Estratto

Transcript

Estratto
PRELIMINARE DI PRELIMINARE
E “PUNTUAZIONI VINCOLANTI”
INQUADRAMENTO GENERALE
Il codice civile non contiene una definizione di contratto preliminare.
Le principali disposizioni codicistiche che lo menzionano sono: l’art. 1351, che impone per il preliminare il
rispetto della stessa forma del contratto da concludere; l’art. 2645-bis, che disciplina la trascrizione del preliminare; l’art. 2775-bis, che si occupa del privilegio speciale che assiste il credito del prossimario acquirente
in caso di mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto; l’art. 2392 c.c., il quale prevede, con disposizione di portata generale, che, in caso di inadempimento all’obbligo di concludere il contratto, l’altra parte,
qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso.
La dottrina e la giurisprudenza sono divise in ordine alla struttura e alla funzione del contratto preliminare e del contratto definitivo.
L’orientamento prevalente ritiene che: i) dal contratto preliminare nasce un obbligo di fare, consistente
nel manifestare la volontà alla conclusione del contratto definitivo; ii) quest’ultimo ha natura negoziale e
causa “interna” ed è la vera fonte degli effetti finali. In questa prospettiva, la funzione della scissione tra consenso preliminare e definitivo è quella di assicurare il cosiddetto “controllo delle sopravvenienze”. Il vantaggio della predetta scissione risiede, infatti, nella possibilità di consentire l’introduzione di un nuovo regolamento di interessi piuttosto che essere costretti a reagire contro un regolamento già posto (E. GABRIELLI).
L’orientamento minoritario, formatosi con particolare riferimento al contratto di vendita, ritiene, invece,
che: i) dal contratto preliminare nasce un obbligo di dare, inteso come obbligo di trasferire la proprietà; ii) il
contratto definitivo è un atto dovuto e ha “causa esterna”. In questa prospettiva, la funzione della scissione è
quella di riproporre anche nel nostro ordinamento la scissione tra titulus e modus acquirendi propria del sistema tedesco.
L’aderire all’una o all’altra teoria ha conseguenze pratiche rilevanti non soltanto in relazione all’individuazione delle conseguenze che si ripercuotono sul definitivo a causa dei vizi del preliminare, su cui non è possibile in questa sede soffermarsi, ma anche in ordine alla rilevanza delle modifiche apportate nella contrattazione definitiva rispetto a quella preliminare. Seguendo l’orientamento dominante il contratto definitivo è
la fonte degli effetti e può, pertanto, modificare il contenuto del preliminare salvo che venga data la prova
che gli obblighi contenuti nel dolo preliminare sopravvivano al defiitivo. Seguento l’orientamento minoritario, il contratto preliminare è la vera fonte degli effetti e il suo contenuto non può essere modificato dal definitivo, salva espressa pattruizione contraria.
Chiarito ciò, si tratta di stabilire se è configurabile il cosiddetto preliminare di preliminare.
Si tratta di un istituto molto diffuso nella prassi della contrattazione immobiliare, che si caratterizza per
il fatto che l’acquisito viene strutturato in tre fasi: un primo preliminare c.d. “aperto” (la proposta irrevocabile accettata), spesso contenente solo gli elementi essenziali, in cui la somma consegnata funge da caparra penitenziale per il recesso e del quale si tende ad escludere l’eseguibilità in forma specifica ai sensi dell’art.
2932 c.c.; un secondo preliminare “chiuso” o “formale”, contenente anche la disciplina di dettaglio del contratto definitivo che si vuole concludere, che può essere redatto in una forma idonea alla trascrizione e che è
senz’altro assoggettato alla disciplina dell’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre di cui all’art. 2932
c.c.; infine, il contratto definitivo, che realizza il trasferimento della proprietà.
La giurisprudenza prevalente riteneva il preliminare di preliminare nullo, ai sensi dell’art. 1322 c.c., per
difetto di meritevolezza: si affermava che non avesse alcun senso pratico «il promettere ora di ancora promettere in seguito qualcosa» (Cass. civ., Sez. II, 2 aprile 2009, n. 8038). Se la funzione del preliminare è quella del controllo delle sopravvenienze, sarebbe sufficiente un “solo” preliminare. Ne conseguiva che la parte
non poteva considerarsi vincolata a proseguire nella contrattazione, ferma l’eventuale responsabilità precontrattuale, ricorrendone i presupposti.
Una possibile apertura, in presenza di determinate circostanze, alla validità del preliminare di preliminare
è stata sostenuta da Corte di Cassazione 12 marzo 2014, n. 5779, che ha richiesto l’intervento delle Sezioni
Unite.
8
PRELIMINARE DI PRELIMINARE E “PUNTUAZIONI VINCOLANTI”
LA SENTENZA
Preliminare di preliminare: Cass., Sez. Un., 6 marzo 2015, n. 4628.
Le Sezioni Unite hanno risolto la questione affermando testualmente quanto segue.
«Occorre stabilire se e in quali limiti sia riconosciuto nell’ordinamento un accordo negoziale che rimandi o
obblighi i contraenti a un contratto preliminare propriamente detto.
Omissis...
Viene in primo luogo in risalto la tematica della causa concreta. Una definizione di questa Corte (Cass.
10490/06) la qualifica come “scopo pratico del negozio... sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto
utilizzato”.
L’indagine relativa alla causa concreta, — è stato evidenziato — giova sia come criterio d’interpretazione
del contratto sia come criterio di qualificazione dello stesso: “La rispondenza del contratto ad un determinato
tipo legale o sociale richiede, infatti, di accertare quale sia l’interesse che il contratto è volto a realizzare”.
Questa chiave di lettura conduce a riconsiderare gli approdi schematici ai quali sono pervenute in passato
dottrina e giurisprudenza.
