amante, di dea, di sposa fedele, di prostituta sacra.
Pensò che Betsabea fosse Hannah e Davide lui - "l'uomo di lotta e di sofferenza, il rivoluzionario",
che combatteva contro il nazismo.
Sebbene ignorasse la Bibbia, Heinrich Bluecher amava Hannah Arendt molto più di quanto il cupo
Davide di Rembrandt avesse amato Betsabea. Il suo amore non portò sventure né maledizioni: era
passione, calore, fervore, ebbrezza, entusiasmo. Scriveva a Hannah con i colori più sensuali, che
forse le sembrarono volgari: "Sono l'uomo il cui destino è di sondare i tuoi abissi - colui che ha
l'ancora per ancorarsi in te, e la trivella che farà sgorgare da te tutte le sorgenti vive del piacere l'uomo che ha l'aratro per lavorarti e animare tutte le linfe nutritive...". Le scriveva con slancio
lirico e musicale, che derivava da Goethe, Baudelaire e da Nietzsche: "Mia meraviglia, mia bella,
mia adorabile, mia gioia, mia fierezza, mio giardino di tutte le voluttà,. Oggi ho passeggiato un'ora
al Luxembourg e te sola occupavi le mie riflessioni e i miei pensieri, tutte le meraviglie della natura
che osservavo con amore si raggruppavano amabilmente per metterti al loro centro... Il mio
desiderio è sempre nuovo come il mio amore". Lei era la sua felicità,: la sua luce, che si fondeva e
si moltiplicava con la luce del mondo. Per tutto il resto della vita comune, Bluecher guardò sempre
Hannah con un sorriso affettuoso, indulgente e paterno. La ascoltava parlare, accennando tra sé,
come se fosse una studentessa intelligentissima, che, per chissà quale caso, il destino gli aveva
mandato.
Le lettere di Hannah Arendt erano più riservate, discrete e pudiche, come se volesse conservare un
segreto. Ma aveva fiducia nel marito: lui le dava una grande gioia; aveva bisogno delle sue parole,
delle sue lettere, della sua approvazione, della sua protezione. Aveva bisogno della "lente
correttiva", che Bluecher posava su di lei; e soprattutto della sua vicinanza. "Mi manchi sempre e
dovunque - gli scriveva. Non solo la mattina tasto il letto e sono sorpresa di non trovarti: anche
durante la giornata spesso mi giro involontariamente per vedere se per caso tu sei lì. Lei e il marito
non formavano un solo essere. Non c'era mai stata, tra loro, l'identità amorosa, che l'aveva arsa a
Marburg, quando aveva amato Heidegger. Lei e Bluecher erano due: diversi, divisi; ma si
6
aiutavano a vicenda, dipendevano l'uno dall'altro, superavano insieme ogni prova, si rispecchiavano
in una sola figura, camminavano per le strade secondo un medesimo ritmo. Quando erano insieme,
formavano un mondo in miniatura, dove potevano salvarsi da ogni disastro. Esso conservava
qualcosa dell'universo che li aveva cacciati. Tutte le tradizioni d'Europa, tutte le perle dei poeti e
dei filosofi erano custodite nelle loro casseforti invisibili; e partendo di lì, con tenacia e pazienza,
potevano ricostruire un mondo dove, un giorno, avrebbero ospitato gli amici.
Questo mondo non esisteva ai tempi di Heidegger. Allora c'era solitudine, silenzio, estraneità,: ora
compagnia, calore, affetti, comunità, parole.
Hannah Arendt sapeva di essere fuggita da Marburg appunto perché là non c'era mondo. Cos'era
dunque il rapporto con Heinrich Bluecher, l'uomo dal naso in su, che fumava la pipa? Soltanto
amicizia erotica? Non sappiamo. Ma certo Hannah Arendt, quando rivide Heidegger nel 1950 e
rivelò nel Denktagebuch la sua teoria dell'eros, non ricordò nemmeno di scorcio e da lontano
Heinrich Bluecher, che amò per trentacinque anni e pianse disperatamente dopo la morte. L'amore
assoluto restava Heidegger: la folgore, il fuoco, il gelo, il silenzio, la solitudine.
