E non capisci gli incubi dei pesci rossi

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E non capisci gli incubi dei pesci rossi
Categoria: GIOVANI
Traccia: 1
“E non capisci gli incubi dei pesci rossi”
In una boccia d’ acqua non troppo cristallina, due pesci rossi si scrutano a distanza. La loro
memoria può durare, in media, dai due ai tre secondi. Poi si azzera. E tutto il mondo intorno è un
nuovo mondo. I pesci rossi vivono l’immediato e basta, e non hanno facoltà di cambiare le cose, né
avrebbero tempo di agire prima di dimenticarsene. Eppure forse sognano. Perché il sogno è il
momento in cui non esiste più per loro quel tempo presente in cui galleggiano inesorabilmente, che
è un dono perché è vita, ma che è una prigione perché ha la consistenza del nulla.
L’aveva aspettata fuori dall’aula, nel corridoio ventilato. Nonostante anche lui avesse l’esame in
quei giorni, nonostante il caldo torrido già alle otto del mattino, lui aveva preso la vecchia
graziella azzurra e aveva attraversato la città per arrivare da lei. Lei che non voleva che nessuno
entrasse. Lei che si era chiusa la porta alle spalle accorgendosi di avere meno timore in
quell’istante appena precedente all’esame piuttosto che durante la notte, passata ad
intermittenza tra un sonno leggero e gli occhi sbarrati per guardare l’ora, o la bocca secca che
cercava l’acqua. Eppure aveva un volto fresco, sorridente, e trepidazione in tutto il corpo che
pareva vibrare, l’adrenalina di chi sa di avere potenzialità notevoli ma tiene il profilo e le
ambizioni sempre basse, come se alzare l’asticella fosse un reato, come per provare sempre
stupore però nel vedersi capace di superarla. Poi era uscita dall’aula. In mano aveva qualche
libro, in testa una melodia, sul viso un sorriso stava sbocciando spontaneo. Aveva chiuso gli
occhi. Aveva respirato profondamente, come se quello fosse il suo primo respiro, dopo aver
scalciato là dentro contro tutto, sempre più forte per poi uscire, nascere. Sapeva perfettamente
che non si trattava di un capolinea, ma di una partenza, del tutto nuova, che avrebbe preso vita
man mano, da quel respiro in poi. E aveva pianto, come è normale che sia, ma non tra le braccia
della mamma, tra le braccia del mondo, senza il bisogno che qualcuno la fermasse o la mettesse
a tacere. Aveva pianto perché una parte di lei che si era lasciata alle spalle rivendicava ancora
un posto in quel corpo dalla camminata e dallo sguardo più sicuro. Si ricordava del giorno in cui
era entrata per la prima volta in quella scuola, e
semplicemente ‘non era’, mentre ora ne
sarebbe uscita donna nonostante quella scuola l’avesse anche odiata, ma ne usciva donna
proprio perché forse aveva capito che anche l’odio serve, a volte, a ‘diventare’. Lui invece non
capiva tutto questo, ma è difficile dire che in quel momento capisse qualcosa, immobile a
guardarla senza fiato. L’aveva incontrata per la prima volta due anni prima, mentre leggeva
Dylan Dog sulla sua panchina preferita nel parco, quella da cui si vedevano il campo da calcio, la
circonvallazione e quando faceva buio, in lontananza, le luci della centrale elettrica che non
dormiva mai. L’aveva incontrata perché quel giorno nevicava, e quando nevica le strade sono un
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set cinematografico. La città è un’estranea, si anima della gente che spalanca le porte per
scendere tra le vie, per verificare che non fosse parte di un sogno quella luce anomala del
risveglio, per poter respirare la novità, la magia che prende forma da nuvole bianche sporche e
precipita giù senza regole. Si erano incontrati per caso. Poi si erano parlati, si erano capiti, trovati
simili nelle loro insicurezze. Lui aveva una carriera scolastica tutt’altro che invidiabile. Lei
brillante. Lei aveva sofferto tanto per la separazione dei genitori, aveva finito per confondere
l’amore con l’inquietudine, per chiudersi nelle sue incertezze ed aprirsi tra braccia sempre
diverse, sempre nuove. Lui aveva genitori responsabili, catechisti in parrocchia, serenità familiare
e squilibrio fuori, nella compagnia di amici sempre fuori dagli schemi, sempre così pronti a tutto.
Poi si erano un po’ persi, pur rimanendo identici a loro stessi, e il tempo era passato
dimenticandosi di loro. Fino al giorno in cui il destino li aveva condotti con le sue dita sottili alla
stessa festa, come due adolescenti qualunque, ma unici nel notarsi, in mezzo al trambusto, l’uno
con l’altro, nello scoprirsi a chiacchierare piacevolmente lontano dal sub buffer e dai discorsi
inutili degli altri, nel narrarsi il tempo passato con stupore, e ascoltare poi il silenzio insieme
quando non avevano più niente da dirsi. Non successe niente, dopo. Non finirono abbracciati con
la schiena appoggiata ad un muro e le labbra a cercarsi senza vergogna, o a salire per mano le
scale fino ad una stanza buia e solitaria. Finì che lei si alzò e tornò dentro, e lui seduto fuori nel
prato continuava a guardare l’orizzonte come se fosse un grande schermo, e si davano le spalle.
