RASSEGNA STAMPA

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RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
venerdì 12 dicembre 2014
L’ARCI SUI MEDIA
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L’ARCI SUI MEDIA
Da LaStampa.it del 12/12/14
Sciopero di otto ore, disagi in arrivo
In Valle domani sono a rischio i servizi di sanità e trasporti, previsti
cortei dei sindacati e concerti nel capoluogo regionale
Alessandro Mano
Otto ore di sciopero contro la riforma del lavoro contenuta nel «Jobs act», contro la riforma
della pubblica amministrazione e contro la Finanziaria del governo di Matteo Renzi: una
giornata di agitazione è stata proclamata per domani a livello nazionale dalla Cgil e dalla
Uil; in Valle d’Aosta ha aderito anche il Savt.
Cosa cambia per gli utenti.
Lo sciopero generale porterà dei disagi soprattutto nel settore dei trasporti e nella sanità:
gli ospedali di Aosta garantiranno soltanto i servizi di urgenza; bus e pullman faranno
soltanto il servizio durante le fasce di garanzia, al mattino fino alle 8, nella fascia centrale
della giornata dalle 12 alle 17 la sera, dalle 21 a fine turno. Le linee ferroviarie dovrebbero
garantire il servizio: il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi ha precettato i ferrovieri perché il
loro sciopero è troppo vicino a quello di categoria, previsto per domani e domenica,
sollevando le ire della Cgil. Sono possibili disagi nel trasporto a fune.
Le adesioni.
Oltre ai sindacati Cgil, Uil e Savt, hanno comunicato la loro adesione allo sciopero partiti e
movimento della sinistra, da «L'altra Valle d'Aosta» frutto della lista Tsipras alle scorse
elezioni europee a Rifondazione comunista, dai Giovani Comunisti all'Arci. Corteo e
concerti ad Aosta.
Ad Aosta è prevista una manifestazione, con ritrovo in piazza Chanoux alle 9,15. Alle 10
partirà il corteo, che attraverserà via Porta Praetoria, via Sant’Anselmo, viale Garibaldi, via
Torino, via Festaz, via Gramsci e via De Tillier per tornare in piazza. Alle 11 si terrà un
comizio, con i tre delegati sindacali, un rappresentante degli studenti e uno dei pensionati.
Al termine, suoneranno Stefano Frison, i «Bojana», gli «Ombra» e una band di studenti.
http://www.lastampa.it/2014/12/11/edizioni/aosta/sciopero-di-otto-ore-disagi-in-arrivouFsVJJWjqsmjHOBYneO5KN/pagina.html
Da l’Opinione del 12/12/14
Difesa dei diritti umani
di Elena D’Alessandri
Il 10 dicembre è stata la Giornata Mondiale dei Diritti Umani, istituita dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite per ricordare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,
approvata il 10 dicembre del 1948. L’articolo 1 della Dichiarazione sancisce che “tutti gli
uomini sono uguali in dignità e diritti”. Non occorre certo sottolineare che questo principio è
stato, ed è tuttora, troppo spesso dimenticato o disatteso. Ma certo quel che accade nel
nostro “civilizzato” (o presunto tale) occidente non è nulla rispetto alla barbarie che si
consuma in alcuni Paesi come il Pakistan, l’Arabia Saudita, la Nigeria, il Sudan – ed è
sufficiente leggere l’ultimo rapporto di Amnesty International per avere un quadro più
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dettagliato della situazione –, dove arcaiche leggi permettono ancora trattamenti inumani
ed inenarrabili.
Basti in tal senso pensare alla lapidazione – di cui cadono vittime soprattutto le donne,
uccise pubblicamente al lancio di pietre – o alle impiccagioni di piazza. Ma neanche gli
Usa sono esenti da critiche. Le modalità con le quali la Cia tratta i presunti terroristi negli
interrogatori, emerse dal Rapporto del Senato americano, ha sollevato un’ondata di
sdegno e molti dubbi sull’operato della “più grande democrazia del mondo”. In tema, la
leader del Front National Marine Le Pen ha dichiarato, lasciando i più sotto choc, che in
certi casi la tortura può essere utile e che del resto, di fronte ai terroristi qualsiasi mezzo
può essere utilizzato per ottenere informazioni. Di fronte all’ondata di polemiche Marine si
è giustificata sostenendo di alludere a tutti i mezzi “legali”.
Ma qualche dubbio resta, dato che la storia del padre, Jean Marie Le Pen, in materia di
torture, durante la Guerra di Algeria – allora ufficiale dei parà – parla chiaramente…
Proprio l’articolo 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani si occupa del reato di
tortura. Si legge: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o
punizioni crudeli, disumani e degradanti”. Gli obblighi imposti agli stati dal diritto
internazionale non lasciano alcuno spazio di manovra. Tortura e altri maltrattamenti sono
proibiti, sempre, ovunque e contro chiunque. In termini giuridici, il divieto assoluto di
tortura e altri maltrattamenti “non ammette deroghe” – cioè non può essere attenuato
nemmeno in momenti di emergenza.
Il divieto ha ottenuto un consenso internazionale così forte da diventare una norma di
diritto internazionale consuetudinario, pertanto vincolante anche per gli stati che non
hanno aderito ai principali trattati sui diritti umani. Si legge però nel rapporto di Amnesty
“La tortura avviene nell’ombra. I governi spesso s’impegnano di più a negare o
nascondere l’esistenza della tortura che a indagare in modo efficace e trasparente sulle
denunce e a perseguirne i responsabili.” Soltanto nel 2013 Amnesty ha classificato 27
metodi di tortura, alcuni dei quali utilizzati sistematicamente. In occasione dei 30 anni
dall’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro il reato di tortura Amnesty, con
la sua campagna “Stop alla tortura” si è appellata ai governi perché rispettino le promesse.
A Roma una eletta schiera di associazioni – tra cui la stessa Amnesty International,
Cittadinanzattiva, Arci, Antigone e Cild – ha manifestato con un minuto di silenzio alla
Camera dei Deputati perché voti l’approvazione della legge sulla tortura passata in Senato
lo scorso 5 marzo. Legge che avrebbe bisogno di un miglioramento, dal momento che non
qualifica la tortura come reato proprio ma come reato comune. Sono però 25 anni che si
attende l’introduzione del reato di tortura nel codice penale, ed è quindi questa l’urgenza
principale… per i miglioramenti ci sarà certamente tempo!
http://www.opinione.it/politica/2014/12/12/dalessandri_politica-12-12.aspx
Da Adn Kronos del 12/12/14
Bologna per Telethon, 25 anni di matatone di
solidarietà vissute #ognigiorno
Il 12, 13 e 14 dicembre nelle piazze di Bologna e provincia torna Telethon, la maratona di
solidarietà che si rinnova da 25 anni per dare voce e volti a chi #ognigiorno combatte
contro una malattia genetica rara. L'Unione Italiana lotta alla distrofia muscolare, le
associazioni di volontariato bolognesi, i circoli Arci, l’Auser, l'Anffas, il Camper Club Italia e
l’ASD Bitone allestiranno i banchetti di Telethon, e distribuiranno sciarpe, cuori di
cioccolato e gli altri prodotti solidali. Ci saranno anche diversi spettacoli a cominciare dal
prossimo che si terrà Giovedì 11 Dicembre a Budrio presso il teatro Consorziale, con lo
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spettacolo di Natale organizzato dal centro protesi Inail per la partecipazione straordinaria
di Giorgio Comaschi e Tita Ruggeri, I giorni della maratona vedranno protagonisti il circolo
Arci Benassi, l’ASD Bitone e Uisp Lega Ciclismo che organizzeranno domenica 14
dicembre presso l’Arci Benassi l’Ottavo Raduno MTB Escursionistico, il Decimo
Cicloraduno di Natale, e il raduno per Auto e Moto d’Epoca. Sabato pomeriggio in via
Indipendenza si terrà una parata di Samba di Afoeira, che si conluderà al banchetto
Telethon in piazza Re Enzo. La ricerca di Telethon vuole essere uno sforzo collettivo di
tutti per non dimenticare tutte quelle persone, bambini e adulti affetti da malattie genetiche
e le loro famiglie che spesso si sentono sole e non riescono ad attivarsi in prima persona.
Per aiutarli ad avere una vita dignitosa e cercare di sconfiggere assieme oltre alle malattie
l’indifferenza che la nostra società riserva verso chi non è perfetto. Bologna in questi 25
anni ha dato molto aiutando così la Ricerca di Telthon a trovare una cura a malattie finora
pensate incurabili. Come la ADA-Scid, Leucodistrofia Metacromatica e Sindrome di
Wiskott Aldrich. Molte altre malattie genetiche rare stanno venendo studiate dai ricercatori
di Telethon anche nella nostra provincia e presto molte altre famiglie potranno essere
aiutate.
http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/salute/2014/12/11/bologna-per-telethon-annimatatone-solidarieta-vissute-ognigiorno_HTmCI1pMHF3JmaVZXoE4zI.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Redattore Sociale del 12/12/14 (Calendario appuntamenti)
Un’altra Difesa è possibile. Una legge di
iniziativa popolare per la Difesa civile, non
armata e nonviolenta
Data: 15 dicembre 2014
Luogo: Cesv (Centro servizi volontariato del Lazio), via Liberiana 17
Comune: Roma
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ESTERI
del 12/12/14, pag. 1/17
Appalto dagli Usa per i caccia f-35
di Massimo Gaggi
Si svolgerà in Italia, a Cameri (Novara), la manutenzione di tutti i caccia F-35 in servizio in
Europa. La commessa, per il Pentagono, produrrà «in 50 anni volumi di lavoro per
centinaia di miliardi».
Alenia conquista la supercommessa Il
«check up» agli F-35 si farà in Italia
Scelto dagli Usa lo stabilimento di Cameri (Novara) per logistica e
manutenzione
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK «Questo programma produrrà, nell’arco di 50 anni,
un immenso volume di lavoro di manutenzione: parliamo di diverse centinaia di miliardi di
dollari» dice Chris Bogdan, il generale della US Air Force che dal Pentagono segue lo
sviluppo del caccia F-35 costruito dalla Lockheed in collaborazione con alcuni partner
stranieri, tra i quali l’Alenia del gruppo Finmeccanica. Una notazione che segue un
annuncio lungamente atteso: lo stabilimento italiano di Cameri è stato scelto per svolgere
le attività logistiche e di manutenzione di tutti gli F-35 in servizio presso le aviazioni
europee e di tutti quelli americani dislocati nelle basi del Mediterraneo e in quelle
mediorientali. La revisione dei motori è stata, invece, affidata alla Turchia.
L’impianto, collocato all’interno della base aerea dell’Aviazione militare vicino a Novara,
dove oggi operano i Tornado e gli Eurofighter, è di proprietà delle Forze Armate, ma è
gestito dall’Alenia. Qui è già stato avviato l’assemblaggio delle fusoliere dei jet acquistati
dall’Italia. C’è anche un impianto che dovrà produrre alcune centinaia di ali. Ma, nel caso
di questo sofisticatissimo (e costosissimo) caccia di ultima generazione, il business della
manutenzione è ancora più grosso di quello della produzione.
Questi aerei avranno, infatti, una lunga vita operativa e ogni cinque anni dovranno
affrontare una completa revisione della durata di tre mesi con la sostituzione di molte parti
vitali del velivolo, come ha spiegato il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, molto
soddisfatta per questa scelta che è stata propiziata da un investimento deciso dai militari.
La commessa per la manutenzione dell’F-35, già acquistato in Europa da Gran Bretagna,
Olanda, Norvegia e Danimarca, oltre che dall’Italia (mentre la Turchia non ha ancora
firmato) faceva gola a molti. L’Italia è sempre stata in pole position grazie all’impianto di
Cameri diventato un modello, tanto che varie riviste specializzate americane hanno scritto
che le industrie giapponesi in lizza per ottenere la commessa per la manutenzione delle
flotte di F-35 in Estremo Oriente si sono ispirate proprio all’esempio italiano.
Ma la scelta del Pentagono non era scontata, visto che le industrie britanniche hanno
cercato fino all’ultimo di strappare la commessa a Finmeccanica. Non ci sono riuscite e
ora l’amministratore delegato del gruppo, Mauro Moretti, può esprimere la sua
soddisfazione per questo importante riconoscimento all’industria italiana.
Certo, ragionando in termini di uso efficiente delle risorse pubbliche, si potrà sempre
eccepire che il programma è troppo costoso. Ci sono stati problemi di bilancio anche negli
Usa e da noi tempo fa il Parlamento voleva tagliare in modo molto consistente il
programma, ma poi ha prevalso l’invito del Quirinale a rispettare gli impegni di difesa
aerea comune presi con gli alleati.
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Avere un ruolo di punta nel programma aeronautico più avanzato al mondo (tra quelli che
il Pentagono non considera «top secret») è comunque molto importante per la
qualificazione della nostra industria, del personale, per l’occupazione (2.000 persone, ma
si potrà arrivare fino a 5.000, a seconda delle dimensioni finali delle flotte di F-35) e per la
collaborazione tra imprese e Stati: solo in Italia sono 90 le aziende che collaborano con
Finmeccanica per la realizzazione dell’F-35.
E Moretti non si accontenta dell’annuncio di ieri: auspica che l’Italia venga scelta anche
per aggiornamento e revisione dell’elettronica di bordo degli aerei, cosa che farebbe
crescere di molto la commessa al nostro Paese.
Massimo Gaggi
Del 12/12/2014, pag. 1-2
“Timbuktu”, il film che “denuda” i jihadisti
CURZIO MALTESE
COMPAIONO ogni molti anni film che dicono una parola definitiva al cuore e alle menti
degli spettatori sulle grandi tragedie della storia. Timbuktu di Abderrahmane Sissako è per
la guerra jihadista di Al Qaeda quello che Il Pianista di Polanski è stato per la Shoah,
Apocalypse Now per il Vietnam o Orizzonti di gloria per la prima guerra mondiale.
Un’opera che vista una volta si fissa per sempre nella memoria e ritornerà ogni volta che
l’attualità, un articolo di giornale o un telegiornale o una fotografia ci porterà nuove
mostruosità del fanatismo terrorista. Timbuktu è un capolavoro consacrato dalla critica a
Cannes, esaltato da Le Monde alla recente uscita in Francia, inserito fra i favoriti per
l’Oscar al film straniero, ma finora ignorato dalla distribuzione italiana.
L’autore è mauritano di nascita, ha studiato cinema nell’ex Urss e vive oggi fra Parigi e il
Mali, terra paterna. A 53 anni aveva girato solo tre lungometraggi, La vie sur terre ( 1998),
Aspettando la felicità ( 2002) e il geniale Bamako ( 2006), immaginario processo della
società civile africana al Fmi e alla Banca mondiale, ma è un autore venerato dal culto
cinefilo. L’idea di Timbuktu gli è venuta guardando su YouTube un filmato sull’esecuzione
di una giovane coppia del Mali, genitori di una bambina di soli sei mesi, colpevoli di non
essere sposati. I due ragazzi erano stati interrati fino al collo nella sabbia e quindi lapidati
a morte. Ma, raccolta una serie d’interviste e documenti e filmati, Sissako ha per fortuna
deciso di virare dal documentario a un vero film. Non immagini lo spettatore di dover
assistere a un’infinita serie di ripugnanti nefandezze sanguinarie. La storia è semplice,
poetica, a tratti ironica. Ambientata a Timbuktu, “la perla del deserto”, durante
l’occupazione fra il 2012 e il 2013 da parte dell’alleanza salafita, racconta il tormento
parallelo di una comunità di cittadini sottoposti alle angherie e agli assurdi divieti dei
fanatici e dall’altra il destino tragico di una fiera famiglia tuareg. Una madre e una bambina
troppo belle da evocare il desiderio di un capo jihadista, un padre che sarà condannato a
morte per aver ucciso accidentalmente un pescatore durante un litigio.
Sotto i cappucci che a volte li consegnano al mito mediatico come giustizieri in lotta contro
il colosso occidentale, i miliziani di Al Qaeda qui si svelano per uomini piccoli, ignoranti,
cattivi e ipocriti che usano la religione e la sharia come puro pretesto per scatenare
sadismo e volontà di potere. Pretendono di essere i portatori dei valori dell’Islam, ma
profanano la moschea con armi e scarponi, per questo rimproverati da un dignitoso e
coraggioso imam. Impongono le rigide regole della sharia agli altri, ma fumano e bevono e
si drogano di nascosto, rapiscono e violentano giovani studentesse. Non mancano scene
di sublime grottesco: l’araldo che elenca alla popolazione i divieti ma finisce per non
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ricordarli tutti; il rapper pentito costretto a recitare la conversione in favore di telecamera,
con il miliziano che gli suggerisce le espressioni di estasi religiosa; i soldati che discutono
se sia più forte Zidane o Messi, dopo aver ap- pena requisito un pallone. Ma in un lampo si
passa dal sorriso all’orrore e alla commozione, di fronte alle scudisciate impartite a
ragazze e ragazzi per aver suonato una chitarra o aver giocato a calcio. Non c’è in
Timbuktu l’ombra del giustificazionismo per le atrocità dei qaedisti. I signori della guerra
locali e quelli occidentali seguono la stessa feroce logica di una guerra che è di armati
contro disarmati, dove solo le vittime conservano bellezza, ragione e dignità. I jihadisti qui
non sono visti come i nemici della civiltà occidentale, ma della civiltà tout court e anzi
soprattutto della civiltà dei luoghi che pretendono di salvare dal Satana straniero.