Fu un'altra volta cacciata. Nel maggio 1941, mentre le truppe naziste occupavano la Francia,
Hannah Arendt e Heinrich Bluecher arrivarono a New York. La madre, Martha, giunse il 21
giugno. Avevano venticinque dollari e una borsa annuale di settanta dollari, offerta dalla Zionist
Organization of America. Affittarono due stanzette ammobiliate al 317 di West 95 Street: una
delle quali occupata dalla madre. La cucina era in comune con gli altri inquilini. Sopravvissuta al
disastro, Hannah Arendt non aveva più niente: né libri né mobili né soldi né amici. Heinrich
Bluecher lavorava come sterratore, spalando prodotti chimici in uno stabilimento del New Jersey;
diede lezioni sulla storia della Germania ai prigionieri di guerra tedeschi; infine venne assunto
come annunciatore alla radio. Hannah Arendt scriveva su giornali ebraici in lingua tedesca, "con
una foga e una durezza maschili": partecipava a convegni politici; diventò direttrice di ricerche
presso la Conference on Jewish Relations, caporedattrice presso la casa editrice Schocken, dove
pubblicò i Diari di Kafka, e professoressa al Brooklyn College. Il tempo del petit bonheur di Parigi
era finito: quelli di New York furono gli anni del lavoro intensissimo, della furia, delle amicizie
culturali e politiche, del grande Libro e della gloria.
Amava gli Stati Uniti, che trovava passionately interesting: le piacevano la libertà e la
partecipazione alla vita pubblica degli americani: "Non finisco di essere riconoscente per essere
approdata qui". Era il regno del molteplice e dei colori. Parlava col giornalaio ebreo, il padrone del
ristorante italiano, il panettiere tedesco, il portinaio francese, i quali chiedevano sempre di lei
quando era lontana: e se sulle rive dello Hudson sentiva parlare tedesco, le si allargava il cuore,
perché la lingua tedesca era innocente di ciò che accadeva in Europa. Conobbe molte persone:
forse troppe. Invitava gli amici e i conoscenti nella piccola stanza fumosa; e, più tardi, nel primo
vero appartamento, al 130 di Morningside Drive. Con gli amici condivideva il calore, la vitalità, il
fascino della conversazione: talvolta era "un'orgia di chiacchiere": le lettere a Mary McCarthy ci
comunicano ancora il petillement e il pettegolezzo dell'amicizia femminile; quelle a Karl Jaspers la
venerazione dell'antica discepola.
Ascoltava e raccontava storie.
Quando giunsero a New York le prime notizie sui massacri nazisti, Hannah Arendt e Heinrich
Bluecher non vollero crederci. "È successa una cosa per la quale nessuno di noi era preparato... È
accaduto qualcosa con cui era impossibile venire a patti... Ad Auschwitz è accaduto qualcosa che
nessuno era preparato a comprendere", ripeté Hannah Arendt nei suoi libri, come se malgrado gli
anni l'evento non potesse venire ammesso dalla mente. Lo stupore, l'orrore, la vergogna di essere
uomini erano vivi come il primo giorno. Poi Hannah Arendt comprese. L'uomo aveva rivelato di
poter compiere delitti che superavano le immaginazioni più tremende. Aveva realizzato visioni
infernali "senza che il cielo cadesse o la terra si aprisse". Nulla di così enorme o di così sistematico
era mai accaduto nella storia universale. Auschwitz e la Kolyma non avevano precedenti.
Nemmeno l'invasione dei Mongoli nel tredicesimo secolo: i paesi devastati, le città bruciate o
7
sommerse dai fiumi, milioni di innocenti massacrati, piramidi di teste umane, roghi di Corani,
uccisioni di bambini nel ventre delle madri.