Le opinioni, pur partendo da prospettive diverse, coincidono nel definire nulla l’intesa che si risolva in un
mero obbligo di obbligarsi a produrre un vincolo che non abbia né possa avere contenuto ulteriore o differenziato. Un secondo punto di convergenza si rinviene allorquando l’analisi del primo accordo conduce a
ravvisare in esso i tratti del contratto preliminare, in quanto contenente gli elementi necessari per configurare tale contratto, quali, si osserva, l’indicazione delle parti, del bene promesso in vendita, del prezzo. La presenza della previsione di una ulteriore attività contrattuale può rimanere irrilevante, ma va esaminata alla
luce delle pattuizioni e dei concreti interessi che sorreggono questa seconda fase negoziale.
Giovano alcune esemplificazioni:
a) Può darsi il caso che nell’accordo raggiunto sia stata semplicemente esclusa l’applicabilità dell’art. 2932
c.c.: si tratta, è stato osservato, di una esclusione convenzionalmente ammessa. La conseguenza sarà che, pur
ravvisandosi un contratto “preliminare” in questa scrittura che ipotizzava un successivo accordo, si potrà far
luogo, in caso di inadempimento, solo al risarcimento del danno.
b) Può presentarsi l’ipotesi in cui la pattuizione della doppia fase risponda all’esigenza di una delle parti di
godere del diritto di recesso, facoltà che può essere convenzionalmente prevista nel contratto preliminare e
che può anche accompagnarsi alla prevista perdita di una modesta caparra penitenziale versata dal proponente l’acquisto; si tratta è stato detto, del costo del recesso da un contratto preliminare già concluso.
c) È ipotizzabile che le parti abbiano raggiunto un’intesa completa, subordinandola però a una condizione.
Tutte queste ipotesi sono apparentate da una conclusione che può regolare buona parte della casistica: va
escluso che sia nullo il contratto che contenga la previsione della successiva stipula di un contratto preliminare, allorquando il primo accordo già contenga gli estremi del preliminare. L’assenza di causa che è stata rilevata quando si è discusso di “preliminare di preliminare” potrebbe in tali casi riguardare tutt’al più il secondo, ma non certo il primo contratto.
Dietro la stipulazione contenente la denominazione di “preliminare del preliminare” (nel senso che la
conclusione dell’accordo precede la stipula del contratto preliminare) si possono dare situazioni fra loro differenti, che delineano sia figure contrattuali atipiche (quali quelle prima indicate), ma alle quali corrisponde
una “causa concreta” meritevole di tutela; sia stadi prenegoziali molto avanzati, cui corrisponde un vincolo
obbligatorio di carattere ancora prenegoziale (almeno fra le parti del contratto in relazione al quale si assuma un impegno volto alla successiva stipula di un contratto preliminare) che vede intensificato e meglio praticato l’obbligo di buona fede di cui all’art. 1337 c.c.
Posto, come si è detto prima, che non si può assegnare utilità al bis in idem in quanto volto alla mera ripetizione del primo contratto ad identici contenuti, se e quando le parti sono disposte al mutamento del contenuto del contratto, al cambiamento di esso, l’obbligazione assunta sembra avere per oggetto non il contrarre, ma il contrattare.
Vi sono esigenze, in una società complessa, interessata da pervasivi fenomeni criminosi, da sospette manipolazioni nel tessuto economico, da un fiorire incontrollabile di nullità contrattuali “minori”, ma non per questo meno incisive negozialmente, di riservare il consenso vincolante, sottomesso all’esecuzione coattiva, a
verifiche che sono da valutare soggettivamente. Se si dovesse invece ricorrere sempre all’opzione prelimina-
9
DIRITTO CIVILE
re/definitivo si dovrebbero riempire i contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all’art. 1374, integratore rispetto al primo accordo incompleto.
La procedimentalizzazione delle fasi contrattuali non può di per sé essere connotata da disvalore, se corrisponde a “un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell’operazione negoziale”. È vero che
occorre guardarsi da un uso “poco sorvegliato” dell’espressione preliminare di preliminare” perché l’argomento nominalistico non è neutro, tuttavia, se ci si libera dell’ipotesi in cui appare che il primo contratto è già
il contratto preliminare e che il secondo è, al più, solo la sua formalizzazione per la trascrizione, restano due
“sequenze” variabili che si avvicinano:
A) Quella delle mere puntuazioni in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di un possibile affare e,
senza alcun vincolo, fissano una possibile traccia di trattative. In questa ipotesi, quanto maggiore e specifico
è il contenuto, tanto più ci si avvicina al preliminare.
B) Quella in cui il contratto non è ancora un vero preliminare, ma una puntazione vincolante sui profili in
ordine ai quali l’accordo è irrevocabilmente raggiunto, restando da concordare secondo buona fede ulteriori
punti. Si tratta di un iniziale accordo che non può configurarsi ancora come preliminare perché mancano
elementi essenziali, ma che esclude che di quelli fissati si torni a discutere. In questa ipotesi, man mano che
si impoverisce il contenuto determinato, ci si allontana dal preliminare propriamente detto.
b1) Occorre qui ulteriormente ricordare la distinzione con l’ipotesi in cui la previsione del secondo preliminare esprime soltanto che la situazione conoscitiva delle parti non è tale da far maturare l’accordo consapevole, ma si vuole tuttavia “bloccare l’affare”, anche a rischio del risarcimento del danno negativo in caso
di sopravvenuto disaccordo.
Ciò che conta chiarire è che, all’interno di una gamma di situazioni che ricevono risposte diverse, quelle
contrassegnate sotto la lettera b) sono riconducibili a una fase sostanzialmente precontrattuale, in cui la formazione del vincolo è limitata a una parte del regolamento. La violazione di queste intese, perpetrata in una
fase successiva, rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, dà luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell’art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.