Timbuktu, leggendaria capitale del deserto, sito Unesco e settima meraviglia del mondo,
per secoli teatro di scambi fra civiltà diverse, splendore di palazzi luminosi e immensa
libreria che ospita ancora le opere di Avicenna e 700 mila manoscritti, è l’altra vittima
protagonista, occupata dai jihadisti che hanno compiuto una sistematica distruzione dei
monumenti prima di essere scacciati dagli eserciti francese e del Mali. Il simbolo stesso
della bellezza, scampata per miracolo alla furia dell’intolleranza, come la gazzella che al
principio e alla fine del film sfugge, non si sa per quanto, alle raffiche di mitra sparate dai
soldati dell’orrore.
Del 12/12/2014, pag. 20
Torture, la Cia va all’attacco “Ci sono stati atti
ripugnanti ma il rapporto manipola i fatti”
Il direttore Brennan: “Abbiamo reagito allo shock dell’11/9” Cheney: “Bush sapeva
tutto delle tecniche di interrogatorio”
FEDERICO RAMPINI
Abbiamo servito l’America. Abbiamo reagito allo shock dell’11 settembre, per evitare che
potesse ripetersi. Non abbiamo mentito né al presidente né al Congresso. A muso duro, la
Cia si difende. Il suo direttore John Brennan convoca una conferenza stampa appena 48
ore dopo il rapporto del Senato sulla tortura. Brennan concede poco alle accuse,
contrattacca, si trincera dietro il fatto che «quel rapporto è stato firmato da un solo partito».
E non importa che sia il partito democratico, del presidente Barack Obama. Contro i
senatori democratici Brennan non è leggero: parla di «manipolazione dei fatti, operata per
servire un’agenda politica».
La performance di Brennan è quasi arrogante, quando si appoggia esplicitamente ai
repubblicani (che non hanno sottoscritto le conclusioni della commissione Feinstein) si
mette ai limiti dell’insubordinazione verso il presidente che lo ha nominato. È la conferma
che quel rapporto del Senato ha rinnovato le tensioni tra i servizi segreti e la Casa Bianca
a cui devono obbedire. Obama ha usato i lavori della commissione Feinstein per ribadire
la sua condanna politica e morale della tortura: la Cia ribatte che è «impossibile sapere»
se gli stessi risultati nella lotta al terrorismo (un’allusione all’uccisione di Bin Laden e agli
attentati sventati) sarebbero stati raggiunti con altri «metodi d’interrogazione dei
prigionieri». Pur ammettendo di avere «commesso errori», Brennan sostiene che «la Cia
ha fatto un sacco di cose giuste per mantenere gli Stati Uniti forti e sicuri». Apre la sua
conferenza stampa con un ricordo dell’11 settembre, secondo lui l’unico contesto giusto
per capire i metodi usati nella lotta al terrorismo. Quando evoca «atti ripugnanti», Brennan
li circoscrive a «qualche agente». Il suo attacco più diretto verso il Senato, è sulla
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questione delle menzogne: «No, non abbiamo ingannato né il presidente, né il Congresso,
né la stampa». Accusa la commissione d’inchiesta di «non avere mai ascoltato la stessa
Cia». Sono affermazioni a loro volta controverse: la senatrice Dianne Feinstein e i suoi
colleghi hanno setacciato migliaia di documenti interni alla Cia. E nelle 6mila pagine del
rapporto (di cui solo un decimo rese pubbliche) ci sono le prove che l’estensione e la
brutalità delle torture era stata minimizzata. C’è nelle parole di Brennan qualche
autocritica, soprattutto quando arrivano le domande e risposte coi giornalisti. Incalzato dai
cronisti, ammette che «qualche sostanza c’è nel rapporto». Spiega che «la Cia arrivò
impreparata all’11 settembre e anche alle missioni che ne seguirono». Gli interrogatori
reprensibili erano quindi degli errori spiegabili con l’improvvisazione, la pressione esterna,
la paura di un altro 11 settembre. La sua conclusione: «Il ruolo della Cia è altrettanto
importante oggi di quanto lo era prima della pubblicazione di quel rapporto, e lo sarà
altrettanto domani». In quanto all’impatto del rapporto parlamentare sul morale dei suoi,
Brennan descrive gli agenti dei servizi «provati dalle disinformazioni».
Immediate e altrettanto dure sono le reazioni dei democratici. Il capo della Cia sta ancora
parlando, quando arriva la prima condanna dal senatore Mark Udall, democratico del
Colorado: «La risposta ufficiale della Cia si aggrappa ad una narrazione falsa. Il suo tono
arrogante e sprezzante riflette l’atteggiamento della Cia nei confronti della vigilanza
parlamentare, e il fatto che la Casa Bianca ha lasciato che la Cia facesse quel che voleva,
anche quando le sue azioni danneggiavano attivamente le politiche del presidente».
Un appoggio totale alla Cia viene invece dall’ex vice di George Bush, Dick Cheney. «In
quel rapporto c’è un sacco di spazzatura — dice Cheney alla Fox News — e gli uomini
della Cia meritano elogi, non le condanne dei democratici. Non nascosero nulla: Bush
sapeva quali tecniche d’interrogatorio usavano. Eravamo al corrente, ne avevamo
discusso».
Del 12/12/2014, pag. 37
Ma il crollo dell’oro nero penalizza gli
emergenti e minaccia la ripresa
FEDERICO RAMPINI
C’è chi festeggia: il consumatore americano. E c’è chi trema: quasi tutti gli altri. Il calo del
petrolio, a una tale velocità da diventare una rotta (meno 40% dall’inizio dell’anno), ha
effetti divaricanti sull’economia mondiale. Negli Stati Uniti equivale al primo sostanzioso
aumento delle retribuzioni. Bloccate da anni, le buste paga degli americani diventano più
ricche ogni volta che si fa il pieno di benzina: ai prezzi attuali il risparmio è fra i 380 e i 750
dollari all’anno, non indifferente nel bilancio della famiglia media. Il risultato si vede nei
consumi Usa che riprendono a salire: le vendite al dettaglio sono salite dello 0,7% a
novembre rilancio l’euforia a Wall Street.
Tutt’altra musica si sente nel resto del mondo. Due banche centrali di paesi produttori di
petrolio e gas, la russa e la norvegese, sono dovute scendere in campo per tentare di
arginare il disastro. Lo hanno fatto con due mosse divergenti. Mosca ha alzato i tassi
sperando di frenare il tracollo del rublo. La Norvegia ha ridotto il costo del denaro per
rianimare una crescita frenata dall’ammanco di entrate energetiche. Gli effetti della caduta
dei prezzi energetici si riverberano nel mondo intero, e vanno ben al di là della semplice
distinzione fra paesi consumatori (che ci guadagnano) e produttori (danneggiati). Quasi
tutte le economie emergenti stanno soffrendo. Non solo Russia, Nigeria o Messico, ma
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anche certi paesi che dovrebbero essere agevolati in quanto importatori netti, come la
Turchia e il Sudafrica, sono nella tempesta. La ragione è il contagio tra valute e mercati
dei bond.
Gli investitori si stanno disaffezionando da tutto ciò che è “emergente”. La Cina rallenta,
probabilmente crescerà “solo” del 7%, e questo significa che tutti i produttori di materie
prime — anche minerali o agricole — vedono indebolirsi il loro mercato di sbocco più
importante. Il contagio dunque si allarga oltre l’area Opec, coinvolge tutto l’emisfero Sud.
Si teme una nuova crisi finanziaria, stavolta con epicentro nei Brics e altri emergenti.
Sarebbe la ripetizione di uno scenario già visto in passato, e la chiave di volta oltre al
petrolio è il ruolo del dollaro. Tutte le grandi turbolenze delle economie emergenti negli
anni Novanta (il crac di Argentina e Messico, la crisi del sud-est asiatico, la bancarotta
della Russia) avvennero quando il dollaro si rafforzava. Con una valuta Usa troppo forte
quei paesi faticano a rimborsare i propri debiti, spesso contratti in dollari. Negli anni
Novanta l’anello debole erano i debiti pubblici, oggi invece sono i debiti privati: le
multinazionali dei paesi emergenti si sono indebitate molto facilmente con emissioni di
bond negli anni di boom. Ora gli investitori temono che quei debiti siano insostenibili.
La vendita di quei “corporate” bond e “junk” bond ha messo in moto il classico
effettodomino: fughe di capitali dai paesi emergenti, che si riversano su valute più sicure, e
così facendo alimentano un circolo vizioso di rivalutazione del dollaro. Il paniere di tutte le
valute dei paesi emergenti è ricaduto ai livelli di 14 anni fa rispetto al dollaro. Il real
brasiliano solo negli ultimi tre mesi ha perso il 17% sul dollaro, il rublo è sceso del 50%.
Anche negli Stati Uniti non tutti sono dalla parte dei beneficiati per il calo del petrolio: i
colossi energetici stanno rivedendo i loro piani d’investimento, i giacimenti più costosi di
“shale gas” diventano poco remunerativi. Ma per l’America l’interrogativo riguarda
soprattutto la tenuta dell’economia globale. Non è detto che il motore della crescita possa
andare avanti “con un solo cilindro”, mentre tutti gli altri sono fermi: inclusa l’eurozona, che
dal petrolio debole è avvantaggiata, ma non abbastanza per ovviare agli altri freni alla sua
crescita che sono le politiche di bilancio.
Del 12/12/2014, pag. 15
Il jihad globale sempre più forte
Ogni giorno uccide 168 persone
Record di vittime a novembre : Isis, Boko Haram e taleban in testa per
attentati
Maurizio Molinari
Cinquemilaquarantadue vittime, quasi il doppio dell’11 settembre: è il bilancio di sangue
causato in tutto il mondo dai gruppi jihadisti a novembre, 168 persone uccise al giorno. Un
diluvio di 664 attentati, agguati, decapitazioni, esplosioni, morti e atti di sangue che il
Centro internazionale per lo studio dell’estremismo e della violenza politica (Icsr) di Londra
ha esaminato nel dettaglio arrivando a una radiografia del jihad globale: uccide in 24
nazioni ma l’80% delle vittime si registra in 14 ed è l’Iraq dove miete più vittime, seguito
dalla Nigeria palcoscenico di Boko Haram, dall’Afghanistan teatro della rinascita dei
taleban e dalla Siria.
Nuove forme di attacchi
Per avere un’idea delle dimensioni delle stragi, novembre è stato un mese nel quale ogni
giorno i gruppi jihadisti hanno messo a segno l’equivalente di tre attacchi alla metro di
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Londra del 2005. Gran parte delle vittime sono di fede musulmana, mentre le modalità
degli attacchi si allontanano sempre più dagli aerei-kamikaze dell’11 settembre come dagli
attentati alle metro di Madrid e Londra, perché a prevalere sono imboscate, sparatorie,
bombardamenti e più in generale operazioni - anche di pulizia etnica - tese a controllare
degli specifici territori.
Gli obiettivi
La priorità dei leader del jihad 2014 sono diverse dall’Osama bin Laden 2001 o da Abu
Nidal negli Anni 80: il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi vuole consolidare ed espandere il
proprio Stato islamico, Al Nusra punta a controllare aree più vaste in Siria, Boko Haram a
spazzare via i cristiani dalla Nigeria del Nord e i taleban accarezzano il miraggio di tornare
a controllare Kabul. Se a ciò aggiungiamo che Al Qaeda in Yemen sfida le truppe di
Sana’a, gli Shaabab somali combattono per Mogadiscio, ciò che resta della vecchia Al
Qaeda è arroccata nel Waziristan e la Libia è contesa fra opposte milizie, ne emerge il
quadro di un jihad globale intenzionato a controllare territori, città e villaggi eliminando le
popolazioni che considera nemiche e soprattutto «infedeli» secondo i criteri più rigidi della
«Sharia», la legge islamica.
I caduti fra i miliziani
I dati esaminati suggeriscono anche considerazioni sull’identità dei jihadisti perché fra le
loro circa 1000 vittime la maggioranza non appartiene a Isis e Al Qaeda, segno che gli
eredi di Bin Laden sono più abili nel portare la morte - vantano il 44% delle vittime - e
anche nel mettersi in salvo rispetto agli altri 15 gruppi esaminati, a cominciare dai miliziani
di Boko Haram, che subiscono invece le perdite più ingenti: ben il 60% del totale.
I droni non bastano
Gli autori del rapporto non traggono conseguenze specifiche, ma basta la lettura di numeri
e cartine per accorgersi che il suggerimento per l’anti-terrorismo è di mutare tattica: le
operazioni di intelligence, anche se sostitute da droni e truppe speciali, non bastano più,
servono truppe di terra per riconquistare le aree dove i jihadisti hanno santuari che
assomigliano sempre più a Stati. «Ben lungi dall’essere sconfitti, i jihadisti si stanno
rafforzando imponendosi come protagonisti di nuovi conflitti e instabilità politica - conclude
lo studio - e il loro più spettacolare risultato è la creazione del Califfato» proclamato a
giugno da Al-Baghdadi sui territori dello Stato islamico che si estendono dalla periferia di
Aleppo a quella di Baghdad.
Del 12/12/2014, pag. 6
Sanzioni Usa contro Caracas
Venezuela. La destra eversiva si prepara. Scoperto un camion carico di
dollari proveniente dagli Stati uniti
Geraldina Colotti
Sanzioni Usa contro il Venezuela. Dopo il Senato, anche la Camera ha deciso la linea
dura, dopo mesi di dibattiti e polemiche. Ora la parola passa al presidente Obama, che
può sospenderle o avviare l’iter. Il testo prevede di «imporre sanzioni specifiche alle persone responsabili di violazioni dei diritti umani nei confronti di manifestanti di opposizione
in Venezuela, con l’obiettivo di rafforzare la società civile in Venezuela e per altri fini». Ai
funzionari venezuelani potrebbe essere negato il visto e bloccati beni e conti bancari
negli Usa. Vi sono stati alcuni precedenti. Nel 2011, il governo nordamericano ha imposto
sanzioni all’impresa petrolifera di stato Pdvsa attraverso la Citgo, la società di raffinazione
con sede negli Usa, controllata dalla compagnia venezuelana: per via delle relazioni tra
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Caracas e Tehran. E nel settembre dello stesso anno ha sanzionato tre funzionari
dell’allora governo di Hugo Chavez, accusati di appoggiare la guerriglia marxista colombiana delle Farc. «La realtà è che vogliono il nostro petrolio», ha reagito il presidente
venezuelano Nicolas Maduro. Dopo il rifiuto dell’Opep di ridurre la produzione del petrolio
per far alzare il prezzo del barile, Maduro aveva denunciato il tentativo di «mettere in
ginocchio il Venezuela». Con la devastante tecnica estrattiva del fracking — aveva detto
— gli Usa inondano il mercato di petrolio a basso costo, facendo crollare i prezzi e provocando gravi danni all’ambiente. Una denuncia reiterata dai movimenti sociali alla Conferenza della parti Onu sul cambiamento climatico (Cop20), in corso a Lima. Da lì, il ministro
degli Esteri Rafael Ramirez ha ammonito: «Gli Usa hanno molto di più da perdere nel confronto con noi, l’America latina ora è un territorio che difende la propria sovranità».
Altri membri del governo venezuelano hanno fatto dichiarazioni più dure: «Con le sanzioni,
ci possono fare l’insalata», ha ironizzato il presidente del Parlamento, Diosdado Cabello,
durante la sua trasmissione settimanale. E ha accusato l’opposizione di remare contro il
paese, «per aver gioito e brindato» alla notizia. «La destra nordamericana si lancia così
contro il Venezuela perché sa che i suoi rappresentanti qui sono un disastro, i soldi che
arrivano, se li rubano, non son capaci di eseguire gli ordini, per questo gli Stati uniti hanno
deciso di agire direttamente». Cabello ha poi commentato il sequestro di un camion che
viaggiava su una nave proveniente dagli Usa e contenente oltre 4 milioni di dollari. La persona arrestata, Arquimede Rondon «è di origine portoghese, ha legami con la Usaid e con
Miami e con altri di cui non posso fare i nomi perché c’è un’inchiesta in corso», ha spiegato. Da mesi, i servizi di sicurezza sono in allarme anche dopo il ritrovamento di esplosivi
nelle aree eversive di estrema destra, attive durante le rivolte violente scoppiate a febbraio
scorso contro il governo e durate alcuni mesi. In quei giorni sono morte 43 persone e centinaia sono rimaste ferite. Molte le vittime delle «guarimbe» — le tecniche di guerrigliamesse in atto dai gruppi di estrema destra. I famigliari dei sopravvissuti e i feriti si sono
costituiti in comitato «vittime delle guarimbe» e si sono rivolte alle istituzioni internazionali
per i diritti umani. Alla destra Usa che ha disseminato nei paesi luoghi segreti di tortura —
dicono in Venezuela — interessano, però «altri» diritti umani (non quelli che si declinano
a partire da cibo, casa, salute, educazione e lavoro per tutti). E la «società civile» che
finanziano ogni anno le agenzie nordamericane non investe in progetti benefici, ma in
«quegli altri fini» di cui parla il testo di legge Usa. Gli Usa e le destre europee sostengono
la ex deputata Maria Machado, filoatlantica e golpista come il suo sodale Leopoldo Lopez.