Nessun mito religioso o fantasia letteraria o teoria politica aveva previsto i delitti del ventesimo
secolo: né Caino, né Macbeth, né lady Macbeth, né Riccardo III, né Stavrogin. Shakespeare,
Hobbes, Sade e Dostoevskij erano degli innocenti. Dopo Auschwitz e la Kolyma, tutto era possibile.
Per decine di secoli l'Occidente aveva conosciuto il decalogo: ma come si potevano applicare a
Hitler e Stalin dei blandi comandamenti quali "non desiderare la donna d'altri", "non rubare", "non
uccidere"? Non esistevano categorie psicologiche per comprenderli; né principi morali per
giudicarli e punirli; né teorie politiche secondo le quali spiegare ciò che era accaduto. Per quanto
l'intelligenza si sforzasse, il totalitarismo nazista e comunista sfuggiva a qualsiasi tentativo di
indicarne le cause e le ragioni.
Era inspiegabile, incomprensibile. Questa sarebbe stata la prima e l'ultima parola del grande libro
che cominciò a nascere, a New York, sotto il segno del dolore e del terrore.
Le origini del totalitarismo (titolo che la Arendt non amava) fu progettato probabilmente nel 1943.
Venne concluso alla fine del 1949, e pubblicato nel 1951. Furono quasi sette anni di lavoro
durissimo. C'erano gli articoli, il lavoro presso le organizzazioni ebraiche, la casa editrice, le
conferenze all'università, e le letture nelle biblioteche, compiute con una specie di bulimia - il
desiderio di leggere tutto, divorare tutto, possedere tutti i documenti, i libri e gli articoli, perché
niente doveva venire dimenticato.
La Arendt scrisse con ansia, come se non avesse tempo, o il nazismo potesse rinascere dalle sue
ceneri di lava. Scrisse nel suo mediocre inglese, attraverso il quale affiora continuamente il tedesco:
con ripetizioni e onde successive, e improvvisi e stupendi aforismi. Il libro comincia a fatica: poi si
muove, si scioglie, si espande da tutte le parti, si divide in mille torrenti e rivoli, come un fiume in
piena, che non può arrestarsi. Mai, in nessun rigo, c'è una traccia di partito preso ideologico:
perché in futuro - essa disse - conteranno soltanto "coloro che non si identificheranno né con
un'ideologia né con un potere". Purtroppo, il suo vaticinio non si è realizzato.
Oltre che un grandioso libro di storia politica, Le origini del totalitarismo è un'opera letteraria: ci
dà un piacere estetico, risvegliando in noi quello slancio di gioia vitale che suscitano le opere
d'arte. Non ha equivalenti nel ventesimo secolo: libro di storia della cultura, dell'economia e della
politica, racconto di fatti e di idee, analisi del cuore, visione, protesta, romanzo, pochade, pamphlet,
atto d'accusa davanti al tribunale di Dio e, soprattutto, nascosto libro di teologia. La parte
sull'antisemitismo è la più scandalosa. Hannah Arendt provava un'angosciosa compassione verso le
sofferenze del suo popolo: una compassione che la feriva nella carne e la colpiva come un
contagio. Ma la temeva: addirittura la odiava; e, scrivendo il suo libro e, più tardi, La banalità del
male, cercò con tutti i mezzi di tenerla lontana. Come dice Dostoevskij, sbagliò, perché non
dobbiamo mai avere paura della compassione, in qualsiasi regno dello spirito ci conduca. Spesso
fu ingiusta verso i giudei parvenus o passivi, e mancò, come le scrisse Scholem, di "delicatezza del
cuore". I capitoli sull'assimilazione ebraica nel diciannovesimo secolo sono stati scritti con
divertimento, sarcasmo, talvolta euforia: le pagine sullo snobismo, la teatralità degli ebrei, le loro
associazioni con gli antisemiti e il tentativo di entrare nell'esercito francese sono degni non so se di
Labiche o di Proust. Questa mancanza di rispetto verso le vittime aggiunge, non toglie, alla crudele
grandezza del libro.