È evidente come questa linea interpretativa impone di vagliare caso per caso l’emergere dell’interesse delle parti, di questa loro volontà di rinviare il momento in cui operano sia l’integrazione suppletiva ex art. 1374
c.c. sia la cogenza del meccanismo proprio del preliminare ex artt. 1351 e 2932 c.c.
Alla luce delle considerazioni esposte le sezioni Unite hanno formulato il seguente principio di diritto: in
presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi,
con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il
giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex artt. 1351 e 2932 c.c., ovvero, anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento.
Riterrà produttivo di effetti l’accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino
alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.
La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto
obbligatorio assunto nella fase precontrattuale».
CONCLUSIONI
Le affermazioni contenute nella sentenza delle Sezioni Unite impongono di ricostruire, secondo schemi
nuovi, la fase di formazione progressiva del consenso che risulta caratterizzata da possibili diversi stadi scanditi dalla sempre maggiore intensità del vincolo assunto dalle parti, con rilevanti implicazioni sul piano della
responsabilità.
La prima fase è quella delle “mere puntuazioni” o “puntuazioni deboli”. La giurisprudenza della Cassazione, a tale proposito, ha sempre distinto tra “semplice puntazione di clausole”, in cui l’intesa è solo parziale e “puntazione completa di clausole”, in cui l’intesa è completa nei suoi contenuti ma sempre in funzione
preparatoria e non vincolante rispetto al contratto finale. Questa distinzione rileva sul piano probatorio, in
quanto l’esistenza di una “puntuazione completa di clausole” fa nascere una presunzione semplice di perfe-
10
PRELIMINARE DI PRELIMINARE E “PUNTUAZIONI VINCOLANTI”
zionamento del contratto, che deve essere superata mediante prova contraria dalla parte interessata a dimostrare l’assenza del vincolo contrattuale.
La seconda fase è quella delle “puntuazioni vincolanti” o “puntuazioni forti”, cui fanno riferimento, per
la prima volta, le Sezioni Unite con la sentenza sopra riportata. Con con esse le parti assumono non un obbligo di contrarre ma di contrattare. Più in particolare, le parti, da un lato, si vincolano a non rimettere più in discussione, durante le successive trattative, i punti sui quali è stato raggiunto l’accordo, dall’altro, a proseguire la contrattazione sulla restante parte del regolamento negoziale.
La terza fase è quella del “preliminare di preliminare” o “preliminare aperto”. Le Sezioni Unite hanno
affermato che il “doppio” preliminare è valido soltanto nel caso in cui il secondo non sia una mera ripetizione del primo. Se così fosse sarà nullo non, come ritenuto dalla precedente giurisprudenza della Cassazione,
il primo preliminare ma, appunto, il secondo, con conseguente permanenza dell’obbligo.
La quarta fase è quella del “preliminare chiuso”.
L’ultima fase è quella della stipula del “contratto definitivo”.
Questa possibile articolazione della formazione progressiva del consenso ha implicazioni rilevanti sul piano delle forme di tutela.
La violazione delle “mere puntuazioni” può determinare responsabilità precontrattuale ai sensi degli
artt. 1337-1338 c.c. qualora le parti abbiano violato il principio di buona fede. L’orientamento prevalente della Cassazione ritiene che la responsabilità precontrattuale ha natura di responsabilità extracontrattuale (art.
2043 c.c.), con applicazione del relativo regime in ordine, in particolare, alla prova dell’elemento soggettivo e
alla durata quinquennale della prescrizione. A questo orientamento si contrappone quello, soprattutto dottrinale, che ritiene che tale responsabilità sia di natura contrattuale in quanto sorge dal “contatto” tra le parti
nella fase di formazione del consenso, con appliazione di un diverso regime in ordine ai prifili sopra indicati.
Il risarcimento del danno è limitato all’interesse negativo e cioè al danno emergente e al lucro cessante subito per essere la parte stata coinvolta in trattative inutili. Non è risarcibile l’interesse positivo parametrato al
valore della prestazione contrattuale non ottenuta.
La violazione delle “puntuazioni vincolanti” comporta, invece, responsabilità contrattuale. Tale responsabilità non è, però, conseguenza della violazione del contratto ma, come sottolineato dalla Sezione unite, di
«una obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell’art. 1173 c.c. e cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in
conformità all’ordinamento giuridico». Si tratta, a questo punto, di stabilire quale sia la misura del risarcimento del danno. La configurazione di una responsabilità contrattuale dovrebbe fare ritenere risarcibile l’interesse positivo. Ma parte della dottrina ha obiettato che «l’assenza del contratto impedisce di accordare al
danneggiato un risarcimento equivalente a una prestazione che egli non ha mai avuto diritto di avere» (G.
Villa). La misura del risarcimento del danno dovrebbe, pertanto, essere limitata al solo interesse negativo.
La violazione del “preliminare di preliminare”, valido, comporta responsabilità contrattuale ma senza
che la parte abbia diritto alla tutela in forma specifica contemplata dall’art. 2932 c.c.
La violazione del “preliminare chiuso” e poi del definitivo comporta responsabilità contrattuale secondo le note modalità previste dal codice civile.
Le valutazioni svolte dimostrano, sul piano sistematico, che nella fase precontrattuale è configurabile, se si
segue l’orientamento prevalente della Cassazione in ordine alla natura della responsabilità precontrattuale,
sia una responsabilità precontrattuale sia una responsabilità extracontrattuale.
11
COLLEGAMENTO NEGOZIALE E LEASING
INQUADRAMENTO GENERALE
Il collegamento negoziale non rinviene nel nostro ordinamento giuridico una disciplina generale. Esso può
essere considerato come una particolare tecnica contrattuale mediante la quale le parti predispongono una
serie coordinata di atti negoziali per il perseguimento di risultati economici non ottenibili utilizzando un singolo negozio giuridico.
Il più diffuso criterio ordinatorio distingue tra collegamento necessario (detto anche tipico) e collegamento
volontario (detto anche atipico).
