14-09-2003 Testata - Centro Studi Luca d`Agliano
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14-09-2003 Testata - Centro Studi Luca d`Agliano
Identificativo: DO20030914002AAA Data: 14-09-2003 Testata: IL SOLE 24 ORE DOMENICA Riferimenti: CORRISPONDENZE E INCONTRI Lettera da Tashkent - In Uzbekistan, dopo anni di repressione, oggi l'Islam tende a sparire Nella moschea proibita I tipici bazar sono un ricordo, le sete colorate e i preziosi abiti dei khan si ammirano solo nei musei Giorgio Barba Navaretti di Giorgio Barba Navaretti George Curzon, il futuro vice re delle Indie che abbiamo incontrato sul Domenicale del 24 agosto, partendo da Bukhara nel 1888 scriveva <...lasciando la città non potevo che rallegrarmi di averla vista agli ultimi bagliori della sua gloria. Se dovessi tornarci in futuro probabilmente troverei la luce elettrica nelle strade, i vetri alle finestre, gli uomini vestiti con i pantaloni (...) La civilizzazione viaggia sul carro del diavolo, ma il diavolo ha l'abitudine di esigere i suoi tributi>. Se Curzon dovesse tornare oggi a visitare gli ex Khanati di Khiva, Bukhara e Kokhand, il territorio del moderno Uzbekistan, le sue aspettative di elettricità, pantaloni e guide turistiche sarebbero perfettamente soddisfatte. Ma forse più che da nuove presenze, sarebbe sorpreso da incredibili assenze. In un Paese dove la legge coranica e la parola dei mullah valeva più di quella dell'emiro, non troverebbe più l'Islam. Si aggirerebbe per stupende moschee e madrasse, ancora perfettamente conservate o addirittura ricostruite, con le loro cupole turchesi e i muri di mattoni rossi, ma non troverebbe nessuno intento a pregare, predicare, studiare. Guarderebbe il meraviglioso, intatto minareto Kalon e i minareti di Tamerlano a Samarcanda senza sentire il richiamo del muezzim. Nelle scuole coraniche troverebbe una biblioteca per bambini, dei venditori di souvenirs, dei ristoranti per turisti, dei musei sull'indipendenza. Penserebbe sia un po' come visitare il Partenone, il tempio dedicato a un Dio in cui nessuno più crede; ma qui la popolazione è ancora mussulmana e allora le moschee vuote di Bukhara sono come sarebbe San Pietro senza Papa, cardinali, preti e guardie svizzere in un'Italia che continua a essere cattolica. I sovietici hanno per settant'anni represso l'Islam e il presidente dittatore Karimov, nonostante il suo nome (Islam), continua a fare lo stesso. Karimov ha eliminato i movimenti islamici più estremi e controlla il clero del Paese. Non si capisce se le moschee tacciono per paura oppure se dopo ottant'anni questo sia diventato un Paese laico. A Bukhara solo la madrassa di Mir-i-Arab è sempre rimasta in funzione. Fondata nel 1535 è stata per secoli uno dei principali centri di educazione religiosa dell'Islam. Gustav Krist, un viaggiatore austriaco, ricorda che nel 1937 nel cortile della Madrassa era appeso un grande manifesto rosso, con scritto: <Proletari di tutto il mondo unitevi!>. Oggi, nello stesso posto è appeso un grande manifesto blu con scritto: <I nostri figli devono essere più forti e intelligenti di noi, ma soprattutto devono essere felici> firmato, ovviamente, Islam Karimov. Sacro e profano in un unico abbraccio di speranza. Curzon, poi, non troverebbe il mercato che conosce. Nei 40 bazar della città verrebbe richiamato da qualche venditore di souvenir e poco più. I bazar storici sono rarefatti. Per rumori, odori e colori il nostro eroe dovrebbe spingersi ai nuovi bazar. A Tashkent ce n'è uno straordinario. Qui troverebbe spezie, frutta e verdura (che frutta, che pomodori in questo paese!). Poi troverebbe anche vestiti e stoffe, ma guardandoli bene si accorgerebbe che sono fatti di materiali sintetici e colori acrilici violenti. Ma che ne fanno gli uzbeki del milione e più di tonnellate di cotone che i loro campi inquinati producono ogni anno? E dove sono finite le sete dai colori straordinari? I vestiti mirabolanti dei khan e delle loro corti? Curzon li troverebbe nei musei di arti applicate, uno in ogni città, sorvegliati da donne con