Verso le figure del Male, c'è un'allegria e un disprezzo molto più feroci: la Arendt non dimentica
mai che Hitler, Goebbels, Stalin, Berija, Eichmann erano in primo luogo degli imbianchini, dei
mediocri seminaristi, degli infimi giornalisti o impiegati postali, che, in altri tempi, sarebbero stati
cacciati da qualsiasi ufficio. Il Male moderno aveva una sinistra tenerezza per gli imbecilli. Ma
questa allegria è solo un velo dietro il quale la Arendt si nasconde. Come scrisse Karl Jaspers, lei
era un medico, che studiava per la prima volta una malattia sconosciuta: fino a quel momento se ne
conosceva soltanto qualche sintomo e indizio; e, all'improvviso, mentre lavorava nel suo
sgabuzzino, la malattia si rivelò davanti ai suoi occhi, come una struttura coerente e compatta,
dotata di leggi e manifestazioni precise, capace delle più mortali neoplasie. Lei era lì, nelle
8
biblioteche americane, lontana dalla follia europea, e studiava la malattia. Se la capiva così bene,
molto meglio di quanto la compresero mai gli storici di professione, era appunto perché lei non era
una storica di professione.
Abitava tra le idee religiose e filosofiche: Platone, Aristotele, Paolo, Agostino, san Tommaso,
Hobbes, Kant; e con il soccorso delle loro luci poteva raccontare, con una lucidità che nessuno
avrebbe più condiviso, i sinistri eventi del ventesimo secolo.
Cosa era dunque accaduto? E perché era accaduto? Quale era la malattia che stava per uccidere
l'Europa e il mondo? Quale era la sua origine e il suo fondamento? E cosa aveva scoperto Hannah
Arendt, nel suo appartamentino di New York? La malattia era antichissima: il Male Assoluto, o il
Male Metafisico, o il Male Radicale, come aveva detto Kant; il Male come sostanza terribilmente
attiva, non come privazione o negazione del bene, o semplice eccezione alla regola normale
dell'universo. Ne aveva parlato san Paolo, che scrisse: "Il volere è in mio potere, ma compiere il
bene no. Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio
quello che non voglio, non sono io a farlo, ma la forza del peccato che abita in me": dunque il male
non sta più fuori, nel mondo, ma dentro di noi, sotto quelle pallide immagini che sono la nostra
ragione, la nostra volontà e la nostra coscienza. Ne aveva trattato Agostino, nelle Confessioni,
quando il bambino appena nato, "pallido, con lo sguardo amaro", invidia il fratello nato dalla
stessa madre; e la Gnosi, immaginando il cosmo come un meccanismo rigido e tirannico, privo di
luce divina, una fortezza ermeticamente chiusa, circondata da muri e fossati invalicabili, dove
siamo imprigionati dalla doppia catena del corpo e del tempo. Nei tempi moderni ne aveva
raccontato Dostoevskij, quando rappresentò la natura, senza la resurrezione del Cristo, come una
grande bestia: un enorme scorpione, o un ragno, o una tarantola; o una macchina sorda e
insensibile, "che aveva afferrato, maciullato e inghiottito Cristo, una figura sublime e inestimabile".
Nel ventesimo secolo il Male Assoluto, che prima di allora aveva dato moltissimi cenni di sé, si era
incarnato per la prima volta nella sua forma totale. Il nazismo e lo stalinismo erano Male Assoluto
senza eccezione: non c'era niente, in essi, che non fosse Peccato e Satana. L'irruzione nella storia
era stata abbacinante e senza rimedio, senza una minima traccia di imprevedibilità o un barlume di
luce. Nazismo e stalinismo avevano storia e precedenti completamente diversi, che la Arendt
indagò, almeno in parte, nelle Origini del totalitarismo; e non esercitarono influenza l'uno sull'altro
né ebbero veri rapporti, sebbene Hitler e Stalin si ammirassero a vicenda, come il grande criminale
ama il grande criminale. Ma chi indagava, nel laboratorio del medico, le istituzioni e le leggi
profonde del nazismo e dello stalinismo, si accorgeva che erano le stesse. La loro struttura era
identica: come se il Male Assoluto, nel ventesimo secolo, potesse adottare una sola incarnazione, o
avesse preparato da secoli, nei segreti della storia, quest'apparizione atroce.