Il collegamento necessario si caratterizza per l’esistenza di una correlazione funzionale tra contratti che
trova la propria fonte nella legge ovvero nella natura dei contratti stessi ovvero ancora nella funzione che un
contratto adempie nei confronti dell’altro. Esempi tipici di collegamento necessario sono dati: dai negozi di
garanzia rispetto al negozio obbligatorio principale e dal subcontratto rispetto al c.d. contratto base.
Il collegamento volontario, secondo una massima ricorrente della Cassazione, si verifica ogni volta che le
parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, danno vita, contestualmente o no, a distinti contratti i
quali, caratterizzandosi ciascuno in funzione della propria causa e conservando l’individualità propria di ciascun tipo negoziale, alla cui disciplina rimangono rispettivamente sottoposti, vengono tuttavia concepiti e voluti come funzionalmente e teleologicamente collegati tra di loro e posti in rapporto di reciproca dipendenza
cosicché le vicende dell’uno debbono ripercuotersi sull’altro condizionandone la validità e l’efficacia (Cass.
civ., Sez. I, 6 luglio 2015, n. 13888).
La stessa Cassazione rileva che «affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico,
che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo,
costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti
nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito
soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale»
(Cass. civ., Sez. III, 11 settembre 2014, n. 19161).
La giurisprudenza ha chiarito che non costituisce un collegamento in senso tecnico quello che viene definito collegamento occasionale, in quanto manca qualsiasi forma di coordinamento tra contratti diversi verso un fine unitario e sussistendo soltanto una rapporto esteriore tra negozi in cui l’apparenza del legame funzionale deriva il più delle volte dalla comunanza delle parti o dall’unicità del documento.
L’accertamento di un nesso negoziale comporta la ripercussione delle vicende relative alla validità, efficacia ed esecuzione di uno solo dei negozi sugli altri ad esso connessi. Tale regola viene comunemente sintetizzata nel noto brocardo simul stabunt simul cadent.
Una delle questioni più dibattute attiene al rapporto tra collegamento negoziale e leasing.
Il leasing è un contratto atipico sebbene, in ragione della sua diffusione nella pratica degli affari, socialmente tipico.
Si distingue tra leasing operativo e leasing finanziario.
Il leasing operativo si caratterizza per l’esistenza di un contratto bilaterale tra produttore del bene, che è
anche il soggetto concedente il bene stesso in godimento all’utilizzatore, previo pagamento di un canone
commisurato all’entità dei servizi offerti, e l’utilizzatore. Alla scadenza del contratto, all’utilizzatore viene
concessa la facoltà di riscattare il bene divenendone proprietario.
Il leasing finanziario, pur nella varietà delle tipologie contrattuali, presenta il dato comune, come sottolineano testualmente le Sezioni Unite nella sentenza riportata nel successivo paragrafo, rappresentato dalla
circostanza che «alla base, esiste un’operazione di finanziamento tendente a consentire al c.d. utilizzatore il
godimento di un bene (transitorio o finalizzato al definitivo acquisto del bene stesso) grazie all’apporto economico di un soggetto abilitato al credito (il c.d. concedente) il quale, con la propria risorsa finanziaria, consente all’utilizzatore di soddisfare un interesse che, diversamente, non avrebbe avuto la possibilità o l’utilità
di realizzare, attraverso il pagamento di un canone che si compone, in parte, del costo del bene ed, in parte,
degli interessi dovuti al finanziatore per l’anticipazione del capitale». Affiancata a questa, sottolineano sempre le Sezioni unite, «vi è, necessariamente, un’altra operazione, quella tendente all’acquisto del bene del
quale l’utilizzatore intende godere, ossia un’ordinaria compravendita stipulata tra fornitore e concedente, attraverso la quale il secondo diventa proprietario del bene che darà in locazione all’utilizzatore da lui finan-
12
COLLEGAMENTO NEGOZIALE E LEASING
ziato». In questo ambito si distingue tra leasing traslativo e leasing di godimento. Nel primo, il contratto ha
ad oggetto beni idonei a conservare alla scadenza del rapporto un valore superiore all’importo convenuto per
l’opzione, per cui i canoni hanno la funzione di scontare anche una quota del prezzo di previsione del successivo acquisto. Nel secondo i canoni configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni non idonei a
conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto.
In presenza di un leasing finanziario, come emerge dalla descrizione della figura, esistono tre soggetti (il
fornitore, il concedente e l’utilizzatore).
La natura giuridica del contratto è dibattuta.
L’orientamento minoritario ritiene che si è in presenza di un contratto unitario plurilaterale. La prevalente dottrina ha criticato tale ricostruzione sia per la difficoltà di individuare, nell’ottica delle obbligazioni
incrociate, quelle assunte dall’utilizzatore verso il fornitore sia per la difficoltà di qualificare il rapporto iniziale tra venditore e utilizzatore in termini di accordo già vincolante e non di mera trattativa sia, infine, per la
mancanza di una causa concreta unitaria.
L’orientamento maggioritario, cui aderiscono le Sezioni Unite, con la sentenza riportata nel successivo paragrafo, ritiene che si è in presenza di un collegamento negoziale tra due contratti autonomi: un contratto di
compravendita concluso tra fornitore e concedente e un contratto di leasing in senso stretto concluso da quest’ultimo con l’utilizzatore. Tra i due negozi «v’è un indispensabile collegamento, siccome la fornitura è effettuata in funzione della successiva locazione del bene compravenduto e la locazione presuppone che il locatore si sia procurato il bene che darà in godimento al locatario» (sentenza delle Sezioni Unite, riportate nel
successivo paragrafo).