Ieri, l’altro animatore delle «guarimbe», il sindaco metropolitano di Caracas, Antonio Ledezma, ha detto di non esultare per le sanzioni e ha annunciato «un anno difficile». L’anno
delle legislative. «Non verremo meno al nostro impegno con il popolo e con il socialismo
neanche con l’abbassamento del prezzo del petrolio, che pur colpisce molto la nostra economia — ha detto Maduro presentando il bilancio per il 2015 — abbiamo fatto i calcoli con
il prezzo del barile a 60, ora è a 50 ma con il 20% di tagli ai consumi di lusso le misure
sociali non verranno toccate».
Del 12/12/2014, pag. 6
Dopo 75 giorni, fine delle proteste a Hong
Kong
Cina. Nessun risultato ottenuto, Pechino irremovibile
Simone Pieranni
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Dopo MongKok e Causeway Bay, ieri è stata la volta di Admiralty: la polizia di Hong Kong
ha rimosso le barricate «pro democrazia» e ha posto termine alla protesta che per 75
giorni ha movimentato l’ex colonia britannica. Sono stati arrestate alcune persone, tra cui
Jimmy Lai, figura nota di Hong Kong ed editor di Apple Daily, media da sempre molto critico nei confronti del governo locale e di Pechino, ma tutto è avvenuto in un clima piuttosto
calmo, benché colmo di delusione da parte dei manifestanti. La loro protesta si è conclusa,
infatti, senza che sia stato portato a casa nessun risultato tangibile.
Lo sgombero delle barricate nella zona finanziaria dell’ex colonia britannica segna dunque
la fine di questa tornata di manifestazioni, nata a ottobre e sviluppatasi fino a ieri; le proteste erano nate sull’onda della richiesta di un suffragio universale per le elezioni del 2017,
trovando una risposta ferma tanto da parte del governo locale, quando da parte di
Pechino, che fin da subito ha etichettato come «illegali» le manifestazioni e non ha mai
aperto alcuno spiraglio reale di trattativa. Le manifestazioni non hanno portato dunque ad
alcun risultato per i giovani contestatori, troppo deboli rispetto al «nemico» (vale a dire il
partito comunista cinese) sia da un punto di vista politico, sia da un punto di vista militare.
Quella rete di ong, finanziate dall’estero e per lo più dagli Usa (e che ha fatto sospettare
Pechino di un movimento «sobillato» dall’estero) hanno spinto per la protesta all’inizio,
salvo poi ritirarsi man mano che diminuiva l’intensità, e per certi versi aumentava il nuovo
prestigio internazionale della Cina, che in questi due mesi ha portato a casa risultati internazionali rilevanti, a partire dalla bocciatura dell’accordo economico proposto in Asia dagli
Usa, con successivo indebolimento della politica americana nell’area.
I ragazzi di Hong Kong sono stati bravi, ma sfortunati, perché hanno prodotto il massimo
sforzo nel momento migliore – forse – sia interno, sia internazionale della Cina di Xi Jinping. Come quasi sempre accade quando si parla di Cina, i «ragazzi con gli ombrelli»
hanno saputo bucare però i media internazionali, stupendo per il proprio coraggio
nell’affrontare il nemico numero del mondo occidentale, vale a dire la Cina. Bisogna precisare, però, che quando qualche movimento di protesta si realizza in Cina, non crea lo
stesso trasporto mediatico in Occidente: basti pensare agli scioperi dei lavoratori o alle
proteste, quotidiane, dei «petizionisti». Poveracci, per lo più penalizzati dalla brutalità del
sistema sociale e giudiziario cinese, che senza sponsor e finanziamenti americani sfidano
davvero il governo di Pechino. Si tratta di proteste ben più complicate, che il più delle volte
non mettono in croce il partito comunista centrale, bensì il funzionario locale o il poliziotto
corrotto, creando vere e proprie proteste popolari violente, minacciose e spesso vincenti.
I ragazzi di Hong Kong però, contrariamente ai «petizionisti», sanno usare bene lo smartphone e i social media e vivono in una società benestante (Hong Kong è una città ricca,
con standard di costi della vita praticamente occidentali) e hanno saputo attirare
l’attenzione dei media nostrani, desiderosi di ritrovarsi tra le mani una protesta facile da
etichettare e capire, proprio in casa di Pechino, benché in periferia.
E che la Cina stia cambiando lo ha dimostrato la gestione di quanto accaduto a Hong
Kong: senza repressione, con fermezza e con attenzione al pubblico internazionale.
Secondo Pechino, la concessione del suffragio universale è sufficiente, tenendo conto
anche del passato coloniale. Se poi il popolo di Hong Kong dovrà scegliere tra due o tre
nomi graditi a Pechino, per il Pcc è logico: solo così si può preservare l’«armonia» e la
sicurezza dell’ex colonia. Ma sicuramente, dopo la fine della protesta, qualcosa potrà
accadere sottobanco: Pechino sa bene che lo sgombero potrebbe non bastare a placare
una nuova richiesta di «democrazia» da parte degli abitanti di Hong Kong. Più giustizia
sociale, maggiore possibilità di rappresentarsi e forse la testa di qualche dirigente locale,
potrebbero essere le mosse per assopire davvero questa stramba rivolta di Hong Kong.
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INTERNI
del 12/12/14, pag. 9
Renzi non dà più garanzie
Il Quirinale vede nero
TIMORI PER L’ELEZIONE DEL SUCCESSORE ALLA PRESIDENZA E
PER I RAPPORTI CON L’UE
di Fabrizio d’Esposito
Giorgio Napolitano e Matteo Renzi sono ormai alla coabitazione forzata, da separati in
casa. La conferma è arrivata l’altra sera in un passaggio clamoroso del discorso che il
capo dello Stato ha svolto alla Accademia dei Lincei, a Roma, quello sull’antipolitica
grillina e leghista come “patologia eversiva”, tanto per intenderci. Un passaggio
completamente ignorato da stampa e agenzie (con pochissime eccezioni, tra cui
l’Huffington Post) e che ritaglia l’identikit attuale del presidente del Consiglio, secondo le
allusioni del Quirinale: “Un banditore di smisurate speranze” arrivato alla guida del
governo “senza alcun ben determinato retroterra”. Parole durissime, di grande disincanto e
forte delusione verso il “giova - ne” premier, che il politologo Gianfranco Pasquino,
presente alla prolusione di Napolitano di mercoledì scorso, ha riassunto in questo modo:
“Il presidente ha preso le distanze da Renzi da un mese e mezzo, in maniera sottile ma
evidente”. Il riferimento temporale di Pasquino è ben preciso. Ossia l’inizio di novembre,
quando Repubblica e Fatto danno conto della “stanchezza” di Napolitano e della decisione
irrevocabile di andarsene nel primo mese del 2015. Dalle colonne del quotidiano di Ezio
Mauro, con il timbro di Stefano Folli, la scelta del capo dello Stato viene tratteggiata in
senso minaccioso verso lo stesso Renzi. Per due motivi. Il primo: “Piuttosto che sciogliere
le Camere e darti le elezioni anticipato mi dimetto prima”. Il secondo: “Me ne vado anche
se tu mi hai chiesto e continui a chiedermi di rimanere fino alla primavera”.
ADESSO, PERÒ, in questa fase, quel “banditore di smisurate speranze” contiene
soprattutto la stizza di Napolitano per un’altra, cruciale partita. Quella della sua
successione. Ed è per questo che ieri dal Colle non è giunta alcuna smentita sul
destinatario di quell’affermazione. Anzi. Ambienti del Quirinale precisano, in modo perfido,
che più che un attacco si tratta di un invito a Renzi a salvarsi da se stesso e
dall’improvvisazione che sembra guidare la sua azione di governo. È la vicenda del
metodo Quartapelle, dal nome della deputata trentenne del Pd che Renzi voleva
incasellare alla Farnesina al posto della Mogherini. Di qui l’ampio riferimento ai giovani
senza un ben determinato retroterra, sempre nell’intervento ai Lincei. Raccontano che
Napolitano rimase letteralmente scioccato dalla proposta, una cosa mai vista nella sua
lunga parabola istituzionale e politica e fu necessaria una trattativa di alcuni giorni per
trovare un compromesso sul nome di Paolo Gentiloni, attuale ministro degli Esteri. Ecco, il
capo dello Stato è terrorizzato dal metodo Quartapelle applicato all’elezione del prossimo
presidente della Repubblica, che Renzi vorrebbe “accomodante” per non farsi oscurare. In
pratica, la distanza di questo dicembre tra Napolitano e Renzi si misura sul futuro inquilino
del Quirinale. Anche perché le avvisaglie del tormentone dei nomi circolati va nella
direzione temuta da Re Giorgio, quello del metodo Quartapelle. Sia nella versione
musical-architettonica (Riccardo Muti e Renzo Piano), sia in quella giovane, ritenuta
debole e senza autorevolezza ( Roberta Pinotti e Raffaele Cantone). Al contrario,
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Napolitano vorrebbe pilotare la sua successione ma sa che il suo candidato prediletto,
Giuliano Amato, piace a Silvio Berlusconi ma non a Renzi. Come poi è emerso
chiaramente dall’appuntamento di ieri a Torino tra Napolitano e il presidente della
Repubblica tedesca, Joachim Gauck, la preoccupazione del Colle è quella di evitare
“polemiche unilaterali e contrapposizioni paralizzanti” tra Roma e Berlino. Anche in questo
la critica a Renzi è fin troppo evidente. Non solo. C’è una grave ragione che obbliga
Napolitano, dal suo punto di vista, a seguire con attenzione la partita dei grandi elettori del
capo dello Stato. Il presidente della Repubblica, raccontano sempre, è consapevole di
come il premier venga percepito dai maggiori attori della scena europea. E l’impressione
ricavata, nonostante l’ego smisurato di Renzi, è del tutto negativa. Ecco perché un
eventuale ticket Renzi- Pinotti, per fare un esempio, spaventa il Quirinale. Con un premier
percepito negativamente (e senza investitura elettorale) e un capo dello Stato non
autorevole a chi si rivolgerebbero la Merkel e Draghi, per non dire Obama? Sinora questo
ruolo è stato sempre riconosciuto, a partire dal 2011, a Napolitano, lord protettore di ben
due governi scelti da lui (Monti e Letta) e garante obtorto collo dell’ultimo. E il metodo
Quartapelle del banditore di smisurate speranze rischia di azzerare questo schema.
del 12/12/14, pag. 9
IL SEMESTRE italiano coi figuranti a 35 euro
Ma com’è organizzato il semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo? Come una
trasmissione tv, più o meno. È una battuta, ma forse no: ieri, per dire, nella platea
dell’evento “La specificità dello sport e la formazione dei giovani atleti nel diritto dell’Ue” pensoso convegno organizzato al “Salone d’onore” del Coni dalla presidenza del Consiglio
e dalla Commissione europea - sedevano un numero imprecisato di giovani pagati 35 euro
per una mezza giornata di noia, proprio come in tv. E così, improvvisamente, il buon
selvaggio Carlo Tavecchio, il fotogenico Giovanni Malagò, l’educato sottosegretario
all’Europa Sandro Gozi, presenti all’evento, diventano quello che sono: personaggi
mediatici, uomini il cui ruolo nasce e muore su un qualche palco, illuminato da un riflettore,
ripreso da una telecamera. Anche il semestre italiano, così strombazzato e inutile, ritorna
a essere quel che è: un happening pagato coi soldi pubblici. Come Ballando con le stelle.
Ha spiegato ieri ai presenti a 35 euro un compreso Graziano Delrio: “Lo sport, come l’arte,
è un linguaggio universale: non ha bisogno di traduttori”. Ma di figuranti sì.
Ma. Pa.
del 12/12/14, pag. 14
Conflitto d’interessi, il Pd vota con FI E Di
Maio espelle un collega del M5S
Roma Grillini in rivolta alla Camera. Rabbia, urla e filmati ripresi con i telefonini in aula
perché il ddl sul conflitto d’interessi — grazie al voto congiunto di Pd, FI ed Ncd, contrari
M5S, Sel e Lega — è stato rinviato in commissione Affari costituzionali dopo il parere
contrario della Bilancio per mancanza di copertura. Nel pieno del tumulto, il vice
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presidente di turno, Luigi Di Maio (M5S), ha espulso dall’aula il collega di partito Manlio Di
Stefano che aveva accusato i deputati dem e di Forza Italia di esser collusi con i mafiosi:
«Parlare di mafia con queste m.. — ha argomentato Di Stefano — mi indispone. Brunetta
ci ha dato dei filo mafiosi e il presidente di turno Giachetti non ha mosso un dito. «Mafiosi!
Mafiosi! Ladri! Ladri!», si sono subito accodati in coro i deputati del M5S.
A quel punto i grillini hanno azionato i telefonini per riprendere la votazione e così la
seduta è stata sospesa. Alla ripresa, il M5S ha comunicato di ha avere chiesto la
convocazione della capigruppo, richiesta trasmessa alla presidente Laura Boldrini. «Ed
ecco l’indecoroso voto che ha affossato la legge sul conflitto di interessi per cui il M5s ha
lottato tanto», ha detto Fabiana Dadone (M5S). Giuditta Pini (Pd) le ha risposto: «Il M5s ci
urla “mafiosi” in Aula... pensare che dicevano che la mafia non esiste». In realtà, ha
commentato Ettore Rosato, segretario d’Aula del Pd, «il testo era tecnicamente
impresentabile, non aveva neanche superato l’esame della Bilancio, l’unica strada è stata
quella del rinvio in commissione».
D.Mart.
Del 12/12/2014, pag. 12
La resa dei conti di Renzi con la minoranza
del Pd “Basta con D’Alema e Bindi in
Assemblea chiudo i giochi”
L’ex segretario Ds attacca il sottosegretario Delrio: “Non può
minacciare i parlamentari”. Il premier: “E allora pubblico i bilanci della
segreteria Bersani”
FRANCESCO BEI
Due partiti ormai convivono sotto lo stesso tetto democratico. E ogni pretesto è buono per
darsele di santa ragione. Dopo “l’incidente” di mercoledì alla Camera, quando la
minoranza dem ha votato con le opposizioni in commissione affari costituzionali,
mandando a gambe all’aria il governo, ieri i toni sono saliti alle soglie della rottura. Persino
un moderato come il sottosegretario Graziano Delrio, incrociando un cronista dell’ Agi, si è
lasciato andare a uno sfogo pesante: «Se la minoranza del Pd vuole andare a votare lo
dica. Gli incidenti parlamentari possono anche capitare, ma quello che è successo ieri non
esiste. Basta segnali di vecchia politica». Un colpo al quale ha subito risposto per le rime
Massimo D’Alema: «È stupefacente che una persona ragionevole come il sottosegretario
Delrio non trovi di meglio che minacciare i parlamentari». E così via, Boccia contro Renzi,
D’Attorre contro Delrio, Chiti contro Giachetti, in un crescendo di minacce e ripicche.
Quanti ai «segnali politici» che la minoranza ha inteso dare sulle riforme costituzionali, da
Ankara il premier risponde sibillino: «Ne parliamo domenica all’assemblea del Pd. Per me
comunque la legislatura finisce a febbraio 2018». Un rinvio a domenica per la resa dei
conti interna, in quello che si preannuncia come un vero mini-congresso democratico. Un
appuntamento che il segretario concepisce come una sorta di tribunale interno per isolare
e colpire definitivamente l’opposizione interna.
L’umore che dalla Turchia corre sul filo delle telefonate fatte da Renzi ai suoi è nero.
«Sono stufo di queste critiche sprezzanti dei vari Bindi e D’Alema», ripete in privato il capo
del governo. «Rieccoli, la premiata ditta Bindi-D’Alema di nuovo in azione», chiosa Debora
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Serracchiani. La minaccia del segretario sa di arma finale. «Volevano mandare un
segnale? Lo manderò anch’io. Per esempio mettendo online i bilanci del Pd durante le
segreterie di Epifani e Bersani». L’assemblea, il suo esito, sarà dunque «vincolante » per
tutti. Renzi presenterà un documento («vergato di mio pugno») sulle riforme e, come
accaduto in Direzione, lo metterà ai voti. A quel punto nessuno potrà far finta di non aver
capito. I renziani sono anche più neri del capo. Il tam-tam tra i fedelissimi suona come una
campana a morto per la segreteria unitaria, dove siedono Micaela Campana (bersaniana)
e Andrea De Maria (cuperliano). «Le loro poltrone traballano», riferiscono dal giglio
magico. Le possibili ritorsioni, i «segnali» come li chiama il premier, non si contano. Al
punto che, «per il bene del partito» s’intende, il segretario potrebbe sospendere le primarie
in Toscana. E colpire così il governatore Enrico Rossi, facendo magari balenare l’ipotesi di
un cambio di cavallo. «La verità - spiega Michele Anzaldi in un corridoio della Camera - è
che con “loro” Renzi è stato fin troppo generoso. Hanno le presidenze di commissione,
hanno posti in segreteria, fanno quello che vogliono, mentre il presidente del Consiglio ha
solo due ministri “renziani”, la Boschi e Gentiloni».