Hannah Arendt aveva raccontato come, nei primi anni del secolo, il potere dell'imperialismo
diventasse puro, separandosi dalla comunità politica che avrebbe dovuto servire. Il potere era
ormai l'unico contenuto della politica. Non si arrestava mai: obbediva a una espansione illimitata di
se stesso, come se fossero ritornati i tempi di Alessandro Magno. Ma con Hitler e Stalin, quel
progetto si capovolse: non mirava più all'aumento delle ricchezze, e non obbediva a nessuna
considerazione di carattere economico o militare. Per Stalin, lo sviluppo ininterrotto della polizia
era molto più decisivo del petrolio di Baku, del carbone degli Urali, dei cereali dell'Ucraina, dei
tesori della Siberia. Distrusse l'agricoltura sovietica: fucilò i generali alla vigilia dell'invasione
tedesca. Nel 1944, amministrare le fabbriche della morte era, per Hitler, più importante che
vincere la guerra. Sebbene gli stati totalitari costruissero un rigido sistema di leggi e di gerarchie,
ciò che appassionava Hitler e Stalin era distruggere le leggi che avevano imposto. Le gerarchie
formavano dei poteri paralleli, che si occupavano della stessa materia: ognuno più potente
dell'altro, ognuno più misterioso e invisibile dell'altro - polizie sempre più segrete, istituti sempre
più oscuri. La gerarchia più potente era quella di cui, alla superficie, non giungeva nemmeno una
traccia. Con disperazione dei politologi, non si erano mai visti stati più complessi, confusi e
intricati degli onnipotenti stati nazista e comunista. Erano molto più prossimi alle invenzioni della
9
Cabbala, che ai moderni ordinamenti politici. Nebel und Nacht, "nebbia e notte", come diceva il
titolo che raccoglieva i documenti sui campi di sterminio.
In questa "nebbia e notte", i fedelissimi adoratori di Stalin e di Hitler erano rotelle di una macchina:
come disse Himmler, in "nessun caso avrebbero fatto una cosa per se stessa". Il vero antenato dei
nazisti e dei comunisti era Necaev, il terrorista russo allievo di Bakunin: "Il rivoluzionario non ha
interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà,. Non ha neppure un nome.
Un unico interesse lo assorbe ed esclude ogni altro, un unico pensiero, un'unica passione... Conosce
un'unica scienza: la scienza della distruzione". Quanto ai sudditi, dovevano rinunciare ad ogni
ricordo della vita privata, dimenticando il gioco degli scacchi o lo scopone scientifico o la pittura.
Sopra ogni cosa, cancellare tutto ciò che era spontaneo, casuale, imprevedibile nell'esistenza: cioè
la vita stessa. La voce dell'esperienza doveva tacere. Non c'erano più fatti. Nell'opaco tramonto di
tutto il visibile, trionfava soltanto l'ideologia: elementi fantastici, osservazioni immaginarie,
trasformate in un sistema fitto, compatto, unitario, che in sogno rispondeva a tutte le domande.