Premesso ciò, le Sezioni Unite hanno puntualizzato quanto segue:
— «tuttavia, nessuno pone in discussione che i due atti mantengano la loro sostanziale autonomia, che
l’utilizzatore sia terzo rispetto al contratto di fornitura ed, a sua volta, il fornitore sia terzo rispetto al contratto di locazione; laddove, invece, il concedente è l’unico, tra i tre, ad essere parte di entrambi gli atti»;
— «in quest’ordine di idee, la sottrazione della vicenda dall’ambito del rapporto plurilaterale e la sua sussunzione in quello del contratto collegato fa sì che le parti possano gestire separatamente i distinti rapporti
contrattuali, secondo le rispettive funzioni, assegnando rilevanza giuridica a quelle sole interdipendenze che
realmente condizionano l’attuazione dell’operazione economica»;
— «d’altronde, è la stessa prassi che ha preferito la strada del contratto collegato, tenuto conto che, per un
verso, il contenuto del contratto di fornitura è di estrema rilevanza per l’utilizzatore nelle parti in cui si fissano le qualità e le caratteristiche del bene, le garanzie di conformità, gli obblighi di consegna, ma che, per altro verso, una serie di altri patti contenuti nel contratto di fornitura (si pensi, ad esempio, alle clausole relative al pagamento del prezzo) non generano interdipendenza e rimangono (o possono rimanere) estranee al
regolamento contrattuale tra concedente ed utilizzatore».
Nella pratica, il collegamento si realizza mediante apposite clausole previste in ciascuno dei due contratti. In particolare, nel contratto di leasing vengono in rilievo quelle clausole che: «obbligano il concedente
ad acquistare il bene già individuato dall’utilizzatore e descritto nello stesso contratto (anche mediante esplicito riferimento al contenuto del contratto di fornitura, che l’utilizzatore dichiara di conoscere ed approvare); cedono all’utilizzatore diritti futuri, ma determinabili perché derivanti al concedente dal contratto di fornitura; obbligano il concedente alla futura cessione di eventuali diritti nascenti da responsabilità del fornitore». Nel contratto di fornitura vengono in rilievo quelle clausole che «configurano l’utilizzatore (che nel contratto di leasing ha assunto tutti i rischi derivanti dalla fornitura oltre che dall’utilizzo del bene oggetto del
contratto) quale beneficiario delle prestazioni inerenti alla produzione e messa a disposizione del bene, in
conformità con le prescrizioni contrattuali e di legge già definite nel contratto di leasing» (sentenza delle Sezioni Unite, cit.).
Una variante, minoritaria, della ricostruzione del rapporto in termini di collegamento negoziale ritiene che
tra utilizzatore e concedente venga stipulato, altresì, un contratto di mandato senza rappresentanza, con
la conseguenza che il concedente acquista il bene dal fornitore su mandato dell’utilizzatore.
Chiarito ciò, la questione che si è posta attiene alle forme di tutela dell’utilizzatore.
Si tratta di stabilire se quest’ultimo possa agire direttamente nei confronti del fornitore in caso di un suo
inadempimento (conseguente anche ad eventuali vizi del bene) mediante la proposizione di un’azione di risoluzione.
Tale questione è strettamente connessa alla natura giuridica della locazione finanziaria.
I sostenitori della tesi del contratto plurilaterale non rinvengono alcun ostacolo a ritenere ammissibile tale
azione proprio in ragione della unitarietà della fattispecie negoziale.
13
DIRITTO CIVILE
I sostenitori della tesi del collegamento negoziale sono concordi nell’ammettere l’azione di adempimento e
di risarcimento dell’utilizzatore nei confronti del fornitore. L’azione di risoluzione del contratto è, invece, ritenuta non ammissibile. Tale azione inciderebbe, infatti, in modo pregiudizievole nella sfera giuridica del
concedente che, oltre ad essere privato della garanzia rappresentata dalla proprietà del bene, rischierebbe
anche di non ricevere i canoni, essendo venuta meno, con la cessazione del godimento del bene, la causa della contrapposta obbligazione dell’utilizzatore di pagare i canoni.
La Cassazione, con ordinanza 4 agosto 2014, n. 17597, pur in assenza di contrasti interpretativi, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite in ragione dell’«opportunità di un intervento chiarificatore sistematico (...)
in ordine ad una questione di massima di particolare importanza». In particolare, si è sottolineato che si pone l’esigenza di chiarire se sia possibile ampliare le forme di tutela dell’utilizzatore mediante l’applicazione
dell’art. 1705 c.c. Tale norma dispone che il «mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di
credito derivanti dall’esecuzione del mandato, salvo che ciò possa pregiudicare i diritti del mandatario (...)».
La Cassazione, Sez. Un., con sentenza 8 ottobre 2008, n. 24772, ha ritenuto che detta disposizione ha natura
eccezionale in quanto deroga al principio per cui, in assenza di procura, e dunque di spendita del nome del
rappresentato, i diritti sono acquisiti direttamente al patrimonio del mandatario. La disposizione codicistica
in esame, attribuendo eccezionalmente rilevanza esterna al mandato e consentendo al mandante di esercitare direttamente i diritti di credito derivanti dal contratto stipulato dal mandatario, non è, pertanto, suscettibile di applicazione analogica. Ne consegue che il mandatario non può esercitare anche le azioni contrattuali,
tra le quali l’azione di risoluzione del contratto. Se si ammettesse tale legittimazione si realizzerebbe, come
sottolineato le Sezioni Unite, «una cessione al mandante dell’intera posizione contrattuale formalmente costituitasi in capo al mandatario senza consenso del contraente ceduto».
La Cassazione, con la citata ordinanza, rileva come quello in esame è un «ostacolo che, nella locazione finanziaria, non sembra abbia ragione di esistere; dal momento che in essa il rapporto (ancorché non unitario) viene purtuttavia ad instaurarsi ed a svolgersi nella piena consapevolezza e volontà di tutti e tre i contraenti; certamente incluso il venditore». Non ci sarebbe, pertanto, quella ragione di tutela del terzo che starebbe alla base della preclusione rilevata dalle Sezioni Unite.