A bruciare più di tutto è quel voto che ha cancellato i senatori a vita. Non tanto per il
merito, ovviamente, quanto per il colpo inferto all’immagine del premier. «Il governo ha
fatto una forzatura - ricostruisce Alfredo D’Attorre - non c’era nessun accordo e la Boschi è
voluta andare al voto comunque. Renzi è irritato? Noi più che lavorare di notte nei
weekend che possiamo fare?». Roberta Agostini, un’altra della minoranza, insiste che
«non è interesse di nessuno sabotare le riforme, ma quello che si può migliorare va
migliorato». Una lettura minimale che non è condivisa da chi regge oggi le sorti del Pd. A
partire dal presidente Orfini: «Hanno mandato sotto il governo. A che gioco giochiamo?».
Tanto che si riparla di una sostituzione dei “ribelli” in prima commissione, un atto che
sarebbe una vera dichiarazione di guerra.
Se a Montecitorio si gioca duramente, a palazzo Madama le cose non vanno meglio. Il
cammino dell’Italicum infatti è a rischio, sommerso com’è da una valanga di 12 mila
emendamenti e migliaia di sub-emendamenti, in gran parte escogitati da Roberto
Calderoli. Oltre millecinquecento arrivano anche dai frondisti e fittiani di Forza Italia e Gal.
«L'intento è ostruzionistico », ammette Augusto Minzolini. Anche la minoranza dem non
resta con le mani in mano con una ventina di emendamenti. Miguel Gotor, in particolare,
insiste affinché i capilista non siano bloccati «perché deve essere restituito ai cittadini il
diritto di scegliere i parlamentari soprattutto in vista del fatto che avremo solo una Camera
politica». Insomma, l’obiettivo di Renzi di spedire in aula il testo prima di Natale a questo
punto sembra sfumato, a meno che gli emendamenti non vengano ritirati. Calderoli è
disposto a farlo solo in cambio di «una legge elettorale equilibrata».
Nico Stumpo, bersaniano, di fronte al campo di battaglia in cui si è trasformato il Pd,
riscopre un antico proverbio di Sezze: «Quando due ciechi si prendono a sassate si fanno
male tutti». Un invito ad abbassare i toni, altrimenti a rimetterci sarà tutto il partito.
del 12/12/14, pag. 15
Il premier: Massimo vuole mandarci a casa
L’ira di Renzi, ora la conta all’assemblea pd. L’idea di pubblicare le
spese delle segreterie Bersani e Epifani
ROMA Una cosa per Matteo Renzi è chiara: «Siamo di fronte al colpo di coda della
vecchia guardia contro di me. E per questa ragione cerca di frenare la riforma del Senato
e l’Italicum».
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A capo di questo schieramento c’è sempre lui, secondo il premier: Massimo D’Alema, che
«guida il fronte trasversale dei conservatori che comprende anche Forza Italia». Ma non
c’è solo l’ex ministro degli Esteri nel mirino del segretario. L’impressione è che anche
Bindi, Bersani e Finocchiaro «stiano cercando il colpo finale per salvare loro stessi e la
vecchia classe dirigente e affossare me».
Con quale obiettivo finale? È su questo che lo stesso Renzi e i suoi fedelissimi non hanno
le idee chiare. «Forse — ragiona ad alta voce il premier con i suoi — ormai è passata la
linea D’Alema: pur di distruggere me, distruggiamo pure l’Italia, il che vuol dire cercare di
mandare a casa questo governo e metterne un altro, senza passare dalle elezioni, agli
ordini della troika e della Commissione europea. Sennò qual è la strategia? Quella di
condizionare l’elezione del presidente della Repubblica? O siamo alle richieste
inconfessabili: avere delle liste bloccate che garantiscano i loro candidati che altrimenti
alle elezioni non verrebbero mai eletti?».
Gli interrogativi sulla strategia o sulla mancanza della stessa si accavallano nella mente di
Renzi, ma sulle risposte da dare non ci sono dubbi. Lo spettro delle elezioni resta lì sullo
sfondo. Però, visto che non spaventa abbastanza, ci sono soluzioni operative più
immediate da mettere in atto che potrebbero fare assai male alla minoranza, anche a
quell’area riformista capeggiata da Roberto Speranza, che però non ha battuto un colpo in
favore del segretario nel momento del bisogno.
«Se lo scontro all’interno del partito si fa sempre più duro, bisognerà comportarsi di
conseguenza», avverte Renzi. Primo segnale: l’assemblea regionale toscana che avrebbe
dovuto incoronare Enrico Rossi come candidato alla regione è stata posticipata e ora i
renziani fanno sapere che potrebbero spuntare nuove candidature alle primarie. A livello
nazionale la risposta potrebbe essere altrettanto dura: sono in bilico in segreteria
nazionale i posti di Micaela Campana e Andrea De Maria, rispettivamente componenti
dell’area Speranza e Cuperlo. La prima è legatissima a Bersani ed è la ex moglie del pd
Daniele Ozzimo, dimessosi da assessore comunale di Roma perché coinvolto nella
vicenda di «Mafia Capitale». Il secondo è uomo di Cuperlo, il quale, secondo i renziani, sta
portando avanti il progetto dalemiano senza se e senza ma. Ciò potrebbe significare la
fine della gestione unitaria adottata finora nel Pd.
Dunque, come ha spiegato il premier ai suoi, «potrebbero esserci ripercussioni molto forti
sia a livello locale che nazionale». Da quest’ultimo punto di vista, domenica, all’assemblea
nazionale, potrebbe esserci una sgradita sorpresa per molti: il tesoriere Francesco
Bonifazi potrebbe mettere on line i dati del bilancio delle segreterie Bersani, Epifani e
Renzi, con relative spese e stipendi degli staff.
Insomma, per dirla con il segretario, sarà l’assemblea nazionale «il momento della verità»:
«Sto preparando un documento molto esplicito e impegnativo sulle riforme su cui chiederò
il voto».
Basterà a ridurre a più miti consigli la minoranza e, soprattutto, a sedare i renziani che
invocano le elezioni? Certo nemmeno questa prospettiva basta per ora a trattenere il
premier, che non ha accettato l’attacco di D’Alema a Delrio: «Graziano è un mite e non ha
mai minacciato nessuno, Massimo può dire altrettanto?». Domanda retorica, ovviamente.
Maria Teresa Meli
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del 12/12/14, pag. 22
Piazza Fontana 45 anni dopo: la giustizia
è sempre una stanza irrimediabilmente vuota
di Gianni Barbacetto
Lo slogan recita: “Per non dimenticare”. Ma arriva un momento in cui, senza perdere la
memoria, si vorrebbe finalmente guardare al passato dei morti, del sangue, delle vittime
incolpevoli e degli accusati innocenti, con il distacco sereno di chi ha capito il come e il
perché. “La giustizia vuole più dolore che collera”, scriveva Hannah Arendt. Ma dopo 45
anni, la fine della Guerra Fredda, il tramonto della Prima Repubblica, la collera è
svaporata, il dolore resta privilegio di chi ha perso un padre, o un figlio, o una moglie, e la
giustizia è, per tutti, una stanza irrimediabilmente vuota. Non sappiamo il come, né il
perché. E in più il presente continua a ricordarci che quella storia non è passata, nel
Paese dell’eterno ritorno. Mafia Capitale è la riproposizione oggi, a Roma, di una parte del
personale “politico” (o politico- militare) che è stato protagonista della stagione italiana
delle bombe nere e dei depistaggi di Stato. Ci fa capire che non c’è stata rottamazione
neppure per i criminali, figurarsi per i volonterosi funzionari della guerra invisibile, o per i
politici: del rinnovamento si è occupata soltanto l’anagrafe, facendo valere il peso biologico
del tempo che passa. E nell’indagine palermitana sulla trattativa Stato-mafia è ora
spuntato il ruolo avuto nella stagione delle stragi da un giovane ufficiale dei carabinieri di
nome Mario Mori: il giudice istruttore Giovanni Tamburino, che indagava sui progetti
eversivo-istituzionali della Rosa dei venti, nel 1974 chiese al Sid, il servizio segreto
militare, informazioni urgenti su Mori, che in quegli anni per il servizio teneva i contatti con
i terroristi neri. La risposta non arrivò: un mese dopo, l’inchiesta di Padova sulla Rosa dei
venti, come quella di Milano su piazza Fontana e quella di Torino sul golpe di Edgardo
Sogno, fu trasferita a Roma, dove s’insabbiò per sempre. Mori, sfiorato nel 1974
dall’indagine sugli intrecci tra eversione nera ed eversione di Stato, oggi è tra gli imputati
del processo ai protagonisti dell’incrocio tra Stato e mafia. Nulla si crea, nulla si distrugge,
tutto si trasforma, nell’Italia delle eterne trattative e delle eversioni incrociate.
DAL 12 DICEMBRE 1969, quando scoppiò la bomba in piazza Fontana, sono passati 45
anni. Sette indagini. Dodici processi. Nessun colpevole. La giustizia non è riuscita a
stabilire le responsabilità individuali, a condannare chi ha organizzato e realizzato la
strage. Eppure è sbagliato dire che non sappiamo nulla, che non conosciamo la verità. La
sappiamo, e non soltanto nel senso profetico di Pasolini (“Io so”). Nove lustri di inchieste,
testimonianze, indagini giudiziarie e ricerche storiche hanno sedimentato almeno due
certezze. La prima è che le stragi della cosiddetta strategia della tensione sono state
materialmente eseguite da gruppi neofascisti. Del resto, almeno un condannato per le
bombe del 12 dicembre c’è: è Carlo Digilio, detto “zio Otto”, esperto in esplosivi, che si è
autoaccusato di aver contribuito alla preparazione dell’ordigno, confezionato per il gruppo
neofascista Ordine nuovo. La seconda è che gli apparati dello Stato hanno depistato le
indagini e sottratto prove e testimoni, in nome della “guerra non ortodossa” combattuta con
eserciti segreti e segretissimi accordi internazionali. Lo dicono le stesse sentenze – piazza
Fontana, piazza della Loggia, questura di Milano... –che hanno mandato assolti i loro
imputati (tranne Digilio). Noi sappiamo, dunque. Non abbiamo accertato le responsabilità
penali, ma conosciamo i gruppi allevati per le operazioni “riser - vate”, i meccanismi, le
strategie, le intossicazioni informative, i doppi giochi. Sappiamo il ruolo degli apparati dello
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Stato che hanno giocato alla guerra fredda, usando cinicamente massoni, mafiosi,
criminali; che hanno impiegato Ordine nuovo, Avanguardia nazionale e i loro derivati; che
hanno fatto della P2 e della banda della Magliana agenzie per i lavori sporchi e per gli
affari loro. È nato così il “mon - do di mezzo” arrivato fino a oggi a occupare Roma e non
soltanto Roma. Abbiamo per un attimo sperato che la promessa di Matteo Renzi di
declassificare i documenti sulle stragi potesse far fare qualche passo avanti verso la
verità. Illusione. Chi sceglie che cosa declassificare è lo stesso apparato che ha
classificato, depistato, nascosto. Il “mondo di mezzo” continua.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 12/12/2014, pag. 2
Roma, il patto della Cupola con i boss della
‘ndrangheta “Ma qui comandiamo noi”
Gli affari delle due mafie: arrestati i mediatori dei clan calabresi “Appalti
nel Cie a Catanzaro scambiati con lavori nel Lazio”
FABIO TONACCI
Do ut des. Quando si tratta di affari, tra clan che si annusano, la pistola lascia spazio alla
ragione dell’utile. Ti do qualcosa, mi dai qualcosa. «Sei stato rispettato dai Mancuso, lo sai
no che sei stato rispettato ? — ricorda a Buzzi Salvatore Ruggiero, persona vicina alle
‘ndrine — in quella rete là comandano loro, in questa rete qua comandiamo noi». Così, tra
Mafia Capitale e le più potenti cosche della ‘ndrangheta, nessuno spara. L’una offre
l’opportunità di infiltrare la piazza di Roma, le altre ricambiano proteggendo, da loro
stesse, gli investimenti nel Cara di Cropani Marina. Perché esiste un patto. Esiste quella
che il Ros definisce «reciprocità ». E i patti, tra pari grado, si rispettano.
DUE NUOVI ARRESTI
Quello che i due arresti di ieri documentano, è la storia di un accordo tra la Roma più
marcia e la Calabria più pericolosa. Man mano che l’indagine dei pm Cascini, Ielo e
Tescaroli va avanti, si fa fatica a considerare Salvatore Buzzi, l’uomo della rete delle
cooperative rosse, semplicemente un piccolo imprenditore ambizioso finito in un gioco più
grande di lui. In realtà è uno che può scendere a Vibo Valentia per incontrare i reggenti del
clan Mancuso, spendendo un nome: quello di Massimo Carminati, l’ex Nar, il boss della
capitale.
In manette sono finiti Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, due calabresi impiegati nella
Cooperativa 29 giugno dalla fine degli anni Novanta. Sono accusati di far parte della
presunta associazione di stampo mafioso che ruota attorno al Guercio e a Buzzi. Rocco
Rotolo di Gioia Tauro, 47 anni, precedenti per rapine e droga, «è il nipote di Peppe
Piromalli», dicono gli intercettati. È anche cognato di Salvatore e Santo La Rosa, a
suggellare il legame con i padroni mafiosi del porto di Gioia Tauro e dei suoi traffici illeciti.
Salvatore Ruggiero, 59 anni, precedenti per omicidio, vicino ai Piromalli e ai Molé. Prima
dipendente della “29 Giugno”, poi assunto nel 2009 a Roma Multiservizi quando Franco
Panzironi era presidente. Sono questi due malacarne che hanno fatto da garante e da
tramite tra Buzzi e i Mancuso. C’era da “mettersi a posto” per la faccenda del Cara di
Cropani.
IL FAVORE DI CROPANI
Nelle 71 pagine dell’informativa del Ros dei Carabinieri, cui si appoggia l’ordinanza del gip
Flavia Costantini, è ricostruita la genesi, di questo patto. Nell’ottobre del 2008 Buzzi
ottiene dal Viminale la gestione per cinque mesi del centro, allestito in emergenza nel
villaggio turistico Alemia di Cropani Marittima perché il Cpt di Crotone è al collasso.
L’appalto è di 1,3 milioni di euro, la capienza di 240 immigrati per i quali il ministero
dell’Interno paga 35 euro al giorno a persona. «Quando stavo a Cropani... parlavo col il
prefetto, parlavo con tutti, parlavo con la ‘ndrangheta, e poi risalivo su», ricorda Buzzi,
captato dalle cimici del Ros nel luglio scorso. Da quelle parti, nessuno è tranquillo se i
Mancuso non vogliono. «Sono il perno che comandano. Io sono andato dai Mancuso per
Buzzi Salvatore, io gliel’ho presentato », spiega Rotolo a Ruggiero in un’intercettazione. I
Piromalli hanno garantito hanno fatto da garante all’intera operazione. Serviva la
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protezione per il Cara, e la protezione c’è stata. «Un favore chiesto da Mafia Capitale ai
Mancuso», sintetizza il gip Flavia Costantini.
IL PERMESSO DI CARMINATI
Ma al dosegue necessariamente il des . E cinque anni dopo c’è un progetto che ai
Mancuso di Limbadi interessa parecchio. La creazione del- la Cooperativa Santo Stefano
onlus per la gestione del mercato dell’Esquilino, il cuore multietnico di Roma. La
‘ndrangheta vuole un pezzo della torta cui sta lavorando Buzzi, nell’affare ci deve stare
Giovanni Campennì. Imprenditore calabrese (è figlio di Eugenio, cognato di Giuseppe
Mancuso, ndr), ha le mani nello smaltimento dei rifiuti del comune di Nicotera. Del resto, è
la persona giusta, «è pulito nella legge », ragionano Rotolo e Ruggiero, alludendo alla sua
fedina penale. Sarà la testa di ponte per penetrare in silenzio, con la buona reputazione
che la “29 giugno” aveva, a Roma. «Lo sai che sei stato rispettato, no? — Ruggiero
ricorda a Buzzi il “favore” del Cara — so’ passati 5 anni... t’ha toccato qualcuno là sotto? ».
Questione di rispetto, a quanto pare. Buzzi è d’accordo, ma una cosa così non la decide
lui. Campennì, Buzzi e Carminati si incontrano il 5 febbraio 2014. «Per farlo uscire fuori
dalla regione della Calabria — spiega al Guercio — sarebbe la cosa migliore... una piccola
cooperativa per gestire quello che facciamo noi su Piazza Vittorio ». Ricevendo
l’approvazione di Carminati. «Come no, ma scherzi». Un rapporto di reciprocità tra clan
mafiosi, dunque. Almeno in apparenza. E il Guercio è il boss romano cui fare riferimento.