fazzoletti legati dietro la testa e sorrisi splendenti di magnifici denti d'oro. Il confine tra casa e lavoro per queste donne non esiste. Le vedrebbe lavorare a maglia, dormire profondamente nelle ore più calde, farsi da mangiare. Potrebbe anche riuscire a comperare per poche sterline sete e vestiti dal negozio di souvenirs, sempre gestito dalle guardiane del museo. Ma si accorgerebbe che sono antichi e simili a quelli esposti. Che queste donne casa e museo arrotondino il loro misero stipendio di qualche decina di dollari al mese vendendo, appunto, pezzi da museo? Al bazar, Curzon si accorgerebbe anche che la via della seta è bloccata: nulla o quasi è importato e tutto, di pessima qualità e caro, è prodotto qui. Karimov è rimasto l'ultimo dei protezionisti, investendo le poche risorse del nuovo stato in una politica folle di sostituzione delle importazioni. É così riuscito a mantenere in piedi le attività che i piani sovietici avevano destinato a questa lontana periferia. Peccato, che l'Uzbekistan non sia più parte di un impero da cui comperare e a cui vendere. Eccetto l'oro e il cotone, nessuno vuole i suoi prodotti e così si racconta di aerei senza motori per farli volare e di motori senza trattori su cui montarli. Il povero Curzon neppure potrebbe rifare il suo viaggio sulla mitica ferrovia che dal Caspio porta a Tashkent, se non munito di ogni sorta di visto. Il solito Karimov ha chiuso tutte le frontiere con le ex Repubbliche sovietiche. Ma strade e ferrovie attraversano più Repubbliche. Per andare da Bukhara a Khiva non è possibile prendere la via diretta perché questa passa attraverso il Turkmenistan. Sul fiume Amu, il mitico Oxus, che bisogna attraversare per andare a Khiva, da queste parti c'è un solo ponte, che però porta in Turkmenistan. Ora si passa più a nord, su un improbabile ponte di barche, in un punto in cui entrambe le sponde del fiume sono uzbeke. Queste frontiere così marcate sono delle affermazioni di identità e autonomia. Ma come essere autonomi e impermeabili lungo confini che per secoli sono stati costantemente attraversati da pastori e mercanti, quando neppure esiste una lingua franca e alcuni parlano russo, altri uzbeko e altri ancora tajiko? Infine, l'ultima grande assenza dell'Uzbekistan, forse la più sorprendente per Curzon, sono i russi, o almeno i russi che comandano. Più di 850mila sono partiti dopo l'indipendenza e non sono rimasti quelli che se la passano meglio. Colpisce vedere una donna bionda, con un bambino biondo in braccio, chiedere l'elemosina in un paese di gente con la pelle, i capelli e gli occhi scuri. Andando all'aeroporto a notte fonda si percorrono gli immensi viali a 10 corsie di Tashkent, dove nulla può fermarsi, aggregarsi, parlare e complottare. Lungo uno di questi viali, Curzon vedrebbe uscire dalla modernissima caserma della polizia locale un gruppo di donne rumorose e vocianti. Una di loro è bionda e ha un bambino in braccio. Chi sono? Prostitute direbbe il suo autista. Ma forse sono state arrestate? No, vanno con i poliziotti. Poi verrebbe fermato da una pattuglia, impeccabile e gentile come tutti i soldati degli innumerevoli posti di blocco lungo le vie principali del paese. Dopo un rapido controllo potrebbe ripartire. Prima di arrivare all'aeroporto, vedrebbe un manifesto pubblicitario della Daewoo Electronics con tre bambini: uno tartaro con gli occhi a mandorla, uno turco con i capelli riccioli e uno russo, biondo con gli occhi azzurri. Sotto la foto una frase: we share the future, condividiamo il futuro. Senz'altro, ma quale? COSA LEGGERE * Guide: Calum Macleod e Bradley Mahew, <Uzbekistan: the Golden Road to Samarkanda>, Oyissey, 2002; <Asia Centrale>, Guide EDT-Lonely Planet, 2000. * Contemporanea: Monica Whitlock, <Beyond the Oxus: the Central Asians>, John Murray, 2002 Tiziano Terzani, <Buonanotte Signor Lenin>, Editori Associati, 1992. * Viaggio, storico: George Curzon, <Russia and Central Asia>, 1889 (ripubblicato da Frank Coss &Co nel 1967); Gustav Krist, <Alone Through the Forbidden Land>, Ian Faulkner, 1992.