LA SENTENZA
Collegamento negoziale “non in senso tecnico” e le forme di tutela dell’utilizzatore: Cass., Sez. Un.,
5 ottobre 2015, n. 19785.
La Cassazione, con la sentenza sopra riportata, esclude che sia possibile esperire l’azione di risoluzione
mediante l’applicazione dell’art. 1705 c.c.
La dottrina, che ha commentato la sentenza, ha condiviso tale soluzione per due ordini di ragioni.
Innanzitutto, è difficile ritenere configurabile un rapporto di mandato che postuli l’estraneità del mandante rispetto al terzo, considerato che l’utilizzatore (mandante) si occupa sin dall’inizio di curare i rapporti con
il fornitore (terzo).
In secondo luogo, si tratterebbe di un’azione che, per le ragioni esposte, recherebbe un pregiudizio alle ragioni del mandatario (concedente), il che non sarebbe consentito dallo stesso art. 1705, comma 2, c.c. (V. VITI).
Chiarito ciò, la Cassazione, nonostante ribadisca l’esistenza nella fattispecie in esame di un collegamento
negoziale, esclude che ciò possa comportare la possibilità di esperire l’azione di risoluzione, in ragione del
fatto che non si tratterebbe di un collegamento in senso tecnico.
Di seguito si riporta la parte rilevante della motivazione in cui vengono spiegate le ragioni di tale asserzione e indicate le possibili forme di tutela mediante il ricorso alla clausola della buona fede.
Omissis...
«Volendosi porre al cospetto di ipotesi in cui nessuna clausola contrattuale consenta all’utilizzatore la sperimentazione dell’azione risolutiva del contratto di fornitura, non può eludersi la regola base in tema di effetti del contratto, ossia quella in virtù della quale il contratto ha forza di legge tra le parti, non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge e non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge. È la regola della c.d. relatività del contratto, consacrata nell’art. 1372 c.c., in forza della quale è, in via di principio, da escludersi che, in mancanza di diverso patto o di specifica disposizione normativa, colui che non è stato parte del contratto di fornitura (l’utilizzatore) possa agire perchè il contratto
stesso sia risolto; incidendo in una res inter alios acta e sortendo, così, l’effetto di privare il concedente della
14
COLLEGAMENTO NEGOZIALE E LEASING
proprietà del bene locato e, dunque, della garanzia riservatasi a fronte del pagamento dei canoni di locazione.
Questa regola, in specifiche ipotesi, è stata ritenuta derogata da un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie. Collegamento in senso tecnico per il quale è
necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto
economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti
di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra
di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale (il principio è consolidato e, tra le più recenti in tal senso, cfr. Cass.
n. 11974/10).
Non è qui il caso di approfondire in astratto il tema del collegamento negoziale, tuttavia il quesito posto alle Sezioni Unite presuppone (...) che ci si interroghi se, nella specifica vicenda in trattazione, ricorra un’ipotesi di collegamento negoziale in senso tecnico, in virtù del quale la validità e l’invalidità di un contratto si rifletta sull’altro in forma di reciproca interdipendenza. Ossia produca, in estrema sintesi, gli effetti di cui al
brocardo del simul stabunt simul cadent.
Orbene, sul punto occorre concordare con quell’autorevole dottrina la quale osserva che, dal punto di vista
economico, l’operazione di leasing è sicuramente trilaterale, nel senso che i rapporti tra fornitore, concedente ed utilizzatore costituiscono un tutto unitario. Eppure, dal punto di vista giuridico, le cose stanno diversamente, siccome ci si trova al cospetto di due contratti (quello di compravendita e quello di locazione finanziaria) che, come s’è visto in precedenza, conservano la rispettiva distinzione, pur essendo tra loro legati da un
nesso che difficilmente può essere considerato di collegamento negoziale in senso tecnico. Un collegamento tale, cioè, da comportare che la patologia di un contratto comporti la patologia anche dell’altro. È pur
vero che questi contratti sono legati da un nesso obiettivo (economico o teleologico), ma quel che manca,
perchè possa ravvisarsi il collegamento tecnico, è il nesso soggettivo, ossia l’intenzione delle parti di collegare i vari negozi in uno scopo comune. Non si può dire, infatti, che il fornitore si determini alla vendita in
funzione della circostanza che il bene verrà concesso in locazione dal compratore/concedente all’utilizzatore/locatario. Al contrario, il fornitore ha il mero interesse alla vendita del suo prodotto e la causa che regge il
contratto da lui stipulato con il finanziatore/concedente è quella tipica del contratto di compravendita, ossia
il trasferimento del bene in cambio del prezzo.
Tant’è che, nella fisiologica evoluzione dell’operazione, il fornitore, una volta consegnato il prodotto all’utilizzatore, esce di scena, essendo assolutamente disinteressato allo svolgersi dell’altra vicenda che concerne
la locazione stipulata tra concedente ed utilizzatore. Le circostanze, dunque, che sia proprio l’utilizzatore a
scegliere il fornitore, a trattare con lui ed a ricevere la consegna del bene e che il fornitore, a sua volta, sia
consapevole che l’acquisto da parte del committente sia finalizzato alla locazione del bene in favore del terzo utilizzatore sono del tutto esterne rispetto alla struttura stessa dei contratti che si vanno a stipulare e non
sono capaci di mutarne la causa di ciascuna.
Se è vero quanto finora osservato, è anche vero che lo stesso concedente, una volta determinatosi al finanziamento, è del tutto disinteressato rispetto alla scelta del bene e del fornitore effettuata dall’utilizzatore, posto che, qualunque essa sia, egli è garantito dalla proprietà del bene rispetto all’obbligo del pagamento del
canone a carico dell’utilizzatore stesso.