IL LITIGIO CON CAMPENNÌ
«Siccome stanno aumentando i pasti, mi ha detto “facci entrare anche la ndrangheta”,
spiega Carminati a Paolo Di Ninno, commercialista di Buzzi, il successivo 26 maggio.
Perché anche a Limbadi intendano con chi hanno a che fare, Buzzi il 20 aprile del 2013
racconta nel dettaglio a Campennì di come tengano in pugno Riccardo Mancini, ex ad di
Eur Spa. Davanti a Rotolo e Ruggiero, Buzzi (che li chiama “la ndrina”) si vanta di
conoscere i Fasciani, «è quello che quando ero a Rebibbia stavamo in cella insieme », e
Pasquale Multari, pregiudicato con una marea di reati alle spalle. «Multari è amico mio, è...
è ancora vivo Pasquale?». Di rimando, Campennì in un’altra occasione racconterà di aver
partecipato, attraverso l’imprenditore Giorgio Cassiani, a una gara dell’Ama. «Io sono
Cassiani!», dice. Il soggetto piace a uno dei costruttori più importanti di Roma, Berardino
Marronaro, che partecipa ad alcuni pranzi. «Marronarò vo’ conosce la ‘ndrangheta»,
dicono nel gruppo.
L’idea di Buzzi, per la Cooperativa Santo Stefano onlus, è di darla a Campennì, Rotolo e
Ruggiero. «Tu sarai il presidente de questa cooperativa de ‘ndranghetisti», dice a uno
degli amministratori. Il settanta per cento dei profitti andranno all’uomo dei Mancuso, il
resto agli altri. «Se la facessero tra ‘ndranghetisti», commenta Buzzi. Do ut des .
Del 12/12/2014, pag. 4
Da Mafia Capitale a ’ndrangheta Capitale.
Così il «mondo di mezzo» flirtava coi clan
L'inchiesta. L'appalto su cui lucrare era sempre quello dell'accoglienza. Anche in
Calabria. La coop 29 giugno aveva l’appalto del Cara di Cropani: 1,3 milioni per 240
immigrati. Gli «interessi comuni» di Carminati e Buzzi con i Mancuso
Silvio Messinetti
Da Mafia Capitale a ‘ndrangheta Capitale il passo è stato breve, anzi brevissimo. C’era da
aspettarselo. Che i tentacoli delle ‘ndrine si muovessero intorno a Roma era un fatto noto,
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già registrato da altre inchieste. Come non ricordare le feste elettorali di Alemanno al Cafè
de Paris di via Veneto in cui l’ex sindaco, non indagato, avrebbe conosciuto il boss Giulio
Lampada. Per questa vicenda Alemanno è stato escusso come teste nel processo di
’ndrangheta contro i Valle e i Lampada per il quale l’ex consigliere regionale Franco
Morelli, suo capo corrente in Calabria, è stato condannato in appello a 4 anni.
Gli arresti di ieri di Rocco Rotolo e Sasà Ruggiero dimostrano che il business su cui
lucrare è sempre quello dell’accoglienza. Anche e soprattutto in Calabria. Che detiene il
poco onorevole primato di ben due Cpt (Crotone, il più grande d’Europa, e Lamezia), della
gigantesca tendopoli di San Ferdinando per gli stagionali della Piana, più una miriade di
centri d’accoglienza affidati a cooperative a dir poco ambigue (Falerna, Rogliano nel
Savuto, Cropani). E proprio su Cropani si è concentrata l’attività investigativa della procura
di Roma. «…Siccome stanno aumentando i pasti mi ha detto ‘facci entrare anche la
’ndrangheta’» diceva Massimo Carminati in un’intercettazione del 26 maggio parlando con
Paolo Di Ninno, commercialista di Salvatore Buzzi in carcere per associazione mafiosa,
e Claudio Bolla, stretto collaboratore del ras delle cooperative sociali.
Tra il «mondo di mezzo» di Carminati e Buzzi e i Mancuso c’erano «interessi comuni» da
mettere a profitto. I Mancuso, tramite i romani, riuscivano ad entrare nel lucroso affare
degli appalti delle pulizie dei mercati rionali della Capitale e in cambio accreditavano,
anche per intercessione dei Piromalli di Gioia Tauro, le cooperative di Buzzi al fine di ricollocare gli immigrati in esubero dal Cpt di Crotone. Il legame tra i due sodalizi nasce, dunque, da un do ut des: una richiesta di protezione per fare business in Calabria. Perché la
coop 29 giugno di Buzzi aveva l’appalto di gestione del Cara di Cropani, istituito dal Viminale per sopperire al sovraffollamento del vicino Cpt Sant’Anna di Crotone Lo stanziamento era di 1,3 milioni, per l’accoglienza di 240 immigrati.
Buzzi era di casa sullo Jonio crotonese. È lui stesso a spiegarlo in un’intercettazione del
luglio 2014: «Allora io te dico, quando stavo a Cropani scendevo er pomeriggio, salivo su
la mattina e ripartivo er pomeriggio… parlavo con il prefetto, parlavo con tutti, parlavo con
la ’ndrangheta.. parlavo con tutti. E poi risalivo su». Lo stesso Buzzi rammentava gli incontri con il clan: «Quando siamo andati giù… ci siamo messi a parlare, noi siamo .. in questo
periodo… bersagliati… sappiamo tutto ciò che è successo a Vibo… noi siamo bersagliati
dai giudici, dai cosi… però chiamiamo un ragazzo… che è pulito nella legge e quindi
nello… ok…. ci siamo dati appuntamento e ci ha presentato questo “gingillo” diciamo…».
Il gingillo è Giovanni Campennì, che così avrebbe curato gli investimenti romani della
potente cosca vibonese. Come l’appalto per la pulizia del mercato Esquilino, gestito attraverso la cooperativa Santo Stefano, e affidatogli con il diretto consenso di Carminati.
Anche la figura di Rotolo emerge in maniera eloquente dalle parole di Buzzi: «Quello è un
’ndrangheta… affiliato… se tu gli dici sei un mio soldato… lui il generale l’ha… il generale
non cè l’ha qui a Roma… se offende… non so se me capisci… se tu c’hai dei problemi
con questo… tu me chiami a me e ci parlo io… loro sanno come devono fa’, quali so’
i limiti, non si devono allarga’…però pure te devi sta attento a come ce parli!…».
Del 12/12/2014, pag. 3
Quei soldi per Alemanno “Alla sua
fondazione 265mila euro in tre anni”
Le nuove accuse dei pm: nei video le mazzette a Panzironi Buzzi: “Tutto
il consiglio comunale prende denaro”
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CARLO BONINI
MARIA ELENA VINCENZI
Il “ Tanca”, come Salvatore Buzzi chiamava Franco Panzironi, era un’idrovora. Un pozzo
senza fondo. Lui e la “ Fondazione Nuova Italia ” del sindaco Gianni Alemanno, di cui era
segretario generale. Capace di inghiottire un fiume di denaro. «Per l’aggiudicazione di
appalti, lo sblocco dei pagamenti di Eur spa e qualunque altro problema con la pubblica
amministrazione », annota il Ros dei carabinieri nell’informativa del 10 dicembre scorso
depositata ieri al Tribunale del Riesame. E a leggerne le pagine sembra quasi di sentire
l’affanno con cui, ad horas, negli uffici della Cooperativa 29 giugno si svuotava la
cassaforte di contanti da infilare in un borsello in similpelle che il corpulento ex ad di Ama
si cacciava nelle tasche (come documentano le foto pubblicate in queste pagine e su
Repubblica. it) di fronte a una palestra dell’Eur. L’” Haeven 4”. Il “Paradiso”, appunto.
“JE NE DOVEMO 40”
Vediamo, dunque. Il 13 febbraio 2013, Buzzi non si capacita. Dice a Carminati: «Hai capito
er Panza? Er Panza me dice: “Aho, me dovete da’ ancora 40 mila”. E alla segretaria,
Nadia Cerreto, chiede in affanno: «Quanto c’avemo ‘n cassa? Dieci, quindicimila? Vabbé,
damme 15». Il grano, naturalmente, va consegnato dove gradisce “il dottore”. Il “ Tanca”, o
“ Panza”, si intende. Il 2 maggio 2013, 15 mila «alla palestra vicino all’obelisco dell’Eur». E
non sono certo gli ultimi, perché dice Buzzi, «Quello è ‘na cambiale. L’ho messo a 15 al
mese.... Anzi, che cazzo sto’ a dì. Quindici a settimana ». L’8 maggio 2013, dunque, ci
risiamo. “ Er Panza”, ribussa a denari. Altri 15 mila. Negli uffici della Fondazione Nuova
Italia, stavolta. E il 16 maggio, otto giorni dopo, altri 15 mila all’Eur. Le cimici del Ros
catturano un Buzzi esausto che a Claudio Turella, allora responsabile della
programmazione e gestione del verde pubblico del Comune, dice: «Oggi è l’ultima
settimana e ho finito. M’ha prosciugato tutti i soldi, ‘sto Panzironi. E così posso ricomincià
a pensa’ a te. Che cioè, pe’ trova sti soldi o te compri un benzinaio o non li trovi, eh».
Oppure, aggiunge, «fai come Maruccio (Vincenzo, ex consigliere regionale Idv arrestato
per peculato nel novembre 2012, ndr) e Di Pietro. Perché che te pensi, Cla’, che quelli
giocavano alle slot machine? Quelli riciclavano i soldi. Però (per riciclare, ndr ) devi
conosce. E io non conosco un cazzo».
Epperò, con il “Tanca”, non si finisce mai. Il 28 maggio 2013 chiede altri 40 mila. E Buzzi,
visto il rischio che Alemanno perda le imminenti elezioni comunali, teme siano soldi buttati.
«Aho’, me ricordo che quando ci fu il cambio da Veltroni ad Alemanno, c’ho rimesso 100
mila euro». Ma Carminati non sente ragioni. Che li prenda. Buzzi di quei “40” parla come
un’ossessione in giugno e poi ancora il 29 gennaio di quest’anno: «Dovemo da’ 40 sacchi
a Panzironi». Senza contare che, il 24 aprile, lo stesso Buzzi si attrezza per consegnare a
“Tanca” anche un orologio attraverso il figlio dell’ex ad di Ama, Dario. Del resto, spiega
Buzzi, quello andava a percentuale. Il 2,5% del valore dell’appalto. Lo stesso che pretende
ora il consigliere regionale del Pd Eugenio Patané: 120 mila euro. («Davvero je dovemo
da’ tutti sti soldi a questo?»).
LA FONDAZIONE NUOVA ITALIA
Quando non sono per lui, i quattrini che reclama Panzironi finiscono alla Fondazione
Nuova Italia. Dai conti delle cooperative di Buzzi partono 19 bonifici tra il gennaio 2012 e il
settembre 2014, per un totale di 265 mila euro. Anche quando Alemanno non comanda
più. Ma la musica, evidentemente non cambia. Né per lui, né per i “nuovi”. Buzzi, il 6
ottobre scorso, si sfoga con un imprenditore (che il Ros non riesce a identificare). «O c’hai
lo sponsor o non entri». Il tipo — annotano i carabinieri — «chiede se potrebbe essere
d’aiuto il capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda». Buzzi lo liquida così: «No, non conta un
cazzo. Devi trovare sempre un consigliere comunale che lo paghi e ti porta. Tutto il
consiglio comunale piglia i soldi».
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Del 12/12/2014, pag. 6
Ecco il piano anticorruzione pene aumentate
del 50% e prescrizione più lunga
Il consiglio dei ministri approva oggi il disegno di legge del
Guardasigilli Orlando composto da sei articoli
LIANA MILELLA
Cinque pagine e altrettanti articoli. Era questo, fino a ieri sera, il testo del disegno di legge
anti-corruzione del governo. Una manovra anticrimine promessa ancora ieri da Renzi in un
tweet e che oggi sarà discussa dal consiglio dei ministri. Un ddl — che Repubblica anticipa
— che sicuramente potrà creare attriti tra Pd e Ncd perché la sua caratteristica principale
è duplice. Da un lato aumentano le pene per tutti i reati di corruzione, dall’altro aumenta
fortemente la prescrizione. Il patteggiamento è ammesso solo se si restituiscono i soldi e
viene ammesso il delitto. I beni del corrotto vengono confiscati. Chi invece collabora con la
giustizia, svela una corruzione, aiuta a sequestrare il “malloppo” si vedrà la pena
«diminuita da un terzo alla metà».
LA CORRUZIONE
Quello che non aveva fatto la legge anti-corruzione dell’ex Guardasigilli Paola Severino
può realizzarsi con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. L’aumento di pena per tutti i
reati di corruzione. Eccoli, come li elenca il disegno di legge. La corruzione per un atto
contrario ai doveri di ufficio, oggi punita da 4 a 8 anni, passa da 6 a 10 anni. Il 319-ter, la
famosa corruzione in atti giudiziari, quella di chi corrompe i giudici e delle toghe sporche
che si fanno corrompere. Se i fatti sono stati commessi per favorire o danneggiare una
parte in un processo, gli attuali 4-10 anni di pena passeranno da 6 a 12 anni. Se dalla
corruzione compiuta deriva l’ingiusta condanna la pena passa dagli attuali 5-12 anni ai
futuri 8-14 anni. Se dalla corruzione avvenuta deriva una condanna superiore a 5 anni
oppure all’ergastolo la pena che oggi va da 6 a 20 anni passa da un minimo di 10 a un
massimo di 20 anni.
LA CORRUZIONE PER INDUZIONE
È il famoso reato che ha fatto litigare i giuristi, lo sdoppiamento della concussione in due
reati, la concussione vera e propria e l’induzione. Il reato che ha diviso il processo di
Berlusconi su Ruby. Adesso le pene vengono rivoluzionate. Il 319-quater, la corruzione
per induzione, punita secondo la legge Severino con una pena da 3 a 8 anni, che ha fatto
molto discutere, viene portata da 6 a 10 anni, con un impatto sui futuri processi che è
facile immaginare.
LA CONCUSSIONE
Riscritto ovviamente anche il reato originario, la concussione, nel quale viene anche
reinserito, accanto al pubblico ufficiale, anche l’incaricato di pubblico servizio. Anziché da
6 a 12 anni, la concussione avrà una pena minima di 8 anni e una pena massima di 14
anni.
LA PRESCRIZIONE
Se n’è discusso molto ieri tra gli staff giuridici della Giustizia e di palazzo Chigi. Ma la
decisione sarà presa soltanto oggi in consiglio dei ministri. Per allungare la prescrizione di
tutti i reati di corruzione e portarla al doppio una soluzione proposta è quella di inserire
nell’articolo 161 del codice penale, che regola le sospensioni del processo, tutti i reati di
corruzione, laddove sono indicati anche i reati più gravi come la mafia e il terrorismo. A
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questa regola dovrà aggiungersi la norma già portata da Orlando nel consiglio del 29
agosto, e cioè quella di una prescrizione che si ferma dopo la sentenza di primo grado,
con una sorta di processo breve per l’appello, che potrà durare al massimo 2 anni, mentre
il rito in Cassazione non potrà superare un anno.
IL PATTEGGIAMENTO
Come avevano annunciato Renzi e Orlando ecco la stretta sul patteggiamento. L’articolo 4
del disegno di legge stabilisce che per tutti i reati di corruzione — 314, 317, 319, 319-ter,
319quater, 322-bis — «l’ammissibilità della richiesta è condizionata all’ammissione del
fatto da parte dell’imputato e alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato».
LA CONFISCA
Le regole in vigore per i reati gravi e gravissimi, anche in questo caso, vengono estese a
tutti i reati di corruzione. Saranno sequestrati e successivamente sequestrati, come oggi
avviene per i mafiosi, tutti i beni di cui il condannato non potrà dimostrare la provenienza.
Del 12/12/2014, pag. 8
Il racconto.
Tetto alle retribuzioni e anagrafe patrimoniale (visibile) dei dirigenti,
ricambio periodico obbligatorio degli incarichi
Così i soci vogliono riprendere il controllo delle loro aziende “Perché
dopo il caso romano ci scopriamo senza anticorpi”
Coop, il mea culpa “Ci siamo omologati è ora
di cambiare le nostre regole”
MICHELE SMARGIASSI
QUELLA piccola regola aurea, così semplice, così trascurata: «Scegliete come dirigenti i
migliori tra voi. Controllateli come fossero i peggiori ». La ripeteva in tutte le assemblee
Ivano Barberini, storico leader della Lega delle Cooperative scomparso sette anni fa.
Mercoledì scorso è risuonata più volte, come monito inascoltato, nel chiuso di una
dolorosa direzione nazionale di Legacoop. Col fango della “terra di mezzo” che cola giù da
quella che pareva una cooperativa-modello, la 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Con
l’angoscia del «ci risiamo», con le parole cooperativa e malaffare di nuovo nella stessa
riga dei titoli dei giornali, come vent’anni fa, e l’incubo di un neologismo, mala
cooperazione, che s’affaccia sui giornali.