Sebbene non venisse mai pronunciato, il vero nome dei sudditi era peccatori, che nel gergo
staliniano si traduceva con nemici oggettivi. Qualsiasi cosa facessero erano colpevoli: non
importava che conducessero una vita esemplare, rispettando la legge, inneggiando a Hitler, a Stalin
e ai loro servi, perché le leggi cambiavano continuamente e la suprema virtù di oggi diventava,
domani, la suprema colpa. E poi la colpa stava scritta non nelle azioni ma nei cuori, che sono
incomprensibili. né i poliziotti né gli accusati potevano conoscerli a fondo. Il poliziotto sovietico
aveva sviluppato il dono di scoprire e smascherare la colpa, come un teologo bizantino. Ma tutto
questo non serviva a niente: né lo spionaggio, né l'analisi, né l'autoanalisi. La certezza rimaneva
unica: i sudditi erano insieme colpevoli e superflui. Tutti meritavano di essere torturati, fucilati,
gassati ad Auschwitz e negli altri campi, fatti a pezzi, uccisi dalla fame, mandati a morire di gelo
nelle miniere della Kolyma. Nel momento della morte, diventavano finalmente eguali, come Dio li
aveva creati. "Non morivano come individui, uomini e donne, bambini e adulti, buoni e cattivi,
belli e brutti, ma venivano ridotti al minimo comun denominatore della vita organica, sprofondati
nell'abisso più profondo e cupo dell'uguaglianza originaria. Morivano come bestie, come materia,
come cose che non avevano più né corpo né anima, nemmeno un volto su cui la morte potesse
imporre il suo sigillo".
Il potere totalitario divorava i suoi figli: Stalin mandò nei gulag e fece uccidere i comunisti che lo
avevano sostenuto contro Trockij e Bucharin; i servi di Hitler diventarono sempre più insicuri,
sebbene mascherassero l'incertezza con la ferocia. Sia in Germania che in Russia, via via che
l'opposizione politica perdeva ogni forza, il terrore crebbe, diventando infinito. In Unione Sovietica
si proclamò (sebbene venisse combattuta a parole) la "rivoluzione permanente": in Germania, la
"costante marcia in avanti verso obiettivi continuamente nuovi". Ogni stabilità era uccisa. Un
movimento incessante, folle, spasmodico trascinava avanti i capi, i seguaci, le folle, cambiava
programmi e nemici, liquidava lo stato e le gerarchie, cancellava l'amministrazione, annullava i
miglioramenti economici. Nemmeno l'ideologia contava più,: nemmeno l'antisemitismo aveva più
rilievo; lo sterminio non sarebbe cessato nemmeno quando tutti gli ebrei fossero morti.
Sia Stalin sia Mao Tse-Tung miravano a un altro balzo in avanti, che sarebbe stato seguito da una
serie inimmaginabile di balzi in avanti. Mai era accaduto che la storia venisse così battuta, istigata
e sferzata, costretta a un ritmo tanto vertiginoso. Alla fine, il potere totalitario confessava la sua
anima nichilista: la sua natura consisteva in questo incessante processo di distruzione di sé e di
ogni potere possibile. Non voleva il governo del mondo, ma la fine e l'esplosione definitiva del
mondo.
Nella Summa Theologica, san Tommaso scrisse una frase mirabile: "Se il male totale potesse
essere, distruggerebbe se stesso". San Tommaso aveva torto: il ventesimo secolo ha dimostrato che
il male totale esiste: eppure esso vuole, pretende la propria distruzione, come Hitler e Stalin hanno
dimostrato. Hannah Arendt pensava che i governi democratici non comprendessero la natura
profonda del loro avversario: Churchill, Roosevelt e De Gaulle erano dei nipioi avrebbero detto i
greci. Ma il totalitarismo era uno sconosciuto: forse persino a se stesso; e ignota era la forza che lo
10
portava alla propria cancellazione. Un teologo cattolico avrebbe aggiunto che il Male Assoluto non
può durare nella storia, sebbene sembri, per qualche tempo, trionfare. Nessun altro segno ci rivela
che la Provvidenza non abita soltanto nei dimenticati libri di teologia della tradizione cristiana.