A conferma di quanto finora argomentato soccorre (oltre la menzionata Convenzione di Ottawa) il quadro
normativo delineato dal Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. n. 385 del 1993), il quale, nei contratti di credito collegati ed in ipotesi di inadempimento del fornitore, non consente all’utilizzatore/consumatore (soggetto sicuramente meritevole di maggior tutela rispetto all’imprenditore) di agire direttamente contro il fornitore per la risoluzione del contratto di fornitura, bensì gli consente di chiedere al concedente/finanziatore (dopo avere inutilmente costituito in mora il fornitore) di agire per la risoluzione del
contratto di fornitura; richiesta che determina la sospensione del pagamento dei canoni (art. 125-quinquies, il
quale dispone pure che la risoluzione del contratto di fornitura determina la risoluzione di diritto, senza penalità e oneri, del contratto di locazione finanziaria).
Per le ragioni finora esposte deve escludersi pure che l’utilizzatore possa autonomamente esercitare contro il fornitore l’azione di riduzione del prezzo che, quale rimedio sinallagmatico, andrebbe a modificare i termini dello scambio nel rapporto tra concedente e fornitore.
È per tutte queste ragioni che le Sezioni Unite concordano con l’orientamento giurisprudenziale (la cui più
approfondita analisi va rinvenuta nella già citata Cass. n. 17145/06) dal quale possono dedursi le due seguenti considerazioni.
15
DIRITTO CIVILE
Tra il contratto di leasing finanziario, concluso tra concedente ed utilizzatore, e quello di fornitura, concluso tra concedente e fornitore allo scopo (noto a quest’ultimo) di soddisfare l’interesse dell’utilizzatore ad acquisire la disponibilità della cosa, si verifica un’ipotesi di collegamento negoziale (nella pur persistente individualità propria di ciascun tipo negoziale) in forza del quale l’utilizzatore è legittimato a far valere la pretesa all’adempimento del contratto di fornitura, oltre che al risarcimento del danno conseguentemente sofferto. Invece, in mancanza di un’espressa previsione normativa al riguardo, l’utilizzatore può esercitare l’azione di risoluzione (o di riduzione del prezzo) del contratto di vendita tra il fornitore ed il concedente
(cui esso è estraneo) solamente in presenza di specifica clausola contrattuale con la quale gli venga dal
concedente trasferita la propria posizione sostanziale.
Il relativo accertamento, trattandosi di questione concernente non la legitimatio ad causa bensì la titolarità
attiva del rapporto, è rimesso al giudice del merito in relazione al singolo caso concreto.
La tutela dell’utilizzatore.
Posto che il dibattito finora affrontato scaturisce dalla preoccupazione che l’utilizzatore, in assenza di clausole contrattuali che (come s’è detto) gli trasferiscano la posizione sostanziale del concedente rispetto ad ipotesi risolutive del contratto di fornitura (ipotesi che s’è verificata nella fattispecie in trattazione), rimanga
sfornito di tutela, nell’inerzia del concedente, occorre affrontare anche questo tema.
C’è, dunque, da chiedersi quali siano i rimedi esperibili dall’utilizzatore in ipotesi di vizi della cosa
(oggetto sia del contratto del leasing, sia di quello di fornitura) in una vicenda contrattuale che, nella prassi
mercantile, tende ad affermare (come s’è visto) l’esonero del concedente da responsabilità per vizi della cosa ed il corrispondente obbligo dell’utilizzatore di accertare la conformità del bene in sede di consegna
(eventualmente rifiutandolo). Ciò a garanzia della separazione tra rischio finanziario e rischio operativo che
sottende la vicenda economica in questione, la quale vuole che l’esecuzione del piano di ammortamento del
credito sia indipendente da qualsiasi contestazione concernente la qualità e la conformità della fornitura. Ciò
significa che, in forza di queste clausole, l’utilizzatore non può sospendere il pagamento dei canoni, né ottenere la risoluzione del contratto di locazione.
Trattandosi di discipline speciali, deve essere decisamente escluso che alla fattispecie possa farsi estensiva applicazione delle disposizioni contenute nella Convenzione di Ottawa, sul leasing finanziario internazionale, o nel TUB, a favore dell’utilizzatore/consumatore.
La giurisprudenza unanime (così come la dottrina) riconosce all’utilizzatore il diritto di agire verso il fornitore per il risarcimento del danno, nel quale sono tra l’altro compresi i canoni pagati al concedente in costanza di godimento del bene viziato. A tale ultimo riguardo la responsabilità risarcitoria può farsi risalire, in via
generale, a quella da lesione del credito illecitamente commessa dal fornitore che è terzo rispetto al contratto di locazione.
Ma venendo più al fondo della questione, occorre distinguere l’ipotesi in cui i vizi siano immediatamente
riconoscibili dall’utilizzatore da quella in cui gli stessi si manifestino successivamente alla consegna, tenendo soprattutto conto che il canone di buona fede agisce quale strumento integrativo dei contratti (art. 1375
c.c.). In questo caso, v’è l’obbligo dell’utilizzatore di informare il concedente circa ogni questione che sia per
questo rilevante, così come v’è l’obbligo a carico del concedente di solidarietà e di protezione verso l’utilizzatore, al fine di evitare che questo subisca pregiudizi.
Il primo caso deve essere equiparato a quello della mancata consegna, sicché il concedente, una volta informato del fatto che l’utilizzatore, verificati i vizi che rendono la cosa inidonea all’uso, ha rifiutato la consegna, ha l’obbligo di sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore, per poi esercitare, se
ricorrono i presupposti di gravità dell’inadempimento, l’azione di risoluzione del contratto di fornitura, alla quale necessariamente consegue la risoluzione del contratto di leasing. Diversamente, il concedente
corrisponderebbe al fornitore il pagamento di un prezzo non dovuto che, come tale, non può essere posto a
carico dell’utilizzatore.