«Imbarazzo? È un eufemismo. È stato come prendere cazzotti in faccia»: la bolognese
Rita Ghedini è rientrata nel mondo cooperativo da appena un mese, dopo sei anni in
Senato, appena in tempo per la bufera. Diluvia da tutti i punti cardinali, anche quelli amici.
Uno storico cooperatore come Luciano Sita, ex mister Granarolo, invoca la «rifondazione
etica». «Ci vuole il diserbante», va giù durissimo Stefano Bonaccini, neo-governatore Pd
dell’Emilia Romagna, madrepatria cooperativa. E martedì prossimo a Roma comincia il
39esimo congresso nazionale. Parlerà tra i primi don Luigi Ciotti. Di mafia e corruzione.
«Come fossero i peggiori». Be’, a volte lo sono davvero. «E scoprirlo fa molto male a chi
ha scelto la cooperazione per non avere padroni e non essere padrone di nessuno»:
Roberto Lippi presiede l’Open Group, cooperativa emergente di Bologna, 350 soci,
l’ambizione di tenere assieme il sociale e il culturale: «La vicenda romana è di una gravità
inaudita non solo perché c’erano dei malavitosi in cooperativa, ma perché nessuno se n’è
accorto».
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Bene, e i controllori che fanno? Tirano fuori la storia della mela marcia? Il numero uno di
Legacoop, Mauro Lusetti, scuote la testa, «ci starebbe. Il nostro mondo è sano, quella
cooperativa faceva solo 50 milioni di fatturato sui 4 miliardi delle cooperative del Lazio. Ma
non ce la possiamo cavare così. Abbiamo un problema di anticorpi». E già, ma i globuli
bianchi nel sangue rosso del sistema cooperativo, chi li deve fabbricare? I controllori, non
siete voi? «Certo che sì. Ma controllare cosa significa? Noi, Lega, vediamo i bilanci, i
numeri: e quelli erano a posto. Io non metto le cimici sotto i tavoli, non possiedo microfoni
bidirezionali, non intercetto telefonate... Certo, bisogna cambiare le regole di
accreditamento, trasparenza e sorveglianza. E lo faremo». Proposte: tetto alle retribuzioni
dei dirigenti (non più di cinque-sei volte lo stipendio più basso). Anagrafe patrimoniale dei
dirigenti visibile a tutti. Ricambio periodico obbligatorio degli incarichi: «non voglio più
sentir dire “la cooperativa di Caio”», basta dirigenti-padroni e presidenti-patriarchi in carica
per decenni. Un inviato della Lega in ogni assemblea. Di tutto questo si discuterà al
congresso. «Ma capiamoci bene», calca la voce Lusetti, «non basteranno mai le regole
dall’alto e i controlli a posteriori. La prevenzione funziona dove nasce il guasto. Nella
singola cooperativa. Nella coscienza dei singoli soci. Troppi occhi non hanno visto».
Secondo comandamento dei sacri principi di Rochdale, tavole della legge cooperativa,
1844, giusti giusti 170 anni fa: il controllo dal basso. Dov’è finito? «È troppo facile dire che
nessuno sapeva. L’odore di certe cose dentro un’azienda si sente»: Fabio Ferrario, a
Milano, presiede Clo, settore logistico, grossomodo le dimensioni della famigerata 29
Giugno, «abbiamo 1.300 soci e io li conosco di persona quasi tutti. Se vogliono sapere
come vivo, quanto guadagno, quali persone frequento, prego, la porta è aperta, è tutto a
disposizione. Se sgarro, qualcuno se ne accorge. C’è solo una strada contro il contagio:
restituire le cooperative ai soci».
Ma si può? E loro le vogliono indietro? Il mondo cooperativo è cambiato. Ci sono aziende
con migliaia di soci che non hanno mai messo piede in un’assemblea o visto un bilancio.
Come possono controllare ciò che non conoscono? Il gigantismo è un problema? «Ma da
quando è una colpa crescere, essere bravi sul mercato?», scatta Marco Pedroni,
presidente di CoopItalia, le Coop di consumo, «incazzatissimo per questa storia. Anche
perché voi nei titoli mettete “le coop”...». Coop che di soci ne hanno addirittura milioni.
«Era Berlusconi che ci voleva confinare nel piccolo è bello... che poi è bello per i privati a
cui facciamo concorrenza. La dimensione non è il problema. La 29 Giugno era un’azienda
media. Il problema è come li fai, i fatturati. Glielo dico chiaro: i “casi estremi” come quello
di Roma non nascono nel vuoto. C’è un contesto che li consente. S’è logorato qualche
caposaldo». Sì, e non da oggi. Davanti ai giudici di Mani pulite sfilarono cooperatori che
allargavano le braccia, “eh, per stare sul mercato bisogna accettare...”. «No, con questa
logica una cooperativa è finita. L’impresa cattiva scaccia sempre quella buona».
E poi, davvero i soci sono i controllori migliori? Il socio che portava in cooperativa la sua
etica di militante del partito o del sindacato non esiste più. In era post ideologica, il socio di
cooperativa è spesso un azionista muto, se non il titolare di una sorta di carta sconti. O
magari è il socio lavoratore che vuole continuare ad avere un salario, ma non vuole sapere
come i suoi capi glielo procurano. «I soci difficilmente sono corrotti, e difficilmente sono
ciechi. Spesso però danno fiducia a chi la tradisce», li difende Paola Menetti, che dirige il
settore sociale di Legacoop, oggi nella bufera, «per poi capire troppo tardi che il malaffare
porta tutti al disastro. Bisogna cambiare cultura. I soci devono tornare padroni delle loro
aziende, avere il coraggio di rinunciare a un appalto truccato, di denunciarlo, oppure non
ha senso chiamarci cooperative ». «Se ho accettato di fare il socio», insiste Ghedini,
«devo sapere che io per primo ho un pezzo di responsabilità. Il sistema cooperativo
semmai mi deve dare i mezzi per esercitarla».
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Come ogni lavacro etico, il mea culpa delle cooperative invoca il ritorno alle origini, allo
spirito dei tessitori di Rochdale. «La nostra omologazione al sistema dominante è andata
oltre il sopportabile», scrive alla sua rivista il cooperatore friulano Gian Luigi Bettoli. Se sia
troppo tardi per recuperare, lo dirà il futuro prossimo. Il passato prossimo intanto lascia il
segno. «Qualcosa si è affievolito, la distintività è nei nostri codici etici ma non sempre la
pratichiamo», è la morale di Lusetti, «per quanto ci sforziamo di filtrare, di denunciare le
false cooperative, a molti ormai la cooperazione appare solo come una formula fiscale. Ci
siamo omologati, è vero, e il problema va oltre questo caso orrendo».
del 12/12/14, pag. 10
Corruzione. Va in Gazzetta il regolamento voluto da Confindustria
Arriva il «rating di legalità», premiate le
imprese virtuose
Montante: per le aziende è un segnale straordinario
Dopo tre anni di discussioni e confronti da oggi diventa realtà il «rating
della legalità», una sorta di bollino blu per gli imprenditori virtuosi
ROMA
Ci sono voluti tre anni di discussioni, confronti e definizioni tra ministeri e istituzioni. Ma ora
ci siamo:?da oggi il rating di legalità delle imprese, un «bollino blu» di riconoscimento per
gli imprenditori virtuosi sul piano economico e della legge, diventa realtà. Raffaele
Cantone (Anticorruzione), Giovanni Pitruzzella (Antitrust)?e Antonello Montante
(Confindustria) sono i protagonisti del decollo finale di una novità considerata da
Confindustria «rivoluzionaria». Certo: è un riconoscimento dello?Stato alla capacità
imprenditoriale, al merito aziendale rispettoso della legge, al principio di premiare e
sostenere i più bravi, sotto ogni punto di vista, nell’economia. Innovazione tanto
riconosciuta come rivoluzionaria che Cantone ha deciso - è una novità assoluta - di
inserire il rating persino come punteggio aggiuntivo negli appalti pubblici. Ieri a Roma
Pitruzzella e Cantone hanno siglato un protocollo per collaborare fianco a fianco nella
vigilanza sugli appalti per la prevenzione di corruzione e collusione illegale. Ma proprio in
questa intesa un obiettivo strategico è «l’applicazione del regolamento attuativo in materia
di rating della legalità» anche per «promuovere un maggiore utilizzo» del bollino blu. Il
regolamento di attuazione andrà lunedì in Gazzetta ufficiale: è la declinazione operativa
delle modalità di accesso delle imprese al riconoscimento ufficiale con una, due o tre stelle
(il punteggio massimo). Con la speranza, non va trascurato, che a questo punto davanti a
un’innovazione senza precedenti in Italia il sistema bancario trovi una sensibilità adeguata,
maggiore di quella dimostrata finora.
Il testo che andrà in Gazzetta disciplina i requisiti per l’attribuzione del rating: oltre al
fatturato minimo di due milioni, la sede operativa in Italia e l’iscrizione nel registro delle
imprese da almeno due anni, sono elencati tutti i casi di esclusione (si veda la scheda a
fianco). Una lista molto lunga che prevede, tra le altre, misure di prevenzione personale e
patrimoniale, condanne penali, pratiche commerciali scorrette, violazioni degli obblighi
contributivi, assicurativi, retributivi e fiscali. Cause di esclusione sono anche il mancato
rispetto delle norme sulla tutela e la salute sul lavoro;?la revoca di finanziamenti
pubblici;?l’interdittiva antimafia o un provvedimento di commissariamento.
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Da notare, in chiave positiva, una norma originale:?il rating può essere attribuito persino a
un’azienda sequestrata o confiscata, se affidata a un amministratore giudiziario «per
finalità di continuazione e ripresa dell’attività produttiva». È la sfida nella sfida:?lo Stato
riconosce e premia la sua capacità - da dimostrare e garantire - di non lasciare a se stesse
le aziende prima in mano alla mafia, ma anzi sostenerle e rilanciarle.
Spiega Montante:?«Il segnale è di rilevanza assoluta. Le imprese che lo vorranno
potranno vedersi riconosciuto il loro agire virtuoso, nel rispetto delle regole, con una
premialità» - il concetto di fondo - «che costituisce un notevole vantaggio competitivo nelle
gare per gli appalti pubblici, rendendoli terreno di conquista più difficile per quanti operano
nell’illegalità».
Anche il rating, insomma, è un segnale preciso contro la «Mafia capitale»?emersa
nell’indagine condotta da Ros dell’Arma e guidata dal procuratore Giuseppe Pignatone.
Aggiunge il delegato alla legalità di Confindustria:?«Sono orgoglioso di essere stato il
promotore di questo strumento. La lotta alle organizzazioni mafiose e alla corruzione è una
priorità assoluta. La collaborazione proficua e la fiducia reciproca tra imprese, istituzioni,
forze dell’ordine e magistratura è la formula vincente. Una strada - ricorda Montante - che
Confindustria ha tracciato da tempo ed è impegnata a proseguire con determinazione».
Sostiene Giovanni Pitruzzella:?«Il rating è un’innovazione importante e va ricordato che la
proposta è partita da Antonello Montante. Il riconoscimento a Confindustria ha ora anche
una genesi operativa, visto che la Commissione consultiva per il rating prevede anche un
rappresentante del mondo imprenditoriale». Sottolinea Raffaele Cantone:?«Apprezzo
molto il lavoro di Confindustria, il rating ha una potenzialità straordinaria nella lotta alla
corruzione: se mettiamo in evidenza e sosteniamo le imprese “buone” possiamo persino
decidere, con più serenità, forme di semplificazione della legge sugli appalti». E anche
questo sarebbe rivoluzionario.
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CULTURA E SCUOLA
del 12/12/14, pag. 1/25
La scuola e il dilemma dei compiti a casa
Gli italiani studiano 9 ore alla settimana, il triplo di finlandesi e coreani.
Gli esperti divisi
di Gianna Fregonara
Nove ore ogni settimana il dilemma dei compiti a casa
Gli alunni italiani sono tra i primi al mondo. «È troppo». «No, serve»
Forse non tutti i genitori se ne sono accorti o ne hanno consapevolezza, specie dopo le
otto di sera quando sono chini sui libri di testo dei figli, ma in dieci anni i compiti sono
diminuiti. In media in Italia ogni settimana i quindicenni studiavano a casa 10 ore e mezza
alla settimana, due ore e sei minuti al giorno, sabato e domenica esclusi. Oggi le ore
dedicate ai compiti sono nove, in media. Il triplo di quelle dei ragazzi finlandesi, che
vantano un sistema scolastico di prim’ordine, e dei coreani che per i compiti non usano più
di tre ore alla settimana. Nove ore sono comunque troppe, si legge nella relazione che
accompagna i dati elaborati dall’Ocse-Pisa 2012 e presentati ieri dall’organismo di Parigi
che ha analizzato i dati di oltre cinquecentomila studenti in tutto il mondo.
Troppe, perché «i dati raccolti in questi anni evidenziano che dopo quattro ore di compiti
alla settimana, il tempo ulteriore investito nello studio ha un impatto trascurabile sui
risultati scolastici». Insomma, a sentire gli esperti, dati alla mano, i compiti andrebbero
dimezzati. Eppure sfogliando il rapporto si scopre che in Italia, a conforto di studenti e
genitori, i ragazzi che fanno più compiti a casa vanno meglio a scuola: hanno risultati
superiori di 15 punti nella scala Ocse.
Cioè i compiti alla fine servono. Non a sanare i buchi e le mancanze del sistema scolastico
— il nostro nonostante sia migliorato negli anni non è certo tra i più efficienti — né a
sostituire un insegnante poco preparato o una scuola mal organizzata. Spiega Francesca
Borgonovi, analista dell’Ocse-Pisa e consulente del Miur: «I dati di questa rilevazione
dimostrano che la qualità dell’offerta formativa, l’organizzazione del sistema scolastico e la
preparazione degli insegnanti sono molto più importanti della quantità di compiti che
vengono assegnati a casa nel determinare la preparazione accademica dei ragazzi».
Insomma, tanti compiti non fanno un buon sistema scolastico.
Ma l’abitudine di affidare ai compiti una parte della formazione dei ragazzi crea anche un
altro non secondario problema: nei compiti sono migliori i ragazzi dei licei e in generale
quelli che appartengono a famiglie «socioeconomicamente avvantaggiate», in altre parole,
affidare l’apprendimento ai compiti è discriminatorio e aumenta la disparità tra ricchi e
poveri, chi ha meno possibilità fa in media meno compiti e ha risultati peggiori.
La soluzione potrebbe essere abolirli? È vero che la tendenza a diminuirli è forte e proprio
all’inizio di quest’anno — dopo che l’ex ministro Maria Chiara Carrozza aveva invitato ad
andare nei musei o a leggere un libro nelle vacanze di Natale —, è rispuntata una
circolare ministeriale del 1969 (protocollo 4600) mai abolita che aveva per oggetto il
divieto di dare compiti nel week end, allora definito «il riposo festivo degli alunni». In
Francia Hollande aveva proposto di eliminarli, e ora sul tavolo del ministro Giannini c’è una
lettera aperta di un’insegnante che chiede per queste vacanze di abolirli, lasciando
riposare i ragazzi.
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Del 12/12/2014, pag. 11
Se il cambiamento è solo politica
Commento. La vicenda legata alla mostra del nuovo cinema di Pesaro dimostra
ancora una volta come l'intromissione del palazzo e delle istituzioni nella vita
culturale, provochi solo pasticci
Cristina Piccino
La vicenda della Mostra internazionale di Pesaro arriva «buon ultima», semmai ce ne
fosse stato bisogno, a dimostrare come l’intromissione della politica, e delle sue istituzioni
nella vita culturale crea sempre pasticci. Il caso del festival di Roma ne è la prova esemplare, dalla sua origine fino al milione di euro stanziato dal Ministero qualche giorno fa per
una manifestazione che in nove anni non è riuscita a trovare una sua fisionomia. E che
persino quando è stata affidata a un direttore come Marco Müller, che in materia di festival
è tra i migliori, ha finito per incagliarsi nelle beghe politiche capitoline, e di un centrosinistra
che invece di approfittare del professionista di livello (arrivato con la giunta
Alemanno/Polverini) lo ha messo con le spalle al muro imponendo una «linea» (?) obbligata al ribasso.
Eccoci dunque a Pesaro, cittadina balneare e benestante, vecchia meta del turismo tedesco soppiantato negli anni dai ricchi russi. Qui 50 anni fa Lino Miccichè, critico e storico del
cinema, fondava con un gruppo di teste molto diverse la Mostra internazionale del Nuovo
cinema, riferimento per nouvelle vague di immaginari ribelli, sessantottini dinamitardi (c’è
un magnifico speciale curato tra gli altri da Cristina Torelli per Rai Movie sulla storia del
festival attraverso gli archivi Rai), sperimentatori, registi, studenti, critici in feroce lotta tra
loro, visioni del cinema che erano visioni del mondo.