Hitler e Stalin possedevano un'immaginazione, dalla quale noi, mediocri inquilini del ventunesimo
secolo, siamo ancora atterriti. Come il presidente Schreber, forse erano dei paranoici che hanno
riempito alcuni decenni di delirii e spaventosi fantasmi, inscenando quel grandioso spettacolo
teatrale che è l'inferno. Ma forse Hitler e Stalin non erano affatto paranoici.
Avevano capito che la paranoia ininterrotta è l'unico sistema possibile di potere assoluto: qualche
volta Stalin appariva dietro le quinte, guardava ironicamente, si prendeva gioco dello spettacolo
che aveva inscenato, di se stesso burattinaio, di noi tutti, poveri burattini. Non siamo certi di nulla.
Forse Hitler e Stalin furono capi politici, che cambiavano pareri e desideri con velocità
inimmaginabile. Forse furono degli spettri, i quali misero in moto una forza sconosciuta, che
funzionò per molti anni da sola: lo scorpione, il grande ragno, la tarantola, la macchina sorda e
insensibile di Dostoevskij, che maciullò decine di milioni di uomini.
Nel suo misero stanzino di New York, Hannah Arendt aveva studiato gli antecedenti del
totalitarismo: l'antisemitismo ottocentesco, l'imperialismo dei primi anni del secolo, in parte il
marxismo fino a Lenin e Stalin. Aveva scoperto i sintomi, le leggi, la struttura della malattia
sconosciuta. Il suo lungo lavoro era compiuto, nel grande libro che ancora oggi vive davanti a noi,
ci stimola e ci agita. Ma la sua conclusione era la stessa di quando le prime notizie sullo sterminio
giunsero a New York. Per quanto se ne studi la storia, il totalitarismo è incomprensibile. Non ha
cause precise. Non si può capire perché il livore antisemita e il fanatismo marxista abbiano
condotto a Auschwitz e alla Kolyma. Il Male Assoluto resta inspiegabile: la profonda oscurità del
mondo.
Negli anni in cui Hannah Arendt scriveva, Auschwitz sconvolse le intelligenze dei teologi ebrei e
cristiani. Dio, che era apparso nella Bibbia, non intervenne mai: non lasciò nemmeno un segno nei
lager e dei gulag. Meglio di ogni altro, Hans Jonas spiegò la sua assenza. Quando creò la terra e
l'uomo, con un atto di sovranità assoluta Dio consentì a non essere più il Signore della Bibbia: si
autolimitò, rinunciò alla propria onnipotenza, venne intaccato da ciò che, nel mondo, "accade e
tramonta".
Con questo gesto, rischiò, affrontò una condizione di costante pericolo, si indebolì, diventò
vulnerabile - come noi, sue creature, siamo feribili e vulnerabili. Così, ad Auschwitz e alla
Kolyma, Dio non salvò nemmeno una persona: i miracoli che accaddero durante la persecuzione
furono opera di creature umane. Tacque. Rimase immerso nel più assoluto silenzio. Non intervenne
nella storia degli uomini: non perché non volle, ma perché non era più in condizione di farlo.
Hannah Arendt rifiutò la spiegazione di Hans Jonas, che risaliva alle grandiose speculazioni della
Gnosi ebraica. Proprio lei, che aveva compreso e rappresentato come nessun altro il Male
metafisico del ventesimo secolo, rinunciò a qualsiasi interpretazione gnostica e manichea del
mondo moderno.
Quando anni dopo vide Eichmann a Gerusalemme - questo pallido fantasma rinchiuso nella
scatola di vetro, quest'uomo di mezza età, magro, di statura media, con un'incipiente calvizie,
dentatura irregolare, occhi miopi, un tic nervoso alle labbra, pieno di buoni sentimenti e ossequioso
a tutte le leggi - si convinse che non era un mostro né una creatura demoniaca. Era soltanto un
uomo normale: un impiegato qualsiasi, uno scrupoloso pater familias come Himmler. Il male
possedeva "una spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità”.