Il secondo caso — quello dei vizi occulti o in mala fede taciuti dal fornitore ed emersi dopo l’accettazione
verbalizzata da parte dell’utilizzatore — sicuramente consente all’utilizzatore di agire direttamente contro il
fornitore per l’eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa. Ma, laddove ne ricorrano i presupposti, anche in questo caso il concedente, informato dall’utilizzatore dell’emersione dei vizi, ha, in forza del canone
integrativo della buona fede, il dovere giuridico (non la facoltà) di agire verso il fornitore per la risoluzione
del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo, con tutte le conseguenze giuridiche ed economiche riverberantesi sul collegato contratto di locazione.
In conclusione, si può affermare il principio in ragione del quale:
In tema di vizi della cosa concessa in locazione finanziaria che la rendano inidonea all’uso, occorre distinguere l’ipotesi in cui gli stessi siano emersi prima della consegna (rifiutata dall’utilizzatore) da quella in cui
siano emersi successivamente alla stessa perché nascosti o taciuti in mala fede dal fornitore. Il primo caso va
assimilato a quello della mancata consegna, con la conseguenza che il concedente, in forza del principio di
16
COLLEGAMENTO NEGOZIALE E LEASING
buona fede, una volta informato della rifiutata consegna, ha il dovere di sospendere il pagamento del prezzo
in favore del fornitore e, ricorrendone i presupposti, di agire verso quest’ultimo per la risoluzione del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo.
Nel secondo caso, l’utilizzatore ha azione diretta verso il fornitore per l’eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa, mentre il concedente, una volta informato, ha i medesimi doveri di cui al precedente caso. In
ogni ipotesi, l’utilizzatore può agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione
della somma corrispondente ai canoni già eventualmente pagati al concedente».
Omissis...
CONCLUSIONI
La sentenza delle Sezioni Unite, sopra riportata, ha, pertanto, escluso, in assenza di clausola negoziale o di
una previsione di legge, la possibilità che l’utilizzatore eserciti l’azione contrattuale per inadempimento del
fornitore.
A questa conclusione le Sezioni Unite sono pervenute ritenendo che il collegamento negoziale esistente tra
i due contratti di vendita e di leasing vero e proprio non sia un «collegamento in senso tecnico» per la mancanza del «requisito soggettivo» rappresentato dall’intenzione delle parti di collegare i vari negozi per il perseguimento di uno scopo comune. Nella fattispecie in esame vi sarebbe la “scientia” del fornitore ma non la
“voluntas”.
La dottrina che ha commentato la sentenza in esame ha, pertanto, rilevato come siano configurabili due
forme di collegamento.
Un “collegamento in senso tecnico” (o“collegamento forte”) che, in presenza del requisito sia oggettivo
sia soggettivo, consente la piena attuazione della regola simul stabunt simul cadent.
Un “collegamento non in senso tecnico” (o “collegamento debole”) che consente all’utilizzatore di esercitare, proprio in virtù di tale nesso, le azioni di adempimento e di risarcimento del danno ma non quella di risoluzione del contratto. Si realizza, in questo secondo caso, una più ridotta deroga al principio della relatività del contratto.
Fermo quanto esposto, le Sezioni Unite hanno, nondimeno, ritenuto che l’utilizzatore possa ugualmente
ottenere una tutela adeguata mediante il ricorso alla clausola della buona fede.
La buona fede può avere una funzione di integrazione suppletiva o cogente del contratto (artt. 1374 e 1375
c.c.).
Nei contratti di diritto comune la giurisprudenza ritiene che la buona fede possa fare sorgere obblighi nuovi in presenza di una lacuna contrattuale. Soltanto in presenza di particolare tipologie di controversie la Cassazione ha ritenuto che la buona fede, anche in presenza di “contratti tra eguali”, possa avere una funzione di
integrazione cogente con la conseguente nullità di una clausola contrattuale che si pone con essa in conflitto
(si veda il successico cap. per le applicazioni in tema di “contratti tra diseguali”). In questa prospettiva, la
Cassazione, superando la distinzione tra regole di condotta e di validità, ha ritenuto che la buona fede diventa uno strumento di controllo dell’autonomia negoziale. Proprio in materia di leasing, si è ritenuta nulla per
contrarietà a buona fede la clausola negoziale che prevedeva la inversione del rischio in caso in mancata
consegna del bene all’utilizzatore da parte del fornitore (Cass. civ., 2 novembre 1998, n. 10926; nello stesso
senso Cass. civ., 23 maggio 2012, n. 8101).
Quando invece, come nel caso in esame, il bene viene consegnato ma è viziato, le Sezioni unite hanno ritenuto che la buona fede faccia sorgere l’obbligo in capo al concedente di esercitare l’azione di risoluzione nei
confronti del fornitore. La risoluzione di tale contratto, aggiunge la sentenza, determina necessariamente anche «la risoluzione del contatto di leasing».
Si tratta della medesima soluzione che il legislatore ha previsto nel caso in cui venga in rilievo una locazione finanziaria in cui l’utilizzatore è consumatore. L’art. 125-quinquies, comma 3, del decreto legislatore 1°
settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) prevede, infatti, che «in caso
di locazione finanziaria (leasing) il consumatore, dopo aver inutilmente effettuato la costituzione in mora del
fornitore dei beni o dei servizi, può chiedere al finanziatore di agire per la risoluzione del contratto. La richiesta al fornitore determina la sospensione del pagamento dei canoni. La risoluzione del contratto di fornitura determina la risoluzione di diritto, senza penalità e oneri, del contratto di locazione finanziaria».
Le Sezioni Unite non hanno chiarito, esulando la questione dal thema decidendum, cosa accade se le parti
abbiano previsto una clausola che esclude tale obbligo e se, cioè, anche in questo caso possa postularsi la
nullità di tale clausola, sulla falsariga di quanto già affermato dalla Cassazione, nei casi sopra indicati, con riferimento alla fattispecie dell’inversione del rischio in caso di mancata consegna del bene.
17