Nel tempo la Mostra ha cercato di tenere il passo, più spesso di anticipare il suo tempo, di
riposizionarsi con altri e diversi strabismi dell’occhio nel fine secolo scorso, e in questo
nuovo degli anni zeri in cui non solo il digitale ha modificato teste e sguardi cinefili, presenza nelle sale, circuito di distribuzione italiano e nel mondo. Ma un festival è un organismo complesso e delicato, e perciò la sua fabbricazione non si può improvvisare. Questo
dovrebbero capire i politici, invece il nuovo sindaco Matteo Ricci, appena insediato ha
cominciato ad agitarsi per decidere lui sul festival, essendone uno dei principali supporter
economici. Ma invece di cercare un confronto ha nominato di colpo direttore della Mostra
Luca Zingaretti, il quale con molta classe ha gentilmente declinato controproponendo di
portare nella cittadina il festival, tutto di doc che già faceva a Cortona, Hai visto mai?,
e che si chiamerà Pesaro doc fest. Film, scrittori, eventi «enogastronomici legati a Expo»
ai primi di luglio, ovvero dopo l’altro festival.
E la Mostra? A quel punto si doveva salvarla, e per farlo l’impressione è che si siano
accettati in blocco in desideri della politica — il silenzio sull’annuncio del sindaco della
direzione Zingaretti che la Mostra ha tenuto non inviando neppure un comunicato è piuttosto singolare. Al grido : «Giovani e rinnovamento» lanciato dal neosindaco (renziano)
è stato sacrificato il precedente direttore, Giovanni Spagnoletti, il comitato scientifico — tra
gli altri Piero Spila, Adriano Aprà, Vito Zagarrio — e nominato un nuovo direttore, Pedro
Armocida, quarantatrè anni, giornalista (Il Giornale, Film tv), già direttore organizzativo
della Mostra, mentre Torri che di anni ne ha 83 dovrebbe rimanere presidente. Il sindaco
raggiante ha detto che il futuro della Mostra saranno: «Giovani registi, giovani attori, nuove
proposte». Mah. Di per sé se fosse solo un cambio di direzione sarebbe del tutto normale,
ma qui si tratta di altro. I modi, prima di tutto, con la corsa della Mostra a accettare i voleri
della nuova amministrazione. Però: siamo sicuri che tutto questo rilancerà il festival?
O non è solo, e senza avere nulla contro Armocida, l’ennesimo atto di una politica inva31
dente, afflitta da una visione culturale di provincia (e vale per tutto il Paese) dove solo
l’evento mediatico conta, e il resto, progettazione e quant’altro non esiste. Inoltre: possono
davvero convivere due festival in una città piccola, o forse questo «passaggio di consegne» è solo il prologo a una fusione, quel modello che già Torino adottò, con risultati
alterni, del direttore star e di un gruppo di lavoro? Restano i dubbi sul rilancio a fronte di
una strategia che, almeno per ora, appare tutta decisa dalla politica. E questo, lo abbiamo
visto, produce sempre poco.
Del 12/12/2014, pag. 52
Può esistere una democrazia fondata sui “migliori”? Il ritorno del saggio del
sociologo Michael Young
La grande ingiustizia di una società
meritocratica
ROBERTO ESPOSITO
WHO defines Merit? – si chiedeva qualche mese fa Scott Jaschik, direttore di Inside
Higher Ed., in un dibattito sul tema con i leader dei maggiori istituti universitari statunitensi.
Una domanda, tutt’altro che nuova, ma sempre più relativa a complesse questioni etiche,
tecniche, finanziarie. Già posta, all’origine della nostra tradizione, da Platone a proposito
del “governo dei migliori”, essa è stata ripresa con accenti diversi da filosofi, economisti,
politici senza mai arrivare a una risposta conclusiva.
Se il merito è il diritto a una ricompensa sociale o materiale, in base a determinate qualità
e al proprio lavoro, quale arbitro neutrale può assegnarlo? Quanto, di esso, va attribuito al
talento naturale e quanto all’impegno? E come valutare il condizionamento sociale sia di
chi opera sia di chi giudica? Che rapporto passa, insomma, tra merito e uguaglianza e
dunque tra meritocrazia e democrazia?
Un risoluto antidoto agli entusiasmi crescenti che hanno fatto del concetto di meritocrazia
una sorta di mantra condiviso a destra e a sinistra, viene adesso dalla riedizione del
brillante libro del sociologo inglese Michael Young — già membro del partito laburista, e
promotore di rilevanti riforme sociali — dal titolo L’avvento della meritocrazia (sempre da
Comunità). Scritto nel 1958 nella forma della distopia, del genere di quelle, più note, di
Orwell e di Huxley, The Rise of the Meritocracy si presenta come un saggio sociologico
pubblicato nel 2033, quando, dopo una lunga lotta, la meritocrazia si è finalmente
insediata al potere nel Regno Unito. Debellato il nepotismo della vecchia società
preindustriale, ancora legata ai privilegi di nascita, e preparato da una serie di riforme della
scuola, nel nuovo regime si assegnano le cariche solo in base al merito ed alla
competenza. Tutto bene dunque? È il sogno, che tutti condividiamo, di una società giusta,
governata da una classe dirigente selezionata in base a criteri equanimi e trasparenti?
Bastano le pagine iniziali — che evocano disordini provocati da gruppi “Populisti”,
contrapposti al “Partito dei tecnici” — per manifestarci, insieme a sinistri richiami
all’attualità, la reale intenzione dell’autore. Che è ironicamente dissacratoria contro quella
ideologia meritocratica che egli finge di celebrare. Sorprende che alcuni lettori, come
Roger Abravanel, con- sigliere politico del ministero dell’Istruzione dell’ex governo
Berlusconi, siano potuti cadere nell’equivoco, prendendo nel suo Meritocrazia ( Garzanti,
2008) il fantatrattato di Young per un reale elogio della meritocrazia, appena velato da
qualche riserva. Del resto, per dissipare ogni dubbio circa il carattere radicalmente critico
della propria opera, sul Guardian del 19 giugno del 2001, l’autore accusò Tony Blair di
32
aver preso in positivo un paradigma, come quello di meritocrazia, carico di controeffetti
negativi. Quali? Essenzialmente quello di affidare la selezione della classe dirigente a ciò
che il filosofo John Rawls definisce “lotteria naturale”, vale a dire proprio a quelle
condizioni fortuite ereditate alla nascita — classe sociale, etnia, genere — che si
vorrebbero non prendere in considerazione. Certo, si sostiene, esse vanno integrate con
qualità soggettive, quali l’impegno e la cultura. Ma è evidente che queste non sono
indipendenti dalle prime, essendo relative al contesto sociale in cui maturano, come già
sosteneva Rousseau. E come Marx avrebbe ancora più nettamente ribadito,
commisurando i beni da attribuire a ciascuno, più che ai meriti, ai bisogni, per non
rischiare di premiare con un secondo vantaggio, di tipo sociale, chi già ne possiede uno di
tipo naturale.
Ma l’elemento ancora più apertamente distopico — tale da rendere la società meritocratica
da lui descritta uno scenario da incubo — del racconto di Young è il criterio di misurazione
del merito, consistente nella triste scienza del quoziente di intelligenza (Q. I.). Esso,
rilevato dapprima ogni cinque anni, quando si affinano i metodi previsionali di tipo genetico
diventa definibile ancora prima della nascita. In questo modo si potrà sapere subito a
quale tipo di lavoro destinare, da adulto, il prossimo nato. Se egli è adatto a un lavoro
intellettuale o manuale, così che si possano separare già nel percorso scolastico gli
“intelligenti” dagli “stupidi”, le “capre” dalle “pecore”, il “grano” dalla “pula”. Una volta
definito in maniera inequivocabilmente scientifica il merito degli individui, si eviterà il
risentimento degli svantaggiati. Essi non potranno più lamentarsi di essere trattati da
inferiori, perché di fatto lo sono. Registrato il Q. I. sulla scheda anagrafica di ognuno,
l’identità sociale sarà chiara una volta per tutte. Coloro che, a differenza dei più meritevoli,
passeranno la vita a svuotare bidoni o a sollevare pesi, alla fine si adatteranno al proprio
status e forse perfino ne godranno. A questa felice società meritocratica, in cui solo alla
fine sembrano accendersi bagliori di ribellione, si arriva gradatamente per passaggi
intermedi: prima costruendo una scuola iperselettiva, contro la «fede cieca nell’educabilità
della maggioranza»; poi subordinando il sapere di tipo umanistico a quello
tecnicoscientifico; infine sostituendo i più giovani agli anziani, meno pronti a imparare e
dunque retrocessi a funzioni sempre più umili. Il risultato complessivo è la sostituzione
dell’efficienza alla giustizia e la riduzione della democrazia ad un liberalismo autoritario
volto alla realizzazione dell’utile per i ceti più abbienti.
Il punto di vista affermativo di Young è riconoscibile nelle pagine finali, dove si riferisce a
un immaginario Manifesto di Chelsea, non lontano dal progetto di riforme da lui stesso
proposto, in cui si sostiene che l’intelligenza è una funzione complessa, non misurabile
con indici matematici né riducibile ad unica espressione. Il fine dell’istruzione, anziché
quello di emarginare gli «individui a lenta maturazione», dovrebbe essere quello di
promuovere la varietà delle attitudini secondo l’idea che ogni essere umano è dotato di un
talento diverso, ma non per questo meno degno di altri.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 12/12/2014, pag. 2
Fermi tutti, oggi sciopero generale
In piazza. Braccia incrociate e manifestazioni in tutte le città per
cambiare il «Jobs Act» e la legge di stabilità. Lo scontro tra Cgil, Uil,
Orsa e il ministro Lupi sui ferrovieri: alla fine vincono i sindacati, la
precettazione è revocata
Antonio Sciotto
Allo sciopero generale potranno partecipare anche i ferrovieri: il governo ha dovuto
cedere. È la conclusione di una giornata al fulmicotone, che ha visto Cgil, Uil e Orsa
opporsi alla decisione del ministro Maurizio Lupi di precettare gli addetti al trasporto. Il premier Matteo Renzi ha deciso di tenere un profilo più basso, non prendendo di petto —
come usa fare di solito — i sindacati, ma anzi offrendo loro una sorta di apertura. Quando
già si stava trattando al ministero per una possibile revoca (che poi infatti in serata è arrivata), il presidente del consiglio ha dichiarato che la fermata dei lavoratori è «legittima»,
e ha augurato loro un «in bocca al lupo». Segnali di fumo che non indicano certo una via
più facile per Cgil e Uil — la strada delle proteste resta più che in salita — ma che in qualche modo hanno ammorbidito una giornata che era nata all’insegna della massima tensione. I segretari Susanna Camusso e Carmelo Barbagallo, infatti, nel primo pomeriggio
erano usciti con una vera e propria dichiarazione di guerra: «La precettazione — hanno
detto — mette in discussione una delle massime espressioni della democrazia. È nostra
intenzione investire dell’accaduto le massime cariche dello Stato, perché siamo di fronte
a una inequivocabile lesione del diritto di sciopero sancito dalla Costituzione».
«Non era mai successo che nell’immediata vigilia di uno sciopero generale fosse assunta
una tale decisione, per di più contravvenendo alle norme e procedure previste in materia
dalla legge — hanno affermato sempre i due leader di Cgil e Uil — In precedenti analoghe
circostanze, la verifica dell’eventuale compressione del diritto alla mobilità veniva effettuata successivamente allo svolgimento della manifestazione: una compressione che, in
questo caso, siamo certi non si verificherà affatto». La stessa Camusso, aveva definito
qualche ora prima «gravissima» la precettazione, «un intervento a gamba tesa».
«C’è profondo rispetto per i sindacati — ha detto Renzi qualche ora prima che arrivasse la
revoca, appunto quando era già aperto il tavolo al ministero — Non la pensiamo come
loro, cambieremo paese anche per loro ma garantiamo la massima collaborazione istituzionale e mi auguro che si risolvano in poche ore le polemiche tra Lupi e Camusso».
«Lo sciopero generale è un momento di alta protesta», ha continuato il presidente del consiglio. «Noi abbiamo profondo rispetto anche se io non sono d’accordo con le ragioni.
Buon lavoro a chi lavora e in bocca al lupo a chi sciopera, con rispetto e senza polemiche», ha quindi concluso. Lupi ha quindi deciso, dopo la trattativa, di revocare l’ordinanza
di precettazione, ottenendo che lo sciopero fosse rimodulato da 8 a 7 ore, così da arrecare
un danno minore ai viaggiatori. «Di fronte alla segnalazione dell’Autorità garante degli
scioperi che richiamava “il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti
della persona costituzionalmente tutelati” — ha spiegato il ministro — ho voluto difendere il
diritto alla mobilità dei cittadini». «Nello stesso tempo — prosegue — ritenendo che vada
garantito il diritto allo sciopero, anche di fronte a uno sciopero che non condivido, sin da
subito ho ritenuto di dover dialogare con i sindacati coinvolti per contemperare entrambi
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i diritti. La ragionevolezza dimostrata dai sindacati, (Cgil, Uil, Ugl e Orsa da una parte
e CAT dall’altra) che hanno ridotto il tempo sia dello sciopero (che finisce alle 16 invece
che alle 17 con un grande vantaggio per i pendolari) sia di quello di sabato e domenica
(che salva la fascia serale di sabato iniziando alle 24 invece che alle 21), e la rassicurazione di Trenitalia sulla possibilità di ridurre così i disagi per i cittadini ho deciso revocare il
provvedimento di precettazione». «Avevamo ragione noi. Il governo ha dovuto fare marcia
indietro e revocare la precettazione — hanno commentato soddisfatti Camusso e Barbagalo — Non c’erano le condizioni di legge per inibire il diritto di sciopero».
Dal fronte sindacale, i segretari di categoria hanno invitato i lavoratori alla partecipazione:
da Walter Schiavella (Fillea Cgil) a Stefania Crogi (Flai Cgil), fino a Paolo Pirani (Uiltec Uil). Sonora bocciatura, invece, dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «In un
mondo che viaggia alla velocità della luce — ha detto — andare con sistemi non voglio
dire vecchi ma tradizionali come uno sciopero generale mi lascia qualche dubbio». Squinzi
ha comunque ricordato che lo sciopero «è un diritto» ma in un momento di difficoltà
«abbiamo bisogno di più coesione per ritrovare lo sviluppo».
Un’adesione alla protesta è venuta dalle associazioni Lgbti: «Assieme ai lavoratori e alla
lavoratrici esprimiamo dissenso e preoccupazione per la deriva dispotica e per i veri e propri arretramenti che la politica del governo Renzi sta mettendo in campo, attraverso il Jobs
Act e la legge di stabilità, ma anche nelle numerose inottemperanze e negli impegni mai
rispettati», dicono Arcigay, Arcilesbica, Famiglie Arcobaleno e Mit.
Del 12/12/2014, pag. 3
Tu che sei partita Iva scioperi?
Roberto Ciccarelli
E tu che sei partita Iva oggi scioperi? Per chi è un lavoratore autonomo, vive nella zona
grigia tra la micro-impresa e le cooperative, o alterna periodi di lavoro ad altri di non
lavoro, la domanda non si pone. Nel lavoro autonomo, e nella precarietà, questo è un
diritto sconosciuto. Si aderisce per motivi ideali, forse, ma per chi lo fa questo significa
lavorare il doppio domani. I motivi per protestare tuttavia ci sono.
La campagna «non siamo i bancomat dello stato», promossa da Acta, Alta partecipazione
e Confassociazioni contro l’aumento al 29,72% delle aliquote previdenziali della gestione
separata dell’Inps (arriverà al 33,72% nel 2019) ha spopolato in rete.
Ha unito una fascia rappresentativa di cowokers da Milano a Palermo, mentre un «tweetstorm» ha fatto balzare l’hashtag #siamorotti al primo posto nel twitter politico italiano. Il
governo Renzi, quello 2.0 attento a start up e nuove tecnologie, ha preparato un trappolone per freelance e lavoratori della conoscenza: in cottura nella legge di stabilità non c’è
solo l’aumento dell’Inps, eredità della pessima riforma Fornero, ma anche quella dei regimi
dei minimi che triplicherà le tasse per le partite Iva under 35.
Per Salvo Barrano, presidente dell’associazione nazionale archeologi (Ana), una delle
realtà più evolute nel panorama del quinto stato, «tutti hanno il dovere di aderire allo sciopero, anche se non possono farlo nella maniera tradizionale di un lavoratore subordinato.