La visione di Eichmann nella scatola di vetro sconvolse la Arendt. E, discutendo subito dopo con
Gershom Scholem, giunse a sostenere che il Male "radicale" o "assoluto" o "metafisico" non esiste,
perché non ha profondità né dimensione demoniaca. "Solo il bene - aggiunse - è profondo",
radicale e assoluto. La Arendt aveva torto. Il Male Assoluto può scegliere, e ha preferito scegliere
nel secolo scorso, gli Himmler e gli Eichmann, gli uomini normali e banali, per realizzare le sue
mete: ma anche in loro, nel loro mediocre buon senso, nel rispetto della legge, nei buoni sentimenti
11
da scrupolosi padri di famiglia, si avverte l'orribile soffio della Tenebra. Sotto il nazismo e lo
stalinismo, muovendo da quegli oscuri centri di irradiazione che furono Hitler e Stalin, il contagio
aveva invaso tutti i servi del potere, cancellando i decaloghi e le regole della convivenza civile. Il
mostruoso e il demoniaco erano presenti dappertutto, in qualsiasi veste e maschera. Quando la
Arendt negava che il Male Assoluto esistesse, agiva su di lei la tradizione del pensiero cristiano,
che ebbe sempre terrore di ogni concezione autonoma del Male, e rifuggì da ogni sia pur vago
ricordo gnostico e manicheo. Il Male, dicevano gli scrittori cristiani (ma non Paolo né sempre
Agostino) era soltanto una privazione di bene, senza sostanza propria.
Malgrado la sua lucida rappresentazione del totalitarismo, Hannah Arendt non credette più,
nell'ultima parte della sua vita, che la potenza oscura potesse invadere e soggiogare la terra. "Non si
può andare, ella disse, contro la propria vitalità naturale"; e lei era felice. Quando vedeva la
creazione, contemplava gli spettacoli della luce, i paesaggi d'America e d'Europa, parlava con gli
amici, passeggiava per le vie di Parigi, si appassionava e scriveva e rideva piena di gioia, il mondo
le "sembrava buono". Malgrado le parole di Nietzsche, pensava che Dio non fosse morto.
Aveva conservato una infantile fiducia nel mite Dio della Bibbia, che crea la luce, il firmamento, il
sole, la luna, i volatili, i pesci, le erbe verdi, i passeri e le cicogne, e foggia l'uomo a sua immagine
e somiglianza.
Da lui ci viene la nostra parte e dignità nella creazione. Egli ci dà il mondo. Ci dà la bontà, che è
più forte del male. Ci dà l'inizio, che, diceva Platone, salva ogni cosa; e il miracolo. Soprattutto ci
dà la compassione: la virtù suprema, più alta di qualsiasi sentimento umano, sebbene la Arendt
avesse rifiutato di manifestarla verso gli Ebrei. La compassione abolisce ogni distanza tra gli
uomini, e tra Dio e l'uomo. Gesù la prova nel discorso del Grande Inquisitore nei Fratelli
Karamazov di Dostoevskij: la prova in silenzio, perché la voce della compassione è uno "strano
silenzio" e uno strano imbarazzo verso le parole, che la contrappone alla eloquenza della virtù,.
*
Hannah Arendt è nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl,
Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima è profuga in Francia, poi
esule in America; è tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice,
intervenne ripetutamente sulle questioni di attualità da un punto di vista rigorosamente libertario e
in difesa dei diritti umani; morì a New York nel 1975.
Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso
ristampati, per cui qui di seguito non diamo l'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo
l'anno dell'edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunità,
Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano;
Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
(1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunità, Milano; postumo e incompiuto è
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna.
Una raccolta di brevi saggi di intervento politico è Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985.
Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli,
Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary
McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999).
Una recente raccolta di scritti vari è Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001;
Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilità e
giudizio, Einaudi, Torino 2004.
Opere su Hannah Arendt: fondamentale è la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah
Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone
Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona
Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di),
Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah
12
Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze
2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2005.
Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato
iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999;
Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000
13