Ma entrambi sapevano che stavano sorridendo, e tanto bastava per sentirsi, come dopo il
risveglio da un coma, incredibilmente vivi. Lei perché aveva bisogno, in quel momento tragico
della sua esistenza troppo vuota, di uno come lui, che la sapesse semplicemente ascoltare. Lui
perché aveva sempre fatto parte di quella categoria di anime surreali, astruse dal mondo dei
sentimenti voraci ed immediati. Nelle sue poche convinzioni, aveva sempre creduto d’essere
diverso da tutti i suoi conoscenti. Sosteneva, infatti, che c’è chi ama in silenzio. Chi arriva in
punta di piedi, chi non sconvolge, rivoluzionandolo, il mondo interiore dell’altro come in
un’esplosione, ma lo cambia lentamente, in modo quasi impercettibile, come un fiore che nasce
senza fare rumore. C’è chi tratta l’amore con estrema cura, con delicatezza, con meraviglia. Ama
nel modo più semplice, in nuvole leggere di gesti appropriati, calmi, giusti, e non solo ama, ma
mentre ama sa aspettare. E così aspettò. E l’attesa non poteva in alcun modo pesargli. Ogni
volta che uscivano, che si trovavano, che passavano del tempo insieme, scoprivano poi, sulla
strada del ritorno, di essere felici. E dopo si scrivevano, si continuavano a cercare a distanza. E
lei lo trovava spesso nelle poesie degli autori francesi, di cui subito ricopiava versi che incollava
in messaggi di testo spediti dalle dita prima che la mente riuscisse a pensarlo. E lui la trovava in
vecchi dischi americani che man mano accatastava sulla scrivania in attesa di donarglieli, in
canzoni di Neil Young e Tim Buckley, che canticchiava tutto il giorno. Andò così per molto tempo.
Forse troppo. E così quando quel giorno d’estate lei finì il suo esame di maturità, uscendo
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dall’aula non lo vide. Lui era in piedi in un angolo, con la testa appoggiata al muro, ma non lo
vide perché si precipitò, dopo quelle brevi lacrime a cui lui aveva assistito in silenzio come
davanti ad un rituale sacro, verso un altro ragazzo. Chi fosse, lui non lo sapeva. Lei non gliene
aveva mai parlato, eppure parlavano tanto, e parlavano di qualunque cosa. Ma lei non glielo
aveva detto che non era mai stata capace, in vita sua, di scegliere, e che lasciava che fossero gli
eventi esterni a scegliere per lei, che quasi le piaceva pentirsi ogni volta dopo una decisione
presa. Non lo aveva fatto consapevolmente, razionalmente, ma aveva amato lui e insieme aveva
amato un altro. Aveva amato lui con i versi delle poesie e con la richiesta di aiuto che giungeva
da dentro, l’altro lo stava amando, come anche in quel preciso momento, con il suo corpo.
Lui aveva a casa una boccia con due pesci rossi, e amava fissarli, studiarli, osservarli per ore.
Secondo lui questi pesci che non sono capaci di pensare, che non hanno storia, a volte hanno gli
incubi. Li vedeva agitarsi, scuotersi. Ed in effetti, chi sogna, prima o poi avrà anche gli incubi, e se i
pesci rossi hanno un incubo su tutti, pensava lui, questo non può essere che l’abbandono. Ogni
parte della realtà, infatti, li adotta e li abbandona ogni tre secondi, li prende in grembo e li rigetta
orfani nell’oblio. Ogni cosa abbandona i pesci rossi.
E lo pensò di nuovo quando Lei lo venne ad aspettare fuori dall’aula, a sua volta, all’orale. Erano
usciti per fare due passi, si erano detti poche parole, nessuno aveva intenzione di aprire o
cauterizzare la ferita ben presente ad entrambi. Lei perché non trovava errori nel passato, lui
perché come un pesce rosso fingeva di aver dimenticato tutto e di vivere quel momento come da
dentro una boccia d’acqua. Poi lei lo accompagnò in auto fino a casa, mettendo su un cd degli
Smiths che era stato un suo regalo di qualche mese prima. Quando lui scese, chiudendosi dietro
la portiera dell’auto e dentro essa chiudendoci un mondo, si mise a camminare a testa alta.
Strinse le mascelle, non voleva piangere. Non voleva neanche che piangesse lei, lei che se
avesse potuto, avrebbe parlato solo ai suoi occhi, avrebbe detto loro con dolcezza, più che con
cinismo:”Vi rendete conto che me ne vado? Come farete senza di me?”. Voleva che per questa
volta, per questa soltanto, fosse il mondo a piangere per lui. Che piangessero tutti, che il dolore
uscendo da lui invadesse gli altri. Camminava piano, e sperava che lei scendesse dalla
macchina e lo rincorresse, allora lui sentendo il rumore dei suoi passi si sarebbe voltato pronto a
fare quello per cui aveva vissuto da quando l’aveva conosciuta: accoglierla. E invece no, certe
scene succedono solo nei film, non nella vita, che invece ti implora sempre di salvarti da solo.
Nella vita chi sprofonda sul sedile dell’auto con i pensieri fra le dita rimane lì, fermo immobile. E
nessuno capisce gli incubi dei pesci rossi.
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