Significa dare un segnale dalla parte delle persone, più che da quella dei lavoratori, visto
che i sindacati intendono solo quelli dipendenti. In più la Cgil ha finalmente recepito alcune
nostre istanze, i congedi parentali e indennità di malattia anche per gli autonomi, oltre al
blocco dell’Inps che anche quest’anno rischia di cadere come un macigno sotto l’albero di
natale». «Sciopero per gli autonomi resta una parola buffa – sostiene Barbara Imbergamo,
35
ricercatrice freelance a Firenze e socia di Acta – È la cosa più difficile di tutte da organizzare tra noi. Le persone sono disabituate a pensare che difendere i propri diritti sia una
cosa “cool”. Sciopero per le partite Iva è da sfigati e non si fa. Se vedo però che nel Jobs
Act non c’è nulla per noi e, anzi, si pensa di peggiorare l’esistenza penso che bisogna lanciare il cuore oltre l’ostacolo e trovare nuove forme di mobilitazione oltre le nostre condizioni professionali specifiche». Tra autonomi e Corso Italia i rapporti non sono stati sempre
dei migliori. «Serve un cambiamento culturale profondo — aggiunge Imbergamo — Loro ci
vorrebbero tutti lavoratori dipendenti. Io ho dieci committenti in un anno come farei a farmi
assumere da tutti?» Tuttavia qualcosa sta cambiando nel sindacato: «La Cgil ha espresso
posizioni più chiare del solito. Ha anche accettato l’estensione del Welfare nella campagna
“X tutti”». Quanto al problema dei problemi — come fa a scioperare chi non può scioperare
— la freelance fiorentina sostiene: «Personalmente mi interessano le modalità dello sciopero sociale del 14 novembre. L’obiettivo dovrebbe essere il reddito minimo per tutti e un
welfare inclusivo sulla base del reddito e non del contratto». Al centro di questo lavoro,
che spinge alcuni a parlare di un «modello toscano», c’è la Consulta nazionale delle professioni Cgil che da anni cerca di favorire i rapporti con mondi un tempo sconosciuti per il
sindacato del lavoro dipendente e dei pensionati. A Firenze ha creato un dialogo con le
associazioni delle partite Iva. Uno dei partecipanti è Leonardo Croatto, funzionario FlcCgil. Di sé racconta il lungo periodo in cui ha lavorato da freelance: «Ho attraversato le trasformazioni del lavoro, soprattutto cognitivo, oggi la metà di miei amici sono autonomi –
afferma – Negli ultimi mesi sto osservando una trasformazione nella Cgil su questi temi. Il
sindacato sbaglia quando si butta su un tema senza i dovuti passaggi con i lavoratori.
Quando invece c’è la partecipazione si può arrivare ad una rivendicazione comune al di là
delle forme contrattuali». Come si costruisce una solidarietà tra chi non ha il sindacato
e chi ce l’ha? «Una Rsu non può essere solo di quella che l’hanno eletta, ma dev’essere il
punto di riferimento per chiunque sta dentro un’azienda in qualsiasi modo e con qualsiasi
forma contrattuale – risponde Croatto — Vale per gli appalti, per gli interinali, non solo per
i precari in senso stretto. Se si vuole costruire un fronte ampio, i deboli devono essere
tutelati con maggiore forza rispetto agli altri. Altrimenti si gioca ai dieci piccoli indiani».
Del 12/12/2014, pag. 11
La sinistra dem si divide Civati e Fassina in
piazza ma Damiano non ci sta
Bersani anche questa volta non parteciperà: “A ciascuno il suo mestiere” I renziani
avvertono: sacrosanto scioperare, ma non bloccare il Paese
GIOVANNA CASADIO
Cesare Damiano, il presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, che il 25 ottobre
era sceso in piazza con la Cgil e la Fiom, oggi non ci sarà. «Ho lavorato al compromesso
sul Jobs Act, il sindacato lo critica, devo essere coerente», spiega. Ma la dice lunga su
quello che sta accadendo in casa dem. La sinistra del partito si è spaccata. Lo scontro con
Renzi si è inasprito, ma riguarda solo una parte della minoranza del Pd.
Chi sarà oggi nelle piazze dello sciopero generale è in polemica aperta con il premier e le
politiche economiche del governo. Uno scontro “senza se e senza ma”. Stefano Fassina
ritiene sia il segnale di ulteriore chiarimento e attacca il ministro Maurizio Lupi per la
precettazione dei ferrovieri: «È una forzatura, ci ripensi. È un vulnus che rende il clima più
pesante». Lupi infatti ci ripensa e la ritira. Per Fassina - ex vice ministro dell’Economia che
36
si dimise dopo l’ironia di Renzi su “Fassina, chi?” - non si può non stare con il sindacato:
«Quanti di noi non hanno condiviso la legge delega sul lavoro continuano la battaglia
insieme con i lavoratori e i sindacati». Contro l’articolo 18 abolito - eccetto che per
discriminazione e indisciplina - sulla barricate restano quindi in pochi nel Pd. In prima linea
ci sono Pippo Civati e la sua corrente. Civati con la senatrice Lucrezia Ricchiuti sarà alla
manifestazione di Milano. «C’è molto spaesamento tra i lavoratori e tra chi manifesta.
Credo che occorra soprattutto andare per ascoltare, per capire come stanno davvero le
cose, dal momento che i politici tra l’altro non scioperano...». Attacca alzo zero la mossa di
Lupi sulla precettazione e, insieme, il premier: «Mi sembra che il ministro non avrebbe
contribuito a un clima diverso, si cerca la contrapposizione e in questo Lupi è molto
renziano...». È la frecciata a proposito dello scontro in atto tra Renzi e la sinistra dem.
Non sarà in piazza Roberto Speranza, il leader della corrente “Area riformista” e
capogruppo alla Camera, che a ottobre andò a salutare i compagni lavoratori della Cgil in
partenza con i pullman dalla Basilicata. Del resto è impegnato a Montecitorio in
commissione Affari costituzionali sulle riforme. Però Gianni Cuperlo, leader di Sinistra
dem, anche lui in commissione affari costituzionali, dice: «Un saluto vado sicuramente a
darlo». Niente manifestazioni per Pierluigi Bersani. L’ex segretario del Pd non partecipò
neppure il 25 ottobre, e mantiene la linea: «A ciascuno il suo mestiere, il sindacato fa la
sua parte ». I “filo governo” sperano che lo sciopero generale non abbia successo. La
minoranza dem in piazza tifa per una buona riuscita. Barbara Pollastrini annuncia che sarà
alla manifestazione di Roma e chiede che il governo ci ripensi sul Jobs Act: «E’ un dovere
per il governo riaprire il confronto e ascoltare quelle piazze. Anche la metastasi criminale e
morale non si sconfiggerà senza quel popolo che reclama dignità, diritti, legalità. Ho
grande solidarietà per lavoratori, donne e precari, domani in sciopero generale. Sono
convinta che l'adesione sarà massiccia».
Per i renziani della prima ora come il senatore Andrea Marcucci lo sciopero non deve
bloccare l’Italia: «È sacro il diritto alla sciopero così come è sacro il diritto a non rimanere a
piedi per tre giorni - commenta - Le manifestazioni contro il governo Renzi non possono
avere anche l’obiettivo di bloccare la maggioranza degli italiani che non scenderà in
piazza». In piazza ci sarà Sel e il suo leader Nichi Vendola: «Ci sarò perché quella è una
pizza pulita, se c’è lo sciopero generale vuol dire che c’è un’Italia che non è rassegnata».
Del 12/12/2014, pag. III Sbilanciamoci
Sindacati-governi, il conflitto è globale
Welfare. Dall’India alla Spagna, al Belgio le organizzazioni dei lavoratori
chiamano alla lotta contro i tagli neoliberisti ai diritti dei lavoratori
Stefano Maruca
voto popolare ha dato al partito del primo ministro una ampia maggioranza ma fin
dall’inizio il nuovo governo si è mosso principalmente per aiutare i datori di lavori a fare
quello che vogliono nelle loro imprese», «le misure del governo, che escludono dalle tutele
un gran numero di lavoratori, peggioreranno il livello di vita della gente comune, aumenteranno la disuguaglianza e l’insicurezza, i più ricchi saranno avvantaggiati mentre per i più
poveri sarà sempre più difficile arrivare a fine mese. Chiediamo al primo ministro di ritirare
queste ingiuste e dannose riforme e aprire un autentico dialogo con il movimento sindacale indiano». Anche se alcuni avranno pensato a dichiarazioni di sindacalisti italiani,
stiamo invece parlando dell’India dove il 5 dicembre scorso milioni di lavoratori hanno partecipato allo sciopero generale indetto dal «Joint Action Committee» , una coalizione che
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riunisce tutte le centrali sindacali del paese, da quelle di sinistra a quelle di destra. Grandi
manifestazioni si sono svolte a Delhi, Mumbai, Kolkata, Chennai, e nelle altre principali
città della «più grande e popolosa democrazia del mondo».
Secondo i sindacati promotori, i lavoratori indiani hanno dato prova di di una forte unità di
classe, dimostrandosi pronti a sfidare il modello economico neo-liberista del governo Modi,
il cosiddetto Modinomics, da lui sperimentato come governatore del Gujarat, che prevede
una dose massiccia di privatizzazioni e di deregolamentazione, più precarietà e meno protezione. I sindacati hanno presentato al governo una piattaforma in 10 punti fra cui: difesa
della attuale legislazione sul lavoro, un salario minimo nazionale equivalente a 160 dollari
al mese; copertura pensionistica e di sicurezza sociale per tutti i lavoratori; creazione
diretta di occupazione e controllo dei prezzi.
Il 29 novembre in 52 città della Spagna complessivamente un milione di persone sono
scese in piazza nella giornata di «mobilitazione per la Dignità e i Diritti» che ha chiuso la
settimana di lotta convocata dalla «Cumbre Social», una piattaforma composta da oltre
centocinquanta associazioni e movimenti della società civile, collettivi, organizzazioni
sociali e sindacali fra cui le tre principali confederazioni spagnole CC.OO. UGT e USO.
Al centro della protesta il cambio delle politiche economiche e della riforma del lavoro del
Governo Rajoy, imposte dalla troika alla Spagna come condizione per l’erogazione dei
cosiddetti aiuti europei. Fra le principali rivendicazioni della mobilitazione: nuove politiche
per l’occupazione e per la casa, reddito minimo, salari dignitosi, protezioni sociali per la
disoccupazione, rilancio degli investimenti e dei servizi pubblici, difesa delle libertà sindacali e la cancellazione della «legge di Sicurezza Civica» che si è rivelata uno strumento di
criminalizzazione delle lotte sociali e sindacali, mettendo sotto processo penale o amministrativo centinaia di sindacalisti e attivisti sociali.
Vale ricordare che le riforme economiche e del lavoro del governo di destra spagnolo sono
state le più drastiche dopo quelle adottate in Grecia. Il 60 percento dei giovani spagnoli
è oggi disoccupato, milioni di persone sono in condizioni di povertà o di esclusione sociale,
e i salari, in particolare per i lavoratori precari, si sono ridotti fino al 20% percento rispetto
al livello del 2008. Lunedì 15 dicembre ci sarà anche in Belgio uno sciopero generale, proclamato dalle tre Centrali sindacali belghe (la socialista FGTB/ABVV, la cristiana
ACVCSC/ACLVB la liberale ABVV/CGSLB). I sindacati belgi avevano già manifestato il
6 novembre scorso a Bruxelles dove erano scese in piazza oltre centomila persone,
e dove c’erano stati anche scontri con alcuni gruppi di manifestanti.
L’ultimo sciopero generale in Belgio risale però a quasi tre anni fa nel gennaio 2012,
quando l’obiettivo erano i tagli al bilancio del governo socialista Di Rupo. Anche in questo
caso l’obiettivo della mobilitazione sono le misure prese dal nuovo governo, in questo caso
di centro-destra, in applicazione della consueta ricetta neo liberista fatta di tagli alla spesa
sociale, riduzione di salari e pensioni, attacco ai diritti sindacali e del lavoro. Una ricetta
che ossessivamente viene riproposta uguale ovunque a dispetto del suo evidente fallimento nel dare risposta alla recessione economica in cui si trova ormai tutta l’Europa.
Le misure più contestate sono: l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni; l’abolizione
del meccanismo di adeguamento dei salari all’inflazione; il blocco di due anni dei salari;
l’aumento della pressione fiscale sui lavoratori, i tagli ai servizi pubblici e alla spesa sociale
e le privatizzazioni. Ed è proprio il rifiuto della logica dei tagli alla spesa sociale, percepita
come insopportabile e ingiusta, una delle motivazioni più forti di questa mobilitazione: «La
gente ormai nasce con i tagli e muore con i tagli — dice il Segretario del sindacato socialista ABVV/FGTB Ruidi De Leeuw — il nostro dovere morale è organizzare la resistenza.
Non c’è alternativa». C’è una impressionante omogeneità in Europa nelle politiche con cui
le istituzioni finanziarie e le classi dirigenti responsabili della crisi finanziaria globale ne
scaricano il costo sui lavoratori e sui bilanci pubblici.
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E poiché è difficile convincere lavoratori, giovani e pensionati che devono essere loro
a pagare il costo della crisi, allora occorre inibire loro la capacità di reazione e di resistenza: indebolire il sindacato e limitare il diritto di sciopero diventano così un aspetto
essenziale delle politiche neoliberiste, di attacco ai salari e alla spesa sociale. Nel resto
del mondo pare che lo abbiano capito anche tutti i sindacati, e in Italia ?
* Responsabile Ufficio Internazionale Fiom-Cgil
del 12/12/14, pag. 12
Le banche non vogliono i prestiti Bce
NELLE PRIME DUE ASTE CHIESTI 212 MILIARDI SU 400: COSÌ DRAGHI
È SPINTO ALL’ACQUISTO DI TITOLI DI STATO
Per restare in una ormai frusta metafora economica, il cavallo beve moderatamente. Ci si
riferisce all’esito della seconda asta di Tltro, il programma quadriennale creato dalla Bce
per indirizzare nuovi finanziamenti all’economia reale: oltre 300 banche della zona euro,
infatti, hanno chiesto alla Banca guidata da Mario Draghi circa 129,8 miliardi di euro, più o
meno secondo le previsioni fatte dal’agenzia Reuters . Nel complesso, nelle due aste, gli
istituti di credito hanno ottenuto dalla Bce 212 miliardi, cioè la metà dei 400 miliardi che
Francoforte aveva messo a disposizione dell’economia reale (mancano ancora sei aste
trimestrali, ma il risultato atteso è assai inferiore a questi). Tradotto: sono molti soldi, ma
non c’è stata certo la corsa ad accaparrarsi i dobloni di Mario Draghi come fu per i mille
miliardi dell’Ltro, che le banche - com’è stato certificato - investirono principalmente in titoli
di stato.
LE RAGIONI di questa risposta solo parziale delle banche sono molteplici: da un lato,
ovviamente, le imprese chiedono crediti per investire se hanno una ragionevole speranza
di vendere i loro prodotti, non per il piacere di farlo. Altra piccola differenza col passato: i
tassi di deposito presso la Bce stavolta sono negativi per lo 0,2% (cioè le banche, per
parcheggiare i soldi a Francoforte, devono pagare). Un fatto che rende poco conveniente
chiedere miliardi in prestito se non si è sicuri di poterli usare subito in maniera proficua.
Questa riluttanza del mondo finanziario a usare i fondi che la Bce mette a disposizione
potrebbe finire per spingere Draghi e il board verso un Quantitative easing sul modello di
quello della Fed americana o della Banca del Giappone, vale a dire anche attraverso
l’acquisto di titoli di stato. già a gennaio 2015: l’in - flazione nell’eurozona, d’altronde,
rimane più vicina allo zero che all’obiettivo del 2%. Insomma, solo con un “Qe” tradizionale
- visto che i prestiti all’economia reale intermediati dalla finanza non sembrano ottenere
risultati di rilievo - la Banca centrale europea potrà centrare l’obiettivo indicato da Mario
Draghi di tornare al bilancio di inizio 2012, che è all’in - grosso un miliardo più corposo di
quello attuale. I risultati del programma Tltro per l’Italia confermano la debolezza della
situazione nel nostro paese: nella seconda asta, le banche italiane hanno chiesto alla Bce
circa 26 miliardi e il clima non è di quelli allegri. Unicredit, per dire, in questa secondo
round ha partecipato per 2,2 miliardi di euro (dopo i 7,7 miliardi della prima asta), ma
“principal - mente per l’Austria”, ha chiarito l’ad Federico Ghizzoni, secondo cui “la
domanda di credito non è ancora quella che dovrebbe essere e questo potrebbe
rappresentare un messaggio alla Bce”. Anche il presidente di Confindustria Giorgio
Squinzi sembra scettico sull’operazione: “Il problema è vedere se le imprese hanno
veramente bisogno di liquidità per gli investimenti: grandi percentuali della capacità
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produttiva sono inutilizzate”. Le aspettative, peraltro, non vengono certo migliorate dal fatto
che Draghi e la Bce, nel tentativo di convincere i nordeuropei a una politica monetaria
espansiva, continuano a predicarne una fiscale regressiva: ancora ieri, per dire,
Francoforte è tornata a chiedere ai paesi membri di “assicurare il pieno rispetto dei
requisiti del Patto di stabilità e della regola del debito per non mettere a repentaglio la
sostenibilità delle finanze pubbliche e preservare la fiducia dei mercati”. Non solo: “È
fondamentale che le riforme strutturali siano credibili ed efficaci per incoraggiare gli
investimenti ed anticipare la ripresa”. Capito Italia e Francia?
Ma. Pa.
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